boemondo i di altavilla - Università degli Studi della Basilicata

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boemondo i di altavilla - Università degli Studi della Basilicata
SOCIETÀ DI STORIA PATRIA PER LA PUGLIA
CONVEGNI
XXVI
Sezione di Canosa di Puglia
"UNDE BOAT MUNDUS QUANTI FUERIT BOAMUNDUS''
BOEMON DO I DI ALTAVILLA
UN NORMANNO TRA OCCIDENTE E ORIENTE
Atti del Convegno internazionale di studio
per il IX centenario della morte
Canosa di Puglia, 5-6-7 maggio 2011
a cura di
COSIMO DAMIANO FONSECA
e PASQUALE IEVA
BARI2015
ISSN 2281-5104
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Comitato Boemondo 2011 Canosa di Puglia - 2015
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FULVIO DELLE DONNE
Le fonti letterarie latine su Boemondo
Nelle Giornate dedicate, nel 2000, dal Centro studi normanno-svevi al
Mezzogiorno normanno-svevo e le crociate, la relazione di Vito Sivo sulla
produzione letteraria riservava un’attenzione molto ampia a Boemondo, considerato senz’altro come il personaggio di maggiore spicco tra i Normanni
partiti alla volta della Terrasanta1. Avendo a disposizione quella precisa e
ricca rassegna, se il mio compito è, da un lato, reso molto più agevole dal lavoro precedente, dall’altro, però, rischia di essere una ripetizione. Vito Sivo,
tuttavia, appuntava la sua attenzione esclusivamente sulla letteratura poetica.
E, pur partendo dal presupposto che la poesia «col suo più alto grado di
convenzionalità e con i suoi più stretti vincoli di genere e di stile, richiede un
maggiore sforzo di mediazione al suo lettore», a ogni modo affermava giustamente che «nessuno storico può rinunciare ad essa se ha interesse ad afferrare il senso profondo di quelle vicende, a cogliere il clima dell’epoca, a percepire ciò che si agitava nell’anima collettiva dell’Occidente e come e quanto
l’idea dell’iter ultramarinum abbia influenzato le attitudini, i comportamenti,
gli umori degli strati più ampi della popolazione del tempo»2.
Vito Sivo, poi, concentrava la sua indagine particolarmente su due componimenti di carattere epicheggiante, assai interessanti, pur se, essendo tràditi ciascuno da un solo testimone, sembra che abbiano goduto di una circolazione limitata: l’Expeditio Ierosolimitana, una versificazione anonima – ma attribuita a
Metello di Tegernsee – della Historia Ierosolimitana di Roberto di Reims3; e
una epistola in distici (la VII) di Rodolfo Tortario, monaco di Fleury-sur-Loire4.
1
V. SIVO, Il Mezzogiorno e le Crociate in alcuni testi letterari, in Il Mezzogiorno normanno-svevo e le Crociate, Atti delle XIV Giornate normanno-sveve, Bari 17-20 ottobre
2000, cur. G. Musca, Bari 2002, pp. 355-377.
2
Ivi, p. 355.
3
Cfr. METELLUS VON TEGERNSEE, Expeditio Ierosolimitana, ed. P.C. JACOBSEN, Stuttgart
1982; cfr. anche P.C. JACOBSEN, Die Eroberung von Jerusalem in der mittellateinischen
Dichtung, in Jerusalem im Hoch- und Spätmittelalter. Konflikte und Konfliktbewältigung Vorstellungen und Vergegenwärtigungen, cur. D. Bauer - K. Herbers - N. Jaspert, Frankfurt New York 2001, pp. 335-365, spec. 341.
4
RODULFUS TORTARIUS, Carmina, edd. M.B. Ogle - D.M. Schullian, Roma 1933, pp.
298-315; cfr. anche F. BAR, Les epitres latines de Raoul le Tourtier (1065? - 1114?). Étude
des sources, Paris 1937.
175
La produzione poetica
L’Expeditio Ierosolimitana attribuita a Metello fu composta tra il 1146 e
il 1165: in circa cinquemila esametri prevalentemente leonini e tecnicamente
ben costruiti, con ampio ricorso ai modelli epici antichi5, narra le vicende
della prima Crociata, concedendo vasto spazio alle imprese di Boemondo, e
specialmente quelle relative alla conquista di Antiochia, che occupano 2 delle 6 parti (la III e la IV) in cui si divide il poema. Il normanno, «de Francis
oriundus, matre sed Apuliense»6, «fundus [...] et ansa rei [...] / nobile vas belli»7, è sempre descritto come un eroe dalle qualità eccelse; ma diventa protagonista assoluto soprattutto quando, con un’ampia e ornata allocuzione, incita, facundus, i suoi soldati alla battaglia: «his comitis dictis rediit constantia
cunctis / et depressorum recalescit vis animorum»8.
L’epistola di Rodolfo Tortario, composta di 548 versi dedicati a Gualone, vescovo di Beauvais, ha per oggetto i conflitti tra Boemondo e Alessio
Comneno, e usa come fonte un’anonima cronaca di probabile origine floriacense9. Sin dai primi versi, l’immagine di Boemondo viene inserita all’interno di un quadro di eccezionalità: «Graecorum primo tunc strenuus intulit
heros / bella Boamundus foedere postposito, / a maris extremi praesentia litore
cuius / ad Siculum gentes colligit usque fretum, / omnis et Oceani quae
clauditur insula nostri / gurgitibus salsis bellica tela rapit»10.
E l’esaltazione del personaggio e delle sue azioni continua in tutto il poemetto, fino a giungere alla conclusione, in cui, con toni e linguaggio altamente epici, si tratteggia la vittoria completa di Boemondo sul nemico bizantino: «Porro Boamundus vallatus milite forti / dissipat Argivos strage truci
cuneos. / Illic Graiorum tot milia caesa virorum / strata iacere soli prospiceres
facie, / et tot equos variis fusos in pulvere telis, / armaque diversas tradere
parta neces. / Herois vires Graiae tolerare cohortes / non potuere citae seque
dedere fugae. / Inachii fugiunt, obversa premunt fugientum / turmae victrices
terga pedes et eques; / caedunt, prosternunt, captivorumque reducunt / agmina,
ditati multiplici spolio»11.
5
Cfr. G. ORLANDI, Metello di Tegernsee, in Enciclopedia Oraziana, III, Roma 1998, pp.
355-356.
6
METELLUS VON TEGERNSEE, Expeditio cit., Pars I, vv. 376-380, p. 12.
7
Ivi, Pars IV, vv. 838-839, p. 89: «fondo [...] e manico [...], nobile vaso di guerra».
8
Ivi, Pars III, vv. 254-255, p. 43: «con queste parole del conte tornò in tutti la costanza,
e si riscaldò la forza degli animi abbattuti». Il discorso è ai vv. 215-253, pp. 42-43.
9
Narratio Floriacensis de captis Antiochia et Hierosolyma et obsesso Dyrrachio, in
Recueil des Historiens des Croisades, Historiens Occidentaux, V, Paris 1895, pp. 356-362.
10
RODULFUS TORTARIUS, Carmina cit., vv. 13-18, p. 299: «dapprima, allora, messo da
parte il patto con i Greci, il valoroso eroe Boemondo portò le guerre, la cui presenza raccolse
genti dal lido dell’ultimo mare fino al flutto siculo, e tutta l’isola che è chiusa dai salsi gorghi
del nostro Oceano prende le belliche armi».
11
Ivi, vv. 511-522, p. 315: «poi Boemondo, cinto da forte schiera, con truce strage annienta i cunei argivi. Lì avresti visto tante migliaia di uomini uccisi giacere stesi col volto
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All’Expeditio Ierosolimitana attribuita a Metello di Tegernsee e all’epistola in distici di Rodolfo Tortario, poi, va aggiunto un componimento di
Marbodo di Rennes, che, probabilmente nel 1106, cioè in connessione con un
viaggio compiuto in Francia da Boemondo12, racchiuse in 30 esametri leonini
una rappresentazione ampiamente elogiativa di Boemondo13. Fin dal primo
verso, egli è elevato al di sopra di tutti gli altri uomini: «In toto mundo non
est homo par Boemundo».
Anche in seguito sono celebrate le sue eccelse virtù non solo come condottiero, ma anche come signore, verso cui, come a un biblico re davidico,
tutti guardano con rispetto: «Syria servit ei, mittunt nova dona Sabaei, /
Parthus, Arabs, Medus cupiunt sibi iungere foedus, / mulcet eum donis rex
magnificus Babylonis / soldanus, Perses pavet, et fugit illius enses, / Africa
formidat, devotaque munus ei dat»14. E il finale, con un’esplosione allitterante,
porta al parossismo la celebrazione (vv. 28-30): «Istis de causis pro tot et
talibus ausis / per totum mundum fert fama boans Boemundum, / et reboet
mundus quia tanta facit Boemundus»15.
L’esaltazione di Boemondo costituisce una naturale e logica conclusione, derivante dall’osservazione della realtà, dall’assunzione di un dato di fatnella terra, e tanti cavalli caduti nella polvere colpiti da molti dardi, e le armi generare molta
morte. Le coorti graie non riuscirono a sostenere le forze dell’eroe, e si diedero a rapida fuga.
Gli Inachi scappano, le torme vittoriose pressano le voltate terga, i piedi e i cavalli dei fuggitivi;
ammazzano, abbattono, riducono in prigionia le schiere, arricchiti dal molteplice bottino».
12
Sulla vita di Boemondo cfr. soprattutto R.B. Y EWDALE, Bohemund I, Prince of
Antioch, Princeton 1924; R. MANSELLI, Boemondo d’Altavilla alla prima Crociata, «Japigia»,
11 (1940), pp. 45-79 e 154-184 (poi in Id., Italia e Italiani alla prima Crociata, Roma 1992,
pp. 37-110); D. GIRGENSOHN, Boemondo I, in Dizionario Biografico degli Italiani, 11, Roma
1969, pp. 117-124; F. PANARELLI, Il Concilio di Bari: Boemondo e la Prima Crociata, in Il
Concilio di Bari del 1098, Atti del convegno storico internaz. e celebrazioni del IX centenario
del Concilio, cur. S. Palese e G. Locatelli, Bari 1999, pp. 145-167; R. HIESTAND, Boemondo I
e la prima Crociata, in Il Mezzogiorno normanno-svevo e le Crociate cit. pp. 65-94; J. FLORI,
Bohémond d’Antioche. Chevalier d’aventure, Paris 2007; L. RUSSO, Boemondo. Figlio del
Guiscardo e principe di Antiochia, Avellino 2009. Sul viaggio in Francia, in particolare, cfr.
L. RUSSO, Il viaggio di Boemondo d’Altavilla in Francia (1106), «Archivio storico italiano»,
163 (2005), pp. 3-42.
13
MARBODUS REDONENSIS episcopus, Carmina varia, XXXVIII, Commendatio Jerosolymitanae expeditionis, in Patrologia Latina, ed. J.P. Migne, 171, Parisiis 1854, col. 1672A-C; cfr.
anche V.G. SPRECKELMEYER, Das Kreuzzugslied des lateinischen Mittelalters, München 1974,
pp. 192-198; nonché V. SIVO, Il Mezzogiorno cit., pp. 364-368.
14
MARBODUS REDONENSIS episcopus, Commendatio cit., vv. 14-18; si segnala che è stato corretto in Perses il sicuramente errato Persas presente nell’edizione: «la Siria lo serve,
nuovi doni gli inviano i Sabei, il Parto, l’Arabo, il Medio desiderano stringere patti con lui, il
sultano di Babilonia, magnifico re, lo blandisce con regali, ha timore il Persiano e fugge le
sue spade, l’Africa ha paura e, devota, gli concede tributi».
15
Ivi, vv. 28-30: «per queste cause, per tante e tali audacie, la fama porta rimbombando
per tutto il mondo il nome di Boemondo, e il mondo riecheggi, perché tanto grandi cose fa
Boemondo».
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to: essa è imposta non solo dalle imprese compiute, ma è implicita addirittura
nello stesso nome, che, come una evidente consequentia rerum, racchiude
etimologicamente la natura e il destino dell’eroe, che riempie il mondo col
suo suono assordante.
L’iscrizione del Mausoleo di Canosa
I versi finali del componimento di Marbodo, quelli contenenti il gioco
etimologico sul nome di Boemondo, sembrano costituire il modello di una
parte della problematica iscrizione in versi posta sul tamburo e sulle porte
bronzee del mausoleo che, a Canosa, fu dedicato a Boemondo probabilmente dalla madre Alberada16. La parte collocata sul tamburo è incisa in
caratteri capitali di tipo romanico, senza abbreviazioni17, su lastre di marmo, e, trascritta “criticamente”, è questa: «Magnanimus Sirie iacet hoc sub
tegmine princeps, / quo nullus melior nascetur in orbe deinceps. / Grecia victa quater, pars maxima Partia mundi / ingenium et vires sensere diu Buamundi. /
Hic acie in dena vicit virtutis abena / agmina millena, quod et urbs sapit Anthiocena»18.
Sono sei esametri rimati incisi sui cinque lati disponibili del tamburo: gli
ultimi due, leonini, cioè con rima tra gli emistichi, sono uniti e disposti su
due linee di scrittura. Tuttavia, la prima parola del primo verso presenta problemi ineludibili: infatti, essa non è magnanimus, ma è agnanimis. Se la
mancanza della prima lettera, la m, è solo apparente, perché, evidentemente,
è coperta dal capitello di una colonnetta, l’errore morfologico, invece, cioè
un incomprensibile dativo o ablativo plurale invece del corretto nominativo
singolare, dà adito a molti dubbi, sui quali torneremo fra poco.
Sulla porta di bronzo, o meglio su una sua anta, del medesimo mausoleo,
poi, sono incisi a bulino altri versi. In alto, vi sono tre coppie di distici elegiaci, che, trascritti “criticamente”, sono i seguenti: «Unde boat mundus,
quanti fuerit Boamundus: / Grecia testatur, Syria dinumerat. / Hanc expugnavit,
16
Sul mausoleo, sulle sue decorazioni e sulle sue porte basti, qui, rinviare ai saggi contenuti in questo volume. Le considerazioni proposte in queste pagine, a proposito dell’iscrizione del mausoleo, trovano più ampia trattazione in F. DELLE DONNE, Le iscrizioni del
mausoleo di Boemondo d’Altavilla a Canosa, in Archivio normanno-svevo. Testi e studi sul
mondo euromediterraneo dei secoli XI-XIII, 3 (2012), pp. 7-18.
17
Per una descrizione paleografica ed epigrafica di queste iscrizioni cfr. F. MAGISTRALE,
Forme e funzioni delle scritte esposte nella Puglia normanna, «Scrittura e civiltà», 16 (1992),
pp. 5-75, spec. pp. 27-41.
18
«Sotto questa copertura giace il magnanimo principe della Siria, migliore del quale
non nascerà più alcuno al mondo. La Grecia vinta quattro volte, la Partia, grandissima parte del
mondo, ebbero a lungo prova dell’ingegno e delle forze di Boemondo. Costui in dieci battaglie
sottomise alle redini della sua virtù schiere di migliaia di uomini: cosa che sa anche la città di
Antiochia».
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illam protexit ab hoste; / hinc rident Greci, Syria, dampna tua. / Quod Grecus
ridet, quod Syrus luget, uterque / iuste, vera tibi sit, Boamunde, salus»19.
Dopo un grande fregio circolare, si leggono, sempre incisi con simile
tecnica, altre due coppie di distici (vv. 7-10): «Vicit opes regum Boamundus
opusque potentum / et meruit dici nomine iure suo / intonuit terris. Cui cum
succumberet orbis, / non hominem possum dicere, nolo deum»20. Lasciando
alcuni centimetri di spazio, seguono altri quattro versi (vv. 11-14), questa
volta tutti esametri: «Qui vivens studuit, ut pro Christo moreretur, / promeruit, quod ei morienti vita daretur. / Hoc ergo Christi clementia conferat isti, /
militet ut celis suus hic adleta fidelis»21. E, dopo un altro grande fregio circolare, seguono altri due esametri (vv. 15-16): «Intrans cerne fores; videas,
quid scribitur; ores, / ut celo detur Boamundus ibique locetur»22.
Tutti i versi sono incisi in maniera tale da occupare ciascuno un intero
rigo di scrittura, ma i moduli grafici appaiono di dimensione differente.
Francesco Magistrale, che ha analizzato l’iscrizione, sia quella del tamburo,
sia quella della porta bronzea, ha rilevato talvolta difformità nel modo di
tracciare alcune lettere, ma ha lasciato intendere che essa è unitaria, ovvero
attribuibile a una stessa mano dell’inizio del XII secolo, e che le diverse dimensioni delle scritte, maggiori nella parte alta e in quella bassa della porta,
sono state, evidentemente, studiate per agevolare la lettura23.
Stabilire la datazione delle iscrizioni è importante, perché aiuta a comprenderne la funzione. Se, infatti, esse sono tutte dello stesso autore, e se sono
riconducibili a una data immediatamente posteriore alla morte di Boemondo,
si potrebbe desumere un tentativo di legittimazione politica del principe
antiocheno24, la cui memoria – come vedremo – non trovò, almeno
19
«Per questo il mondo rimbomba di quanto sia stato Boemondo: la Grecia lo testimonia, la Siria lo enumera. Egli espugnò questa, protesse quella dal nemico; così i Greci ridono
dei tuoi danni, o Siria. Ciò di cui ride il Greco, ciò di cui piange il Siro, l’uno e l’altro giustamente, sono per te vera salvezza, o Boemondo». Non è sintatticamente corretto, come talvolta
viene fatto, rendere interrogative «Quod Grecus ridet? Quod Syrus luget?». È vero, come segnala
F. MAGISTRALE, Forme cit., p. 38, che alla fine di questo verso si vede un punto sovrastato da un
breve tratto obliquo: ma mi pare sorprendente che all’inizio del XII secolo – se pure è vero che tali
incisioni risalgono a quell’epoca – si avesse una coscienza ortografica tanto sviluppata, soprattutto
riguardo ai segni di interpunzione. Pertanto, quel segno potrebbe semplicemente indicare una
pausa di senso, solo leggermente variato rispetto a quelli usati negli altri versi.
20
«Boemondo vinse la potenza dei re e l’opera dei potenti e a buon diritto meritò che
dal suo nome si dicesse che tuonò nelle terre. E, dal momento che il mondo soccombette a
lui, non posso chiamarlo uomo, ma non voglio chiamarlo dio».
21
«Chi vivendo si adoprò a morire per Cristo, meritò che a lui morente venisse data la
vita. Dunque, la clemenza di Cristo gli conceda questo, che questo suo fedele atleta faccia il
soldato in cielo».
22
«Tu che entri osserva la porta; guarda ciò che è scritto; prega che Boemondo sia dato
al cielo e che lì venga collocato».
23
F. MAGISTRALE, Forme cit., p. 38.
24
Su questi problemi cfr. H. HOUBEN, Da Venosa a Monreale. I luoghi della memoria
dei Normanni del Sud, in Memoria. Ricordare e dimenticare nella cultura del Medioevo -
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nell’immediato, molto spazio, né godette di grande favore nella produzione
letteraria riconducibile all’Italia centro-meridionale, ovvero a quell’area di
dominazione normanna che faceva capo alla linea dinastica di Ruggero Borsa,
preferito al primogenito Boemondo dal padre Roberto il Guiscardo. Accanto
a tale questione, poi, si pone quella non meno significativa degli eventuali
rimaneggiamenti del manufatto artistico.
Riguardo a questo secondo problema, cedo il campo a più specifici e
competenti studi25. Tuttavia, pur senza entrare nel merito di questioni stilistico-formali, va senz’altro premesso che l’iscrizione su lastre marmoree posta
sul tamburo del mausoleo è da considerarsi di fattura sicuramente assai tarda.
Ce lo fa comprendere con certezza l’errore magnanimis invece di magnanimus,
nel primo verso, che può essere classificato come un errore di “trascrizione”:
una trascrizione che ha anche un terminus post quem. Infatti, Cesare Baronio
(1538-1607), nell’ultimo volume dei suoi Annales ecclesiastici, mandati a
stampa poco dopo la sua morte, descrivendo il mausoleo di Canosa, diceva
che le iscrizioni sul tamburo erano «in tabulis aereis»26: quindi, nel 1607, o
poco prima, i sei esametri del tamburo erano incisi su lastre di bronzo, non di
marmo27.
Questo dimostra con sufficiente certezza che in epoca moderna c’è stato
non solo il rimaneggiamento della struttura architettonica e decorativa del
tamburo del mausoleo, confermato senz’altro dal fatto che ancora alla fine
del XVIII secolo aveva un tetto piramidale e non sferico, come ora28; ma anche il tentativo di imitare o riprodurre – se non addirittura di “falsificare” – il
modulo grafico “romanico” dell’iscrizione, prendendo a modello altre iscrizioni, forse anche alcune di quelle incise sulla porta di bronzo, che pure, tuttavia, presentano aspetti dubbi.
Infatti, il primo verso dell’iscrizione collocata sulla porta di bronzo, in
alto, cominciando con problematico unde – da intendere, certamente, come
conseguenza di ciò che è detto nei versi incisi sul tamburo29 – sembra una citazione abbastanza precisa, se non una rielaborazione, della parte finale del
Memoria. Erinnern und Vergessen in der Kultur des Mittelalters, cur. M. Borgolte - C.D.
Fonseca - H. Houben, Bologna 2005, pp. 51-60; nonché A. CADEI, La porta del mausoleo di
Boemondo a Canosa tra Oriente e Occidente, in Le porte del Paradiso. Arte e tecnologia bizantina tra Italia e Mediterraneo, cur. A. Iacobini, Roma 2009, pp. 429-469; J. FLORI,
Bohémond, cit., pp. 293-300; L. RUSSO, Boemondo cit., pp. 202-203.
25
Cfr. soprattutto il contributo, in questo volume, di Luisa Derosa, dal cui confronto sono scaturite le presenti riflessioni sull’iscrizione canosina dedicata a Boemondo.
26
C. BARONIO, Annales ecclesiastici, XII, Romae 1607, p. 89.
27
Detto per inciso, nel primo verso, così come è riportato da Baronio, si legge magnanimus e non magnanimis.
28
Cfr. J.C. RICHARD, Voyage pittoresque ou description des Royames de Naples et de
Sicile, III, Paris 1783, p. 34 e relativa incisione.
29
Per una discussione dell’improbabile ipotesi che si tratti di una prolessi del pentametro
successivo cfr. F. DELLE DONNE, Le iscrizioni del mausoleo cit., p. 14.
180
citato componimento di Marbodo di Rennes, dove, in maniera del tutto simile,
dopo aver ricordato, come nella prima parte dell’iscrizione canosina, le imprese belliche del Normanno, si fa discendere il gioco etimologico sul nome
di Boemondo dall’effetto di una constatazione («istis de causis...»).
Il fatto che l’iscrizione sulla porta sia da interpretare come una prosecuzione di quella sul tamburo ci dovrebbe spingere a ritenere che esse siano
state concepite unitariamente, oppure che quella sulla porta sia successiva.
Tuttavia, l’analisi metrica dei versi rivela alcune incongruenze. Infatti,
degli esametri incisi sul tamburo, i primi quattro sono accoppiati in rima,
mentre gli ultimi due, oltre alla rima finale, hanno anche quella leonina in cesura. Inoltre, se i primi cinque versi sono prosodicamente regolari, l’ultimo
presenta un forzato – pur se ammesso – allungamento in cesura della a finale
di millena, che, altrimenti, dovrebbe essere breve. Insomma, quei sei versi,
nella parte conclusiva, presentano non solo una diversa struttura metrica, ma
anche un problema prosodico: proprio in coincidenza con la loro “irrazionale” collocazione accoppiata sull’ultimo lato del tamburo30.
D’altra parte, i versi sul tamburo sono strutturalmente molto diversi da
quelli incisi sulla porta. Infatti, i primi sei versi della porta, incisi sulla sua
parte alta, sono distici: ovvero, pur proseguendo con unde quanto sarebbe
iniziato sul tamburo, cambiano radicalmente forma e andamento. E non solo:
sorprende, innanzitutto, la grafia diversa usata per il nome del celebrato
(Boamundus, laddove sul tamburo è Buamundus, che, in ogni caso, non permette il gioco verbale etimologico col verbo boo), nonché per quello della
regione da lui sottomessa (Syria, mentre sul tamburo è Siria). E se queste differenze nelle abitudini ortografiche potrebbero anche dipendere dalla successiva trascrizione dell’iscrizione sul tamburo, più difficilmente spiegabile è la
differenza nel computo prosodico di Siria, ovvero Syria e Syrus: sul tamburo
(v. 1) la prima sillaba è, correttamente, breve; sulla porta di bronzo (vv. 2, 4 e
5 della porta) essa è sempre lunga31.
Insomma, sembra davvero difficile pensare che i versi del tamburo (o
almeno i primi quattro) e i primi sei versi della porta siano dello stesso autore.
Quei versi scritti sulla parte alta della porta, che hanno anche un modulo
grafico più ampio rispetto ai seguenti, insomma, sembrano essere posteriori a
quelli del tamburo, dei quali, come si è visto, è assai dubbia la datazione. Essi, inoltre, sembrano dipendere dal citato componimento di Marbodo, per di
più offrendo una ripetizione amplificata dei quattro versi (sempre distici)
successivi (vv. 7-10 della porta), in cui, similmente, si ricordano le imprese
di Boemondo e si allude, sia pure in maniera meno evidente, al gioco etimologico sul nome con l’espressione «intonuit terris»: quindi, non risulta improbabile che i primi sei versi incisi sulla porta siano cronologicamente po30
31
Per il sospetto andamento “aureo” del primo verso cfr. ivi, p. 16.
Per altri problemi prosodici cfr. ivi, p. 17.
181
steriori anche a quelli successivi, posti in posizione di maggiore spicco su
una parte più centrale dell’anta.
La quartina ancora successiva (ovvero i vv. 11-14 della porta), anche se
presenta lo stesso modulo grafico della precedente, è, invece, tutta in esametri piuttosto regolari: il cambio di metro, tuttavia, non disturba, essendo preceduto dallo spazio che separa questa quartina dalla precedente. Di questa
quartina, i primi due versi sono in rima, mentre gli ultimi due sono leonini.
Così come sono leonini pure gli ultimi due esametri (vv. 15-16), quelli che,
con prosodia regolare, sono iscritti nella parte bassa della porta: anch’essi
presuppongono la presenza di altri versi già incisi sulla porta, ma non è possibile stabilire se, pur presentando un modulo grafico maggiore rispetto agli
otto versi precedenti, siano stati concepiti assieme a quelli, o se sono stati
aggiunti posteriormente.
Insomma, concludendo l’esame dell’iscrizione canosina, si può avanzare, non senza motivo, l’ipotesi che i versi posti nella parte centrale della porta
di bronzo, essendo i meno dubbi, siano anche i più antichi: a quando, risalgano, tuttavia, non è possibile dirlo. In ogni caso, quelli maggiormente celebrativi, più chiaramente interpretabili in funzione di rivendicazione politica del
“diseredato” figlio del Guiscardo, cioè quelli sul tamburo e sulla parte alta
dell’anta di bronzo, sono proprio i più dubbi. In altri termini, non è possibile
stabilire un nesso immediato tra iscrizione e legittimazione sul territorio di
Boemondo, attraverso l’esplicita esaltazione in chiave eroica della sua memoria.
I testi cronachistici
D’altra parte, non sembra che Boemondo abbia lasciato, almeno nell’immediato, una traccia profonda in Italia meridionale, ovvero nella stessa terra
di cui egli, prima di partire per la Terra Santa, era un potente signore. A parte
le dubbie iscrizioni sul mausoleo di Canosa, nessuno dei tre autori di opere
poetiche, di cui finora si è parlato, proveniva dall’Italia. Il primo, infatti, Metello, era probabilmente bavarese; gli altri due, invece, Roberto di Reims e
Rodolfo Tortario, erano della Francia settentrionale, ovvero della terra da cui
la schiatta di Boemondo, in fin dei conti, proveniva e dove egli si fermò anche per molti mesi nel 1106, sapendosi, evidentemente, guadagnare simpatie
e ammirazione.
E se questa è la constatazione che scaturisce dall’analisi di alcuni componimenti metrici, la situazione non sembra cambiare molto neppure se si esaminano le opere in prosa, che meglio potrebbero delineare il personaggio,
tratteggiandolo all’interno di un più ampio quadro di vicende e contesti. In
ogni caso, ci si limiterà solo a qualche esempio, tratto essenzialmente da testi
di ambito italico.
182
In effetti, se si legge la fonte cronachistica più importante per la storia
dell’Italia normanna di quel periodo, ovvero la storia di Goffredo Malaterra,
non si può che rimanere sorpresi per la sostanziale assenza di notizie relative
a Boemondo, di cui manca qualsivoglia ritratto organico: anzi, dall’unico
passo un po’ più strutturato che lo riguarda esce addirittura malconcio. Si
tratta del momento in cui egli, nel 1096, impegnato nell’assedio di Amalfi
assieme allo zio Ruggero, il Gran Conte, e al fratellastro Ruggero Borsa, duca di Puglia e Calabria, decide di prendere la croce32: «Boamundus namque,
ducis auxilio simulato, et ab ipso submonitus, adveniens, plus fratri ad damnum quam ad proficuum, non tamen, ut credimus, ex industria factus est.
Ipso anno, ex edictu Urbani papae expeditio versus Ierusalem ab undique
terrarum ferventissima erat. Boamundus autem, qui iam dudum cum Guiscardo
patre Romaniam pervaserat et semper eam sibi subiugare cupiens erat, videns
plurimam multitudinem per Apuliam, (sed sine principe), illorsum accelerare,
princeps exercitus, sibi eos alligando, fieri volens, signum eiusdem expeditionis,
crucem videlicet, vestibus suis apponit»33.
Sin dall’inizio, Boemondo viene descritto come un abile ingannatore,
che simula di aiutare al fratellastro: con la precisazione sulla mancata premeditazione dell’abbandono, Malaterra non intende assolverlo, neanche parzialmente, ma solo rappresentare meglio la scaltrezza spregiudicata del personaggio. Boemondo, infatti, è abile nel cogliere al volo le occasioni e volgerle a suo vantaggio, con una capacità che corrisponderebbe alla perspicacia,
ma che qui non è affatto caratterizzata come una virtù. Così, egli vede in
un’informe accozzaglia di pellegrini un esercito; un esercito che sarà pronto
a combattere e a morire sotto i suoi ordini nella conquista dell’impero bizantino: basta poco, solo cucirsi addosso una croce.
Però, il vantaggio che arreca a sé passa anche per il danno altrui. «Porro
iuventus bellica totius exercitus, tam ducis, quam comitis, novarum rerum, ut
in tali aetate assolet, appetens, visa cruce Boamundi et ab ipso submoniti ad
id faciendum, certatim concurrunt. Sicque, crucibus sumptis, fines christiani
nominis ulterius non attentare, donec paganorum fines pervadant, absque
32
Sulla partenza di Boemondo per la crociata cfr. E. CUOZZO, La partenza del crociato
Boemondo, tra l’assedio di Amalfi e l’appello alla crociata, in Boemondo. Storia di un principe
normanno, cur. F. Cardini - N. Lozito - B. Vetere, Galatina 2003, pp. 9-27, spec. pp. 14-16.
33
GAUFREDUS MALATERRA, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et
Roberti Guiscardi ducis fratris eius, ed. E. PONTIERI, in RIS2, 5/1, Bologna 1925-1928, p.
102: «Boemondo, infatti, dando a vedere di voler aiutare il duca Ruggero, e venendo invitato
da lui, fu più di danno che di aiuto al fratello: ma non lo fece con studiato intento, come crediamo. In quello stesso anno, in seguito all’editto di papa Urbano II, si andava preparando
con grande fervore la spedizione verso Gerusalemme, da ogni dove. Ma Boemondo, che già
in precedenza con il padre Guiscardo aveva attaccato i territori dell’impero d’Oriente, ed era
sempre desideroso di sottometterli, vedendo la gran moltitudine che, senza guida, si dirigeva
verso quel luogo passando per l’Apulia, volendo farsi capo di quell’esercito, stringendoli a
sé, appone sulle sue vesti il segno di quella spedizione, cioè la croce».
183
cunctatione voto obligantur. Dux autem et comes, exercitum suum maxima
ex parte sibi taliter defecisse videntes, tristes expeditionem solvunt: sicque
urbs, pene usque ad deditionem vexata, tali infortunio liberatur»34.
Insomma, Boemondo sa bene su cosa fare leva per attirare dalla sua parte chi è abituato a menar le mani. I giovani guerrieri, smaniosi di avventure,
subito gli vengono dietro, perché egli sa quali gesti e quali parole usare per
infiammarli. A farne le spese sono il Gran Conte e il duca Ruggero: a goderne, invece, è la ribelle Amalfi, sciolta dal duro assedio. «Boamundus mare
transiit: dux in Apuliam secedit; comes Siciliam revertitur. Urbs obsessione
gaudens liberatur»35. La conclusione è secca come un sillogismo.
La costruzione narrativa è precisa: non c’è nessuna sbavatura, ogni parola è messa al posto giusto, nell’intento evidente di delineare l’immagine di un
Boemondo privo di scrupoli, capace di ingannare chiunque, e di trasformare
in negativo ciò che è positivo, in peccato ciò che è sacro: il santo pellegrinaggio a Gerusalemme viene trasformato in guerra di conquista ai danni
dell’imperatore bizantino. Luigi Russo, in una sua attenta analisi, vede in
questo passo di Malaterra una delle espressioni più evidenti della volontà di
«scrivere una storia, anzi “la storia ufficiale” delle vicende dei vittoriosi
Normanni nel mezzogiorno a uso dei vincitori»; una storia, insomma, di
“vincenti” che deve necessariamente oscurare il “perdente” Boemondo, diseredato per decisione paterna, facendo calare l’oblio sulla sua impresa più gloriosa, quella crociata, di cui viene fornita una lettura “terrena”36.
Non è il caso di approfondire, qui, il concetto di “storiografia ufficiale”,
o di verificare se l’opera di Malaterra appartiene veramente a tale categoria:
saremmo spinti troppo lontano. Ma è evidente che tutta la narrazione della
vicenda è strutturata in maniera da giustificare l’abbandono dell’assedio di
Amalfi, attribuendone la colpa a Boemondo, di cui non vengono seguite ulte34
Ibidem: «poi la gioventù guerriera di tutto l’esercito, tanto quello del duca, tanto quello del conte, desiderosa di novità, come è consueto a quell’età, vista la croce di Boemondo, e
incitati da lui a fare lo stesso, corrono a gara. E così, prese le croci, si impegnano con un voto
a non attaccare più i territori dei cristiani, finché non avessero preso quelli dei pagani. Il duca
e il conte, allora, vedendo il loro esercito che per la massima parte si disfaceva in tale modo,
abbandonano tristi la spedizione: e così la città, che era stata quasi costretta alla sottomissione, è liberata grazie a tale infortunio».
35
Ibidem: «Boemondo attraversa il mare: il duca parte per l’Apulia; il conte ritorna in
Sicilia. La città, gioiosa, è liberata dall’assedio».
36
Cfr. L. RUSSO, Oblio e memoria di Boemondo d’Altavilla nella storiografia normanna,
«Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medio evo», 106/1 (2004), pp. 137-165: la citazione è a p. 144. Sulla questione cfr. anche G.M. CANTARELLA, La frontiera della crociata: i
Normanni del Sud, in Il concilio di Piacenza e le Crociate, Piacenza 1996, pp. 225-246, spec.
pp. 228 ss. L’aggettivo “terreno” è mutuato da O. CAPITANI, Motivazioni peculiari e linee costanti della cronachistica normanna dell’Italia meridionale: secc. XI-XII, «Atti dell’Accademia delle scienze dell’Istituto di Bologna. Rendiconti», LXXV (1976-77), pp. 59-91, spec.
p. 70.
184
riormente le imprese, perché non riguardano né il Regno, né il suo signore
Ruggero. Di conseguenza, anche la Terra Santa esce dall’orizzonte prospettico.
Naturalmente, spazio e toni ben diversi si riscontrano nelle opere che descrivono quella che sarebbe stata chiamata prima crociata. Per un più significativo confronto basta leggere la descrizione dello stesso episodio presente
nei Gesta Francorum, opera anonima di qualcuno che partecipò alla crociata
al seguito di Boemondo37.
«At bellipotens Boamundus qui erat in obsidione Malfi, Scafardi Pontis,
audiens venisse innumerabilem gentem Christianorum de Francis, ituram ad
Domini Sepulchrum, et paratam ad prelium contra gentem paganorum, coepit
diligenter inquirere quae arma pugnandi haec gens deferat, et quam ostensionem Christi in via portet, vel quod signum in certamine sonet. Cui per ordinem haec dicta sunt: “Deferunt arma ad bellum congrua, in dextra vel inter
utrasque scapulas crucem Christi baiulant; sonum vero ‘Deus vult, Deus vult,
Deus vult!’ una voce conclamant”. Mox Sancto commotus Spiritu, iussit preciosissimum pallium quod apud se habebat incidi, totumque statim in cruces
expendit. Coepit tunc ad eum vehementer concurrere maxima pars militum
qui erant in obsidione illa, adeo ut Rogerius comes pene solus remanserit,
reversusque Siciliam dolebat et merebat quandoque gentem amittere suam»38.
La costruzione narrativa, in questo caso, è molto più aneddotica e, per
dir così, più “ingenua”, almeno apparentemente. L’autore è un crociato, che
vuole rappresentare l’autenticità dell’intenzione di Boemondo. La connessione
tra il triplice grido “Dio lo vuole” e l’illuminazione mistica da parte dello
Spirito Santo è immediata; così come istantanea è anche la rinuncia alle ricchezze terrene in favore di un bene sublime, simboleggiata dalla trasformazione del prezioso manto in croci da cucire sulle vesti, sulle sue e, altruisticamente, anche su quelle degli uomini che l’avrebbero seguito.
37
Gesta Francorum et aliorum Hierosolimitanorum, edd. R. HILL - R.A.B. MYNORS,
London 1962, da cui si citerà. L’opera può essere letta anche nell’edizione di L. BRÉHIER, col
titolo di Histoire anonyme de la première croisade, Paris 1924; e in quella, con traduzione
italiana curata da L. RUSSO, col titolo Anonimo. Le gesta dei Franchi e degli altri pellegrini
gerosolimitani, Alessandria 2003.
38
Gesta Francorum cit., cap. 4, p. 7: «Ma il potente in guerra Boemondo, che era
all’assedio di Amalfi, del ponte di Scafati, sentendo che veniva un’innumerevole massa di
cristiani dalla Francia, che intendeva recarsi al sepolcro del Signore, e che era pronta alla battaglia contro i pagani, cominciò a chiedere attentamente quali armi per combattere portasse
quella gente, quale immagine di Cristo mostrassero nel loro percorso e quale grido di guerra
facessero risuonare. E a lui furono dette, per ordine, queste cose: “Portano armi adatte alla
guerra, sulla spalla destra o tra le due spalle recano la croce di Cristo; con una voce, poi, fanno risuonare il grido ‘Dio lo vuole, Dio lo vuole, Dio lo vuole!’”. Subito toccato dallo Spirito
Santo, ordinò di tagliare il preziosissimo manto che aveva con sé, e immediatamente lo ridusse tutto in croci. Allora cominciò ad accorrere impetuosamente presso di lui la grandissima
parte dei soldati che erano impegnati in quell’assedio, al punto che il conte Ruggero rimase
quasi solo, e, tornato in Sicilia, si doleva e piangeva, talvolta, la perdita dei suoi uomini». Per
un’analisi di questo passo cfr. anche L. RUSSO, Oblio e memoria cit., pp. 161 ss.
185
La conversione sua e degli altri guerrieri è spontanea, genuina, non mediata né dal desiderio di conquista né da quello di avventura. Il fuoco della
descrizione è “novellisticamente” centrato su Boemondo: è lui che ascolta,
che fa domande e che riceve risposte. È lui il protagonista assoluto, l’eroe di
cui subito vengono presentate le virtù eccezionali con quell’aggettivo bellipotens dal sapore altamente epico; e la finale rappresentazione solitaria del
Gran Conte Ruggero, lamentevole e lacrimoso, fa svettare ancora più alta
l’imponente figura di Boemondo. Non viene fatta neanche menzione di Ruggero Borsa, declassato, evidentemente, a insignificante figura.
I Gesta Francorum costituiscono la fonte, diretta o indiretta, di un gran
numero di opere cronachistiche, sia che affrontino esclusivamente la vicenda
crociata, sia che ne facciano solo accenno. Alcuni testi sono delle semplici
compilazioni, che poco o niente modificano39; altri, invece, arricchiscono e
ornano la narrazione. Come nel caso di Roberto, monaco e forse abate di
Saint-Remi, che fu presente al concilio di Clermont, in cui si diede avvio alle
imprese crociate.
Questi riprende punto per punto la fonte precedente, ma la amplifica
enormemente e, talvolta, la rende più succosa40, come accade nel momento
culminante della “conversione” crociata di Boemondo: «Qui concite eadem
devotione succensus, duo pretiosa pallia iussit afferri, et ex eis corrigiatim
incisis praecepit cruces fieri. Tunc dixit omnibus, tam peditibus, quam militibus: “Si quis est Domini, iungatur mihi; o milites, nunc mei, estote Dei; et
viam Sancti Sepulcri mecum incipite; et quae mea sunt, ut vestra, assumite.
Nonne et nos Francigenae sumus? Nonne parentes nostri de Francia venerunt, et terram hanc militaribus armis sibi mancipaverunt? Proh dedecus!
Ibunt consanguinei et fratres nostri sine nobis ad martyrium, imo ad Paradisum? In omnibus futuris temporibus debet ascribi tam nobis quam liberis
nostris retrograda animi inopia, si, nobis absentibus, agitur haec divina
militia”»41.
39
Cfr., ad es., l’Hystoria de via et recuperatione Antiochiae atque Ierosolymarum, ed.
E. D’Angelo, Firenze 2009. Per la diffusione di tali compilazioni e riscritture cfr. l’Introduzione di D’Angelo, pp. XXIII-LIII.
40
L’intento è dichiarato dallo stesso autore nell’Apologeticus sermo che introduce
l’opera: ROBERTUS MONACHUS, Historia Iherosolimitana, in Recueil des Historiens des
Croisades, Historiens Occidentaux, III, Paris 1866, pp. 721-722.
41
ROBERTUS MONACHUS, Historia cit., cap. II 4, p. 741: «il quale, subito infiammato
dalla stessa devozione, comandò che gli portassero due manti preziosi, e ordinò che, tagliati
in strisce, se ne facessero croci. Poi disse a tutti, sia ai fanti che ai cavalieri: “Se qualcuno è
del Signore, si unisca a me; soldati ora miei, sarete di Dio; e prendete con me la strada del
Santo Sepolcro; e le cose che sono mie, prendetele come vostre. Non siamo anche noi Francesi? Non vennero dalla Francia anche i nostri genitori, e sottomisero questa terra con le armi
e le milizie? Che vergogna! I nostri consanguinei e parenti andranno senza di noi al martirio,
anzi in Paradiso? In tutti i tempi futuri verrà senz’altro imputata, sia a noi che ai nostri figli,
una ritrosa mancanza di coraggio, se questa divina milizia viene formata senza di noi”».
186
A parte il raddoppio del numero dei manti trasformati in croci, che può
anche dipendere da un guasto meccanico dell’antigrafo, spicca l’amplificazione retorica del discorso messo in bocca a Boemondo, che permette
all’autore non solo di esaltare il rapporto biunivoco che l’illuminazione celeste instaura tra Boemondo e Dio – chi segue Dio, segue anche Boemondo, e
viceversa –, ma anche di racchiudere l’impresa in una prospettiva etnica. È
caldissima la fiamma patriottica con cui il monaco francese Roberto forgia le
parole del condottiero normanno nel momento in cui rivendica le proprie
ascendenze francesi. Un solo sangue scorre nelle loro vene, ed è quello che
lo mette alla pari degli altri eroi devoti a Dio che si stanno guadagnando
l’accesso alla gloria: non quella infima e terrena, ma quella sublime e celeste.
Sulla stessa strada di rimaneggiamento delle informazioni che si leggono
nei Gesta Francorum sembra muoversi anche Pietro Diacono autore di quella
parte dei Chronica monasterii Casinensis che proseguiva, o forse metteva solo
in più preciso ordine quelli iniziati da Leone Ostiense: «Interea Boamundus
filius bone memorie ducis Robberti cognomento Viscardi, qui primo cum
patre, dehinc per se multa cum Constantinopolitano imperatore eiusque
exercitibus prelia iam dudum prospere gesserat, cum esset in expeditione
unacum patruo suo comite Roggerio in partes Campanie et hec omnia per
ordinem ad aures pervenissent ipsius, mox ad eiusmodi servitium subeundum
celitus animatus, pannum sericum sibi protinus afferri precipiens totum in
frusta divisit et tam sibi quam et omnibus suis et pluribus aliis ob id negotium ad
se confluentibus, sicut alios fecisse audierat, cruces inde in vestibus fecit et
simul omnes “Deus lo volt” inclamare magnis vocibus iussit. Qua fama exciti
omnes Rogerii milites tam multi ad huiuscemodi confederationem subito
confluxerunt, ut paucis sibi relictis predictus comes mestus ad Siciliam
remeaverit»42.
Non è facile stabilire se il monaco cassinese avesse avanti agli occhi
proprio i Gesta Francorum, oppure una delle sue molte riscritture e rielaborazioni43. Tuttavia, sono evidenti i punti di stretto contatto tra le due narra42
Chronica monasterii Casinensis. Die Chronik von Montecassino, ed. H. Hoffmann, in
MGH, SS, XXXIV, Hannover 1980, IV 11, p. 476: «frattanto Boemondo, figlio del duca di buona
memoria Roberto, soprannominato Guiscardo, che dapprima col padre, poi da sé aveva condotto
con successo molte battaglie contro l’imperatore di Costantinopoli e il suo esercito, poiché partecipava, insieme con suo zio, il conte Ruggero, a una spedizione nella regione della Campania, e tutte
queste cose, per ordine, erano giunte alle sue orecchie, subito animato da spirito celeste a sottomettersi al medesimo servizio, ordinando che gli si portasse immediatamente un panno di seta, tutto lo
divise in pezzi e, così come aveva sentito che avevano fatto gli altri, ne fece croci da apporre sulle
vesti, tanto per sé quanto per tutti i suoi e i molti altri che accorrevano da lui per quell’impresa, e
ordinò che tutti insieme, a gran voce, gridassero “Deus lo volt”. Spinti dalla fama dell’evento, tutti
i soldati di Ruggero, in gran numero, subito si aggiunsero a quel gruppo, così che il menzionato conte se ne tornò mestamente in Sicilia con i pochi che gli erano rimasti».
43
Sull’uso delle fonti crociate in questa parte dell’opera cfr. l’introduzione di Hoffmann
alla citata edizione, pp. XXVIII ss.
187
zioni: al di là delle informazioni sull’ascendenza di Boemondo, anche qui si
fa riferimento all’illuminazione divina di Boemondo, si riproduce la scena
della trasformazione in croci del manto – il cui valore viene concretizzato
nel pregio della seta, come anche in altre testi di comune derivazione44 – e,
infine, si accenna alla mestizia del Gran Conte.
Rivelatore della fonte a cui attinge le notizie, in particolare, è il nesso –
altrimenti difficilmente giustificabile – relativo alle cose (ma quali cose?)
giunte per ordinem alle orecchie di Boemondo. È dunque evidente quale sia
l’origine delle notizie, sulla cui linea, poi, il monaco cassinese prosegue, accennando al percorso compiuto da Boemondo, per soffermarsi sulla presa di
Antiochia, in cui il valore del Normanno viene enfatizzato dalla breve allocuzione rivolta ai soldati, prima di lanciarsi all’attacco finale: «O fortissimi
Christi milites, nolite terreri scientes quod Dominus, cuius bella bellamus,
nobiscum est. Equites igitur abeant contra illos, pedites vero festinanter
extendant tentoria; quod vult Deus de nobis, hoc faciat»45.
Infine, ricorda la morte di Boemondo, avvenuta nello stesso anno di
quella di Ruggero: «His porro perturbationibus instantibus dux Roggerius
cum Boamundo fratre suo vita decedit»46. I due luttuosi eventi sono messi
l’uno accanto all’altro, come se fossero connessi tra loro, con la stessa secchezza che si riscontra negli Annales Casinenses47 e nella costellazione di
fonti annalistiche ad essi più o meno strettamente collegata, come gli Annales
Cavenses48.
Insomma, Pietro Diacono – ovvero Leone Ostiense – sembra utilizzare le
fonti crociate per rimpolpare, talvolta, le troppo scarne narrazioni annalistiche, che si limitavano, e non tutte, a ricordare al massimo quattro vicende relative a Boemondo: il fallito assedio di Amalfi, la presa di Antiochia, la cattura di Boemondo da parte dei Musulmani e la sua morte49. E la stessa tensione pare riscontrabile anche nell’opera di Romualdo Salernitano, che tuttavia fornisce una rappresentazione di Boemondo piuttosto diversa.
Partiamo, anche in questo caso, dall’assedio di Amalfi: «Anno Domini
MLXXXXVI, Rogerius comes Sicilie cum viginti milibus Agarenorum et
cum innumera multitudine aliarum gencium et universis comitibus Apulie
44
Cfr., ad es., l’Hystoria de via cit., cap. 5.26, p. 19.
Chronica monasterii Casinensis cit., IV 11, p. 479: «O fortissimi soldati di Cristo,
non vi atterrite, sapendo che Dio, del quale combattiamo le battaglie, è con noi. I cavalieri,
dunque, escano contro di loro e i fanti tolgano subito le tende; Dio faccia di noi ciò che vuole».
46
Ivi, IV 40, p. 507: «mentre avvenivano questi perturbamenti il duca Ruggero e suo
fratello Boemondo morirono».
47
Annales Casinenses, ed. G.H. PERTZ, in MGH, SS, XIX, Hannoverae 1866, p. 308, ad
ann. 1111.
48
Cfr. Annales Cavenses, ed. F. Delle Donne, Roma 2011 (Rerum Italicarum Scriptores, III
serie, 9), p. 43.
49
Così, ad es., fanno gli Annales Cavenses, rispettivamente agli anni 1096, 1097, 1100 e
1110.
45
188
obsedit Amalfim, ibique subito inspiratione Dei Boamundus cum aliis comitibus et militibus Rogerii comitis sumpserunt signum sancte crucis in umeribus suis et in frontibus et sic reliquerunt obsidionem. Videns hec comes
Rogerius cum dedecore reversus est in Siciliam»50. Boemondo, qui, non è il
protagonista assoluto; rientra nei ranghi dei compagni che sono con lui.
Anzi, la sua rappresentazione ha anche alcuni aspetti negativi, che condivide con gli altri. Egli si è presentato all’assedio di Amalfi con un’accozzaglia di
genti diverse, tra le quali vengono fatte spiccare solo i Saraceni. Non viene detto
esplicitamente, ma è evidente, e certamente non casuale, l’effetto straniante che
deriva dalla situazione: un cristiano, pronto a prendere la croce, è alleato, in
patria, degli stessi infedeli contro cui avrebbe combattuto in Terra Santa.
L’ispirazione divina, che lo spinge, esplicitamente, a prendere la croce, è
la stessa che, implicitamente, lo fa distaccare da chi cerca di conquistare una
città cristiana con l’aiuto degli infedeli. Tanto che Boemondo lascia, sì,
l’assedio, ma non viene detto – almeno non subito – per quale destinazione.
E in questo contesto si situa anche il riferimento al disonore in cui incorre
Ruggero, che abbiamo già trovato anche in altri testi.
È possibile che Romualdo Guarna, l’arcivescovo che avrebbe incoronato
Guglielmo II, abbia inteso dare una rappresentazione tanto negativa dell’artefice dell’unificazione normanna? Certamente la cosa sorprende, ma solo
fino a un certo punto, se si vanno a indagare certi meccanismi ricorrenti nel
genere storiografico: l’opera di Romualdo, in questo caso, non rivela un grande
lavoro di rielaborazione e reinterpretazione delle sue fonti.
Infatti, almeno per la prima parte di questa notizia, il suo testo coincide
quasi perfettamente con quello attribuito a Lupo Protospatario. «1096. Rogerius comes Siciliae cum 20 milibus Sarracenorum et cum innumera multitudine aliarum gentium, et universi comites Apuleae obsederunt Amalfim, et
cum ibi perseverarent, subito inspiratione Dei Boamundus cum aliis comitibus et plus quam 500 equitibus, facientes sibi signum crucis super pannos in
humero dextro, reliquerunt obsidionem»51. Solo che, poi, Lupo continua dicendo: «et transfretantes perrexerunt in regiam urbem, quatenus cum Alexii
imperatoris auxilio bellandum cum paganis pergerent Hierusalem ad sanctum
sepulchrum domini Iesu Christi, redemptoris nostri»52. Cioè, prosegue chia50
ROMUALDUS SALERNITANUS, Chronicon, ed. G. Garufi, in RIS2, VII 1, Bologna 1935,
p. 200: «nell’anno del Signore 1096, Ruggero, conte di Sicilia, assediò Amalfi con ventimila
Saraceni e con un’innumerevole moltitudine di altre genti e con tutti i compagni della Apulia,
e lì, subito, per ispirazione divina, Boemondo e gli altri compagni e soldati del conte Ruggero
presero sulle spalle e sulle fronti il segno della santa croce, e così lasciarono l’assedio.
Vedendo queste cose, il conte Ruggero tornò in Sicilia con disonore».
51
Annales Barenses, ed. G.H. PERTZ, in MGH, SS, V, Hannoverae 1844, p. 62.
52
Ivi: «e, navigando, si recarono nella città regia, perché, combattendo contro i pagani,
con l’aiuto dell’imperatore Alessio, si dirigessero a Gerusalemme, al santo sepolcro di Gesù
Cristo, nostro redentore».
189
rendo la meta di Boemondo e ritornando sulla contrapposizione tra cristiani e
pagani; non c’è traccia, invece, del particolare sul disonore di Ruggero.
Sono evidenti, nell’opera di Romualdo, le tracce del testo di Lupo Protospatario; o, forse meglio, è possibile l’uso di una fonte comune anche a Lupo,
oppure la contaminazione tra Lupo e un altro testo, che magari non guardava
a Ruggero con molto favore. Tanto più che, ancora per un po’, si rintracciano
alcune informazioni comuni, ma l’opera di Romualdo già sembra proseguire
per un’altra strada, forse con l’ausilio di un’ulteriore fonte, o di ulteriori fonti
di origine pugliese, dato l’orizzonte geografico delle notizie relative al periodo seguente, che, tuttavia, si possono dividere in due gruppi, diverse per impianto e tipologia: quelle su Boemondo e i suoi eredi; e quelle su Ruggero II
e le vicende militari che si svolsero soprattutto in Puglia dal 1127 al 113253.
E, infatti, l’impianto della notizia relativa al 1096 contrasta con il tono
delle informazioni relative alle imprese di Boemondo in Terra Santa, e soprattutto con l’impostazione di quella relativa alla morte di Boemondo: «Post
obitum vero ducis Roggerii die quarta decima Boamundus frater ipsius
Roggerii ducis simili infirmitate in Apulia mortuus est sepultusque iuxta
ecclesiam beati Sabini confessoris in civitate Canusia. Fuit autem Boamundus
miles strenuus, corpore deducto, honorabili animo constans, cautus eloquio,
ingenio astutus, bellicosus, inquietus, semper impossibilia appetens, peritia
atque virtute in bello prevalidus»54.
La descrizione, in cui vengono tenuti assieme caratteri fisici e virtù, abilità e aspirazioni, è costruita parallelisticamente con quella, immediatamente
precedente, del fratellastro Ruggero Borsa55. In ogni caso, in questa occasione
53
Cfr. M. ZABBIA, ‘Damnatio memoriae’ o selezione storiografica? I grandi assenti nel
Chronicon di Romualdo Salernitano. (Periodo normanno), in Condannare all’oblio. Pratiche
della damnatio memoriae nel Medioevo, Atti del Convegno di Ascoli Piceno, 27-29 novembre 2008, Roma 2010, pp. 19-64, spec. le pp. 44 ss. Sulle fonti di Romualdo cfr. anche ID.,
Un cronista medievale e le sue fonti. La storia del papato nel “Chronicon” di Romualdo Salernitano, «Filologia mediolatina», 9 (2002), pp. 229-250; Id., ROMUALDO GUARNA arcivescovo di Salerno e la sua Cronaca, in Salerno nel XII secolo. Istituzioni, società, cultura, cur.
P. Delogu - P. Peduto, Salerno 2004, pp. 380-398; ID., La cultura storiografica dell’Italia
normanna riflessa nel Chronicon di Romualdo Salernitano, in IV Settimana di studi medievali (Roma, 28-30 maggio 2009). Progetti di ricerca della scuola storica nazionale, Roma
2009, pp. 5-16: 10-16;
54
ROMUALDUS SALERNITANUS, Chronicon cit., p. 206: «invero, quattordici giorni dopo
la morte del duca Ruggero, Boemondo, fratello dello stesso duca Ruggero morì in Apulia di
simile malattia e fu sepolto presso la chiesa del beato confessore Sabino, nella città di Canosa.
Boemondo fu cavaliere valoroso, di corpo esiguo, costante nell’animo onorevole, cauto nella
parola, di ingegno astuto, bellicoso, inquieto, sempre desideroso di cose impossibili, fortissimo
in guerra per capacità e valore».
55
Ivi, pp. 205-206: «Fuit autem Roggerius dux corpore insignis, moribus illustris,
moderata gloria, civilis, affabilis, ecclesiarum gubernator, Christi sacerdotibus prebens humilem
se clericos vehementer honorans, omnes ad se venientes honoralibiter excipiens ac letos a se
remittens, nutritor gentis, pacis amator, delinquentibus clemens, suis benevolus, pacatus
190
sembra perseguita la stessa prassi adottata anche per altri condottieri, come
Roberto il Guiscardo e Ruggero il Gran Conte56, per i quali viene tratteggiato
un ritratto che presenta simili linee descrittive. E, quindi, è indubbio che la
commemorazione di Boemondo sia stata costruita da Romualdo contestualmente con quella degli altri illustri signori normanni, e che essa, intendendo
offrire un bilancio complessivo del personaggio, se pure basata su fonti precedenti, risulti più accorta e studiata nella scelta dei dettagli da ricordare e
delle parole da usare.
Però, l’accortezza riservata da Romualdo alla definizione di questo ritratto, maggiore di quella usata nella ricostruzione della vicenda relativa all’assedio di Amalfi, può avere anche una spiegazione diversa, che ha a che fare
con la trasmissione del testo e con le sue possibili manipolazioni. Infatti, la
notizia relativa agli eventi del 1096, così come talune di quelle relative alla
crociata di Boemondo, sono presenti solo in un ramo della tradizione manoscritta dell’opera57: ovvero sono aggiunte che potrebbero risalire tanto a una
seconda redazione, tanto – più probabilmente – a un rimaneggiamento non
attribuibile a Romualdo, secondo una prassi abbastanza consueta che vedeva
l’opera non come il prodotto di un determinato autore, ma come un “testo in
movimento” da spogliare, modificare e reimpiegare58; la stessa prassi che ha
tramandato una versione di Romualdo attribuibile a un non meglio identificabile archiepiscopus Cosentinus59. Ancora una volta troviamo la dimostrazione che le fonti cronachistiche nascondono molte più insidie di quante solitamente si immagini, e che esse vanno trattate sempre con estrema cautela e
con strumenti adeguati.
extraneis et cunctis amabilis atque largus in donis plurimis. Omnibus namque gratus ac
commodus, et tam suis quam extraneis magis dilectioni quam timori se exhibere studebat».
Cioè: «Il duca Ruggero fu grande nella corporatura, illustre nei costumi, moderato nel cercare
gloria, cordiale, affabile, guida delle chiese, offrendosi umile ai sacerdoti di Cristo e
onorando molto i chierici, accogliendo onorevolmente tutti coloro che si presentavano a lui e
congedandoli lietamente; allevava la gente, era amante della pace, clemente con chi errava,
benevolo verso i suoi, pacato verso gli estranei e amabile verso tutti e largo nell’offrire molti
doni. A tutti, infatti, risultava gradito e piacevole, e si preoccupava di offrirsi più all’affetto
che al timore, tanto dei suoi che degli estranei».
56
Ivi, rispettivamente pp. 197 e 202.
57
Cfr. soprattutto M. ZABBIA, Damnatio memoriae cit., p. 39; nonché ID., Per la nuova
edizione della cronaca di Romualdo Salernitano, «Napoli nobilissima. Rivista di arti, filologia e storia», s. V, 7/I-II (2006), pp. 59-65.
58
Sulle tradizioni “quiescente” e “attive” dei testi cronachistici cfr. F. DELLE DONNE,
Gli usi e i riusi della storia. Funzioni, struttura, parti, fasi compositive e datazione dell’Historia
del cosiddetto Iamsilla, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medioevo», 113 (2011),
pp. 31-122.
59
Sull’identità del Cusentinus cfr. L.A. MURATORI, Rerum Italicarum scriptores, XI,
Mediolani 1727, pp. 745 s.; B. SCHMEIDLER, Der sogenannte Cusentinus bei Tholomeus von
Lucca, «Neues Archiv», 32 (1907), pp. 252-261; E. PISPISA, Gioacchino da Fiore e i cronisti
medievali, Messina 1988, p. 66; M. ZABBIA, Per la nuova edizione cit., p. 61.
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Conclusione: i molteplici volti di Boemondo
Concludendo, ogni autore, nel momento in cui scrive la sua opera, altera
la realtà, adeguandola ai propri ideali e ai propri convincimenti, e, in definitiva, alle proprie strutture culturali. E se, in alcuni casi, quelle alterazioni
sono più evidenti, perché guidate da finalità politiche o propagandistiche riconoscibili, in altri casi esse sono più istintive e ingenue, in quanto espressione di un sentire comune.
Così, in Italia meridionale, con la sola eccezione offerta dall’iscrizione –
comunque altamente controversa – del mausoleo di Canosa, la figura di
Boemondo venne messa in ombra dalla ricerca di legittimazione di chi – come lo zio Ruggero il Gran Conte o il fratellastro Ruggero Borsa – aveva necessità di imporre una stabilità politica, che, in quel momento, si stava ancora
cercando faticosamente di radicare sul territorio60.
Oltremare, invece, l’intraprendenza di Boemondo coincideva, o almeno
era in linea con quella di coloro che desideravano – per un motivo o per un
altro – liberare i luoghi santi. In Europa centrale, infine, egli era un personaggio abbastanza “distante” da poter subire le trasfigurazioni del mito. Insomma, le fonti analizzate ci offrono differenti raffigurazioni di Boemondo:
egli è l’eroe sublime degno di essere celebrato epicamente, l’uomo che merita rispetto per le sue virtù terrene, lo scaltro avventuriero in cerca di conquiste e guadagni.
E se sembra quasi di trovarci di fronte a personaggi diversi, non c’è da
meravigliarsi: nelle opere letterarie, a qualunque genere appartengano e qualunque sia la loro tradizione manoscritta, non si può cercare la verità, ma, al
massimo, una verità.
60
Sullo scarso interesse dei Normanni nei confronti della Crociata cfr. G.M. CANTARELLA,
La frontiera della crociata cit.; nonché B. FIGLIUOLO, Ancora sui Normanni d’Italia alla prima
crociata, «Archivio storico per le province napoletane», 104 (1986), pp. 1-16.
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