Primapagina - Banca Marche
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Primapagina - Banca Marche
Primapagina Periodico di informazione, attualità e cultura di BancaMarche Ottobre 2013 - n.64 Mostra sulla libertà di stampa Festival del Giornalismo Culturale C’era una volta Tribuna politica Il ROF? Idea geniale tornare alle origini Una chiesa povera per i poveri Jovanotti: di stadio in stadio sommario FOCUS Banca Marche proseguirà per la strada intrapresa di Giovanni Filosa..................................... 5 Una mostra sulla libertà di stampa di Giovanni Filosa............................................................. 6 Grande successo a Urbino per il festival del giornalismo culturale di Laura Moretti.............. 8 Pantheon personale di Alberto Sensini.................................................................................... 10 “La mafia siamo noi” - Anche l’antimafia siamo noi di Chiara Cerri.................................... 12 A COLLOQUIO CON Il ROF? Un’idea geniale tornare alle origini di Ilaria de Maximy......................................... 14 I gustosi “Aperitivi Culturali” di Sferisterio Cultura di Pamela Temperini........................... 16 Una Chiesa povera per i poveri? di Matteo Pierelli................................................................ 18 Jovanotti, ti porto via con me negli stadi di Laura Moretti.................................................... 20 Da una Rotonda sul Mare nasce la nuova generazione dei cantautori di Paola Stefanucci....... 22 Alla scoperta della nostra regione con le Guide delle Marche di Chiara Giacobelli............. 24 New York 2013, professione reporter di Roberto Ceccarelli.................................................. 26 “Il profumo delle bugie”: la storia grottesco-borghese di una potente famiglia del nostro tempo di Simonetta Cipriani............................................ 28 Uno sguardo dentro la magia di un “Matrimonio perfetto” di Chiara Giacobelli.................. 30 Quando va in scena il vino di Federica Grilli........................................................................ 32 Lo scultore Massimo Ippoliti e la cultura della storia di Agnese Testadiferro........................ 34 Il trionfo della pictofoto, parola di Fabrizio Carotti di Paolo Termentini............................... 36 COSTUME E ATTUALITÀ Polo oncologico-chirurgico, la realtà della dermatologia a Jesi di Giorgio Filosa e Leonardo Bugatti.............................. 38 Imprenditori e manager, tutti a lezione di Facebook di Laura Marinelli............................... 40 A scuola di valori per essere cittadini più responsabili di Marina Argalìa............................. 41 Banca Marche e High School Game, per imparare divertendosi di Marina Argalìa.............. 42 ATTUALITÀ E CULTURA Il “Lamento di Federico” esalta la stagione a Jesi di Stefano Gottin...................................... 43 Casa Leopardi: i Libri di Giacomo diventano multimediali di Lucia Cataldo....................... 46 Vermeer, mostra sul periodo olandese e non solo sull’artista di Laura Marinelli.................. 48 Da Rubens a Maratta Le meraviglie del Barocco nelle Marche di Carmen del Vando Blanco................................. 50 Alice verso la porta dei colori di Armando Ginesi................................................................. 52 Osimo, antica colonia Romana di Sergio Rinaldi Tufi............................................................ 54 Timide forme nel silenzio metafisico di Michele De Luca..................................................... 56 Incontro con i Fratelli Quay, un cinema visionario e coinvolgente di Giulia Pieretti............ 58 La magia della vecchia tipografia con l’odore d’inchiostro di Loretta Fabrizi...................... 60 La singolare storia di Staffolo, a “cavallo” della fiaba, del mito e della realtà di Pamela Temperini...................................... 62 PRODOTTI DI MARCA Il Trading on line di Banca Marche si rinnova di Giulia Pettinelli........................................ 64 Nuovo “Mutuo Energy” Banca Marche di Filippo Cantarini ............................................... 65 La risposta alle tue domande: il Buono di Risparmio di Banca Marche di Stefania Rango................................................... 66 primapagina3 primapagina Primapagina Periodico di informazione, attualità e cultura di BancaMarche Ottobre 2013 - n.64 Mostra sulla libertà di stampa Festival del Giornalismo Culturale C’era una volta Tribuna politica Il ROF? Idea geniale tornare alle origini Una chiesa povera per i poveri Jovanotti: di stadio in stadio BANCA DELLE MARCHE S.p.A. in gestione provvisoria Sede sociale Via Ludovico Menicucci 4/6, Ancona @ Mandate alla redazione i vostri commenti e suggerimenti. Direzione generale Centro direzionale Fontedamo, Via Alessandro Ghislieri 6, Jesi Capitale sociale: 662.756.698,76 Banca dal 1841 40.000 azionisti circa 312 filiali 3.120 dipendenti Direttore generale Luciano Goffi Vicedirettore generale Angelo Arrigo Primapagina Anno XVI n. 64 - Ottobre 2013 Direzione Via Ghislieri, 6 - Jesi (An) Direttore Responsabile Giovanni Filosa Redazione Via Ghislieri, 6 - Jesi (An) tel. 0731/539608, fax 0731/539654 e-mail [email protected] Editore Tecnostampa S.r.l. Progetto grafico advcreativi Stampa Tecnostampa S.r.l. - Recanati Sped. abb. post. - art. 2, comma 20/B legge 662/96 - Filiale di Ancona Aut. Trib. di Ancona n. 25/96 del 25/9/96 focus di Giovanni Filosa Banca Marche proseguirà per la strada intrapresa “P rimapagina” ritorna, dopo la mancata uscita del numero di giugno, a raccontare di nuovo ai suoi lettori le realtà del nostro territorio e non solo, proseguendo così con la sua mission originale, che è comunicare all’esterno gli eventi, le manifestazioni, gli appuntamenti che vedono Banca Marche protagonista come operatore economico, ma anche come propulsore di sviluppo della società e del territorio in cui opera. Un periodo sicuramente non facile, quello che oggi tutti stiamo attraversando, un presente in cui la quotidianità fa emergere una realtà sicuramente critica ma talvolta amplificata nel suo spessore e nella sua gravità. Tornando “in edicola”, come si dice, con il suo magazine - e la nostra edicola sono le case dei Soci, gli Enti, le Istituzioni che in tutti questi anni di vita, ben diciassette, ci hanno gratificato con la loro stima e i loro suggerimenti - Primapagina di Banca Marche vuole dare un segnale chiaro. Il momento attuale ha bisogno anche della ripresa di un dialogo con tutti, che sia costruttivo e soprattutto coinvolgente, sincero e familiare, come un lessico comune che, fino a poco fa, si è declinato all’unisono. Riprendere la strada che ha portato l’Azienda ad essere un punto di riferimento, anche se sappiamo bene che ci vorrà tempo e, soprattutto, sarà necessaria tanta coesione. Non sono, queste, parole portare dal vento, le risposte alle tante domande della clientela - e non solo - debbono cacciare certi fantasmi che si sono fissati in quanti sembrano sfiduciati, e ridare a tutti la certezza di una nuova collaborazione e, soprattutto, di stima e fiducia reciproche. Lo si evince anche dalle parole che, recentemente, il dottor Giuseppe Feliziani, uno dei due commissari nominati da Bankitalia per la gestione provvisoria di Banca Marche insieme a Federico Terrinoni, ha pronunciato durante un’intervista alla Rai regionale. Feliziani ha sostenuto che “Banca Marche deve proseguire sulla storia per la quale è nata, vale a dire una banca prettamente domestica, che prende i soldi dai suoi risparmiatori con la sicurezza di ridarglieli, investendo, poi, gli stessi soldi sul territorio, destinandoli soprattutto a quelle aziende meritevoli di poter effettivamente creare un business, uno sviluppo economico del territorio. Sono note ormai le criticità della banca ma è anche chiaro e sicuro che Banca Marche ha dei punti di forza sui quali stiamo lavorando per indirizzarla verso quello che potrà consentirne un rilancio di sviluppo. Del resto abbiamo ridato Come operatore economico e propulsore dello sviluppo del territorio immediatamente sostegno all’attività commerciale della banca, per esempio con la riapertura del plafond per l’occupazione, attualmente molto importante per l’economia della regione e non solo. Abbiamo iniziato a capire quale, dalle criticità note, potevamo attivare come cantiere per potere, nel breve, riportare la banca ad essere nella condizione di camminare su un processo virtuoso, soprattutto per ridare i fondamentali di reddito e di patrimonio alla banca. Abbiamo analizzato attentamente i costi, rafforzato la parte della organizzazione, chiamato i manager e facendoli partecipare a quelle che sono le discussioni su dove, come e con chi si dovrà andare per affrontare un nuovo percorso. Questo lo facciamo sì nell’interesse della banca e dei clienti ma anche per creare i presupposti per una valutazione molto chiara a quelli che potranno essere i futuri investitori di questa banca. Banca Marche deve ritrovare la sua vocazione ed anche l’ingresso di nuovi soci futuri, i quali devono avere a cuore l’interesse della Banca stessa. Noi cercheremo di mettere nelle condizioni questi futuri potenziali nuovi soci, e nuovi investitori, di valorizzare tutti i punti di forza che questa banca sappiamo possiede”. Cosa farà Primapagina in questo panorama? Sarà come sempre il trait d’union coi Soci ed anche con tutti quelli che hanno necessità di interagire con la Banca che, più di tutte ha rappresentato, dalla sua nascita, che risale a due secoli addietro se si considera quella delle Casse di Risparmio che l’hanno fondata, la sostanza del Territorio. Inteso come Famiglie, Imprese, Società civile, Enti. primapagina5 FOCUS di Giovanni Filosa questo diritto viene esercitato nel nostro paese? N ella classifica mondiale sulla libertà di stampa, stilata da “Reporter senza frontiere” l’Italia è al 57° posto. Rispetto all’anno scorso abbiamo recuperato quattro posizioni, ma siamo pur sempre dietro Botwana, Niger, Burkina Faso e Sudafrica. Siamo lontanissimi dai vertici dove ci sono, nell’ordine, Finlandia, Olanda e Norvegia. E’ legittimo dunque chiedersi: questo diritto, nel nostro paese, è veramente in discussione o in pericolo? Senza pensarci molto dovremmo rispondere di no. Lo garantisce la Costituzione e l’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Con tutte queste affermazioni di principio dovremmo sentirci ampiamente garantiti e tutelati. Invece non è sempre così. I politici non perdono occasione per cercare di mettere vincoli e rendere sempre più difficile la diffusione di noti- 6Primapagina zie scomode al “Palazzo”. Certo, i giornalisti non sono immuni da colpe e da responsabilità. Ma eccessi e abusi non legittimano e non giustificano la limitazione di un diritto essenziale e irrinunciabile per ogni società democratica. Querele e richieste di risarcimento danni in sede civile sono armi usate sempre più spesso per bloccare inchieste e limitare l’autonomia dei redattori. In un quadro del genere non è senza significato l’iniziativa dell’Ordine dei giornalisti delle Marche che, grazie alla sensibilità e alla disponibilità di importanti artisti, ha realizzato una collezione d’arte, unica nel suo genere, che dal settembre del 2011 è al centro di una mostra itinerante che ha concluso il suo viaggio a Jesi nella sede dell’Università. Presente il Presidente del Consiglio nazionale, Enzo Iacopino, si è parlato dei giornalisti minacciati con Alberto Spampi- nato, direttore dell’Osservatorio Ossigeno per l’informazione (che monitora i casi di minacce e violenze verso i giornalisti), Marilù Mastrogiovanni, una giovane pugliese più volte minacciata dalla mafia salentina e Gerardo Adinolfi, collaboratore di Repubblica e Il fatto quotidiano autore di un ebook dal titolo “La donna che morse il cane. Storie di giornaliste minacciate”. Sono stati presentati i risultati di una ricerca su come si informano gli italiani, svolta dal Dipartimento di scienze della comunicazione dell’Università di Urbino e presentata dalla prof.ssa Lella Mazzoli, professore ordinario di sociologia della comunicazione, direttore del Dipartimento e del progetto news-Italia.org che indaga appunto il modo di informarsi degli italiani in rete, con particolare attenzione alla fruizione di notizie attraverso il device mobili. La mostra itinerante (realizzata con il contributo di Banca Marche, presente il direttore genera- Foto Cristian Ballarini Una mostra sulla libertà di stampa FOCUS le Luciano Goffi, e del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti) è partita da Caldarola nel settembre 2011 e ha toccato diverse città marchigiane (Ascoli Piceno, Fermo, San Benedetto del Tronto, Ancona, e Pesaro). Nel dicembre 2012 ha fatto tappa a Roma nella prestigiosa sede della Biblioteca Centrale Nazionale dove, su richiesta del Ministro dei beni culturali Lorenzo Ornaghi, è stata prorogata per consentire la visita ai vincitori del Premio creatività 2012 riservato ai giovani studenti italiani. A Jesi sono state presentate due nuove opere degli artisti Giuseppe Fortunato e Giulia Gorlova. Il testo critico del catalogo è stato curato da Armando Ginesi, mentre l’allestimento è di Renato Barchiesi. Nel corso della mattinata il Presidente dell’Ordine dei giornalisti delle Marche, Dario Gattafoni, ha consegnato una targa al decano dei giornalisti, lo jesino Giuseppe Luconi, che svolge la professione da sessant’anni. primapagina7 FOCUS di Laura Moretti Grande successo a Urbino per il festival del giornalismo culturale D alla terza pagina all’informazione sul web. Due giorni di incontri, dibattiti e confronti con giornalisti, scrittori e accademici per discutere l’evoluzione del giornalismo e della cultura in Italia. Più di mille persone , sopratutto giovani, hanno partecipato alla prima edizione del festival sul giornalismo culturale svoltosi all’interno dello splendido palazzo ducale di Urbino, patrimonio mondiale dell’Unesco. “Di festival ce ne sono tanti ma questo mancava e la cultura dovrebbe essere il motore dell’economia e della crescita di questo paese” ha dichiarato Lella Mazzoli, direttrice del festival. “Bisogna però parlarne, usare tutti gli strumenti, i luoghi e le cornici. Pensiamo alle generazioni di domani, cominciamo con loro, come questo festival in una piccola sezione ha fatto portando anche ragazzini delle scuole nei luoghi del dibattito. Parola detta, scritta e visiva sono sempre fonti della cultura o delle culture”. Con la consapevolezza che cultura vuol dire tante cose: arte e letteratura certo, ma anche gastronomia. A parlare di informazione culturale, nomi noti del giornalismo italiano come Corrado Augias che ha aperto il festival con una lectio dal titolo “Si può raccontare il mondo?”. “ Il 8Primapagina FOCUS giornalismo culturale si può fare, basta soltanto osare un po’ di più, perché la gente che si interessa c’è. La cultura è una costruzione che ha bisogno di un avvio” ha sottolineato Augias. Poi e’ stata la volta del giornalista e critico letterario Piero Dorfles che durante la lezione dal titolo “J’accuse al giornalismo culturale italiano” ha lanciato un allarme: “Se il giornalismo culturale non fa parte del progetto comunicativo dei mass media, è destinato a estinguersi”. “A volte nella rete si tende a guardare quello che già si condivide e non ci si apre al dibattito, all’incontro”. Infine Concita de Gregorio di Repubblica ha chiuso la rassegna dicendo: “ il tabù esiste, sacralizzare il web è sbagliato. È un luogo pubblico e in quanto tale va aperto anche alle critiche”. Tutto parte dal concetto di ‘terza pagina’, nicchia culturale dei giornali nata proprio in Italia e scomparsa dai quotidiani odierni. Ma non può prescindere dall’esistenza di internet oggi, con i suoi ritmi frenetici che sembrano mal coniugarsi con un giornalismo più riflessivo e ragionato. “Credo che - ha spiegato Lella Mazzoli, organizzatrice dell’evento - tutti noi dovremmo essere attenti alla cultura, o meglio alle culture. Abbiamo usato due spazi, quello di Palazzo Ducale e quello del Collegio Raffaello, proprio in piazza, per coniugare gli spazi dell’accademia con quelli della gente”. Uno degli incontri e’ stato poi dedicato alla dimensione internazionale del giornalismo culturale, con l’intervento di giornalisti di importanti giornali europei, come Lucia Magi (El Pais), Philippe Ridet (Le Monde) e Irene Hernandez Velasco (El Mundo). L’evento è stato organizzato dal dipartimento di Scienze della comunicazione dell’università Carlo Bo di Urbino e dalla Scuola di giornalismo di Urbino. primapagina9 FOCUS di Alberto Sensini Pantheon personale c’era una volta la tribuna politica F ra le vittime innocenti della tanto bistrattata Prima Repubblica ci sono le famose Tribune Politiche. Certo, la trasmissione che andava rigorosamente in onda in prima serata, non era entusiasmante e non sempre il dialogo fra giornalisti e politici forniva lumi sui meandri della politica di casa. Tuttavia quelle Tribune erano di qualità nettamente superiore rispetto all’ alluvione dei talk show di oggi. Il Gran Cerimoniere delle Tribune è stato per molti anni il giornalista Jader Jacobelli, il Moderatore per eccellenza. Uomo schivo, di poche parole, attentissimo a non derogare dalla regola aurea dell’ assoluta neutralità, Jacobelli, che nelle Tribune aveva il compito di scegliere i giornalisti e di dirigere i dibattiti con il cronometro in mano, era nella vita privata un intellettuale finissimo, uno studioso appassionato di Croce e dell’idealismo italiano: tutto diverso da quello “ uomo orologio” come lo chiamavamo scherzosamente noi, ospiti fissi degli appuntamenti tribunizi. Di più, comunque, in quella sede il povero Jacobelli non poteva fare dato il ruolo di asettico e neutrale conduttore - manovratore del dialogo televisivo. Ma si deve a lui, per esempio, lo sdoganamento dei leader della destra tagliati fuori in quegli anni dalla normale dialettica giornali politica. Almirante, Daniele nella fossa dei leoni Il leader del MSI Giorgio Almirante aveva due facce. Una era quella del comiziante abituato ai fischi degli oppositori. L’altra era quella del leader politico, capace di discutere con chiunque senza mai alzare la voce, dialettico furbo, abituato all’isolamento ma quasi lieto di questa condizione. Lo avevo conosciuto, appunto, in occasione delle Tribune. I colleghi facevano di tutto per evitare di essere invitati da Jacobelli , un po’ per un comprensibile ripudio ideologico, ma soprattutto per la paura di risultare soccombente nel dialogo in TV. Io ci andavo fiducioso da vecchio liberale e sicuro che il superdialettico Almirante non mi avrebbe messo in difficoltà. Mi era grato, infatti, perché avevo scritto un editoriale del “Corriere della Sera” in cui si sosteneva che un attentato alla stazione Tiburtina di Roma, attribuito alla svelta ai neofascisti, era invece di provenienza anarchica, come poi fu provato in tribunale. Non era stato un atto di coraggio da parte mia, ma un invito a ragionare al di là degli schemi allora in voga. Almirante lo capì e me ne dette atto in una lettera di ringraziamento. Ho sempre creduto che non per caso in TV fu, con me, sempre rispettoso e garbato. Malagodi, poliglotta ma non tanto Non era simpatico Giovanni Malagodi ma era certamente un uomo di grande cultura, di autentica passione, di rude e talora sgradevole franchezza. Aveva respirato la po10Primapagina FOCUS litica fin da bambino e dal padre – famoso giornalista, direttore della “ Tribuna” e autore della celebre biografia di Giovanni Giolitti – aveva ereditato certe stranezze di carattere. Come quella, nota solo a pochi intimi, di parlare a casa soltanto in latino, costringendo così i poveri figlioli ad una fatica improba. Era coltissimo, dicevo e davvero Malagodi è stato, in questo senso, un’eccezione nel nostro mondo politico che non è certo un’ accademia di pensosi intellettuali. Eppure anche Malagodi aveva qualche lacuna. Curiosamente quel politico che scambiava lettere con Luigi Einaudi, De Madariaga e Willelm Roepke (luminari della cultura liberale) e citava a memoria Benedetto Croce,prendeva cantonate curiose in fatto di lingua italiana. Un giorno (ero allora redattore capo del settimanale liberale “La Tribuna “ ) piombò in redazione. Era scandalizzato perché in un articolo di Manlio Lupinacci si parlava di uno zio: “un zio“, si dice e si scrive, tuonava Malagodi e solo dopo un attento controllo di vocabolari italiani, si convinse di aver torto. Da buon liberale si scusò, sforzandosi si sorridere. Anzi fece di più: ci offrì un fiasco di Chianti della sua tenuta del senese. Gesto che ci fece restare di stucco, dato che tutti conoscevamo la fama di uomo parsimonioso ( eufemismo… ) che lo accompagnava da sempre. Covelli, viva e abbasso la monarchia Leader del monarchici, Alfredo Covelli era un gran signore meridionale, amico di tutti, frequentatore assiduo del Transatlantico, uomo simpaticissimo, cordiale, sempre pronto alla battuta e al sorriso. A differenza di tutti gli altri, Covelli andava a “ Tribuna politica“ per divertirsi, ben consapevole di rappresentare un’ideologia – l’idea monarchica – nettamente minoritaria nella pubblica opinione. Un giorno, un collega di un giornale romano ebbe un momento di crisi: la domanda a Covelli toccava a lui, ma il povero collega si era visto bruciare tutte le domanda da chi lo aveva preceduto e non sapeva come fare. Le Tribune, infatti, erano rigorosamente in diretta e quindi bisognava per forza dire qualche cosa o simulare un malore. A quel punto scrissi una domanda e la passai al collega che, in preda al panico, la lesse a malapena,farfugliando appena quel che era scritto sul foglietto. “ Fermi tutti tuonò allora Covelli con il suo vocione da baritono: “Sensini ha scritto la domanda del collega. Jacobelli, lo mandi dietro la lavagna…”. Una risata corale chiuse la scenetta . Ma da quel giorno ogni volta che ci incontravamo a Montecitorio, Covelli mi salutava con un tonante “abbasso la repubblica”. E io rispondevo “abbasso la monarchia”. Altri tempi. primapagina11 FOCUS di Chiara Cerri “La mafia siamo noi” Anche l’antimafia siamo noi “La mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci” LA CAROVANA ANTIMAFIE FA TAPPA A ISOLA DEL PIANO Rita Atria, testimone di giustizia, suicida a 18 anni il 26 Luglio 1992, una settimana dopo l’uccisione di Borsellino e la sua scorta. Q uel “noi” si riferisce alla società civile, quell’insieme di teste e cuori che spesso dimentica quanto potere creativo e resistente ha tra le mani. La società civile, prima interlocutrice di chi promuove la cultura della legalità, di chi sollecita la partecipazione nella lotta alle mafie, di chi fa di tutto questo un caposaldo della democrazia e si impegna nel riutilizzo positivo dei beni confiscati. Uno di questi beni si trova a Isola del Piano, piccolo Comune della Provincia di Pesaro e Urbino che conta circa 640 cittadini, il primo dei quali, il Sindaco Giuseppe Paolini (per tutti Peppino), sin dalla sua elezione nel 2010, si è adoperato per ridare dignità a quel luogo che era stato residenza, già dagli anni ’80, dell’imprenditore di Erba Ruggero Cantoni e della sua famiglia. A seguito dell’operazione “Sciacallo”, che ha visto in prima linea il sostituto procuratore Luca Masini, si è arrivati alla condanna del capofamiglia Cantoni, il quale era al vertice di un’associazione a delinquere dedita in particolare a truffa e usura. Nel 2002 sono stati confiscati diversi beni appartenenti alla fa12Primapagina miglia e al suddetto, tra cui appunto due edifici e oltre sei ettari e mezzo di terreno a Isola del Piano. Nel 2006 i beni sono stati assegnati al Comune che, inizialmente, aveva ideato un progetto relativo alla nascita di una struttura socioassistenziale; più tardi invece, nel 2010, la nuova Giunta ha ritenuto di rivedere quel progetto, e nel gennaio 2011, ottenuto il riaffidamento unico del bene, sono stati presi i contatti con Libera – associazioni, nomi e numeri contro le mafie. Proprio nell’estate dello stesso anno si è tenuto a Isola del Piano il primo campo di volontariato di eState Liberi sui beni confiscati alle mafie nella regione Marche, importante iniziativa che ha visto la partecipazione di cinquanta giovani provenienti da tutta Italia. Oggi in questo luogo sorge La Fattoria della Legalità, e proprio qui recentemente ha fatto tappa la Carovana Internazionale Antimafie, copromossa da Libera e Avviso Pubblico, con il sostegno di Cgil, Cisl, Uil e Lingue de l’enseignement. Si tratta di un’iniziativa nata nel 1994 in Sicilia, ad un anno e mezzo dalle stragi di Capaci e Via D’Amelio, con l’intento di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche mafiose e di portare solidarietà, attraverso un percorso a tappe, a coloro che combattono per la legalità e la giustizia nel proprio territorio. Oggi, oltre a tutto questo, è un laboratorio itinerante che offre la possibilità di creare relazioni e reti tra vari luoghi e comunità, per rafforzare il senso di democrazia, per combattere il degrado e la marginalità sociale, per cooperare a riformare la politica. Quest’anno la Carovana è partita il 30 Marzo da Tusini, per poi attraversare tutta l’Italia dalla Sicilia al Trentino Alto Adige, e ad ottobre, dopo la pausa estiva, riparte in Francia, con le tappe di Marsiglia, Nizza, Tolone, Nimes e Bastia; ovviamente ad ogni sosta avviene il FOCUS passaggio del testimone, rappresentato fisicamente dall’arrivo e della partenza dei furgoni della Carovana. Dall’arrivo della Carovava a Isola del Piano si sono succedute diverse iniziative nell’arco di questi mesi: dall’incontro con Susanna Camusso, passando per l’evento conclusivo di Alimentazione e Legalità, con incontri, spettacoli teatrali, proiezioni e ovviamente stand gastronomici di qualità, arrivando infine al Campo di volontariato ed ai laboratori di formazione e di promozione della cultura della legalità promossi da Arci, SPI-Cgil e Libera; il Campo, svoltosi l’estate scorsa, ha visto impegnati una ventina di ragazzi non solo negli incontri e nei laboratori formativi, ma anche nella ristrutturazione attiva dello stabile confiscato alla mafia. Ognuno di questi eventi si innesta all’interno del progetto della Fattoria della Legalità, possibile grazie alla legge n.109/96 che prevede l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie: l’obiettivo è quello di creare una cooperativa sociale di tipo B, ovvero una cooperativa che svolge attività economiche al fine di creare occupazione e reinserimento sociale, coinvolgendo quindi anche categorie di persone quali disabili, ex tossicodipendenti, ex detenuti. Concretamente l’idea è di recuperare l’edificio principale per farne un agriturismo, abbinando quindi ristorazione e soggiorno, e ricavarne anche dei luoghi per la didattica; il secondo edificio invece dovrebbe essere destinato alla realizzazione di un birrificio artigianale ed eventuali altri laboratori; infine, il terreno sarà utilizzato per l’agricoltura biologica e la biodiversità. Tante idee in divenire che sono altresì bandiera di un alto valore simbolico, anche e soprattutto in un territorio come quello marchigiano che, a ben vedere, non è rimasto im- mune da infiltrazioni di tipo mafioso: si contano ben 17 beni confiscati nella provincia di Pesaro e Urbino. La mafia, le mafie, ci riguardano, non ne siamo immuni. Se noi siamo la mafia, noi possiamo essere anche l’antimafia. “C’è un’antimafia degli eroi ma c’è un’antimafia quotidiana, fatta da chi respinge una raccomandazione, da chi parcheggia sulle righe e non sul marciapiede, da chi prende un brutto voto e si mette a studiare di più, da chi ha la forza di dire a una amico che sbaglia” (Bruno Contigiani, “La nostra parte quotidiana”, Linus 08/12). primapagina13 di Ilaria de Maximy Il ROF? Un’idea geniale tornare alle origini Abbiamo intervistato il sovrintendente gianfranco mariotti A ridosso dell’inizio della 34ª Edizione del Rossini Opera Festival, che attraverso la riscoperta dell’autenticità del repertorio operistico di Rossini ha ridato splendore al Cigno di Pesaro ottenendo passione e amore da ogni parte del mondo, ho avuto il piacere di intervistare il Sovrintendente Dottor Gianfranco Mariotti che ringrazio per aver condiviso con noi parte della “Sua Storia”. Come le è nata l’idea del Rossini Opera Festival, e quali sono state le difficoltà per affrontarne la nascita in un momento storico in cui Rossini era conosciuto solo per poche opere? L’idea è nata quando nel ‘69 ho assistito, per puro caso, al Barbiere di Siviglia alla Scala diretto da Abbado con l’edizione critica di Alberto Zedda: non avevo mai sentito Rossini fatto in quel modo, fino a quel momento su quella partitura erano stati esercitati tutti gli abusi e gli arbitrii possibili, mentre eseguita in quel modo le si restituivano leggerezza e trasparenza mozartiana. Per me fu uno shock e tornai a Pesaro con l’idea che Rossini forse andava riportato tutto alla sua lezione originale. Poi è stato un concomitare di situazioni favorevoli perchè la Fondazione Rossini mise mano ad un progetto di opera omnia in edizione critica di tutto il corpus rossiniano nei primi anni ‘70, così presentai, in 14Primapagina popolari come è stato! Avendo a disposizione una miniera di capolavori , una specie di Atlantide, è stato facile ogni volta, stupire il mondo con una nuova opera! Consiglio Comunale, il progetto di un Festival che fosse la prosecuzione dell’attività musicologica con anche un versante teatrale ed editoriale (partecipò la casa Ricordi di Milano) e nell’ ‘80, con il recupero del Teatro Rossini che era l’anello mancante, partimmo con la prima edizione che ebbe subito una grande ricezione da parte del pubblico ma sopratutto della critica. Insomma, era la cosa giusta al momento giusto! Come scrisse dopo qualche anno il New York Times, nessuno poteva immaginare che una formula musicologia più teatro non avrebbe interessato solo una fascia di spettatori colti ma sarebbe stata la base di una lunga serie di successi Il Festival è ormai conosciuto e seguito in tutto il mondo e numerosa è la partecipazione del pubblico straniero; come sono stati invece i rapporti con Pesaro e con i pesaresi inizialmente e come lo sono ora? I primi anni siamo dovuti andare “contro” la città: ci chiedevano di fare il Festival non d’estate ma a giugno o a settembre, di usare l’Orchestra del Conservatorio, i costumi dell’Istituto d’arte e richiedevano sempre il Barbiere di Siviglia o il Guglielmo Tell. Invece, dall’inizio, abbiamo pensato che quest’impresa avrebbe interessato il mondo, non solo Pesaro o l’Italia, quindi i costumi furono fatti nella più grande sartoria teatrale e quasi subito ci fu data la disponibilità dell’Orchestra di Abbado..inizialmente si è dovuto combattere contro il localismo ma anche la città si convinse presto delle nostre scelte, il successo mondiale infatti arrivò abbastanza presto. Passando ai luoghi in cui si svolge il Festival: l’Adriatic Arena è un luogo che continua a non piacere ai frequentatori del Rof: ci sono speranze che tutta la manifestazione torni in città in tempi brevi? Anche noi non siamo affezionati a Foto Studio Amati Bacciardi A COLLOQUIO CON A COLLOQUIO CON questo luogo...ma abbiamo dovuto fare di necessità virtù perchè il vecchio palazzetto dello sport, che era stato riarredato in modo da avere una sede tecnologica ed attraente, era diventato inagibile e non sono stati trovati fondi per ristrutturarlo. Siamo riusciti quindi a bonificare gli spazi dell’Adriatic Arena costruendoci due teatri. Ma si è poi preso atto del fatto che il centro storico così si svuotava, si perdevano il clima e l’atmosfera tradizionale del Festival, con il rito degli stranieri melomani che dal mare attraversano la città a piedi per i vicoli entrando nelle botteghe prima di andare a Teatro ..andare in navetta non è la stessa cosa! Abbiamo fatto uno sforzo e abbiamo riportato 80% del Festival in centro facendo spettacoli più agili che potessero avvicendarsi al Rossini nel giro di 24 ore. Siamo giunti ad un buon compromesso perchè ora c’è una sola produzione all’Adriatic Arena. Anche questa città è colpita dalla crisi , ma non il nostro botteghino, abbiamo un pubblico fidelizzatissimo fatto da 2/3 di stranieri , spettatori che vengono da tutti i cinque continenti, che si informano, conoscono il libretto, i cantanti, l’Accademia, c’è un rapporto che va aldilà del biglietto! Pensi che c’è gente che vede tutti gli spettacoli, ogni replica! Abbiamo bilanci sani, ci siamo autoridotti, facciamo spettacoli con costi molto minori rispetto al passato ma abbiamo delle maestranze e dei tecnici straordinari e di primissimo livello. Può commentare i suoi rapporti con gli sponsor ed in particolare con la Banca delle Marche? Il fatto che la Banca delle Marche abbia riconfermato la sponsorizzazione è per noi un fatto estremamente positivo non solo positivo! Qual è stato, secondo lei, lo spettacolo più importante prodotto dal Festival in questi anni e a quale Lei è più affezionato ? Lo spettacolo più importante è stato probabilmente il Viaggio a Reims del 1984 con la più spettacolare locandina dei tempi moderni. E’ una cantata in onore dell’incoronazione di Carlo X Re di Francia con 18 personaggi principali e congegnata da Rossini per fare cantare tutti i più grandi cantanti d’Europa del periodo: compose per ogni personaggio musiche al limite del virtuosismo e quindi servivano i migliori in ogni ruolo- e noi abbiamo messo insieme una compagnia di canto di quel livello. I bassi erano Ramey, Raimondi e Leo Nucci, soprani la Cuberli, la Ricciarelli, la Gasdia, poi la Terrani... io ho una personale predilizione per Le Comte Ory che per me è un immenso capolavoro ma anche per il Moïse et Pharaon del ‘97 che fu uno spettacolo straordinario, e anche.. davvero non saprei rispondere! Mancano ancora opere del catalogo rossiniano da rappresentare al Rof? L’unico titolo che manca ai nostri palcoscenici è Aureliano in Palmira che faremo l’anno prossimo, dopodichè abbiamo fatto tutte le opere del catalogo rossiniano questo però non significa tutti a casa! Da uno studio effettuato dal Dipartimento di Economia di Urbino è risultato che ogni euro investito dalle istituzioni per il Rossini Opera Festival produce un valore pari a sette euro in termini di crescita economica, in più il Festival nell’edizione 2012 ha avuto eccellenti risultati al botteghino. Pensa che l’edizione di quest’anno riuscirà a mantenere questo andamento positivo nonostante la crisi economica attuale ? primapagina15 A COLLOQUIO CON di Pamela Temperini I gustosi “Aperitivi Culturali” di Sferisterio Cultura quando gli aperitivi stuzzicano non solo il palato, ma anche la mente S torie nude di passioni, vestite di parole e di musica, intrecci incisi nella partitura del tempo che ogni anno tornano alla ribalta nell’arena dello Sferisterio di Macerata, che dal 2006 è Sferisterio Opera Festival, avvincente watershed nella tradizione della stagione lirica maceratese, inaugurato con tre opere di Mozart, Puccini e Verdi idealmente unite dall’emblematico filo conduttore del viaggio iniziatico. Ed un altro viaggio è cominciato da allora, all’interno e a fianco della rassegna lirica, con la manifestazione degli “Aperitivi Culturali”, promossa dall’Associazione Sferisterio Cultura, in collaborazione con il Comune di Macerata e l’Amat, e sostenuta dal generoso contributo di sponsor tecnici e di Banca Marche. Ho il piacere di parlarne con la curatrice, l’avvocato e Presidente del Comitato Pari Opportunità Stefania Cinzia Maroni, da sempre appassionata di lirica. “Quando Pier Luigi Pizzi ha assunto la direzione artistica dello Sferisterio nel 2006 ha introdotto una svolta nel modo di intendere la lirica. Con il Maestro Pizzi ha inizio il Festival. Ricordo quel periodo ricco di confronti ed iniziative che ben armonizzavano con l’idea del Festival e che hanno fatto nascere gli aperitivi culturali. L’intenzione è di offrire all’interno della stagione lirica altre opportunità culturali, in forma di appuntamenti e di incontri attinenti al tema delle opere in cartellone. Tra l’altro, in linea con il nome, ogni incontro si conclude con degustazioni enogastronomiche spesso legate alle opere ma anche e soprattutto all’eccellenza del nostro territorio. Con questo spirito da due anni sono nati anche gli Aperitivi Culturali a Teatro che si riallacciano agli spettacoli della stagione teatrale del Lauro Rossi.” Il viaggio iniziatico, il potere, la seduzione, l’inganno sono alcuni dei temi che hanno caratterizzato il Festival in questi anni e che hanno dato lo spunto per un affascinante rendering delle opere, in un sottile gioco di contaminazioni, di rimandi e di interpretazioni concertate con filosofi, giornalisti ed altre realtà sociali. Intrigante ad esempio è la lettura data della Tosca qualche anno fa. “La Tosca di Puccini, spiega Cinzia, si è prestata per un quesito particolare. Il melodramma è stato approfondito alla luce di un possibile caso di concussione sessuale, così come l’anno dopo per la Madama Butterfly si è tirato il filo di un’indagine Cinzia Maroni con l’attuale direttore artistico del Macerata Opera Festival, Francesco Micheli, gli attori Lunetta Savino ed Emilio Solfrizzi, protagonisti al Teatro Lauro Rossi della commedia “Due di noi”. Foto: Veronica Antinucci 16Primapagina dell’opera nella prospettiva del turismo sessuale e della prostituzione minorile. La stagione teatrale che si è appena conclusa è stata particolarmente fertile di contaminazioni culturali. Gli attori e i registi si sono confrontati con filosofi, musicologi, letterati e si sono aperte tante e diverse visioni sui temi degli spettacoli dimostrando come la tradizione ben s’innesta nella contemporaneità. Per esempio, la storia di Cyrano de Bergerac è stata proiettata nel presente grazie al suggestivo tema dell’identità che scivola e si frantuma nella molteplicità come oggi testimoniano gli stessi social networks, mentre la relazione di coppia, passando di genere in genere, dal melodramma alla commedia, se pur diversa nella pluralità degli eventi rimane straordinariamente sempre la stessa.” In una contingenza difficilissima come quella attuale in cui il ritmo di chiusura delle aziende è sempre più gravoso, il dramma della recessione imperversa spietato anche sui sipari italiani che chiudono da Nord a Sud. Che le crisi economiche portino quasi sempre al fisiologico taglio della cultura non è un mistero. Fa molto piacere per questo riscontrare come invece a Macerata si riesca Cinzia Maroni con la filosofa Monia Andreani e l’attore Alessandro Preziosi, regista ed interprete del Cyrano de Bergerac. Foto: Veronica Antinucci A COLLOQUIO CON Cinzia Maroni curatrice della rassegna “Aperitivi Culturali” ancora a non soccombere nel disagio generale. “Quando siamo partiti sette anni fa con questo progetto abbiamo trovato nella Banca delle Marche un’alleata significativa che ha riconfermato il suo sostegno anno dopo anno, convinta di condividere con noi un obiettivo importante, quello di non sottovalutare il ruolo della cultura quale volano indispensabile per l’economia maceratese.” Per festeggiare Giuseppe Verdi nel bicentenario della sua nascita, quest’anno lo Sferisterio Opera Festival ha affiancato due opere del compositore emiliano, “Nabucco” e “Il trovatore” a un dittico di Benjamin Britten, “Il piccolo spazzacamino” e “Sogni di una notte di mezza estate” in un programma originale e dal titolo accattivante “Muri e Divisioni”, omaggio implicito al potere dell’arte di demolire ogni muro, anche quello temporale, e di annullare le divisioni. Gli Aperitivi culturali non hanno mancato l’occasione di tirare nuovi fili di riflessione “dentro” e “fuori” delle opere in cartellone e, tra gli appuntamenti di quest’estate la presenza di Patti Smith ha lasciato il segno. La sacerdotessa del rock nel tempio della lirica, questo il titolo dell’aperitivo da lei animato, ha dato di sé un ritratto di scrittrice, poetessa, musicista, donna e madre incantando il pubblico e confermando come il potere dell’arte superi ogni arbitrarietà umana. “È per me molto significativo avere l’onore di suonare allo Sferisterio, specialmente nel mezzo della stagione lirica. Anche se siamo una rock and roll band, porterò con me il mio amore per l’opera che è iniziato quand’ero bambina grazie ai lavori di Verdi e Puccini”. Patti Smith primapagina17 A COLLOQUIO CON di Matteo Pierelli Una Chiesa povera per i poveri? ce ne parla il vaticanista giacomo galeazzi I l Vaticano e il Papa sono sempre più spesso tra le prime pagine dei giornali e dei telegiornali. Dopo gli ultimi scandali, Papa Francesco sta tentando di portare “aria nuova” nei palazzi pontifici. Per sapere cosa sta succedendo in Vaticano, abbiamo intervistato Giacomo Galeazzi, jesino, vaticanista de “La Stampa”. Giacomo Galeazzi, laureato in scienze politiche, ha cominciato la sua esperienza professionale con Il Resto del Carlino, diventando pubblicista il giorno del suo diciottesimo compleanno - è stato il più giovane pubblicista d’Italia. Dal 1997 al 2001 ha lavorato al Tg1 occupandosi di esteri e di informazione religiosa; dal 2001 è alla redazione romana de “La Stampa” con l’incarico di vaticanista. Papa Francesco già dal suo insediamento ha portato delle novità, rinunciando ai privilegi e agli ori. Bergoglio rappresenta davvero la svolta per la Chiesa? Già con Papa Benedetto XVI c’è stata una diminuzione della “corte pontificia”, ma con Papa Francesco il cambiamento è stato radicale. Il nuovo Papa ha un atteggiamento semplice, sobrio, gli piace stare in mezzo alla gente ed avere un contatto diretto. Questo suo modo di “fare Chiesa” l’ha caratterizzato da sempre, sin da quando era un semplice prete argentino. Il suo stile è tra quello di Papa Giovanni XXIII e Papa Giovanni Paolo II, mite e compassionevole. Nel viaggio in Brasile, in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù, ha visitato le favelas portando la parola di Dio tra i più poveri ed emarginati. Il suo motto è: Una Chiesa povera per i poveri. 18Primapagina Il nuovo Papa quali riforme intende attuare? Tra i primi nodi da sciogliere vi è la radicale riforma dello Ior, l’Istituto delle Opere religiose. L’«operazione trasparenza» iniziata dal suo predecessore, Benedetto XVI può non bastare. I vari scandali, il coinvolgimento dello Ior in operazioni non troppo pulite, spingono il vescovo di Roma a recuperare la buona reputazione dell’istituto finanziario vaticano. Ha richiamato la Chiesa alla ‘’gratuità’’ e alla ‘’povertà’’. ‘’San Pietro non aveva un conto in banca’’, ha avvertito Papa Francesco.Questi primi mesi di governo sono stati di studio, di presa di coscienza diretta dei problemi da affrontare. Si è imbattuto in gruppi di potere che resistono in zone opache che favoriscono la corruzione. Bergoglio è intenzionato a pulire e a semplificare la Curia romana, ci sarà un Consiglio di otto cardinali che affiancheranno il Papa. Ho letto di una “lobby gay”. Di che si tratta? Le tre condotte errate del Vaticano, che Papa Francesco cerca di scardinare, riguardano: il carrierismo, l’avarizia e la sessualità. In riferimento a quest’ultima condotta,Bergoglio ha ammesso l’esistenza di una “lobby gay” nella Chiesa. Un gruppo di vescovi che utilizza la propria omosessualità per la ricerca del potere, di favoritismi per fare carriera, anche attraverso il ricatto. Cosa c’è dietro alla rinuncia al soglio pontificio di Papa Benedetto XVI? Papa Ratzinger si è dimesso semplicemente perché non riusciva a tenere testa agli scandali, che all’inizio del 2013 avevano colpito il Vaticano e fatto cadere la moralità della Chiesa ai livelli più bassi. Non c’è stata nessuna pressione affinché Ratzinger si dimettesse, ma è stata solo una suavolontà. Ad eccezione di suo fratello e di Padre George nessuno sapeva delle dimissioni, è stato un gesto di forte cambiamento e di ripartenza. In epoca moderna nessun Papa si è mai dimesso. Che ruolo ha lo IOR all’interno del Vaticano? Ha influenzato e influenza i rapporti politici con gli altri Paesi? Lo IOR (Istituto per le Opere di Religione) è un istituto privato, fu creato nel 1942 da papa Pio XII per finalità etiche conlo scopo di provvedere alla custodia e all’amministrazione dei beni mobili e immobili trasferiti o affidati allo IOR da persone fisiche o giuridiche e destinati a opere di religione e carità. Ora è diventato un peso per il Vaticano e non è più un asset fondamentale come lo era nei tempi della Guerra Fredda; lo si può definire “l’ultimo pezzo del muro di Berlino”. In quei tempi la Città del Vaticano era l’epicentro della contrapposizione del blocco occidentale e del blocco comunista. Oggi si potrebbe fare a meno della Banca Vaticana e trasferire i 5miliardi di depositi presenti in una banca internazionale. Veniamo a te. Qual è la giornata tipo di un vaticanista? Ormai dal 2001, da quando sono vaticanista, ogni mattina mi reco alla sala stampa del Vaticano per le ultime notizie che poi nel pomeriggio trascrivo sia per la carta stampata che per il blog su La Stampa on line. La domenica seguo l’Angelus e il mercoledì l’Udienza Generale. Perché hai scelto proprio questo tipo di giornalismo? Sono arrivato a fare il vaticanista quasi per caso. Dal 1997 ho iniziato a lavorare al Tg1, dove seguivo gli esteri e la preparazione del Giubileo del 2000 di Roma, poi il direttore del Tg1 passò a La Stampa così lo seguii e diventai vaticanista de La Stampa. Se potessi ritornare indietro rifaresti il vaticanista? Sono soddisfatto della mia vita e della mia professione, anche se quando iniziai il mio percorso di giornalista erano altri tempi. Ora non mi sento di consigliare a chi volesse intraprendere la mia professione di farlo. Oggi c’è un cambiamento continuo del modo di fare comunicazione, internet ha reso tutto più semplice e più difficile allo stesso tempo. Una volta chi faceva il giornalista aveva bisogno di un cameramen, di un fonico e di buone gambe. Oggi è sufficiente una sola persona a fare tutto, è sufficiente vedere la trasmissione di Rai3 Report. Credo che saranno premiati i giornalisti che riusciranno a stare al passo con la tecnologia ed anzi chi riuscirà a prevederla. Nel lavoro nascere in una città di provincia ti ha ostacolato? Non mi ha ostacolato, anzi mi ha fatto vedere i fatti da un’ottica periferica facendomi crescere la curiosità di scoprire cose nuove. primapagina19 A COLLOQUIO CON di Laura Moretti Jovanotti ti porto via con me negli stadi jovanotti per la prima volta negli stadi, è partito da ancona per un tour di successo N on è stato solo un concerto, ma uno show in piena regola, una grande festa di musica, parole, suoni e colori che per quasi due ore e mezza ha infiammato oltre 20.000 fans lo Stadio del Conero di Ancona, aprendo ufficialmente il primo vero tour negli stadi di Jovanotti che si è concluso il 20 luglio a Cagliari. zio per liberare la macchina allora fai il back up, cioè lo metti da parte per far girare meglio il pc e questo è quello che ho voluto fare con questo concerto, dopo aver suonato e e cantato in tutta Italia, archivio questa esperienza stupenda per iniziarne un’altra, senza dimenticarla, semplicemente mettendola da parte. di storia col pubblico. Non è fatto personale ma credo anche una generazione che è cresciuta e si riconosce nel modo di guardare al mondo e che è venuta negli stadi prima di tutto è in grado di progettare e immaginare il futuro. È stata una grande festa, il mondo è rimasto fuori dallo stadio, è stato un modo per dimenticare un clima pesante. Come mai hai scelto di chiamare il concerto “Back up”? Back up è una parola tecnica, si usa per i computer. Quando hai il software pieno hai bisogno di spa- Hai voluto festeggiare i tuoi 25 anni di carriera con un concerto per la prima volta negli stadi Italiani, come mai? Ho voluto festeggiare i miei 25 anni Tu sei sempre molto vicino alla gente tramite i social network. In questo periodo difficile sopratutto per l’elevata disoccupazione giovanile, di che cosa hanno biso- 20Primapagina gno secondo te i giovani per essere incoraggiati? Hanno bisogno prima di tutto di un lavoro, di condizioni nuove, di un paese nuovo, con nuove regole, nuove forme di solidarietà e di una leadership il più possibile preparata ad affrontare i problemi del futuro. È importante che ci sia qualcuno che li guidi, che proponga strade nuove e poi i giovani secondo me hanno bisogno di affetto, di sostegno da parte dei più grandi, aiuto emotivo, e anche di un po’ di tifo, perché no, di qualcuno che dica “ragazzi possiamo farcela”. Bisogna passare questo guado, è una nuova sfida, ogni generazione ne ha una, penso a quella di mio padre, nel dopoguerra. La sfida dei ragazzi di oggi è svoltare, andare avanti. Credo che possono farcela ma bisogna impegnarsi, mettersi in discussione, muoversi. Dodici ore di prove al giorno sul palco ma anche tanto sport, dieta ferrea. Qual’è il tuo allenamento prima di un concerto? Quando sono venuto a giugno nelle Marche, prima tappa nazionale del mio tour, ho fatto più di 12 ore di prove al giorno, ho dormito solo 4 ore, ho provato sul palco sotto pioggia e vento. A fine serata mi ricordo che crollavo sul letto, stanco morto. Alla mattina presto mi alleno, faccio un po’ di corsa poi vengo allo stadio dove seguo gli hardware, provo con i musicisti, in realtà io non faccio quasi nulla tranne che la cosa più importante, offro la visione. Poi faccio un allenamento specifico per il concerto con un personal trainer che è lo stesso di Alonso e di Fiorello. Sui giornali hanno scritto che andavo tutti i giorni al mare invece non era vero, ma ti confesso che l’avrei fatto volentieri, sarei andato con piacere in spiaggia, a Portonovo, un posto bellissimo. Proprio come i marchigiani, secondo me sono belle persone, gentili, genuine e discrete. Mi piacciono molto. Qual è la canzone che dopo tanti anni ti emoziona sempre? “Penso in positivo”. La metto alla fine di ogni concerto, questa frase vorrei che fosse la mia firma da qui all’eternità, mi piace pensare sempre in positivo. primapagina21 A COLLOQUIO CON di Paola Stefanucci Da una Rotonda sul Mare nasce la nuova generazione dei cantautori Nostra intervista con Gianmarco Frascaroli, in arte Fraska È marchigiano, e ne va così fiero, tanto da dedicare un travolgente swing alla località famosa per la rotonda sul mare: “Senigallia”. Gianmarco Frascaroli, in arte Fraska, classe 1980, voce magnetica, respiro pop-jazz, è uno dei migliori cantautori italiani della nuova generazione. Prodotto da Sergio Caputo, noto anche per la sua partecipazione all’Edicola con Fiorello, lo scorso agosto ha conquistato il titolo “Marche Ambassador of the Year” e bissa altresì il “Franco Enriquez” che aveva già ricevuto nel 2011, naturalmente per meriti musicali. Gira tutto lo stivale con la sua chitarra, l’inseparabile Fly Band e una valigia di album accattivanti (i suoi). Lo abbiamo incontrato. Gianmarco, abbiamo appurato che nel suo caso la musica è una passione (e un talento) familiare. Mio nonno trombonista e fisarmonicista, insieme a suo fratello sassofonista e clarinettista, emigrato 22Primapagina in Francia (dove è nata mia madre) alternava il lavoro in miniera a concerti di musica da ballo per le ricche famiglie del posto. Mi ha trasmesso la passione per la musica ma il merito va senza dubbio a mia madre, che a dieci anni m’iscrisse ad un concorso canoro radiofonico. Vinsi. Iniziai così a pensare che, forse, la musica mi avrebbe accompagnato negli anni a venire. Lei ha 33 anni e certo il tempo trascorso all’Accademia musicale di Ancona, così importante per la sua formazione artistica, non è ancora sbiadito… L’accademia musicale di Ancona è una bellissima realtà. Gli insegnanti mettono a disposizione degli allievi non solo conoscenze artistiche e tecniche ma anche organizzative, realizzando a fine anno saggi itineranti dove cantanti e musicisti prendono dimistichezza con il palco e soprattutto con il pubblico, le due componenti su cui si regge una performance dal vivo. Ringrazio ancora tutti coloro con i quali ho condiviso anni di crescita interiore e musicale. Primo brano? “Così rifletti” dedicato al mio migliore amico, colpito a soli diciotto anni da una grave malattia, che ha poi vinto facendoci capire il senso della vita. Prima esibizione in pubblico? Più o meno a vent’anni in un locale, che ora non esiste più, al porto di Ancona. Era una sorta di circolo culturale. Allora amavo interpretare Gino Paoli e Frank Sinatra. Fu atipico per quel locale e il suo pubblico “alternativi”, ascoltarmi. Quell’esperienza mi servì per acquisire sicurezza e consolidare il mio stile musicale. Quale incontro, secondo lei, è stato determinante per la sua carriera? Senza nulla togliere a Ricky Portera, Greg e Sergio Caputo, quello con Fiorello. Ci presenti la Fly Band… La mia seconda famiglia. Condividiamo ogni scelta artistica e musicale. Abbiamo arrangiato insieme il mio nuovo album “Come la Primavera”. E’ composta da sei musicisti, ormai degli amici, sempre al mio fianco nei concerti, rappresentano il valore aggiunto della mia musica: Marco Zagaglia, chitarra, Nico Tangherlini, tastiera, Simone Castracani, basso, Simone Pozzi, batteria, Rocco Vecera, tromba e flicorno, Luca Tangherlini, sax. Di dove sono? Chiaravalle, Agugliano, Camerano e Ancona. Una band rigorosamente tutta marchigiana: c’è una ragione particolare? Oltre alla ragione logistica (sono nato e vivo nelle Marche, da cinque anni a Sirolo), soprattutto perché riconosco di avere quel campanilismo, tipico dei francesi. La propria terra e la propria gente sono risorse preziose che, unite, creano qualcosa di immediatamente identificabile. Leopardi ne è un esempio. Passeggiare per le vie di Recanati è come leggere a voce alta una sua poesia. Parliamo del successo del suo ultimo album, autoprodotto, “Come la primavera”. Se lo aspettava? Non mi creo delle aspettative, altrimenti vivrei male la magia del comporre. C’è sicuramente la curiosità di conoscere il parere del pubblico, ma A COLLOQUIO CON credo sia importante prima di tutto, e questo vale in ogni forma d’arte, impegnarsi nel realizzare opere originali senza tempo che sappiano emozionare prima di tutto noi che le scriviamo, sperando che ciò avvenga anche per chi le ascolterà. Sapere che artisti come Fiorello, Antonacci, Gianluca Guidi, o giornalisti quali Vincenzo Mollica, apprezzino la mia musica è una notevole gratificazione in questo momento così atipico per la musica italiana, dove l’immagine conta più dei contenuti. Il nostro è un mestiere fatto di emozioni, non di numeri. Infatti, non so neanche quante copie dell’album io abbia venduto su Itunes. Amici e collaboratori me lo chiedono, ma preferisco non interessarmene. Perché? Ho paura di entrare in un meccanismo (mercenario) lontano dal mio ideale di musica. La tournée dei desideri? Mi piacerebbe compiere un tour nei piccoli teatri storici della Regione e attraverso la mia musica valorizzarne l’unicità. Lo scorso luglio è arrivata Greta. La paternità ha indubbiamente segnato una svolta nella sua parabola esistenziale… D’ora in poi avrò due muse cui ispirarmi. A mia moglie ho già dedicato una canzone che ha per titolo il suo nome “Chiara”. Con quel brano conquistai l’attenzione di Sergio Caputo. Anche Fiorello lo apprezza molto. Difatti, nei miei concerti “Chiara” non manca mai proprio per ricordare che l’amore è in ognuno di noi arriva inaspettato, come quando si scrive una canzone, ma è solo l’inizio... primapagina23 A COLLOQUIO CON di Chiara Giacobelli Alla scoperta della nostra regione con le Guide delle Marche A rriva l’autunno e con esso cresce la voglia di esplorare la nostra meravigliosa regione in lungo e in largo, alla scoperta di mare, montagne e colline. Molte passeggiate le abbiamo già fatte più di una volta, ma non ci stanca ripeterle; altre invece saranno del tutto nuove, inedite. E allora una maniera alternativa per apprezzare fino in fondo le bellezze del territorio è quella di affidarsi a dei professionisti del settore, che del turismo hanno fatto la propria bandiera: saranno loro a suggerirvi itinerari più o meno tradizionali a cui finora non avevate pensato, oppure semplicemente ad arricchire con qualche informazione in più quegli stessi gioielli architettonici e naturalisti che fino a ieri credevate di conoscere bene. Tra chi si occupa di accompagnare gente del posto e non nell’esplorazione della nostra terra troviamo l’Associazione Guide delle Marche, un gruppo di esperti in grado di toccare praticamente ogni provincia. “La nostra associazione nasce dalla volontà di affrontare il segmento dell’incoming nell’ambito del mer24Primapagina un’associazione di professionisti suggerisce itinerari a tema e accompagna turisti o habitué nell’esplorazione delle marche più inedite cato turistico in maniera più strutturata e solida, per fornire un’offerta articolata ai clienti italiani e stranieri” spiega Daniela Perroni, una delle figure che compongono la squadra. Che genere di percorsi avete in mente per i vostri clienti? “Le nostre proposte sono molteplici, perché intendono esprimere al meglio le diverse potenzialità del territorio. Generalmente abbiamo due tipi di clientela, quella che per la prima volta scopre le Marche e quella degli habitué: alla prima offriamo una panoramica delle città più importanti, alla seconda itinerari tematici ed enogastronomici”. In che modo avviene al lato pratico l’organizzazione di questi pac- chetti turistici? “Le nostre competenze sono relative all’ideazione di itinerari, all’organizzazione di eventi tramite la nostra P.C.O. (Professional Congress Organiser), all’assistenza da/ per aeroporto e poi anche all’accompagnamento e alla consulenza. È però importante precisare che non proponiamo pacchetti turistici completi, che per legge sono di competenza esclusiva delle agenzie di viaggio”. Allora diamo ai nostri lettori qualche spunto per scoprire le Marche in autunno. “Tre itinerari tematici che ci piacciono molto e che riscuotono sempre un certo successo sono: 1) La matematica e le scienze alla corte dei Montefeltro; 2) La pittura adria- A COLLOQUIO CON tica tra 1400 e 1500, con un’attenzione particolare ai polittici di Carlo e Vittore Crivelli, senza ovviamente dimenticare la grande pittura di Lorenzo Lotto; 3) L’arte della musica e le sue cattedrali: Pergolesi, Spontini, Rossini interpretati dalla grande voce di Beniamino Gigli nei maggiori teatri marchigiani”. Se doveste stilare una Top Four dei monumenti/luoghi più belli delle Marche? “1) Palazzo Ducale di Urbino; 2) Duomo di San Ciriaco; 3) Sferisterio di Macerata; 4) Piazza del popolo ad Ascoli Piceno” Altri itinerari da non perdere? “Le Sirene del Monte Conero è una passeggiata naturalistica e panoramica che conduce lungo alcuni sentieri del più importante promon- torio marchigiano. Vi è compresa anche la visita alla chiesa di San Pietro, con i suoi antichi capitelli densi di misteri e simbolismo. A Osimo il tour della città – con il Duomo, il Battistero e il Santuario di Giuseppe da Copertino – viene affiancata dalle affascinanti grotte del sottosuolo, con tanto di labirinti e camere segrete. Spostandoci più a sud, un itinerario storico-artistico per tutti, comprese le scuole, si snoda attorno ai siti archeologici di Fermo: Montefortino, Smerillo, Monte Vidon Corrado, Falerone, Monterinaldo e l’imperdibile Museo del Cappello. Infine, in provincia di Macerata possiamo suggerire una passeggiata a Camerino, San Severino e il Castello di Lanciano, seguendo le tracce del Ducato dei Da Varano, denso di storia e fascino senza tempo”. UID dell Per approfondire: www.guidedellemarche.com primapagina25 A COLLOQUIO CON di Roberto Ceccarelli New York 2013 professione reporter T rent’anni di news sugli schermi americani iniziando come assistente di produzione in una piccola, televisione via cavo locale. Frank LoBuono, origini italo americane, è un reporter newyorkese e lavora per la CBS News, il “rullo” d’informazione di una delle più importanti emittenti d’oltreoceano. E proprio per la CBS, Frank LoBuono lavorava anche nel 2001, quando per otto giorni consecutivi ha raccolto le immagini di devastazione dell’attacco terroristico alle torri gemelle, immagini che l’11 settembre di ogni anno ripropone sul suo blog, in ricordo delle vittime. Chi ha la fortuna di averlo come amico su Facebook ha l’opportunità di vedere in tempo reale alcune delle immagini di back stage su ciò che dopo poche ore verrà trasmesso sui notiziari di tutto il mondo. Insomma, il lavoro di Frank raccontato sui social media, è una specie di vetrina privilegiata delle cronache che provengono dagli Stati Uniti e che si materializzeranno dopo poche ore anche nei notiziari anche nostrani. E’ cronaca dell’attesa, per un’inquadratura, per un’intervista o per uno scatto ben piazzato. E’ successo di recente con la grande fuga dei due terroristi della strage alla maratona di Boston, ma anche con i racconti delle devastazioni di origine naturale, come l’uragano Katrina, per arrivare all’elezione di Papa Francesco, raccontata da Roma al mondo, ma anche per i volti celebri raccolti alle passerelle degli Oscar cinematografici. Merito dei social network, dunque, è anche questo, poter assistere alla creazione delle notizie e avere un punto di vista più largo di quello dello schermo televisivo. Frank, quali ruoli hai ricoperto durante la tua carriera e qual è il tuo legame con l’Italia? frank lobuono, videoreporter e giornalista di cbs news, racconta la professione tra nuovi media e grandi eventi della storia degli stati 26Primapagina uniti d’america Nel business televisivo ho ricoperto praticamente ogni posizione. Ho fatto l’assistente di produzione, il produttore, l’editore, lo scrittore, il fotografo e lo studio manager. Attualmente lavoro per una delle principali news tv degli Stati Uniti: CBS News. Entrambe le mie famiglie d’origine provengono dalla Sicilia. Quella di mia madre Celeste/Vitanza, viene da un piccolo paese della Sicilia orientale, San Salvatore di Fitalia. La famiglia di mio padre, Ferrara/LoBuono, viene invece da una città della parte occidentale dell’isola, Lercara Friddi. Quali notizie dall’Italia appassionano gli ascoltatori americani? E cosa pensano, se è possibile generalizzare, gli americani dell’Italia? Gli americani amano la maggior parte delle cose italiane. Tuttavia, detto francamente, vedono alcuni aspetti della vita politica italiana e del sistema giuridico, come una specie di “scherzo”. La costante ricomparsa di Silvio Burlesconi come Premier e il “fiasco giudiziario” del processo ad Amanda Knox, sono alcuni dei casi che contribuiscono alla costruzione di questa immagine negativa. Più in generale gli americani vedono l’Italia come un bellissimo paese storico, dove alcune cose vengono fatte molto bene e altre cose (come la politica) molto male. A COLLOQUIO CON Tu lavori da trent’anni con la televisione. Come è cambiata la professione di giornalista in tutti questi anni? L’industria dell’informazione sta vivendo le evoluzioni che stanno sperimentando anche altri ambiti. E’ un settore dove si sta cercando di fare sempre di più, ma con meno risorse. Nel business delle notizie, la redditività fino a tempi recenti raramente è stata una priorità. Potevi avere a disposizione tutto il necessario per raccontare una storia. Ora, è rimasta una certa attenzione alla linea di fondo, che in molti casi, in realtà, diventa la vera priorità. A causa delle preoccupazioni legate ai bilanci, storie che fino a pochi anni fa erano considerate degne di avere una copertura, non possono oggi ricevere la stessa attenzione. Tuttavia, la tipologia d’informazione dei canali “all news”, con notizie che coprono l’arco delle ventiquattro ore, ha fatto si che vi sia una sempre crescente domanda di contenuti. Questo ci porta a seguire molte storie che, alcuni anni fa, non avrebbero ricevuto alcuna copertura. L’esigenza oggi è quella di garantire il giusto equilibrio tra la necessità di riempire il tempo di messa in onda e il fatto di dover fare i conti con un budget limitato. Pensi che il panorama dei social media e del “citizen journalism” cambieranno ulteriormente il modo di lavorare degli operatori della tv? Quale ruolo per la televisione nei prossimi anni? Social media e “citizen journalists” hanno già avuto un enorme impatto sul business dell’informazione e per alcuni aspetti, è un fatto positivo. Il giornalismo rimane una professione seria, che richiede professionisti preparati a fornire informazioni accurate e tempestive. I giornalisti sono addestrati ad esercitare l’integrità e l’imparzialità di ogni storia che raccontano. C’è un percorso professionale per raggiungere queste caratteristiche che, temo, un cittadino “normale” non possiede. Inoltre, poiché la maggior parte dei “citizen journalists” offrono in genere il loro materiale gratis, le agenzie di stampa spesso li usano al posto dei pro- fessionisti pagati. Questo fenomeno ha già causato massicci licenziamenti, in particolare di fotoreporter. Tu hai coperto i principali eventi di cronaca che hanno sconvolto o cambiato gli Stati Uniti, cosa ti è rimasto di quelle esperienze? Parte della soddisfazione di questo lavoro consiste nella presa di coscienza di essere stati testimoni della storia. Ho avuto la fortuna di assistere ad alcuni degli eventi più significativi del nostro tempo. Essi hanno contribuito a fare di me quello che sono oggi. Certo, però, non siamo immuni alla tragedia. Rimangono anche delle cicatrici emotive perenni. Quali immagini ti hanno particolarmente colpito? La distruzione indescrivibile dell’11 settembre 2001 e gli effetti del passaggio dell’uragano Katrina, sono immagini che rimarranno con me per sempre. Io sono nato a New York e ho dovuto lavorare sodo per “allontanarmi” da ciò che stavo vedendo durante i servizi a ground zero. In quel momento non potevo permettere che le emozioni offuscassero la resa del mio lavoro. Ma, ora, solo dopo tanti anni, posso riflettere su ciò a cui ho effettivamente assistito. Tuttavia, mi porto dietro anche le immagini positive e toccanti, come il lancio e l’atterraggio dello Space Shuttle; inoltre, ho avuto il privilegio di assistere ad altri tipi di eventi di portata storica: la copertura della campagna elettorale del primo presidente nero degli Stati Uniti, Barack Obama . Nelle tue foto ci sono moltissime celebrità dello spettacolo. C’è qualcuno che avresti voluto conoscere o fotografare, ma che non hai ancora avuto modo di avvicinare? In effetti, parte del mio lavoro consiste anche nella copertura dei cosiddetti “eventi di celebrità”. Così, ho potuto intervistare la maggior parte degli attori più famosi a livello mondiale. Ma devo dire che questo tipo di servizio non è il mio preferito. Insomma, fin da giovane non sono mai stato uno “star gazer” e non lo diventerò certo oggi. Non sono impressionato dalla celebrità. All’opposto, trovo che il culto della celebrità sia uno dei grandi mali della nostra società. Tuttavia, fa parte del mio lavoro e continuo a impegnarmi al meglio delle mie capacità. Del resto penso sempre a quello che uno dei miei mentori, un fotografo Premio Pulitzer, (Ndr. Nat Fein, fotografo del New York Herald-Tribune vincitore del Pulitzer nel 1949) mi ha detto una volta: “non ci sono cattivi incarichi, solo cattivi fotografi”. primapagina27 A COLLOQUIO CON di Simonetta Cipriani “Il profumo delle bugie”: la storia grottesco-borghese di una potente famiglia del nostro tempo B runo Morchio, psicologo e psicoterapeuta genovese, è uno scrittore contemporaneo del genere noir che ha da tempo collaudato in numerose pubblicazioni le gesta del suo personaggio Bacci Pagano. Ma il suo nuovo romanzo, edito Garzanti, per la prima volta se ne discosta e descrive il contesto odierno, troppo lontano dal respiro di verità necessario alla ripresa dalla degenerazione che l’affligge. Esso è la fotografia nuda e cruda di una certa Italia di oggi. Lei racconta la storia 28Primapagina di una potente famiglia genovese. Come mai ha scelto di affrontare oggi le logiche connesse ai rapporti all’interno di questo particolare nucleo? Perché al di là dell’estro narrativo, a me premeva fare una riflessione sulla borghesia italiana, che a mio parere ha un po’ il difetto di chiamarsi fuori dalle responsabilità. Ancora oggi dopo quindici anni di paralisi dell’Italia dal punto di vista dell’investimento sull’innovazione, sulla tecnologia, sul futuro, la bor- Foto Cristian Ballarini ne parliamo con bruno morchio, in una rassegna di “incontri con l’autore” a san severino marche ghesia si presenta con facce e proposte di un candore assolutamente inattendibile. Allora mi premeva parlare di questa borghesia per quello che è e non per quello che A COLLOQUIO CON si rappresenta. E con questo fine ho narrato la vicenda di una famiglia alto borghese, che è una cosa un po’ insolita nei miei libri. Perché lo fa utilizzando lo strumento dell’ironia? La sua è un’ironia di tipo sociale, psicologico, filosofico o di entrambi? Filosofico non direi. E’ un’ironia di tipo sociale e in alcuni casi anche di tipo psicologico. Però ho utilizzato soprattutto la prima, perché ho l’impressione che una saga sulla borghesia italiana, oggi, non possa che essere trattata in tal modo; difficilmente si può pensare a risvolti tragici perché è una borghesia il cui codice appropriato, secondo me, non può che essere la comicità. E’ una comicità un po’ amara però... Molto amara nel senso che, poi, alla fine la scontiamo tutti: questo è il problema. Quindi i personaggi principali del suo racconto sono immersi nella nostra realtà? Ci spiega il perché descrivendoci sommariamente in quali tratti? E’ una storia calata in questa realtà che però racconta i vizi della borghesia italiana che vanno al di là di quello che abbiamo visto nell’ultimo anno e mezzo, cioè è una borghesia fondamentalmente irresponsabile. La spregiudicatezza di Edoardo, il capostipite, il vecchio, il nonno, unita all’ipocrisia delle generazioni successive costituiscono un buon mix per rappresentare una società che difficilmente sarà capace di riconoscere fino in fondo le proprie responsabilità riguardo ad una situazione come quella del degrado attuale. Noi abbiamo bisogno non tanto di invenzioni sul piano economico quanto della capacità del Paese di assumere la responsabilità morale e culturale di una ripresa che richiederà, secondo me, molti anni duri. Ma la bugia pervade davvero la nostra società, tanto da lasciarne il profumo? Direi di sì: il problema vero è che non è un buon profumo. Oggi la borghesia diventa sempre più povera, quanto differisce dalla dimensione che Lei racconta? Questo è un romanzo che racconta la storia di una famiglia alto borghese, di quelle che “più povere” non diventano affatto. Però ci sono anche personaggi come Dolores, che è figlia del proletariato, uno spirito della terra, o come Rosita, che è figlia della piccola borghesia, figlia di un carabiniere, che ha tutte le aspirazioni della borghesia ma non ha i mezzi per poterle realizzare. Quindi ci sono tutti. Quale denuncia e quale messaggio propositivo culturale ed umano vuole trasmettere al lettore? Nessun messaggio propositivo. Il romanzo è molto amaro: non si salva nessuno. Quindi è una presa d’atto del fatto che la situazione è veramente preoccupante. Anche se poi al pessimismo dell’intelligenza si accompagna l’ottimismo della volontà, per cui tutti finiamo per tirarci su le maniche e cerchiamo di fare qualcosa di buono per il Paese. primapagina29 A COLLOQUIO CON di Chiara Giacobelli Uno sguardo dentro la magia di un “Matrimonio perfetto” DONATELLA E ARIANNA PADUANO RACCONTANO IL MESTIERE DEL MOMENTO: QUELLO DEL WEDDING PLANNER L e note musicali si alzano nell’aria, le damigelle d’onore prendono posto accanto alla sposa, il profumo dei fiori inebria i sensi ed ecco che, proprio sul più bello, qualcosa va terribilmente, maledettamente storto! L’incubo di rovinare il giorno più importante della vita è qualcosa che tutti, prima o poi, sperimentano. D’altra parte, chi non vorrebbe che le proprie nozze fossero il coronamento di un sogno d’amore in grado di donare magia ad ogni singolo giorno? E allora sono sempre di più le coppie che si affidano a professionisti del settore, il cui obiettivo è unicamente quello di trasformare un semplice “Sì” in un attimo speciale, intenso, che durerà per sempre. Come nei film, come nelle favole. È esattamente il caso de “Il matrimonio perfetto”, un’agenzia con sede ad Ancona – ma ormai abituata a lavorare con clienti provenienti da tutto il mondo – che del proprio mestiere, quello cioè di creare, ap- 30Primapagina punto, matrimoni perfetti, ne ha fatto un’arte e una passione. E così uno staff di professionisti accoglierà calorosamente tutti quegli sposi che al proprio giorno indimenticabile ci tengono particolarmente. “La nostra attività nasce in origine come organizzazione di eventi, attraverso il marchio “Advanced Snc”, che esiste ormai da ventidue anni – spiega Donatella Paduano, una delle due titolari insieme ad Arianna Paduano – Dopo tanti anni di esperienza è stato quasi naturale cominciare ad occuparsi di matrimoni: in un certo senso essi rappresentano un evento, molto speciale. È nata così l’agenzia “Il matrimonio perfetto”, il cui staff si compone oggi di noi due titolari, la Wedding Planner Alessandra Sensini, Cristiana Bezzeccheri ed Elisa Caprari, più tutta una serie di collaboratori fidati che si occupano di allestimenti, fotografie, fiori ecc”. Negli ultimi anni la moda di affidare il proprio matrimonio a realtà pre- A COLLOQUIO CON parate, fino a farne quasi un evento cinematografico, televisivo, ha preso sempre più corpo in tutto il mondo; anche in Italia, dove migliaia di sposi ogni anno approdano dai paesi più disparati attratti dalle location da sogno che solo il Bel Paese può offrire. “L’aspetto più bello del nostro mestiere è il rapporto di stima, di fiducia e anche di affetto che si instaura con le persone: spesso esso sopravvive nel tempo, così che a distanza di anni può capitare di rivedere le stesse famiglie ormai cresciute, ora alle prese con Battesimi, Comunioni, Cresime e così via – continua Donatella Paduano, che del suo lavoro ne ha fatto un vero e proprio amore: una parte di sé – questo accade perché condividiamo insieme agli sposi, e ai loro genitori, tante emozioni per un periodo di tempo lungo. Solitamente lavoriamo dietro a un matrimonio 10-12 mesi, anche se c’è anche chi ci chiama due, tre anni prima perché tiene tantissimo alla propria festa e ha piacere di vederla crescere passo dopo passo. Alla fine diventiamo quasi un membro della famiglia e questo è bellissimo”. Ma al lato pratico, che cosa fa un’agenzia che si occupa di organizzare matrimoni? Ce lo spiega sempre Donatella: “Per prima cosa si sceglie la sede, che può essere un semplice ristorante, oppure una villa, un castello, un luogo speciale. Dopodiché si comincia a considerare tutto quello che andrà ad arricchire il matrimonio, in ogni dettaglio: il catering, la musica, gli allestimenti esterni ed interni, il fotografo, il video, le bomboniere e moltissimi altri aspetti. Nello specifico, una parte del nostro lavoro riguarda il coordinamento di fornitori esterni, un’altra invece è svolta internamente, attraverso un lavoro artigianale che tenta di essere il più possibile di qualità”. Ecco allora sbocciare come per magia centrotavola, bomboniere, gessi, fiocchi, lanterne, arredi e piccole bellezze fatte a mano. Insomma, quello del Wedding Planner è un mestiere originale ed emozionante, che consente a chi lo vive di entrare in punta di piedi nel mondo delle favole, per poi farle diventare realtà. È proprio per questo motivo che Donatella conclude il suo racconto con una confessione: “Prima o poi mi piacerebbe scrivere un libro su tutte le meravigliose esperienze fatte in questi anni”. Per saperne di più: www.ilmatrimonioperfetto.it primapagina31 A COLLOQUIO CON di Federica Grilli Quando va in scena il vino dall’incontro di due eccellenze del territorio nasce una proposta per la valorizzazione del verdicchio dei castelli di jesi doc “T eatri del Verdicchio” è la storia di un’idea, che da progetto di studio si concretizza in progetto d’impresa. Ne è protagonista Simonetta Sbarbati (jesina, classe 1981) che, messa in tasca una laurea in Scienze della Comunicazione con una tesi sul brand naming del Verdicchio dei Castelli di Jesi, inizia a fare qualche riflessione sulla strategia di marketing più efficace per vendere il prodotto oggetto del suo studio. Negli ultimi decenni molto, anzi, moltissimo è stato fatto per riabilitare il Verdicchio dei Castelli di Jesi, squalificato in passato da scelte produttive e commerciali poco lungimiranti. Eppure, nonostante la generale elevata qualità, un disci- plinare severissimo, le azzeccate campagne di brand naming e di comunicazione, i molteplici premi prestigiosi, nonostante infine l’ottimo rapporto qualitàprezzo, il Verdicchio di Jesi continua ad essere un vino di nicchia, cha fatica a decollare nello spazio aperto della concorrenza vinicola. Perché? Qual è il motivo di questo mancato successo? «Certamente un sistema produttivo molto frazionato può essere di ostacolo al consolidamento di una presenza forte dei vini marchigiani nel 32Primapagina A COLLOQUIO CON mercato globale» dice la Sbarbati. «Eppure, dalle interviste realizzate con i 14 produttori di Verdicchio dei Castelli di Jesi ho potuto riscontrare in tutti, grandi e piccoli, una forte volontà di raccontare se stessi, il proprio prodotto e la storia della propria azienda.» Ma le occasioni di promozione, di “raccontarsi” - come dice Simonetta - sono ridotte: Vinitaly, la più grande vetrina italiana sul comparto vinicolo, e un paio di altre fiere nel settore. I produttori maggiori possono permettersi strategie di comunicazione pubblicitaria di livello internazionale e spazi pubblicitari di maggior visibilità, ma anche questo non è sufficiente. «Bisogna invertire la tendenza» propone Simonetta: «È poco produttivo proporsi all’estero in realtà frammentarie e perciò irriconoscibili. Meglio allora investire nell’ incoming, far venire persone nelle Marche, cosicché possano valutare il vino, ma anche conoscere la storia e la qualità che sono dietro il Verdicchio. Abbiamo un enorme patrimonio da far conoscere, invitiamo quelli che sono fuori a fare esperienza delle Marche.» Ecco allora che comincia a farsi strada l’idea: perché non creare un’identità associata di tutti i pro- duttori di Verdicchio dei Castelli di Jesi, uno strumento comune per la diffusione e comunicazione del prodotto, magari uno strumento che parli linguaggi diversi da quelli già sperimentati? E in fondo le parole “fare squadra”, “sinergia”, “creazione di rete” sono diventate non soltanto di moda, ma tanto più necessarie adesso, ora che la crisi economica morde e obbliga a escogitare nuovi schemi mentali e proposte inedite. Simonetta Sbarbati, insieme con suo padre Silvano, decide allora di registrare il marchio “Teatri del Verdicchio”, che intende così racchiudere due eccellenze del territorio: da una parte il teatro (e le Marche sono per definizione la “regione dei Cento Teatri”) e dall’altra il Verdicchio, considerato come ambasciatore delle Marche nel mondo. L’associazione d’idee crea scenari suggestivi: le cantine non sono semplici spazi di imprenditorialità, ma diventano luoghi parlanti, dei palcoscenici in cui “mettere in scena” il fare vino. Perché il vino, come recita una scritta sul retro del biglietto da visita, “è come la ruota: non esiste in natura”: dietro il vino ci sono persone, c’è una tradizione, che hanno impresso una precisa identità. Tra le attività promosse da Teatri del Verdicchio da segnalare l’iniziativa “ariabòna”, svoltasi per la prima edizione l’anno scorso a Monte Roberto (An). Cinque serate di eventi di diverso genere, ma accomunati dalla provenienza a km 0, in cui si sono innestati momenti di degustazione e presentazione di cantine. Cosa vedono nel futuro i creatori di “Teatri del Verdicchio”? «Nell’immediato senz’altro la riproposta di Ariabona, visto il successo passato, ma gli spazi per lavorare sono tanti: dal creare pacchetti turistici ad hoc per il Verdicchio a progetti educativi per parlare di vino nelle scuole.» primapagina33 A COLLOQUIO CON di Agnese Testadiferro Lo scultore Massimo Ippoliti e la cultura della storia L a scultura, come ogni forma d’arte, è specchio e figlia dell’artista. Viene generata e plasmata con le proprie mani fino a quando non risulta perfetta. Inizialmente il materiale è grezzo e solo un occhio creativo può vedere la potenziale bellezza. Massimo Ippoliti è uno scultore e restauratore marchigiano, jesino d’adozione, fiero delle sue origini e per questa ragione stimato e apprezzato nel territorio per le sue creazioni e per l’amore con cui cura i monumenti corrosi dal tempo. Il suo laboratorio è come un’opera d’arte. Regnerebbe il caos al primo impatto. Regna invece un ordine artistico, una geometria di materiali, scalpelli, gessi, disegni, libri, poster, colori, pennelli, fotografie color senape, in bianco e nero e a colori. In poche parole, la 34Primapagina sua vita. Quando parla del suo lavoro gli occhi azzurri si illuminano ed emerge la passione per ciò che fa, mentre spiega ogni sua opera, della quale rimane impressa l’estetica e il valore che rappresenta. Immerso nel verde e ad un’altezza collinare tale da poter scrutare il paesaggio sottostante che nasconde laghi e resti di città ormai lontane nella storia, a Montegranale di Jesi, emergono i bozzetti di ciò che è esposto all’Arma Caserma Puccini di Ancona, al Teatro Pergolesi, alla Guardia di Finanza, alla Fondazione Francesco Darini, alle Chiese di San Sebastiano e di San Giuseppe di Jesi, allo Stato Maggiore dell’Esercito di Roma, a Ortona, Mosca, Detroit e New York. La sua firma in terra jesina è semplice da trovare, nel restauro della Fontana dei Leoni, nel monumento ai Martiri XX Giugno e in quello bronzeo dedicato a Federico II di Svevia realizzato su progetto di B. Robazza e H. Schwahn che dal 1995 dà il benvenuto da una delle porte della città. Oltreoceano, a Detroit e a New York, due statue gemelle sul Santo della Repubblica di San Marino dedicate ai primi sanmari- nesi emigrati. Recentemente ha riportato alla luce utensili e corredi della vita picena. che fa rinascere dalla sua maestria, come il Rasoio. È autore della statua a dimensioni naturali dell’artista poliedrico ed eclettico che incantò l’Europa negli anni Trenta, Alberto Spadolini, in arte Spadò. Nei suoi progetti la realizzazione dell’Affondo, opera dedicata alla scherma che porta il nome di Jesi alto nel mondo. Affezionato all’Arma, ha realizzato immagini votive per le Caserme di Montelupone e di Jesi, ma anche un monumento di candidi blocchi di calcare bianco dedicato al giovane ed eroico carabiniere Salvo D’Acquisto. Professore di discipline plastiche, nonché scultore e restauratore di opere in gesso, marmo e terracotta. Da cosa ha inizio la sua passione? Da uno scalpello di legno che all’età di dodici anni decisi di acquistare con i primi risparmi. Scolpivo con dedizione e concentrazione i pezzi di legno che riuscivo a procurarmi. Conseguenza fu la decisione di iscrivermi a una scuola artistica. Una grande soddisfazione quando a A COLLOQUIO CON vent’anni ho presentato la mia prima mostra al Palazzo dei Convegni di Jesi. Quali sono state le tappe fondamentali della sua formazione artistica? Sono diplomato all’Istituto d’Arte di Ancona in formatura stucchi e fonderia artistica, e in scultura all’Accademia delle Belle Arti di Macerata dove ho discusso, nel 1983, una tesi sulle architetture rurali nella Vallesina. Dopo l’Accademia sono entrato in contatto con il dietro le quinte dei teatri dove ho lavorato in qualità di macchinista al Teatro Pergolesi di Jesi e al Teatro Rossini di Pesaro. La passione per l’archeologia nasce invece grazie all’esperienza maturata all’Anfiteatro romano di Ancona. Ho avuto la fortuna di lavorare a fianco dello scultore Valeriano Trubbiani. Quando si lavora tra artisti è inevitabile coinvolgersi l’uno con l’altro, si è curiosi di capire il perché e il come l’altro ragioni in un determinato modo. La curiosità, ma anche la conoscenza profonda del proprio mestiere, sono essenziali. Ogni opera da realizzare o restauro da effettuare sono per me nuove avventure dalle quali apprendo continuamente: nonostante abbia in mente il lavoro che andrò a compiere, l’incontro quotidiano con l’opera mi sorprende sempre e in base a questo l’approccio può cambiare di volta in volta. Quando sono professore coinvolgo molto i miei ragazzi affinché si sentano partecipi del territorio. Nel 2012, grazie al loro impegno, è stata donata una scultura alla Compagnia dei Carabinieri di Jesi. La conoscenza della storia, ma anche del passato più recente, che valore hanno? Il passato è grande maestro. Ci sono cose accantonate ma favolose. Conoscere il territorio è altrettanto importante. Niente è anomalo, ma ogni zona ha la sua particolarità che racconta una storia. Si trovano detriti in posti apparentemente senza connessione con essi, ma dall’osservazione del terreno si vedono i segni di un fiume che vi scorreva. Fare lo sculture significa modellare e scolpire dopo un lavoro di ricerca e di studio approfonditi. Essere padrone della materia che si lavora ne fa apprezzare le qualità. Sapere come e per cosa veniva utilizzata dai nostri antenati valorizza ogni fase di realizzazione e l’opera finale. Ipotizziamo due sculture identiche ma di diverso autore. Possibile trovare almeno una differenza? Due sculture non possono essere uguali, ma verosimili. Dalla manualità intuisci le differenze. Il tocco dell’artista non è mai uguale a quello di un altro. L’energia interiore che ne scaturisce osservandolo, cambia. Il modo di dare forma a un volto o a un oggetto rispecchia la propria personalità, la capacità di immedesimarsi in quel che si realizza, il proprio bagaglio interiore che è frutto di esperienze, sbagli, successi, sensibilità e istinto. primapagina35 A COLLOQUIO CON di Paolo Termentini Il trionfo della pictofoto, parola di Fabrizio Carotti L a pelle ocra affiora dall’oscurità più nera. I corpi vibrano contratti tra fede e ragione per salvarsi da quell’oscurità opprimente. È il conflitto dell’uomo con sé stesso il centro di gravità delle opere dell’artista jesino Fabrizio Carotti. Sono opere di una contemporaneità senza tempo. Nascono da un uso sapiente dei moderni mezzi dell’era digitale per affrontare temi universali. Orbitano attorno a paradigmi concettuali atavici, ripropongono interrogativi mai risolti. Alla base del procedimento creativo c’è la fotografia, perché le figure vengono dapprima scritte con la luce, catturate dall’obiettivo all’interno di set studiati ad hoc. Un lavoro preparatorio equiparabile a un bozzetto. I soggetti vengono poi ri- 36Primapagina dipinti con un pennello virtuale, ovvero attraverso un meticoloso lavoro di postproduzione al computer. Quel che ne risulta è un prodotto ibrido, tecnicamente definibile pictofoto, neologismo sdoganato dal critico Gianluca Marziani, che ha già avuto modo di analizzare l’arte di Carotti curandone un’esposizione personale al museo Carandente di Spoleto nel 2011. Dal 20 marzo al 7 aprile di quest’anno i lavori di Carotti sono stati ospitati dalle stanze nobili della Pinacoteca Civica di Palazzo Pianetti a Jesi, raccolti nella mostra «Notte oscura dell’anima». Un evento organizzato per celebrare l’acquisizione di due suoi quadri da parte del polo museale, resa possibile grazie ai fondi del Premio Rosa Papa Tamburi, voluto anni fa dal maestro Orfeo Tamburi per arricchire la galleria di arte contemporanea. Oltre ai pezzi entrati nella collezione permanente jesina, uno dei quali già esposto nel 2011 al Padiglione Italia della 54ª Biennale di Venezia, sono state presentate altre sette nuove creazioni ispirate ai testi del mistico Juan de la Cruz (1542-1591), in particolare alla poesia che ha dato il titolo alla personale. Il tuo percorso artistico è iniziato ufficialmente nel 2008 con le prime partecipazioni a fiere ed esposizioni in tutta Italia. Dopo cinque anni sei tornato nella tua città con una mostra personale. Si chiude il cerchio? «Il riconoscimento da parte dell’amministrazione e il calore ricevuto dai miei concittadini sono stati motivo di grande gratificazione. In più, entrare a far parte di una collezione museale permanente è un traguardo che non mi sarei aspettato così presto, e per questo ringrazio l’ex assessore alla cultura di Jesi Leonardo Lasca per aver avanzato la mia candidatura». Questo progetto procede nel segno della continuità stilistica rispetto alle tue esposizioni recenti. Ancora una volta è il nero a dominare. Che senso ha per te questo colore? «Per me il nero è soprattutto ricerca di senso. Esigenza di trovare, ma soprattutto di cercare. Devo dire che una certa “cupezza” in questa serie è in parte dovuta alla mia passione per Dostoevskij, alla sua sensibilità nell’indagare le zone nascoste dell’anima umana, e in questo ha anticipato le teorie di Freud. Sono stato affascinato dalla sua rappresentazione del buono, che di tanto in tanto emerge come oro dal pozzo oscuro e corrotto dell’umanità.» Entriamo nello specifico di quest’ultima serie. Su quali temi hai fatto leva? «Senza pretendere di poter dare punti fermi riguardo a tematiche come la fede e la pietà, in questa ultima serie ho incontrato le poesie del mistico Giovanni Della Croce. In particolar modo mi interessava indagare il rapporto esistenziale tra l’uomo e le sue aspirazioni. Nella sua poesia Della Croce indaga A COLLOQUIO CON l’illusione dell’appagamento del desiderio rivolto al corpo e il suo superamento attraverso la “notte oscura dell’anima”, che è appunto il percorso dell’uomo attraverso gli inganni e le illusioni dovuti ai limiti della sua mente. Nella mia ispirazione al testo ho tentato di rappresentare i vicoli ciechi di questo percorso, immaginandomi un incontro d’amore tra l’uomo e Dio, o meglio, tra l’uomo e la filosofia cristiana, che, al di là del suo fondamento religioso, a mio avviso potrebbe funzionare anche come soluzione laica, seppure ostica, al vuoto di senso che ci attanaglia». Il tuo istinto creativo è evidentemente mediato da istanze metafisiche. Che rapporto c’è tra la tua tecnica espressiva e la tua formazione culturale? «Ho una formazione di tipo umanistico e la mia conoscenza delle tecniche fotografiche è da autodidatta. Mi sono laureato in Filosofia, indirizzo estetico, un percorso che ha contribuito sin da subito a farmi avere un approccio critico nei confronti dei contenuti che andavo a esprimere. Infatti, nonostante i miei lavori scaturiscano esclusivamente da una mia libera esigenza espressiva, mi capita spesso di reinterpretare la mia espressione tramite filtri critici filosofici. Spesso l’esigenza creativa nasce dalla lettura dei grandi classici della letteratura europea.» Che ne pensi dello stato dell’arte contemporanea in Italia? «La mia ricerca è svincolata dal percorso delle arti contemporanee. Nonostante l’utilizzo del computer, non sono orientato verso la forma del fare, mi interessa piuttosto riflettere sul perché, cioè sui contenuti. La mia indagine poggia su interrogativi antichissimi, talmente antichi da essere contemporanei. Con la coscienza critica di chi non vuole costruire paradigmi di lettura, ma offrire spunti costruttivi che muovano dal dubbio. Infatti, nonostante costruisca le composizioni a partire da schizzi scaturiti dalla mia immaginazione, mi capita di lasciare spazi di senso aperti all’interpretazione del fruitore. Penso che la smania delle avanguardie artistiche contemporanee nel ricercare nuovi linguaggi sia arrivata a una saturazione tale da bloccare la comunicazione tra artista e pubblico, rischiando di essere troppo autoreferenziale». Progetti per il futuro? «Ho presentato questi ultimi lavori a Venezia in occasione di Photissima, fiera di fotografia contemporanea organizzata in concomitanza della Biennale. Nel frattempo sto lavorando a un progetto per concludere la serie dei “Neri”, ma preferisco non anticipare niente perché è ancora in fase di gestazione». primapagina37 costume E ATTUALItà di Giorgio Filosa e Leonardo Bugatti Polo oncologico-chirurgico la realtà della dermatologia a Jesi L a Dermatologia è la scienza che studia le malattie cutanee. Fino a non molti anni fa i dermatologi erano visti come quei medici, capaci di risolvere con una crema tutti i problemi legati a prurito, macchie e rilevanze della pelle. L’affinamento delle tecniche diagnostiche e terapeutiche e le maggiori conoscenze in campo epidemiologico, genetico, hanno modificato l’approccio verso le patologie cutanee, portando in primo piano l’importanza di un organo che non è solo organo di confine con il mondo esterno, catalizzando su di sé tutti i problemi legati all’inquinamento, ma è anche un organo spia di patologie interne. La maggior longevità della popolazione, l’aumento del fotodanneggiamento, hanno nettamente aumentato l’incidenza delle neoplasie legate all’azione di raggi ultravioletti, con un aumento continuo dei tumori cutanei superiori addirittura a quelli degli organi interni. In riferimento a quanto asserito, la Dermatologia oncologica, in questi ultimi anni, ha acquisito sempre maggiore importanza nell’ambito della pratica clinica del dermatologo. Infatti nel 1985 nasce ufficialmente la Dermatologia Chirurgica 38Primapagina Oncologica, che sancisce l’appartenenza al dermatologo della terapia chirurgica delle lesioni tumorali dermatologiche: la Dermochirurgia oncologica viene considerata come il presidio terapeutico più efficace nelle lesioni tumorali primarie. Quali sono le neoplasie cutanee più frequenti e quali armi abbiamo prima nel prevenirle e poi nel combatterle? Le neoplasie cutanee non melanomatose, cioè il carcinoma basocellulare e squamocellulare sono quelle più frequenti, secondarie solo al carcinoma della mammella e della prostata, circa 1.300.000 casi all’anno in America. Sebbene tali tumori abbiano un bassissimo rischio di mortalità, il loro impatto sulla qualità della vita è molto importante. La loro incidenza sta aumentando a livello esponenziale, così come stanno aumentando i casi di melanoma, che per fortuna sono ben lontani dalle percentuali dei tumori descritti sopra. Il carcinoma basocellulare è quattro volte più frequente del carcinoma squamocellulare e di circa 20 volte il melanoma. Una menzione particolare va alle cheratosi attiniche, veri stadi pretumorali legati all’esposizione solare e all’invecchiamento cutaneo, della cui esistenza molti pazienti non sono consapevoli, scambiandole per verruche. Tra i fattori di rischio da prendere in considerazione dobbiamo annoverare il fototipo chiaro, l’esposizione alle radiazioni ultraviolette naturali e artificiali, le radiazioni ionizzanti, l’immunosoppressione, i fattori genetici, le patologie cutanee preesistenti come ulcere croniche cutanee ecc… Sembra ovvio che la riduzione all’esposizione delle radiazioni ultraviolette e l’adozione di presidi, come le creme ad alto fattore protettivo, siano le prime misure da adottare per prevenire l’insorgenza dei tumori cutanei. La revisione dei dati della letteratura conferma la chirurgia come terapia di prima scelta per la rimozione dei carcinomi della pelle. Tuttavia in alcune occasioni si preferisce ricorrere ad altre terapie, meno demolitive ma altrettanto efficaci. Quali? Va distinto il trattamento delle cheratosi attiniche da quello dei carcinomi cutanei. Per le prime si possono distinguere trattamenti che hanno come obiettivo la sola lesione e quelli mirati non solo alla lesione ma al campo di cancerizzazione, cioè alla cute circostante la costume E ATTUALItà lesione che in maniera non visibile può già contenere cellule mutate e quindi predisposte alla progressione tumorale. Nella prima tipologia di trattamento rientrano le procedure prevalentemente distruttive inquadrabili nella terapia cosiddetta fisica: criochirurgia, curettage, elettrocoagulazione, laserterapia con laser ablativi. Nella seconda tipologia di trattamento ricorriamo a farmaci applicati localmente come: l’acido retinoico, il 5-fluorouracile al 5%, il diclofenac/HA, l’imiquimod 5% e l’ingenolo mebutato di prossima commercializzazione. Di particolare impiego è la terapia fotodinamica che consiste nel trattare localmente in occlusione una superficie con un farmaco con elevata selettività per le cellule neoplastiche e nella sua successiva fotoattivazione con una sorgente luminosa a luce rossa. Questo trattamento è particolarmente efficace in pazienti con un fotodanneggiamento spiccato e presenta il vantaggio della tollerabilità e l’assenza di esiti cicatriziali. Altrettanto utile è la prevenzione sotto forma di norme di fotoprotezione tramite adeguati criteri di fotoesposizione e l’adozione di schermi solari, nonché l’utilizzo topico della fotoliasi. L’approccio terapeutico dei carcinomi basocellulari e squamocellulari dipende da numerosi fattori, quali: dimensione, sede, e tipo di tumore, età e condizioni generali del paziente. Gli obiettivi sono: la radicalità oncologica, il risultato estetico-funzionale accettabile, il minimo disagio per il paziente e il contenimento dei costi. L’escissione chirurgica rappresenta il trattamento elettivo, ed è quello in effetti utilizzato in oltre il 90% dei casi, in quanto permette il controllo della radicalità istologica e quindi dà migliori garanzie per impedire la recidiva locale. All’asportazione chirurgica è strettamente collegata la ricostruzione plastica. Terapie chirurgiche alternative di secondo livello sono: il curettage e l’elettrocoagulazione, la criochirurgia, il laser CO2. Tecniche alternative non chirurgiche sono: l’imiquimod to- pico, la terapia fotodinamica (solo per forme superficiali), la radioterapia. A scopo palliativo e/o citoriduttivo sono utilizzabili l’elettrochemioterapia e di prossimo impiego (solo per il carcinoma basocellulare) il vismodegib per via orale. Rimane comunque fondamentale l’inserimento del paziente oncologico cutaneo in uno stretto programma di controlli longitudinali per cogliere sul nascere le recidive e/o l’insorgenza di precancerosi e nuove neoplasie. L’Unità Operativa di Dermatologia di Jesi, inserita come branca chirurgica nell’organigramma delle Specialità dell’AV 2 dell’ASUR Marche, è dotata delle caratteristiche di prevenzione e trattamento e svolge da anni tale opera nel territorio della Vallesina. primapagina39 costume E ATTUALItà di Laura Marinelli Imprenditori e manager, tutti a lezione di Facebook G estione delle relazioni con i clienti ed i potenziali, il marketing la promozione, l’informazione, l’ascolto delle esigenze degli utenti sono alcune delle potenzialità dell’uso di Facebook nei contesti di business. E’ per questo che molti imprenditori e manager frequentano corsi su questi argomenti. Ne parliamo con Daniel Casarin, blogger e docente dei corsi che organizza con Pressform, e con un imprenditore, Lorenzo Manservigi, che li frequenta. Casarin, perchè corsi su Facebook? Ad ottobre 2012 Facebook aveva un miliardo di utenti attivi al mese ed oggi ha 23 milioni di iscritti in Italia, cioè uno ogni tre italiani. Il social network ideato da Mark Zuckeberg è oggi la vera “second life”, il prolungamento della propria vita reale attraverso il mondo digitale. Facebook ha cambiato il modo in cui le persone usano la rete, così come molti altri social network, quali YouTube o Twitter. Il pay-off sulla home-page dice “Facebook ti aiuta a connetterti e rimanere in contatto con le persone della tua vita” ed è proprio così. Non solo, Facebook è gratis e lo sarà sempre. Una peculiarità molto importante in quello che possiamo chiamare “social web” e alle persone piace, da qui i grandi numeri. Cosa significa Facebook Marketing e quale uso può farne un’azienda? Facebook marketing significa scoprire nuovi canali di comunicazione con i propri clienti e acquisirne di nuovi. Attenzione, per ottenere risultati interessanti, non si tratta 40Primapagina solo di aprire una semplice pagina Facebook, che è una necessità per qualsiasi azienda, dalla piccola alla grande. Sempre più concorrenti usano Facebook per raggiungere vecchi e soprattutto nuovi clienti. Molte di queste aziende sono già nella seconda era di Facebook marketing, quando vuoi i risultati dall’uso dei social media. Possiamo monitorare costantemente il ritorno d’investimento nelle attività di comunicazione online e il social web apre un mondo di nuove possibilità per le aziende. Aumentare il supporto al cliente, migliorare l’assistenza prima e dopo l’acquisto e sicuramente aumentare il proprio parco clienti, queste sono solo alcune delle potenzialità offerte dai social network e in particolare da Facebook. Dal B2B al B2C, Facebook è un’opportunità per tutti. Non è in discussione il se farlo, ma il come. Cosa chiedono i partecipanti? Le richieste vanno divise in due tipologie: strategia e contenuti e a seguire i risultati. Su strategia e contenuti, la semplicità d’uso del social network è chiara a tutti. Basta un minimo impegno e si scoprono rapidamente numerose funzionalità della piattaforma. Per questo durante i corsi illustriamo le funzionalità del social network e come creare una strategia efficace, un calendario giornaliero delle attività, aggregare e pubblicare al meglio contenuti quotidianamente attivando e ingaggiando fan. Sui risultati, sono tutti interessati alla quantità di fan e alla qualità in termini di business e fatturato. Per le aziende Facebook è un nuovo canale di comunicazione e proprio per questo richiede quotidianamente risorse e tempo, elementi che qualsiasi azienda ha sempre meno. Capire come organizzare il proprio lavoro di gestione quotidiana, automatizzare alcuni flussi, sono elementi affrontati costantemente durante i corsi, adattando la propria attività di marketing relazionale alle altre attività giornaliere dell’azienda. Inoltre Facebook evolve continuamente nell’estetica e nelle funzionalità, perciò i partecipanti chiedono aggiornamenti sull’uso, vogliono diventare sempre più abili per avere successo. Quali sono i vantaggi per gli imprenditori che si iscrivono? Imparano a conoscere dove i propri clienti attuali e potenziali “vivono” la propria giornata. Significa aumentare i propri “punti di contatto” e soprattutto fidelizzarli. Facebook è un canale importante per la fidelizzazione, grazie alla comunità di fan, in grado di generare nuovo passaparola, potenziale business per l’azienda. Aiutiamo gli imprenditori a creare la strategia più efficace per conseguire i propri obiettivi di business, mettendoli in grado di operare subito. Nei corsi trattiamo continuamente i casi aziendali seguiti sul campo, dalle realtà piccole fino ai brand leader mondiali. I corsi sono progettati per tutti, da chi non sa proprio nulla a chi è già su un uso avanzato. Lorenzo Manservigi, imprenditore, perché si è iscritto al corso? Il gruppo Manservigi si occupa da oltre 40 anni di grafica pubblicitaria, fotografia industriale, stampa offset/digitale e quindi i nuovi sistemi di comunicazione digitali, rappresentano una necessaria integrazione ai servizi già offerti. Il nostro Gruppo già da anni propone e sviluppa siti internet per i propri clienti e riteniamo che la comunicazione tramite il sito debba essere ormai integrata e supportata dai social media, nuova frontiera della comunicazione, che permette ai nostri clienti di farsi notare su scala mondiale con investimenti decisamente abbordabili. Cosa ha ottenuto e cosa sta applicando? Gli obiettivi che mi ero dato sono stati raggiunti e sto iniziando a proporre le soluzioni ai miei clienti. costume E ATTUALItà di Marina Argalìa (*) A scuola di valori per essere cittadini più responsabili L’ educazione alla cultura finanziaria ha una valenza formativa importante in quanto tesa a stimolare nei giovani l’interesse per le tematiche dell’economia e della finanza, sviluppando quelle competenze trasversali che gli consentiranno di essere futuri cittadini responsabilmente attivi. A tal fine Banca Marche, nell’ambito del Protocollo d’Intesa sull’Educazione Finanziaria per le Marche, ha messo a disposizione delle scuole di ogni ordine e grado della regione, il progetto “Economi@ scuola” promosso dal Consorzio PattiChiari, che prevede l’uso dei percorsi didattici “L’impronta economica” ed una serie di iniziative rivolte agli insegnanti, propedeutiche al coinvolgimento degli studenti in classe. I materiali didattici di PattiChiari, redatti in collaborazione con il MIUR, vengono erogati gratuitamente grazie al supporto degli esperti di Banca Marche. Tra questi, il modulo “L’impronta Economica TEENS”, rivolto ai ragazzi delle scuole superiori di II grado italiane che, nell’anno scolastico 2012-2013, ha coinvolto in tutta Italia circa 14.000 studenti in 35 province, ha l’obiettivo di fornire le conoscenze di base sui servizi bancari, il sovraindebitamento, l’accesso al credito e il Business Plan. Su quest’ultimo argomento è La classe IV B Geometri dell’ITCG Umberto I di Ascoli Piceno con la coppa Banca Marche imperniato il concorso “Sviluppa la tua idea imprenditoriale”, che prevede la creazione di un progetto di impresa socialmente utile e radicata sul territorio. Nel maggio scorso, Banca Marche ha premiato a Jesi la classe vincitrice per le Marche: la IV B geometri dell’ITCG UMBERTO I di Ascoli Piceno con l’idea imprenditoriale “Le strade del vino” guidata da Valeria Carpani. Sostanzialmente si tratta di una cooperativa per la promozione dello sviluppo rurale e del territorio, che favorisce l’Eno-Turismo, quale La classe IV B Geometri dell’ITCG Umberto I di Ascoli Piceno sul palco di Palazzo Altieri movimento inteso a valorizzare la produzione vitivinicola regionale nell’ambito di un contesto culturale, ambientale, storico e sociale. “Bere bene e con consapevolezza” è il motto della classe che vince un viaggio a Roma di 3 giorni per partecipare alla selezione nazionale del concorso, dove, il 4 ottobre a Palazzo Altieri, alla presenza di una prestigiosa giuria, questi ragazzi si sono aggiudicati il premio per la miglior presentazione dell’edizione 2012-2013. Ma nel frattempo, un nuovo anno scolastico all’insegna dell’educazione finanziaria è già iniziato, con l’incontro di formazione “A scuola di valori: cittadinanza ed economia” che, presso i locali della Regione Marche, ha coinvolto insegnati e Dirigenti Scolastici delle Marche per valorizzare anche l’impegno delle Istituzioni su questi temi. Banca Marche crede nell’educazione finanziaria perchè il progresso di un paese si misura anche dal livello di conoscenza dei temi dell’economia e della finanza. (*) Servizio Marketing primapagina41 costume E ATTUALItà di Marina Argalìa (*) Banca Marche e High School Game per imparare divertendosi L a crisi economica ha evidenziato, in modo ancor più netto, il gap culturale degli italiani sulle tematiche economico-finanziarie. Il livello di diffusione dell’educazione finanziaria nella popolazione italiana infatti, corrisponde circa alla metà di quello registrato negli altri paesi europei con un indice di cultura finanziaria pari a 4,3 su una scala da 0 a 10 (fonte Consorzio PattiChiari, Rielaborazione Ambrosetti). Per contro l’educazione finanziaria è ormai parte dell’educazione civica del cittadino ed è sempre più uno strumento di benessere per l’individuo e per l’intera collettività. Da anni BancaMarche “sostiene la crescita della cultura finanziaria dei giovani nella convinzione che un cittadino meglio informato è più consapevole e soddisfatto delle sue scelte finanziarie e quindi più libero”. Tra le altre iniziative di Responsabilità Sociale d’Impresa, dirette a rafforzare tra i giovani la conoscenza di queste tematiche, è nata “High School Game”: il gioco a quiz ad eliminatoria diretta, simile ai noti format TV, che ha coinvolto gli studenti delle classi V delle Scuole Secondarie Superiori di 2° grado di tutte le Marche. Il gioco consiste nel rispondere esattamente ad una serie di domande che appaiono sul megaschermo gestite da un moderatore esperto come DJ Alvin. I quiz prevedono la multirisposta (5 scelte). Le classi in gara usano una pulsantiera wireless per rispondere a quesiti di cultura generale, educazione finanziaria, relativi al programma di studi e curiosità varie. Ogni classe aderente sceglie un rappresentante che si prepara sui temi indicati e che viene supportato nelle risposte dalla propria squadra. Durante le singole gare, un collega BancaMarche della Zona Territoriale di riferimento della scuola, interviene per ricordare ai ragazzi i concetti di base di educazione finanziaria attinenti alle domande previste. Nel 2013 la classe VC del Liceo Classico Vittorio Emanuele II di Jesi ha vinto la selezione regionale della seconda edizione di “High School Game”: 42Primapagina La classe vincitrice con i tutor didattici i ragazzi del team, guidati dal professor Federico Lecchi, si sono guadagnati il trofeo di Banca Marche, main sponsor dell’iniziativa, svariati gadget e altri importanti premi. Si sono qualificati rispettivamente al 2° e 3° posto, la VC del Liceo Classico Carlo Rinaldini di Ancona e la VA dell’Istituto Matteo Ricci di Macerata. Le 56 classi partecipanti alla selezione regionale si sono misurate, in più turni, su domande di cultura generale, del loro programma di studi, di educazione finanziaria e anche d’inglese in un connubio vincente tra apprendimento e divertimento. L’iniziativa ha riscosso, un grande successo presso le scuole e sta assumendo ormai dimensioni nazionali. Per BancaMarche questa iniziativa è una grande occasione di Responsabilità Sociale d’Impresa. “Quello che ci ha colpito - ha detto Fabio Gentilucci, Responsabile del Servizio Marketing di Banca Marche - è stata la grande partecipazione dei ragazzi, il loro coinvolgimento autentico e il reale bisogno di eventi che possano sostenere tra i giovani una customer experience di valore. “High School Game” ha questo potenziale: permette ai giovani di confrontarsi, raccontarsi, emozionarsi e imparare divertendosi”. BancaMarche aMa i giovani e vuole sostenere concretamente la crescita della cultura finanziaria della società e contribuire allo sviluppo sostenibile del proprio territorio! (*) Servizio Marketing ATTUALItà e cultura di Stefano Gottin Il “Lamento di Federico” esalta la stagione a Jesi O rmai i migliori spettacoli lirici vengono prodotti in occasione del ripescaggio di opere cosiddette “rare”, mentre riserve più o meno ampie si possono fare sulla riuscita delle opere di “repertorio”, ma questa considerazione vale, beninteso, per la parte vocale e musicale degli spettacoli. Infatti, per la parte scenico-registica le cose vanno diversamente poiché i registi - padroni assoluti della lirica del nostro tempo – rivolgono equanime attenzione ai titoli dell’una e dell’altra categoria. Ovviamente non si può generalizzare, ma questa situazione, che si riassume nella formula “teatro di regia”, ha finito “educare” un pubblico che guarda e non ascolta, sicché, al cospetto di un cantante o di un direttore, esso non è più in grado di distinguere il grano dal loglio, anche se poi è l’istinto che porta a dosare gli applausi commisurandoli ai (non sempre eccelsi) meriti. Così è stato per le stagioni estive dei tre principali poli musicali marchigiani, Macerata, Pesaro e Jesi, di cui commenteremo un titolo ciascuno in scrupoloso ordine cronologico, a iniziare da Il Trovatore di Verdi, messo in scena dal Macerata Opera Festival 2013 con regia di Francisco Negrin, scene e costumi di Louis Desiré, disegno luci di Bruno Poet e direzione affidata a Paolo Arrivabeni alla guida dell’Orchestra Filarmonica Marchigiana e il Coro Lirico Marchigiano “V. Bellini”. Allestimento originale, innovativo e senza ridondanze scenografiche, due tavoloni lunghi e stretti dietro la buca dell’orchestra e, sul retro, la torre dove “di stato gemono i prigionieri”, suggestivi giochi di luci con l’incendio che divampa lungo il perimetro dei tavoli al momento del tragico epilogo; costumi tradizionali e un’aura fosca e tenebrosa, come suggerisce la truce e farraginosa vicenda. La direzione del maestro Arrivabeni è stata un po’ a corrente alternata, soprattutto per i tempi osservati, con una dispersione della carica emotiva non nuova nei teatri all’aperto, anche se questo fino a una ventina d’anni fa non accadeva (in proposito, per meno di 10 euro, mia moglie ha reperito al supermercato un’Aida e un Nabucco registrati – pure bene - all’Arena di Verona sotto l’eccelsa direzione di due grandi direttori “di tradizione” quali Anton Guadagno e Nello Santi: tutta un’altra roba…). La compagnia di canto prevedeva Aquiles Machado quale Manrico, voce di bellissima qualità ma traballante nelle note tenute e in zona acuta, il che per Manrico non è il massimo. Comunque, la voce di centro del tenore sudamericano si espandeva bellissima come raramente accade e non si perdeva una sola parola del suo canto. Il baritono veronese Simone Piazzola interpretava il Conte di Luna con buone intenzioni di fraseggio ma scenicamente era poco consono al rango, cosa che il regista avrebbe dovuto correggere. La maturità vocale è ancora scarsa e la voce risultava un po’ affaticata, quindi Piazzola ci pensi, perché un conto è fare Luna all’aperto, altro è essere un ottimo papà Germont in una sala “a misura di voce” come quella del Teatro Pergolesi a Jesi. Susanna Branchini esibiva nella parte di Leonora una bella presenza e un’interessante voce di soprano che correva assai bene ancorché risultasse affetta dal “vibrato” e non in ordine sugli acuti. Il mezzosoprano Enkelejda Shkosa era un’efficace Azucena sotto ogni profilo, mentre Luciano Montanaro (Ferrando) mostrava una vera voce di basso risolvendo il ruolo con proprietà. Completavano il quadro Enrico Cossutta, Rosanna Lo Greco e Alessandro Pucci, rispettivamente nei ruoli di Ruiz, Ines e il messo. primapagina43 Foto: Alfredo Tabocchini una stagione che ha visto trionfare “Guillaume Tell” a Pesaro. “Trovatore” a macerata con luci e qualche ombra Applausi convinti alla fine. A Pesaro, pochi giorni dopo, i pochi vociomani superstiti vivevano la spasmodica attesa di come il tenore Juan Diego Florez avrebbe risolto l’impervissimo ruolo di Arnold in quel capolavoro assoluto che è il Guillaume Tell, titolo che nel 1829 conclude l’intensissima e gloriosissima carriera operistica dell’appena trentasettenne Gioachino Rossini dando piena e definitiva misura del genio assoluto del suo Autore che in questo grand opera va - per fortuna! - anche contro le proprie convinzioni estetiche facendoti toccare il dramma con mano, evocando e descrivendo la natura e dando il “la” a quel romanticismo che pure egli, a parole, rifuggiva. E’ ovvio che Rossini, vero propugnatore della musique de l’avenir, fosse l’autorità indiscussa del mondo musicale ottocentesco e dei salotti parigini, non foss’altro perché Egli conclude magistralmente l’epopea barocca con Semiramide (1823), rivoluziona l’opera buffa (Il Barbiere di Siviglia - 1815) e inaugura, infine, l’opera romantica, nel 1818, con La Donna del Lago e poi, soprattutto, col Tell, in cui addirittura si 44Primapagina colgono anticipazioni wagneriane, basti pensare al preludio dell’aria di Mathilde, “Sombre forêt”, al declamato del protagonista, “Sois immobile”, e alla famosissima sigla dei programmi Rai della nostra infanzie che altro non è che il sublime finale “Tout change et grandit en ces lieux”. Il regista Graham Vick, come già nel Mosè in Egitto” del 2011, confermava che la musica di Rossini regge bene anche la violenza. Infatti, ambientata la vicenda agli inizi del Novecento con rimandi alle lotte socialiste, al “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo e al film “L’Albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi, Vick – col supporto di Paul Brown (autore delle ariose scene e dei costumi), del coreografo Ron Howell e di Giuseppe di Iorio (progetto luci) - dava ampio risalto alle prevaricazioni dei perfidi Asburgo in danno dei coraggiosi elvetici e ai sussulti rivoluzionari di questi ultimi, Ciò scatenava le critiche e i malumori dei rossiniani di “stretta osservanza”: ma se è vero che la storia elvetica non ha a che vedere col socialismo in modo di- retto, altrettanto vero è che i leader socialisti, Lenin in primis, vissero ospiti di quella nazione che incarna libertà, indipendenza e democrazia come nessuna altra. Quindi, “viva la libertà” direbbe Don Giovanni, e viva anche quella di Graham Vick che è stato capace di dimostrare in Rossini anche ciò che pareva o si voleva che fosse indimostrabile, sicché anche i ballabili del I e del III atto, lungi dall’essere un’insulsa sequela di leziose movenze, erano il contenitore e lo strumento per manifestare tutta la violenza e l’umiliazione perpetrata dagli invasori. In questa discussa e intelligente messa in scena di un’opera colossale e rara in ogni senso, eccellente per gesto, colori e tempi era la direzione di Michele Mariotti alla guida dei “suoi” complessi del Teatro Comunale di Foto: Studio Amati Bacciardi - Foto Binci attualità e cultura Bologna. E Florez? Questi se l’è cavata con grande intelligenza venendo a capo intelligenza e perizia di un ruolo di difficoltà stratosferica per lunghezza e tessitura, un ruolo che non è per lui (basti dire che in passato lo cantavano Tamagno e Lauri Volpi e che un tenore come Pavarotti non l’ha mai affrontato in teatro). Quindi tanto di cappello alla classe purissima e al coraggio di Florez ma…non insista col Tell, per lui troppo pesante. Ottimo sotto ogni profilo – vocale, scenico, interpretativo – il soprano Marina Rebeka (Mathilde), mentre un po’ sotto tono è parso il protagonista Nicola Alaimo, baritono di bella e ampia voce e di sicura presenza scenica, ma discontinuo vocalmente anche se appropriato nel delieare la figura paterna e il senso della famiglia espressi da Guillaume. Bravi i bassi Simon Orfila (Walter Furst), Simone Alberghini (Melchtal) e Luca Tittoto (il perfido Gesler), sugli scudi il soprano en travesti Amanda Forsythe come Jemmy, convinti e meritati gli applausi per il mezzosoprano Veronica Simeoni, partecipe ed emozionante Hedwige. Di classe il contributo del blasonato tenore canario Celso Albelo nel breve e difficle ruolo del Pêcheur. Alla fine un trionfo, con mugugni sulla regia, ma si sa che per un regista è importante che se ne parli e, anzi, più voci discordanti ci sono è meglio è (e questo dovrebbe valere dovunque), perché così si pensa tutti un poco di più, il che non fa male… Al Teatro Pergolesi di Jesi il direttore artistico Gianni Tangucci e l’amministratore delegato William Graziosi (due professionisti di livello internazionale) hanno deciso di aprire la stagione di tradizione, dedicata a Franco Corelli, con L’Arlesiana di Francesco Cilea, data al Teatro Lirico di Milano nel 1897 con protagonista Enrico Caruso, in seguito più volte rimaneggiata dall’Autore e uscita di repertorio negli anni Trenta del secolo scorso. Opera verista e ricca di richiami espressionistici, inquietante, turgida nell’orchestrazione, de L’Arlesiana sopravvivono due arie, il “Lamento di Federico”, cavallo di battaglia di ogni tenore, e in seconda battuta, l’aria di Mamma Rosa “Esser madre è un inferno”. La vicenda, ambientata in Francia nei pressi di Arles, racconta dell’amore inappa- gato e via via più folle di Federico, fino a morirne suicida, per una donna – l’Arlesiana, appunto – che non compare mai in scena se non nel ricordo (o nel sogno?) del protagonista. Questi ha una madre possessiva, anzi troppo, con un figlio letteralmente “scemo”, l’Innocente che via via rinsavisce mano a mano che Federico si piega al vortice della follia alimentata dalla stessa madre che vorrebbe dargli in sposa Vivetta, una buona ragazza di paese. Rosetta Cucchi, brillante e intelligente regista nonché valida musicista pesarese, ha sollecitato gli artisti a prodursi in una recitazione tanto partecipe ed efficace quanto rara, ed è stata abile e arguta nel lasciare al pubblico momenti di riflessione e interrogativi: dunque, è sogno o realtà? Il pubblico della prima, in verità un po’ più scarso di quanto non meritasse l’ottima riuscita dello spettacolo, ha salutato con calore tutti gli artisti a iniziare dal direttore torinese Francesco Cilluffo alla guida della FORM - Orchestra Filarmonica Marchigiana e del Coro Lirico Marchigiano “V. Bellini”. Quindi i cantanti, tutti efficaci, in buona forma vocale,e, come detto, attori eccellenti: il mezzosoprano Annunziata Vestri, tremenda e indimenticabile Rosa Mamai, Dmitry Golovnin, per nulla intimorito dalle difficoltà dell’arduo ruolo di Federico, l’ottimo soprano Mariangela Sicilia (Vivetta), infelice e non corrisposta innamorata di Federico. Quindi il bravo ed elegante baritono Stefano Antonucci nel ruolo paterno e saggio di Baldassarre, Valeriu Caradja (Metifio), di buoni mezzi vocali, il Marco di Cristian Saitta e, infine, L’Innocente del controtenore Riccardo Angelo Strano. Le scene erano di Sarah Bacon mentre i costumi erano firmati da Claudia Pernigotti, le luci di Martin McLachlan. primapagina45 ATTUALITà E CULTURA di Lucia Cataldo Casa Leopardi: i Libri di Giacomo diventano multimediali “F iliis Amicis Civibus Monaldus de Leopardis Bibliothecam MDCCCXII. Recanati”. Questa l’epigrafe che Monaldo Leopardi fece incidere su una piccola lapide marmorea sulla porta della seconda sala in ricordo della sua volontà di aprire al pubblico la sua biblioteca. Nel Bicentenario dell’avvenimento la famiglia Leopardi, che continua ad attuare le volontà di Monaldo tenendo aperta al pubblico la biblioteca, si è adoperata per celebrare la ricorrenza con la splendida mostra “Giacomo dei libri. La Biblioteca Leopardi come spazio delle idee”, che è stata inaugurata lo scorso 30 giugno e si protrarrà fino alla fine di quest’anno. L’immensa biblioteca viene esplorata – come afferma la curatrice Fabiana Cacciapuoti – con il doppio sguardo di Monaldo e di Giacomo. L’impronta di Monaldo sta nell’evidente l’influsso della cultura del ‘700 francese che gli permise di La biblioteca Leopardi ordinare maniera illuminista la collezione di libri, dividendoli per categorie e materie. La biblioteca permise a Giacomo, negli anni della sua formazione, di “accedere alle chiavi del pensiero moderno” che alimentarono e potenziarono il suo pensieIl conte Leopardi aziona una proiezione multimediale 46Primapagina ro estetico, filosofico e morale. Gli spunti di riflessione sono moltissimi, attraverso lo snodarsi delle sei sezioni della mostra, che raccontano - ad esempio - la strutturazione della biblioteca da parte di Monaldo o gli scambi con diversi librai e stampatori, fino ad Antonio Fortunato Stella (che sarà l’editore di Leopardi). Si continua con i primi libri con cui entrò in contatto Giacomo e con materiale di lavoro autografo, alcune schede di memoria conservate alla Biblioteca Nazionale di Napoli. La sesta sezione è un approfondimento della scrittura leopardiana nello Zibaldone e va ricollegata alla parte in cui si tratta delle lingue e dell’origine del pensiero. La volontà testamentaria di Monaldo era stata molto precisa: «Voglio ancora provvedere – scrisse infatti – alla conservazione e buon uso della mia Biblioteca, la quale ho raccolta con grandi cure e dispendi, non solo per vantaggio e comodo dei miei discendenti, ma ancora per utile e bene dei miei concittadini recanatesi». Con questa mostra la famiglia Leopardi, in particolare il conte Vanni curatore della mostra insieme Lucio Felici e Fabiana Cacciapuoti, ha FOCUS I libri di Gacomo in una vetrina della mostra proseguito sulla via della valorizzazione di questo immenso patrimonio culturale, che diviene veramente patrimonio di tutti. La mostra ha inoltre aperto scenari e contenuti del sapere a diversi pubblici, ai quali sono state fornite molteplici chiavi di lettura con modalità espositive tradizionali o innovative. L’allestimento dello Studio Montanari con l’alternarsi di piccole vetrine contenenti i libri ispiratori di Giacomo - rigorosamente aperti su due pagine - o mediante grandi pannelli e gigantografie (come un’antica stampa del porto di Ancona associata a note di diario di Monaldo) rende dinamica la fruizione. Una serie di installazioni multimediali potenziano la comunicazione e rendono la mostra veramente innovativa: libri sfogliabili virtualmente, animazioni e proiezioni collegano argomenti e tematiche molto dense con leggerezza e al contempo rigore filologico. Il progetto multimediale è stato curato da Matteo Catani ed Auretta Loria, rispettivamente docente di Applicazioni digitali per l’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata e neo laureata presso la stessa Accademia e da Diego Bonura per la parte informatica.L’intento è stato quello di fornire una visione Uno scorcio dell’esposizione Panoramica della mostra nuova e più moderna dei libri legati a Giacomo. Sicuramente le installazioni che colpiscono maggiormente sono quelle legate alla magia dei gesti che permettono di sfogliare l’Encyclopédie e all’emozione degli estratti dello Zibaldone che si materializzano in visionarie animazioni in motion graphic. Non sono da meno le illustrazioni della Nouvelle Héloïse di Rosseau che fondendosi tra loro permettono al visitatore di “entrare” nel libro in modo altrimenti impossibile, particolare an- che dialogo virtuale tra la Madame de Staël e Leopardi che prende vita in eteree visioni nella Corinne. La mostra è stata promossa dalla famiglia Leopardi in collaborazione con Provincia di Macerata, Comune di Recanati, Centro Nazionale di Studi Leopardiani; Centro Mondiale della Poesia e della Cultura “Giacomo Leopardi”; Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata, Camera di Commercio di Macerata, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici delle Marche. Una proiezione multimediale su schermo trasparente “Giacomo dei libri - La Biblioteca Leopardi come spazio delle idee” Casa Leopardi - Recanati Dal 30 giugno 2012 al 31 dicembre 2013 Aperta tutti i giorni ore 9 -18 (info: www.giacomoleopardi.it). primapagina47 ATTUALITà E CULTURA di 1 Laura Marinelli 2 Vermeer, mostra sul periodo olandese e non solo sull’artista V ai all’esposizione pensando di trovare tutto Vermeer e credendo che gli altri pittori non t’interessino e scopri che non è così. E’ un percorso di pittura e cultura olandese, in cui l’arte di Vermeer va in un crescendo di stili che dal realistico passa per l’evocativo fino a giungere all’universalità dei concetti. Sono solo otto i quadri del famoso artista olandese e altri cinquanta quelli dei suoi contemporanei della rassegna dal titolo “Vermeer – il secolo d’oro dell’arte olandese” che si è tenuta alle Scuderie del Quirinale a Roma negli scorsi mesi. “Un meraviglioso insieme – dice Arthur K. Weelock Jr., uno dei tre curatori della mostra - che per la prima volta si tiene in Italia su questo artista”. Un racconto su di lui, sul suo rapporto con gli altri pittori, ma anche la storia di un ricco paese, l’Olanda, che proprio in quegli anni diventa repubblica. Entri affascinato dal pungente e sospeso sguardo della “Fanciulla con cappello rosso”, non a caso scelta come immagine del manifesto promozionale dell’evento e ti 48Primapagina aspetti un grande quadro. Poi lo vedi e scopri che è piccolo, molto piccolo, eppure quello sguardo quasi colto d’improvviso, che osserva in modo profondo proprio il visitatore, quasi a scrutarne i più intimi sentimenti, cattura l’attenzione fino a distogliere l’attenzione da tutto il resto, ipnotizzati da quello sguardo così magnetico, intrappolato tra il rosso del cappello e delle labbra e da un raggio di luce che colpisce la parte destra del volto. Il primo quadro che ammiri all’avvio del percorso è “La stradina di Delft”, commovente opera di Vermeer di piccole dimensioni, come molte opere di questo artista, che rappresenta una scena di vita quotidiana di case e persone vicini di casa. La particolarità di quest’opera è che appare come una scena ferma e più la guardi e più i personaggi sembrano muoversi nel ripetersi infinito di gesta e movimenti, che appartengono alla vita di tutti ed in cui ognuno di noi può riconoscersi. La semplicità ed i dettagli delle case, degli oggetti riprodotti e delle persone colpiscono così intimamente da arrivare realmente a commuovere. Effetto ottenuto attraverso l’uso di un particolare strumento, la camera oscura, che ATTUALITà E CULTURA 3 permetteva all’artista di controllare gli effetti di luce da lui voluti e di cui fece molto uso nella sua produzione artistica. Da notare, peraltro, quanto sia stato precursore nell’usare uno strumento così innovativo – la camera oscura - già inventato ma non ancora applicato all’arte fotografica, che all’epoca non era ancora stata inventata. Ad aiutare lo spettatore a ritrovare le opere di Vermeer c’è il colore azzurro, che identifica i pannelli su cui sono esposte le sue opere, mentre su pannelli verde chiaro sono quelle degli altri artisti. “La rassegna ricostruisce l’evoluzione del pittore, dall’inizio giovanile fino alla maturità – spiega Sandrina Bandera, curatrice dello mostra oltre che Direttore della Pinacoteca di Brera – in un crescendo dell’arte olandese dal 1850 al 1870. Il filo conduttore è il suo rapporto con gli altri grandi artisti del tempo che diventeranno famosi – prosegue Bandera - come Pieter De Hooch, Gerrit Dou, Frans Van Mieris, Gerard ter Borch, con cui condividerà la rappresentazione della luce, della prospettiva, della donna e dei valori della famiglia”. Ed ecco allora due scene di due artisti diversi e pure così vicini allo stile del racconto di Vermeer: “Ritratto di famiglia in cortile a Delft” di Pieter de Hooch e “Donna che legge una lettera” di Gabriel Metsu. Nelle loro interpretazioni così differenti, eppure è notevole la contaminazione di linguaggio, di colore, di luce, di prospettiva, di rappresentazione degli ambienti e dei personaggi con il più noto artista, a dimostrazione di come questo racconto riproduca la cultura dell’Olanda del tempo e non solo l’arte di un singolo personaggio. 4 DIDASCALIE IMMAGINI: 1. Johannes Vermeer (1632-1675), Ragazza con il cappello rosso, 1665 - 1667 Washington, National Gallery of Art Andrew W. Mellon Collection. 2. Johannes Vermeer (1632-1675), La stradina, 1658 circa Amsterdam, Rijksmuseum Gift of H.W.A. Deterding, London© Rijksmuseum, Amsterdam. 3. Pieter de Hooch (1629-1684), Ritratto di famiglia in cortile a Delft, 1658 circa Vienna, Gemäldegalerie der Akademie der bildenden Künste. 4. Gabriel Metsu, (1629-1667), Donna che legge una lettera, 1664–1666 Presented Sir Alfred and Lady Beit, 1987 (Beit Collection) Dublino, National Gallery of Ireland Collection Photo © National Gallery of Ireland. primapagina49 ATTUALITà E CULTURA di Carmen del Vando Blanco Da Rubens a Maratta Le meraviglie del Barocco nelle Marche “O gni momento della storia artistica delle Marche è documentato da monumenti e opere spesso di sorprendente originalità. Alcuni periodi sono meglio conosciuti: dal mito fondativo dei Piceni al mistero delle necropoli longobarde, agli itinerari perigliosi che congiungevano i cenobi protomedievali ma soprattutto, allo stato attuale, sono noti l’aspro vivere delle parcellizzate signorie rinascimentali, fonti di una committenza di sorprendente ricchezza e la severa chiamata all’ordine della Controriforma cattolica dei secoli successivi. Sembrava che fossero rimasti meno indagati altri momenti, in particolare, la stagione barocca, eppure, anche tra Seicento e Settecento, le Marche ebbero una straordinaria fioritura artistica. Il velo era stato squarciato, in particolare, dall’importante mostra che nel 2010 fu realizzata a San Severino, che condusse alla conoscenza di un periodo della storia artistica - il Barocco - in un angolo di territorio antecedentemente pressoché ignorato, attraverso un imponente sventagliarsi di testi pittorici, la cui cifra caratterizzante può costituire la chiave di lettura per quella che si apre a Osimo. Rigore scientifico garantito da un gruppo di noti studiosi guidati da Vittorio Sgarbi -già curatore della mostra di San Severino- e godimento profondo dei sensi, assicurato dalla bellezza delle opere scelte, dal loro essere esemplari dimostrazioni della forza coinvolgente dell’immagine” così ci introduce alla mostra aperta a Osimo, Maria Rosa 50Primapagina OSIMO E LA MARCA DI ANCONA (fino al 15 dicembre 2013) Valazzi, Sovrintendente per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico delle Marche-Urbino. Un doveroso omaggio a Carlo Maratta illustre artista nato a Camerano (1625) ma di fama internazionale nel compimento del terzo centenario della morte, mette in luce avvalendosi delle pregevoli tele, la sostanza profonda della sua pittura, apprezzata anche nelle grandi corti europee. Attraverso una serie di itinerari che mirano ad approfondire la conoscenza di luoghi e opere che attestano la vitalità artistica di Osimo e di quei centri dove più incisiva si fa la presenza del lascito di grandi artisti come Pomarancio a Loreto e Carlo Maratta a Camerano, la cospicua rassegna di capolavori di maestri come Rubens, Guido Reni, Guercino e dei grandi artisti del Seicento romano fino a Maratta, accanto alle opere provenienti dalle Marche, offre un panorama esauriente delle vicende pittoriche del XVII secolo. Riemergono dall’oblio opere inedite, che documentano la vitalità artistica del territorio marchigiano, esaminando un’area dalla costa, con le importanti realtà di Osimo, Ancona, Camerano, Loreto, Senigallia e Fano, fino all’entroterra con le storiche località di Fabriano e Sassoferrato. Quando e come inizia il Barocco nelle Marche? Secondo Vittorio Sgarbi “nei passaggi epocali da un secolo all’altro e da un millennio all’altro, i mutamenti dell’arte sembrano po- ATTUALITà E CULTURA tenziarsi e caratterizzarsi nelle aperture di secolo, soprattutto a Firenze e a Roma. Nella periodizzazione si conviene fare iniziare il Barocco a Roma alla fine del XVI secolo con l’arrivo del Caravaggio, ma l’inizio del Barocco a Roma è anche Carracci e, a seguire tutti i più notevoli maestri della pittura italiana ed europea, fino all’attenuarsi della fiamma caravaggesca verso il 1630-1635”. Tra i campioni dell’esperienza barocca, nel 1601 per conoscere Caravaggio e la sua lezione dal vivo giunge a Roma Rubens, che dipinge le pale dell’altare della Chiesa Nuova dei Filippini, Santa Maria in Vallicella. Già nel 1608, Rubens si reca a Fermo dove esegue la Adorazione dei Pastori, aprendo la via maestra dei rapporti con Roma nella terra appartenente allo Stato Pontificio. Valga l’esempio dell’arazzo - il miglior conservato della serie di quattro tappezzerie tessute nelle Fiandre -, eseguito su cartone di Rubens, del Museo Diocesano di Ancona, di smagliante bellezza e perfetto cromatismo, che da un glorioso benvenuto al visitatore. A mantenere sempre vivi i rapporti con l’ambiente culturale romano ha concorso anche il contributo internazionale di Carlo Maratta. Artista tanto apprezzato dalle Corti europee e dalle più alte Gerarchie Ecclesiastiche da diventare il modello estetico per eccellenza nel passaggio fra i secoli XVII e XVIII, meritato protagonista di questa mostra, nel terzo centenario della sua morte a Roma. La sede principale dell’evento espositivo è il Palazzo della nobile famiglia Campana, estintasi alla fine del ‘600 e dalla cui donazione nacque il ‘Nobil Collegio Convitto Campana’, che annoverava fra gli insegnanti famosi intellettuali ai quali corrisposero allievi altrettanto illustri come i futuri Papi Leone XII e Pio VIII oltre a molti grecisti, storici e poeti. Mentre il dominio della Chiesa si consolidava di pari passo col legame sempre più stretto con Roma, si preparava il secolo successivo, con l’incremento esponenziale della ricchezza terriera, grazie ai privilegi concessi dalla Chiesa: il porto franco di Ancona, la vendita di grano alla Turchia e la presenza degli immigrati dalmati (dai quali discendeva la stessa famiglia del Maratta, Maratti)., Continuando e completando questa mostra, parte un altro progetto in via di realizzazione varato dalla Direzione Regionale e intitolato ‘Civiltà del Settecento nelle Marche’, che non si limiterà ai dipinti di quel secolo ma farà un’analisi dello sviluppo urbanistico, economico, le scoperte archeologiche, le trasformazioni del paesaggio, la grande committenza artistica, le ville, i palazzi e le opere d’arte di un periodo cruciale per la fisionomia della regione e che, sicuramente, svelerà tante importanti pagine di questo capitolo della storia nel territorio marchigiano. primapagina51 ATTUALITà E CULTURA di Armando Ginesi Alice verso la porta dei colori C he cosa si può scrivere di questo viaggio per immagini che Luciana Zanetti ha costruito con la sua lieve fantasia creatrice calata nel medium fotografico? Che cosa si può scrivere – voglio dire – che lei non abbia già detto nel suo essenziale ma puntualissimo (sia nel senso che nei termini) testo- guida, nato forse con la volontà di costituire una traccia utile al visitatore-lettore delle immagini, ma che in realtà si è risolto come autentico componimento poetico, ancorché composto in prosa ? Ci si può richiamare forse alla breve dedicatoria di questa narrazione fotografica intitolata “Racconto”, firmata da un gigante della letteratura mondiale, il portoghese Fernando Pessoa: “Andiamo via, creatura mia, via verso l’altrove. Lì ci sono giorni sempre miti e campi sempre belli”. Perché se ci soffermiamo su due parole del poeta lusitano – la voce verbale “Andiamo via” e il sostantivo “altrove” – noi abbiamo perfettamente chiaro il portato simbolico e poetico che la nostra autrice ha raggiunto con le parole e con le foto delle sue costruzioni che oserei chiamare sceniche. Infatti va detto subito che Luciana Zanetti non è una fotografa, nell’accezione propria, professionale, del termine né – molto probabilmente – intende diventarlo: è una poetessa che usa indifferentemente le parole, le immagini fotografiche di eventi da lei costruiti manualmente accostando oggetti e cose di varia estrazione. Una poetessa nel senso che emerge dal saggio di Pier Paolo Pasolini, recentemente scoperto nell’archivio Bonsanti di Firenze, nel quale si sostiene che si può essere poeti, per esempio, pur essendo pittori. Poesia, dice Pasolini, come “frutto di un contatto dello spirito con la realtà in sé ineffabile e con la sua sorgente, la quale, in verità, è Dio medesimo, nei movimenti d’amore che lo portano a creare immagini della sua bellezza”. Ma torniamo alle due espressioni di Pessoa: “Andiamo via”, quindi incamminiamoci, dirigiamoci lungo i sentieri privi dei segnaletica, quelli che non ci dicono dove conducono ma di certo portano “via”. Dove finiremo? Verso l’Altrove, che è il regno del Mistero. Dell’ineffabile, dell’indicibile, dell’inconoscibile, il mondo dell’anima alla cui soglia, tra tutte le cose umane, soltanto la Poesia (in quanto figlia dello Spirito e contigua all’Infinito) ha 52Primapagina la possibilità di accostarsi. Una poesia che diventa rito, liturgia, preghiera. Marcel Duchamp, genio dell’arte (ma non solo) del XX secolo, ha inventato i “ready-made”, detti anche in francese “objets trouvés”, vale a dire oggetti rifiutati, degradati, che hanno perduto la loro funzione, ogni interesse pratico , ogni forma di utilità e che, una volta ritrovati tra le cose rifiutate e sottoposti alla manipolazione artistica, cioè collocati in una situazione diversa da quella per cui sono stati creati, possono assurgere alla dignità di opera d’arte, anche solo in virtù della scelta o del loro casuale rinvenimento da parte dell’artista. Il racconto di Luciana Zanetti forse non sarebbe nato se Duchamp non avesse fatto questa eccezionale scoperta (che ha rivoluzionato i modelli artistici codificati da millenni di tradizione) di elevare che so, il famosissimo orinatoio o la ruota di bicicletta o il portabottiglie, ad espressione della genialità creativa. Perché Duchamp ha dato agli oggetti decontestualizzati e sostanzialmente resi inutili, in qualche modo, dunque, inanimati, senza vita, un tipo di dignità nuova richiamandoli ad una esistenza non solo di nuovo tipo, ma superiore a quella preesistente, qual è quella artistica. Gli oggetti di un quotidiano neanche più visto dagli occhi dell’uomo comune che però, all’improvviso, diventa scopribile e scoperto da quell’uomo un po’ speciale che si chiama artista (o poeta); oggetti che rinascono, dunque, a nuova vita, si rivitalizzano, si trasformano in metafore e in simboli e, in quanto tali, elementi essenziali per costruire brani poetici. Che, anche nel nostro ATTUALITà E CULTURA caso, prendono la via del mito: di un mito moderno il quale, però, è, da un punto di vista strutturale, identico a quello antico, considerato che esso, costruttivamente e finalisticamente parlando, è sempre identico a se stesso, quale che sia il tempo storico che lo esprime. Il mito esistenziale dell’uomo attratto dall’ignoto, che compie azioni (a volte anche eroiche), che supera continuamente prove, che dà il meglio di sé (come l’amicizia o l’amore), che racconta come ci si relaziona con i propri simili e con il resto del mondo; il mito che è sempre autobiografico indipendentemente dai nomi dei protagonisti: (Ercole, Atlante, Prometeo o Alice, com’è nel caso del racconto della Zanetti. Dunque Alice (che è una bambola, anch’essa dimenticata nelle pieghe della memoria oltreché nella ceste delle cose smesse) recupera vita e sentimenti, al pari del cavallino, del bruco spaziale, dello gnomo spaziale creatore dei fili rossi (i lacci dell’esistenza usati per imbrigliare e catturare ma anche per aiutare a muoversi e a risalire), il tappeto (che, come in ogni storia fiabesca che si rispetti, in omaggio alla grande cultura orientale, diventa volante). Alice è la protagonista che lotta, che supera le prove per arrivare da qualche parte. Dove? Verso l’Altrove, come dice Passoa, che si identifica, nel racconto, con la “Porta dei Colori”. A cui Alice, riesce, dopo fatiche, peripezie, sgambetti di taluni ma anche aiuti fraterni e amichevoli di altri, a pervenire. Rimanendo sull’uscio, però. Sta per entrare, ma… Ma la storia si interrompe, perché l’Altrove è l’altrove e non si può sapere che cosa sia, dove conduca, come sia fatto, di che cosa sia fatto. Guai se lo scoprissimo, infatti. Finirebbero la curiosità, la spinta a cercare, a sperare, a sognare. Finirebbe la fantasia, quella stessa che ha portato Alice fin sull’uscio della Porta dei Colori e a farle intravvedere che di là si spalanca un mondo nuovo, straordinario, tutto da scoprire, ma dove, certamente, “ci sono giorni sempre miti e campi sempre belli”, come canta Fernando Pessoa. primapagina53 ATTUALITà E CULTURA di Sergio Rinaldi Tufi Osimo, antica colonia Romana La sua storia antica N ell’ambito dell’espansione romana verso l’Italia settentrionale, sul versante centroadriatico fu fondata una serie di colonie: la prima fu Ariminum (Rimini), l’ultima fu, nel 157 a.C., Auximum (Osimo), in una posizione strategica che domina, non lontano dalla costa, alle spalle di Ancona e Numana, le valli dei fiumi Aspio e Musone. Appollaiata sulla cresta, con i suoi pittoreschi dislivelli, con l’imponenza del Duomo (sul punto più alto), con il grande santuario di San Giuseppe da Copertino e con l’eleganza delle piazze e dei palazzi, la Osimo che noi oggi visitiamo non mostra, a prima vista, molte tracce delle sue fasi più remote: per l’epoca romano-repubblicana, si conoscono la Fonte Magna e gli adiacenti tratti di mura in blocchi squadrati. Non è chiaro inoltre se e in che misura alcune delle infinite grotte e gallerie che 54Primapagina si ramificano sotto la città attuale (che costituiscono un’attrazione di indubbi fascino) siano di origini antiche. Ma, entrando nel Palazzo Comunale, vediamo una raccolta di statue di età imperiale, tutte acefale: i “senza testa” secondo la definizione popolare. Nel Museo Civico, poi, lo sguardo si allarga anche al periodo preromano; e gli scavi eseguiti all’interno della città attuale, per esempio sotto il mercato coperto, hanno evidenziato il sovrapporsi di numerosi livelli di vita. Frequentata già dal Paleolitico Superiore, l’altura dal IX secolo a.C. è occupata dai Piceni (non solo sul colle di Osimo stessa, ma anche sul Monte San Pietro): Piceni che peraltro creano anche molti altri insediamenti in questa che è una zona di raccordo fra le rotte dei mercanti greci che risalgono l’Adriatico e gli itinerari che, seguendo le vie di fondovalle lungo i numerosi fiumi, si dirigono verso i valichi varcando l’Appennino. L’Adriatico, si sa, è sempre stato tramite di intensi scambi (non solo con i naviganti greci, ma anche con le culture della sponda orientale): nel Museo Civico troviamo esempi della produzione vascolare locale picena (gli specialisti parlano di vasi di impasto e bucheroidi), ma anche di pregevolissimi vasi greci (spicca una coppa attica con raffigurazione di uomo barbato e fanciullo), rinvenuti negli abitati e nelle adiacenti necropoli. La città romana sembra sovrapporsi direttamente alle ultime fasi dell’abitato piceno, e mantenerne, o addiruttura incrementarne, la rilevanza. L’impianto urbano di età repubblicana corrisponde alla parte più alta della città attuale: si estende per circa 16 ettari, ed è racchiuso da una cinta muraria in poderosi blocchi squadrati), di cui il già ricordato tratto presso la Fonte Magna (lungo la via moderna che prende il nome proprio dalla fonte stessa) è l’unico superstite. Lungo il tracciato si aprivano ovviamente porte di accesso: cospicui, anche se alterati da interventi successivi, gli avanzi di quella settentrionale, sempre in via di Fonte Magna. All’interno della cinta probabilmente il cardo maximus e il decumanus maximus (le due strade principali) corrispondono agli attuali allineamenti via Mazzini + via Matteotti e via del Sacramento. Durante le guerre civili la città parteggia per Pompeo, che fra l’altro vi recluta soldati; più tardi Cesare, varcato il Rubicone, la assoggetterà nel corso della discesa verso Roma. Proprio a Pompeo la tradizione attribuisce la già ricordata Fonte Magna: i cospicui ruderi di un monumento a esedra sono identificati con una fontana monumentale ATTUALITà E CULTURA citata da Procopio (autore che peraltro scrive molto più tardi, nel V secolo d.C.). Espressione della classe dirigente della città nell’ambito della stessa età repubblicana è il ritratto di un uomo anziano rinvenuto a fine Ottocento in via Saffi e conservato sempre nel Museo Civico. Si data alla seconda metà del I secolo a.C., e fa parte di una serie di opere prodotte soprattutto a Roma ma destinate talvolta, come in questo caso, a committenti fuori dell’Urbe: espressione di una cerchia patrizia che intende esaltare l’integrità della stirpe, legata al possesso e allo sfruttamento della terra e alle tradizioni contadine. Quindi un realismo spinto, rughe profonde, labbra serrate, a significare uno spirito energico e volitivo. Se, dunque, per l’età repubblicana si può quasi dire che dall’ambito delle arti figurative emergono testimonianze notevoli almeno quanto quelle architettoniche, il discorso si può ripetere, in misura anche più decisa, per l’età imperiale, età per la quale le testimonianze monumentali davvero scarseggiano. La città mantiene probabilmente cardo, decumanus e impianto urbano dell’età precedente: ma tutto ciò è congetturale, basato sull’ipotesi che l’impianto medievale e moderno ricalchi in sostanza quello antico. Ancora più congetturale è l’ubicazione dei complessi monumentali principali: il Foro in corrispondenza del Palazzo Comunale e dell’adiacente piazza, un tempio (tempio di Giove? tempio della Triade Capitolina, e cioè GioveGiunone-Minerva?) sul luogo più elevato dove oggi sorge la cattedrale. Del Foro è stata tentata una ricostruzione, che ha valore puramente indicativo: l’unico elemento di cui si sono effettivamente rinvenuti i resti (fra le attuali Piazza Boccolino e Piazza Don Minzoni) è una cisterna che, con le sue robuste arcate, forse faceva parte di un terrazzamento con cui si era risolto uno dei dislivelli del terreno. Le sculture di età imperiale, conservate nel Palazzo Comunale, sono numerose, ma “decapitate”: e così, in conclusione, torniamo a parlare dei “senza testa” di cui si diceva all’inizio. Senza testa, fra l’altro, è diventata scherzosamente l’epressione (chissà quanto gradita) con cui vengono chiamati gli abitanti della città. Per la verità queste sculture non vengono tutte da Osimo stessa, e non costituiscono perciò soltanto una testimonianza del livello artistico della città antica, ma anche della storia del collezionismo delle epoche successive. Statue di loricati, cioè di personaggi (ufficiali, generali) vestiti di corazza; statue di togati, cioè di uomini che indossano la toga, la “divisa” di chi gode del diritto di cittadinanza romana; statue, come suol dirsi, in nudità o in seminudità eroica, parché la nudità è prerogativa degli eroi e degli dei. Opere spesso di notevole qualità, accurate sia nell’impostazione della figura, sia nella resa dei panneggi o delle muscolature. Ma perché tutte senza testa? Può colpire il fatto che qui tale prerogativa riguardi il cento per cento dei casi, ma anche altrove non è inusuale: un po’ perché la testa e gli arti sono le parti più esposte al rischio; un po’ perché spesso teste e corpi erano eseguiti separatamente, le teste talvolta erano sostituite, e qualche sostituzione potrebbe non essere andata a buon fine. Non è da escludere, inoltre, un atto di violenza punitiva nel XV secolo, durante il quale la città subì numerose occupazioni straniere. primapagina55 ATTUALITà E CULTURA di Michele De Luca Timide forme nel silenzio metafisico D iscreta, silenziosa e netta è l’immagine che dalle opere di Nino Ricci ci appare, come condensata in una luce aurorale o crepuscolare; una solidificazione in un’atmosfera lieve e rarefatta, o un’incerta epifania di forme e volumi che dalla superficie della tela o della carta si protendono verso di noi conquistando nello spazio un rilievo di timida tridimensionalità. A differenza delle nature morte del periodo metafisico di Morandi, in cui le forme rispondono a regole compositive di tipo geometrico e una luce cruda ne segna nettamente i contorni, qui, come annotava Fabrizio D’Amico nel prezioso volumetto Nino Ricci. Opere 1996 – 2006 (Edizioni della Cometa), “quando di frequente l’orizzonte si eclissa, e viene a mancare con esso l’ordinata scansione nello spazio degli oggetti … franano allora le cose, scivolando dal loro piano d’appoggio, sorrette come soltanto da un fiato, adesso, nel campo vi56Primapagina Una antologica di Nino Ricci al Palazzo Buonaccorsi di Macerata ATTUALITà E CULTURA sivo. E quando, assieme, il chiaroscuro che, pur lieve, si intrometteva fra luce e luce nelle figure di Ricci, delineando oggetti e volumetrie, si ritira anch’esso, come risucchiato all’interno del colore, avverti che la stagione del comporre per nitide sin- tassi visive ha ceduto il passo ad una diversa avventura”. Una nuova “visione” dell’artista, che attraverso l’intermediazione del quadro, ci viene offerta, con un linguaggio che parla con leggeri strati di colore, mai aggressivi o dirompenti, che crea un seducente “gioco” di ritmi e di fratture, non geometrico o meccanico, ma come librato sulle ali dell’immaginazione; sono le “forme”, dai contorni come sbrecciati, e gli spazi, nel loro dialettico colloquiare, a creare addensamenti, solide esistenze, prive di ogni identità o riconoscibilità naturalistica (se non un lontano rinvio a scaglie di marmo o di ghiaccio), ma come frut- ti di percezione, di immaginazione o di sogno che si raggrumano in strati di colore, e trovano un flusso ed un palpito vitale (una vita propria) in ritmi e confronti dialettici. Una vasta antologica promossa dal Comune di Macerata – Assessorato alla Cultura, curata da Giuseppe Appella ed allestita nei sontuosi spazi del settecentesco Palazzo Buonaccorsi, costruito nel cuore di Macerata, ne fa ripercorrere , attraverso più di cento opere (dal 1957 al 2013) tra olii, acarilici, acquerelli, pastelli e lavori grafici inseriti in raffinate pubblicazioni a commento di opere poetiche; in catalogo, testi – oltre che del curatore, anche di Paola Ballesi, Roberto Crespi e Giancarlo Liuti. Nato a Macerata nel 1930, Ricci dopo gli anni della sua formazione, prima ad Urbino, all’Istituto di Belle Arti, dove stringe amicizia con il coetaneo Elvidio Farabollini, nativo di Treia e prematuramente scomparso nel 1971, e poi (tra il 1950 e il 1955) all’Accademia di Belle Arti di Roma, dove ha come insegnanti, tra gli altri, Sante Monachesi, Toti Scialoja e Mario Rivosecchi, e al Centro Sperimentale di Cinematografia, è vissuto sempre piuttosto appartato nella sua città, ma, dalla quiete della provincia che è stata comunque il suo primo vero “laboratorio” in un ambiente stimolante per la presenza di tanti artisti affermati a livello nazionale, ha sempre partecipato intellettualmente al dibattito sulla ricerca artistica italiana ed internazionale della seconda metà del Novecento. Profonda è l’empatia che Ricci sente nei confronti di Paul Klee, che influenza la sua produzione a partire dalla fine degli anni cinquanta; egli fa sua l’ansia di cercare sensazioni generate dalla pittura attraverso il segno grafico. La sua urgenza precipua è quella di una resa cristallina e nitida della forma non attraverso una scansione geometrica delle superfici, ma mediante una articola- zione ritmica dell’opera. Quello che affascina Ricci è la singolare sottigliezza tattile di Fautrier, con la propria produzione ripercorre itinerari già cari a Seurat, Boccioni, Magnelli, Prampolini, Reggiani, all’amato Licini, per approdare ad una serie di metamorfosi costruite, con rigorosa concezione logica, al di fuori di qualsiasi impegno teorico, su sottili simmetrie di rapporti lineari durevoli. La sua ricerca fondamentale è rivolta , anche negli anni più recenti, alla costruzione architettonica che assorbe con i volumi, tutte le relazioni spaziali fissate dalla luce e dalle ombre; con il conseguente trapasso dall’immagine mentale alla realizzazione grafica mediante l’emozione del segno. A proposito della produzione degli ultimi anni, che si collocano nella fase più matura della creatività dell’artista maceratese, scriveva ancora suggestivamente D’Amico: “Governa la sua pittura un sentimento che è facile scambiare, alla prima, per malinconia: tanto il suo fare insiste, senza remore o nascondimenti, a ridire valori lontani, desueti … sganciate ora più che mai dal mondo e dalle sue apparenze, le figure narrano soltanto storie di vita non vissute, di forme appena sognate: trepidi schermi inframessi alla luce”. Queste forme condividono, nella loro “esistenza” di colori, in uno spazio assorto e senza tempo, in un silenzio metafisico, un destino comune e sembrano stringersi tra di loro in una specie di complice “solidarietà”. primapagina57 ATTUALITà E CULTURA di Giulia Pieretti Incontro con i Fratelli Quay, un cinema visionario e coinvolgente L’ incontro con un professionista del cinema è spesso un’occasione di crescita e di confronto per gli addetti ai lavori, ma anche una scoperta di mondi, emozioni ed espressività nuove per il pubblico. Vedere un film e ascoltare le parole di chi l’ha realizzato, svela diverse prospettive e consente di “partecipare” al processo creativo, spesso fatto di genio e contingenze: di intuizioni e ispirazioni, ma anche di casualità e aspetti pratici. Per questo abbiamo deciso di raccontarvi l’incontro con due maestri del cinema di animazione, i gemelli Stephen e Timothy Quay, che si è svolto in Ancona, presso la Sala Proiezioni della Fondazione Marche Cinema Multimedia. L’evento fa parte dell’iniziativa “L’ora di cinema” (una serie di incontri aperti al pubblico e rivolti in particolare ai professionisti del set58Primapagina tore cinematografico), organizzata dalla Fondazione, in questo caso in collaborazione con Inteatro. Il pubblico ha avuto l’opportunità di vedere due cortometraggi dei fratelli Quay -“Maska” e “In Absentia” - e di porre loro delle domande al termine delle proiezioni. Noi di Primapagina abbiamo partecipato all’evento, un’esclusiva regionale, e ne siamo rimasti particolarmente colpiti. The Quay Brothers - L’inanimato prende vita Timothy e Stephen Quay sono due cineasti, meglio conosciuti come The Quay Brothers, nati a Pennsylvania (Stati Uniti) nel 1947, che lavorano a Londra dal 1969, creando opere per il cinema e la tv, la grafica e l’opera. Maestri dell’animazione in stop-motion, hanno alternato progetti autonomi a lavori commissionati dalle più importanti reti televisive britanniche (come BBC e Channel 4), da aziende multinazionali e da musicisti famosi, come Peter Gabriel. Il loro cinema si ispira alla tradizione del teatro di marionette europeo, ai registi di film d’animazione dell’Est Europa (Jan Svankmajer, Ladislas Starewicz e Walerian Borowczy) e più ingenerale alla tradizione culturale mitteleuropea e russa (dallo scrittore Franz Kafka ai compositori Leoš Janáček e Igor Stravinskij). Il MOMA di New York li ha recentemente omaggiati di una retrospettiva, e il regista Terry Gilliam ha citato il loro film “Streets of Crocodiles” (del 1986) come uno dei 10 migliori film di animazione di tutti i tempi. I fratelli Quay creano un mondo cinematografico surrealista, misterioso ed ermetico, un immaginario animato controverso, popolato da uomini ATTUALITà E CULTURA senza volto e marionette cariche di espressività. Lavorando con pazienza e meticolosità, curano i dettagli degli oggetti e delle marionette e controllano con precisione i loro movimenti. Così gli oggetti inanimati prendono vita e i soggetti animati vengono destrutturati, raccontati attraverso alcuni dettagli o parti del corpo. I due registi descrivono così il loro cinema: “Non si tratta di incubi, noi pensiamo veramente che l’animazione possa creare un’alterità, e ciò che noi vogliamo raggiungere con i nostri film è un’alterità “oggettivata”, non un sogno o un incubo ma un mondo autonomo ed autosufficiente, che abbia le proprie leggi. È un po’ come quando si osserva il mondo degli insetti: ci si chiede a quale logica rispondano i loro comportamenti (…), è un miracolo bizzarro. Ecco, penso che guardare uno dei nostri film sia come osservare il mondo degli insetti. La stessa logica d’altra parte si può trovare nel balletto, dove non esiste il dialogo e tutto si basa sul linguaggio dei gesti, della musica, del ritmo, che vanno interpretati dallo spettatore. Non ci piace utilizzare dialoghi, ci bastano la musica e i movimenti, la luce, i suoni”. Le atmosfere cupe, la poesia del movimento Durante l’evento sono stati proiettati due cortometraggi: “Maska” e “In Absentia”. Difficile tradurre le atmosfere, le suggestioni e le inquietudini evocate da entrambi i film. Il primo è una storia d’amore e inganno, i cui protagonisti sono delle marionette. La videocamera si sofferma sui loro movimenti, sui loro corpi, in una sorta di poesia del movimento. Il secondo invece racconta da vicino il rituale di Emma Hauck, che dal manicomio scrive lettere (mai spedite) al marito. In entrambi i lavori la luce ha un ruolo importante, sia in assenza che per effetti di animazione. Lo sguardo, la carezza Al termine della proiezione i fratelli Quay si sono resi disponibili a un incontro con il pubblico. Anna Olivucci, responsabile della Fondazione Marche Cinema Multimedia, ha sottolineato come lo sguardo della videocamera si avvicini ai soggetti ritratti con delicatezza, quasi accarezzando i volti, le superfici, i corpi, gli oggetti. Ha poi domandato ai fratelli Quay come - e se - questo effetto sia stato voluto e ricercato. Stephen Quay ha spiegato che durante la fase di preparazione pianificano e progettano le riprese, ma che poi si lasciano trascinare dalle suggestioni e dalle intuizioni del momento, “modificando i piani originari scena dopo scena”. Si crea così un’interazione creativa tra chi è dietro la macchina da presa e chi viene ripreso, ed “è difficile capire chi prende il controllo”. La musica, il cambiamento Anche la musica ha un ruolo essenziale nel loro processo creativo. “In Absentia” è un cortometraggio commissionato dalla BBC, parte di un progetto che vede diversi registi realizzare dei film interpretando dei brani di compositori famosi. In particolare, ai fratelli Quay è stato chiesto di utilizzare - e di trarre ispirazione da - alcuni brani di Karlheinz Stockhausen. Hanno così proposto una sceneggiatura alla BBC, e hanno ricevuto la loro approvazione. Ma dopo aver ascoltato i brani e aver iniziato a lavorare con la musica di Stockhausen in sottofondo, hanno deciso di “buttare via la sceneggiatura” e ricominciare da capo, lasciandosi ispirare dalla melodia. Questo lasciarsi trascinare dal momento e dalle emozioni, riesce a essere trasmesso allo spettatore, che resta coinvolto dalle atmosfere e dalle storie raccontate nei loro film. E possiamo assicurarvi che il pubblico presente in Sala Proiezioni della Fondazione Marche Cinema Multimedia non è rimasto indifferente. www.fondazionemcm.it www.inteatro.it www.moma.org/visit/calendar/exhibitions/1240 primapagina59 ATTUALITà E CULTURA di Loretta Fabrizi Un momento del laboratorio didattico La magia della vecchia tipografia con l’odore d’inchiostro “E mozionante”. “Un’esperienza coinvolgente”. “La performance e la testimonianza di chi ha lavorato per una vita in tipografia hanno reso la visita un viaggio nel tempo e la scoperta di un’arte sconosciuta”. Questi, alcuni dei commenti nel libro delle presenze alla MOSE – Mostra Operativa della Stampa e dell’Editoria, la cui prima fase è 60Primapagina stata allestita presso Palazzo Collio a San Severino Marche alla fine dello scorso anno. La mostra è nata dalla volontà della Fondazione Archivio Storico Bellabarba (formata dal Comune di San Severino, dalla Tipografia Bellabarba e dall’Opera Pia Luzi), di rendere fruibile il fondo cartaceo, gli oggetti storici e gli strumenti dell’antica tipografia Bellabarba, nata nel 1883. Secondo una modalità dinamica del concetto di “mostra” – nello stile del Museum Theatre europeo – è stata proposta una drammatizzazione con un personaggio in costume calato nell’epoca di Johann Gutenberg, l’inventore della stampa a caratteri mobili moderna, che ha guidato i visitatori in un affascinante viaggio nel tempo e fatto sperimentare le antiche tecniche di stampa.. Annina, sposa mancata di Gutenberg, ha recitato le problematiche della stampa in Europa e l’evoluzione stilistica dei caratteri mobili, in un intreccio di eventi storici, spy story e drammi individuali, agganci geografici tra Germania ed Italia, tra Venezia, Fabriano e Pesaro, rendendo più comprensibile e avvincente il tema affrontato nei pannelli didattici. La MOSE ha offerto anche “la magia della vecchia tipografia con l’odore d’inchiostro”, come ha scritto Giuseppe Benelli, presidente del Premio Bancarella, che in un incontro a latere ha ricordato la figura di Giorgio Zampa a cui si deve la stampa dei primi Xenia di Eugenio Montale (1966) proprio nella Tipografia Bellabarba. L’edizione di San Severino Marche è, tra l’altro, la più rara delle pubblicazioni montaliane, perché commissionata dal poeta in un numero limitatissimo di copie da donare a pochi intimi per ricordare Drusilla Tanzi, la moglie del poeta soprannominata “Mosca” dagli amici, a tre anni dalla sua morte. Ai visitatori la possi- ATTUALITà E CULTURA Uno scorcio dell’allestimento bilità di osservare una copia originale di questi Xenia – dal nome che i Latini davano agli omaggi destinati agli ospiti quando lasciavano la dimora – dalla semplice fattura voluta da Montale “come un opuscolo di un prete di campagna”. I numeri hanno confermato il gradimento: 1400 presenze dal 21 to, ideato di Lucia Cataldo, è stata sicuramente la formula innovativa, concreta realizzazione delle nuove teorie sulla comunicazione interattiva nei musei e nelle mostre attraverso il teatro e la performance, oltre che con la multimedialità. La preziosa consulenza scientifica e collaborazione tecnica di Stefano Performance dell’attrice in costume nell’antica tipografia settembre al 10 dicembre, 821 gli studenti dei vari ordini e gradi di scuola. I piccoli della scuola dell’infanzia e della primaria hanno avuto a disposizione un laboratorio didattico dove giocare, manipolare gli elementi, riconoscere ad occhi bendati le lettere grandi e piccole, cimentandosi infine in semplici e divertenti esercizi di composizione tipografica. La macchina tipografica, la magia della pagina che prende vita nelle mani del compositore ed esce stampata dalla “pedalina”, ha affascinato adulti e bambini. Alcuni hanno commentato: “è un’idea veramente fantastica, doveste organizzare dei corsi”. Superate dal computer e dalla stampa digitale, le arti tipografiche tradizionali conservano infatti tutto il fascino di una tecnologia obsoleta che rivalutata come abilità artigianale e come arte può essere rilanciata in una dimensione di nuova significazione. La chiave del successo del proget- Lucinato, inoltre, hanno reso possibile il racconto della storia dell’arte tipografica e dei caratteri all’interno dei pannelli didattici. Partner del progetto la Fondazione CARIMA e Confartigianato Imprese di Macerata, sono state affiancate dal Comune di San Severino Marche e dall’Associazione Archivio Storico Tipolitografia C. Bellabarba in questa innovativa proposta territoriale che ha visto coinvolte anche imprese artigiane come la Sartoria Arianna e MastroT-Restauro, nonché i tecnici ormai in pensione della tipografia Bellabarba che facevano l’antico mestiere del “proto”. Il progetto ha infatti voluto sperimentare la possibilità di sinergia operativa e partnership con le realtà artigianali e produttive del territorio, secondo l’ottica delle linee programmatiche del Distretto Culturale Evoluto istituito dalla Regione Marche. La seconda fase si baserà invece sulla comunicazione multimediale: verranno attivate sezioni multimediali interattive sui documenti e gli incunaboli della Biblioteca Comunale di San Severino, sui documenti dell’Archivio tipografico Bellabarba e un lavoro-video su Eugenio Montale. I tipografi al lavoro per la composizione a caratteri mobili primapagina61 ATTUALITà E CULTURA di Pamela Temperini La singolare storia di Staffolo, a “cavallo” della fiaba, del mito e della realtà Noi non ci perdiamo nel labirinto dove Staffilo sarebbe il figlio di Teseo e di Arianna. Il nostro discorso è un altro; le indagini a cui ci volgiamo scaturiscono dal terreno. Come c’insegna la storia, questo paese di Staphilus si perde nella notte dei tempi. (da “Il Cavaliere di vetro” di Natale Anconetani) Torchio del 1695 I n poche ed incisive battute lo scrittore jesino dà inizio al suo particolare racconto di un cavaliere altrettanto particolare e affida alla terra la chiave di lettura di un paese ancor più singolare: Staffolo, in provincia di Ancona. Una terra che fa innamorare i turisti stranieri e li spinge a comprarsene un fazzoletto o a ristrutturarne un casolare, e che a suo tempo aveva colpito Natale Anconetani quando vi aveva trovato rifugio nel 1944 dai bombardamenti aerei e vi era ritornato anni dopo in villeggiatura, perché il Balcone della Vallesina, dall’alto di un imponente colle, a metà tra i monti e il mare Adriatico, fa allungare lo sguardo all’infinito e, sfidando la storia, scatena la fantasia. Poco importa se il nome è fatto derivare dal longobardo staffal, ovvero palo di confine, svettando il paese, prima del Mille, al limite tra il Ducato di Spoleto e i territori bizantini. La staffa da caval- catura, al centro dello stemma comunale, sembra dare più ragione allo scrittore quando delega l’autorevole Filocrate a narrare a Gentildonne di buona estrazione la storia di Staffolo e della staffa perduta da un Cavaliere di vetro, lui che era di un’altra pasta, a confronto degli altri della sua epoca. Di un’altra pasta lo era in tutti i sensi, perché di vetro trasparente tanto che si poteva vedere il suo interno, proprio come erano stati gli uomini del luogo, i naïfs, di cui lui l’ultimo esemplare. Costretto a tenersi lontano dagli uomini di carne per garantirsi l’incolumità, trovava riparo nella selva e più si allontanava più destava interesse e attenzione, in particolare di certe fanciulle di dubbia estrazione, che addirittura se lo sognavano di notte. Un bel giorno decidono di seguirlo e trovatolo a cavallo lo invitano a scendere danzando per lui da vere seduttrici. Il Cavaliere, confuso da una simile accoglienza, pensa d’impegnarle nella ricerca di una staffa perduta poco prima nel bosco, promettendo ingenuamente di sposare la fanciulla che l’avrebbe rinvenuta. Pessima idea di un’anima candida e trasparente a fronte di anime opache e irruenti, perché una volta trovata l’ambita staffa, mordendo e graffiando, ognuna giura di essere lei ad averla ritrovata. Vani son dunque gli sforzi del Cavaliere di restare incolume perché a questo osceno spettacolo provò tanto disgusto del genere umano, così come era ridotto, che non resistette e si buttò con il cavallo tra le rocce, polverizzandosi fino all’ultima molecola, dentro un burrone. Dal ricordo della staffa perduta, un giorno venne decretato di dare il nome di Staphilus a questa altura. E con il fascino sempre verde della leggenda, lo scrittore mette in ombra anche la tradizione popolare per cui Staffolo deriva dal greco staphilé, grappolo d’uva, e deve i natali a Stafilo, figlio del dio del vino Dioniso e Arianna il quale, sbarcato in Italia, si avventura fino a questo colle portando con sé la vite. In verità, è la terra stessa che reclama questa origine avendo fatto del frutto dei numerosi filari la sua eccellenza economica, il “Principe tra i bianchi”: il Verdicchio Classico dei 62Primapagina Pompa a ruota ATTUALITà E CULTURA Esposizione staffe da cavalcata del museo di Staffolo Castelli di Jesi, rigorosamente DOC. Biondo, fragrante di frutta e di fiori, questo vino ha la luminosità e la trasparenza di una natura schietta e verace, come quella del Cavaliere, figlio di un terreno particolarmente versatile e vocato per la vite. Simbolo indiscusso del luogo, Staffolo non poteva non rendergli omaggio se non con la Festa del Verdicchio, che si svolge ad agosto, il Premio nazionale della Gastronomia “Verdicchio d’Oro, a settembre, ed il Museo dell’Arte del Vino. Silvia Brocani, che insieme alla famiglia si occupa del Museo e dell’enoteca di proprietà del Comune, mi fa strada in una piacevolissima struttura che si sviluppa su tre piani e tra gli strumenti per la lavorazione dell’uva il più antico che mi mostra è un torchio in rovere del 1695 perfettamente conservato e recuperato nella vicina campagna. La famiglia Brocani lavora in questo settore da circa trent’anni nel rispetto più totale delle tradizioni e dell’ambiente e rappresenta una delle quattordici aziende vitivinicole presenti nella zona tipica del Verdicchio. Davanti ad una preziosa raccolta di bottiglie esposta al secondo piano, Silvia esalta e mi conferma la vivacità di sfumature nel sapore e nel profumo che caratterizza questo vitigno, grazie anche alla varietà delle componenti del terreno stesso e alla giacitura del vigneto. Ad esempio, il terreno in cui è prodotto il Lunatico, uno dei loro vini di gran scelta, è chiamato “calcinello”, particolarità che già di per sé lo rende unico. A chiudere in bellezza questo delizioso viaggio nel mondo del vino, al terzo piano del museo, allineate con cura in teche di vetro, riposano diverse staffe da cavalcatura, di lavorazione e di materiale diversi. Che abbia ragione la storia oppure il mito, in fondo in fondo agli staffolani piace pensare che in un tempo indefinito un cavaliere di vetro dall’anima pura abbia realmente attraversato questi luoghi e chissà, magari tra le staffe conservate, c’è quella da lui perduta! Fonte bibliografica • Natale Anconetani, Il Cavaliere di vetro: cronache di Staffolo tra favola leggenda e fantasia, Jesi, 1999. Imbuti e bollitori in terracotta primapagina63 PRODOTTI DI MARCA di Giulia Pettinelli* Il Trading on line di Banca Marche si rinnova I l trading on line, conosciuto anche con l’acronimo inglese TOL, è la compravendita di strumenti finanziari tramite internet. E’ nato in Italia solo nel 1999, quando il “Nuovo Regolamento Consob di attuazione del Testo Unico dei mercati finanziari” ne ha definito gli aspetti normativi. In ogni caso, da quando l’accesso ai mercati finanziari è diventato più facile, guadagnare con il trading si è trasformato nel sogno di tanti pur con le dovute cautele che questo strumento necessita. Non esiste, infatti, il guadagno facile senza rischi! In Banca Marche, già dal 2001, è disponibile il servizio TOL di cui, il 24 luglio 2013, è stata rilasciata una versione completamente rinnovata. Il nuovo servizio di Trading on line consente di effettuare a distanza operazioni di compravendita di strumenti finanziari, di avere in tempo reale le notizie sul mondo finanziario, i prezzi, i grafici dei titoli delle principali borse e molto altro. Il T.O.L. Banca Marche è stato rivisitato in base ai principi stabiliti nel Nuovo Modello di Servizio della Banca ed alla necessità di mettere a disposizione dei Clienti una piattaforma informatica evoluta e completamente rinnovata. Con il nuovo Trading on line il clien64Primapagina te può personalizzare la modalità di visualizzazione dei contenuti disponibili nell’applicazione, disporre in tempo reale di notizie ed informazioni sul mondo degli affari e della finanza nazionale (notiziario Milano Finanza DJ News che offre una dettagliata copertura del mercato domestico e le maggiori notizie a livello internazionale). Il servizio in questione consente, inoltre, la visualizzazione di clip multimediali di informazione finanziaria, analisi fondamentale (Borsa Italiana), analisi tecnica (su azioni Italia) e la possibilità (in base al profilo scelto) di gestire ordini condizionati semplici (stop loss / take profit) e ordini condizionati complessi; è, infine, prevista la possibilità di attivare la notifica gratuita tramite SMS degli ordini eseguiti. Il nuovo T.O.L. di Banca Marche permette, quindi, sia ai meno esperti sia a chi ha esigenze di trading più evolute, di avere subito a disposizio- ne le informazioni e le funzionalità desiderate per operare sui mercati scegliendo tra uno dei tre profili proposti: “Easy” - per un primo approccio ai mercati finanziari (riservato alle persone fisiche); “Advanced” - per chi vuole seguire il mercato disponendo di informative finanziarie più approfondite ed operare attraverso strategie di investimento più complesse (riservato alle persone fisiche) e “Business” – per tutte le aziende che vogliono usufruire del servizio TOL (riservato alle imprese). Il nuovo Trading on line è ospitato all’interno del “Portale dei Servizi Online Banca Marche”, che consente alla Clientela di usufruire di altri servizi web, quali Self Bank, Deposito Sicuro e ON CARD WEB, da un unico punto di accesso e con uniche credenziali. Oggi, con Banca Marche, è quindi ancora più facile fare trading! scoprire tutte r e p le ia il F in o m Ti aspettia o servizio di v o u n l a d e rt e ff o i le agevolazion he! di Banca Marc *Servizio Marketing PRODOTTI DI MARCA di Filippo Cantarini* Nuovo “Mutuo Energy” Banca Marche C ’è ancora tempo per beneficiare dei “bonus fiscali” per le ristrutturazioni edilizie e la riqualificazione energetica che sono stati recentemente potenziati e prorogati dal Decreto Legge n. 63/2013. Al fine di permettere alla Clientela di sfruttare tali agevolazioni fiscali, Banca Marche ha arricchito la propria gamma prodotti con la nuova linea di mutui residenziali denominati “Mutuo Energy”. L’iniziativa è rivolta a privati e ditte individuali che sostengono spese per ristrutturazione e/o riqualificazione energetica di immobili residenziali, per le quali è possibile usufruire di detrazioni fiscali pari al 50% per le ristrutturazioni edilizie e al 65% per gli interventi di efficienza energetica, compresi gli interventi su immobili colpiti dal terremoto e gli interventi antisismici su immobili delle aree territoriali a rischio. La Banca finanzia fino al 100% dei costi sostenuti con un massimo di € 150.000, comunque rispettando un “loan to value” (rapporto tra l’importo del mutuo e il valore dell’immobile) massimo dell’80%. Il Cliente può scegliere tra due di- *Servizio Marketing verse tipologie di mutuo: tasso variabile con durata massima fino a 30 anni o tasso e durata variabili a rata costante con durata massima fino a 40 anni. Sono previste condizioni di tasso agevolate anche in funzione della nuova classe energetica raggiunta a seguito dell’intervento di ristrutturazione/riqualificazione energetica. Il mutuo può essere erogato in un’unica soluzione (con possibilità di posticipare il pagamento della prima rata per massimo 12 mesi) o a Stato Avanzamento Lavori (SAL). Le consistenti detrazioni fiscali per gli interventi di efficienza energetica e per le ristrutturazioni edilizie, associate ai vantaggi del nuovo “Mutuo Energy” di Banca Marche, sono dunque la migliore soluzione per la manutenzione, la sicurezza e la riqualificazione energetica della casa. Banca Marche si conferma ancora una volta punto di riferimento per l’offerta di credito, contribuendo concretamente allo sviluppo sostenibile della società e del territorio. primapagina65 PRODOTTI DI MARCA di Stefania Rango* La risposta alle tue domande… il Buono di Risparmio di Banca Marche I n un contesto di mercato sempre più complesso, in cui ogni giorno si sente parlare di alta finanza e di prodotti tanto sofisticati quanto incomprensibili, Banca Marche riscopre il valore della tradizione e della semplicità, proponendo il Buono di Risparmio. Il Buono di Risparmio è un classico deposito bancario vincolato, che consente di investire anche piccole somme per un periodo che può andare da 1 a 60 mesi a fronte di una remunerazione predeterminata che può essere a tasso fisso o variabile. E’ essenzialmente una forma di risparmio a breve termine in quanto, per durate del vincolo superiori a 12 mesi, è prevista la facoltà di estinzione anticipata esercitabile in qualsiasi momento successivo ai primi 12 mesi dalla sottoscrizione, dietro pagamento di una penale fissa, indicata sul contratto. Il Buono di Risparmio Banca Marche si rivolge sia ai piccoli risparmiatori sia a coloro che hanno esigenze di investimento più complesse; può essere sottoscritto anche da quella parte della Clientela che non ha un dossier titoli e che al contempo non gradisce la materialità tipica del libretto di risparmio. Bastano poche parole per descrivere il Buono di Risparmio Banca Marche: semplice, perché si sottoscrive velocemente con pochi adempimenti amministrativi e non necessita di consulenza (per esempio non richiede la compilazione del questionario MiFID ed il suo mantenimento nel tempo); sicuro, in quanto le somme depositate sono custodite dalla Banca; garantito, grazie alla copertura del Fondo Interbancario di Tutela dei depositi; flessibile, visto che si può scegliere tra una gamma di soluzioni molto vasta sia in termini di durata del vincolo che di modalità di determinazione ed erogazione degli interessi (rispettivamente, a tasso fisso o variabile, e tutti alla scadenza oppure con un flusso cedolare periodico). Se ami la semplicità, vieni in Banca Marche e troverai le risposte che cerchi! Ti aspettiamo in Filiale per proporti la soluzione migliore per investire i tuoi risparmi! 66Primapagina *Servizio Marketing FOCUS di Giovanni Filosa Intervista a Michele Ambrosini, Presidente di Banca Marche 68Primapagina