Primapagina - Banca Marche

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Primapagina - Banca Marche
Primapagina
Periodico di informazione, attualità e cultura di BancaMarche
Ottobre 2013 - n.64
Mostra sulla
libertà di stampa
Festival del
Giornalismo Culturale
C’era una volta
Tribuna politica
Il ROF? Idea geniale
tornare alle origini
Una chiesa povera
per i poveri
Jovanotti:
di stadio in stadio
sommario
FOCUS
Banca Marche proseguirà per la strada intrapresa di Giovanni Filosa..................................... 5
Una mostra sulla libertà di stampa di Giovanni Filosa............................................................. 6
Grande successo a Urbino per il festival del giornalismo culturale di Laura Moretti.............. 8
Pantheon personale di Alberto Sensini.................................................................................... 10
“La mafia siamo noi” - Anche l’antimafia siamo noi di Chiara Cerri.................................... 12
A COLLOQUIO CON
Il ROF? Un’idea geniale tornare alle origini di Ilaria de Maximy......................................... 14
I gustosi “Aperitivi Culturali” di Sferisterio Cultura di Pamela Temperini........................... 16
Una Chiesa povera per i poveri? di Matteo Pierelli................................................................ 18
Jovanotti, ti porto via con me negli stadi di Laura Moretti.................................................... 20
Da una Rotonda sul Mare nasce la nuova generazione dei cantautori di Paola Stefanucci....... 22
Alla scoperta della nostra regione con le Guide delle Marche di Chiara Giacobelli............. 24
New York 2013, professione reporter di Roberto Ceccarelli.................................................. 26
“Il profumo delle bugie”: la storia grottesco-borghese
di una potente famiglia del nostro tempo di Simonetta Cipriani............................................ 28
Uno sguardo dentro la magia di un “Matrimonio perfetto” di Chiara Giacobelli.................. 30
Quando va in scena il vino di Federica Grilli........................................................................ 32
Lo scultore Massimo Ippoliti e la cultura della storia di Agnese Testadiferro........................ 34
Il trionfo della pictofoto, parola di Fabrizio Carotti di Paolo Termentini............................... 36
COSTUME E ATTUALITÀ
Polo oncologico-chirurgico,
la realtà della dermatologia a Jesi di Giorgio Filosa e Leonardo Bugatti.............................. 38
Imprenditori e manager, tutti a lezione di Facebook di Laura Marinelli............................... 40
A scuola di valori per essere cittadini più responsabili di Marina Argalìa............................. 41
Banca Marche e High School Game, per imparare divertendosi di Marina Argalìa.............. 42
ATTUALITÀ E CULTURA
Il “Lamento di Federico” esalta la stagione a Jesi di Stefano Gottin...................................... 43
Casa Leopardi: i Libri di Giacomo diventano multimediali di Lucia Cataldo....................... 46
Vermeer, mostra sul periodo olandese e non solo sull’artista di Laura Marinelli.................. 48
Da Rubens a Maratta
Le meraviglie del Barocco nelle Marche di Carmen del Vando Blanco................................. 50
Alice verso la porta dei colori di Armando Ginesi................................................................. 52
Osimo, antica colonia Romana di Sergio Rinaldi Tufi............................................................ 54
Timide forme nel silenzio metafisico di Michele De Luca..................................................... 56
Incontro con i Fratelli Quay, un cinema visionario e coinvolgente di Giulia Pieretti............ 58
La magia della vecchia tipografia con l’odore d’inchiostro di Loretta Fabrizi...................... 60
La singolare storia di Staffolo,
a “cavallo” della fiaba, del mito e della realtà di Pamela Temperini...................................... 62
PRODOTTI DI MARCA
Il Trading on line di Banca Marche si rinnova di Giulia Pettinelli........................................ 64
Nuovo “Mutuo Energy” Banca Marche di Filippo Cantarini ............................................... 65
La risposta alle tue domande:
il Buono di Risparmio di Banca Marche di Stefania Rango................................................... 66
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primapagina
Primapagina
Periodico di informazione, attualità e cultura di BancaMarche
Ottobre 2013 - n.64
Mostra sulla
libertà di stampa
Festival del
Giornalismo Culturale
C’era una volta
Tribuna politica
Il ROF? Idea geniale
tornare alle origini
Una chiesa povera
per i poveri
Jovanotti:
di stadio in stadio
BANCA DELLE MARCHE S.p.A.
in gestione provvisoria
Sede sociale
Via Ludovico Menicucci 4/6, Ancona
@
Mandate alla redazione i vostri
commenti e suggerimenti.
Direzione generale
Centro direzionale Fontedamo,
Via Alessandro Ghislieri 6, Jesi
Capitale sociale:
662.756.698,76
Banca dal 1841
40.000 azionisti circa
312 filiali
3.120 dipendenti
Direttore generale
Luciano Goffi
Vicedirettore generale
Angelo Arrigo
Primapagina
Anno XVI n. 64 - Ottobre 2013
Direzione Via Ghislieri, 6 - Jesi (An)
Direttore Responsabile Giovanni Filosa
Redazione Via Ghislieri, 6 - Jesi (An)
tel. 0731/539608, fax 0731/539654
e-mail [email protected]
Editore Tecnostampa S.r.l.
Progetto grafico advcreativi
Stampa Tecnostampa S.r.l. - Recanati
Sped. abb. post. - art. 2, comma 20/B
legge 662/96 - Filiale di Ancona
Aut. Trib. di Ancona n. 25/96 del 25/9/96
focus
di
Giovanni Filosa
Banca Marche
proseguirà per la
strada intrapresa
“P
rimapagina” ritorna, dopo la
mancata uscita del numero
di giugno, a raccontare di nuovo ai
suoi lettori le realtà del nostro territorio e non solo, proseguendo così
con la sua mission originale, che è
comunicare all’esterno gli eventi,
le manifestazioni, gli appuntamenti
che vedono Banca Marche protagonista come operatore economico,
ma anche come propulsore di sviluppo della società e del territorio
in cui opera. Un periodo sicuramente non facile, quello che oggi tutti
stiamo attraversando, un presente
in cui la quotidianità fa emergere
una realtà sicuramente critica ma
talvolta amplificata nel suo spessore e nella sua gravità. Tornando “in
edicola”, come si dice, con il suo
magazine - e la nostra edicola sono
le case dei Soci, gli Enti, le Istituzioni che in tutti questi anni di vita,
ben diciassette, ci hanno gratificato
con la loro stima e i loro suggerimenti - Primapagina di Banca Marche vuole dare un segnale chiaro. Il
momento attuale ha bisogno anche
della ripresa di un dialogo con tutti, che sia costruttivo e soprattutto
coinvolgente, sincero e familiare,
come un lessico comune che, fino a
poco fa, si è declinato all’unisono.
Riprendere la strada che ha portato
l’Azienda ad essere un punto di riferimento, anche se sappiamo bene
che ci vorrà tempo e, soprattutto, sarà necessaria tanta coesione.
Non sono, queste, parole portare
dal vento, le risposte alle tante domande della clientela - e non solo
- debbono cacciare certi fantasmi
che si sono fissati in quanti sembrano sfiduciati, e ridare a tutti la
certezza di una nuova collaborazione e, soprattutto, di stima e fiducia
reciproche. Lo si evince anche dalle
parole che, recentemente, il dottor
Giuseppe Feliziani, uno dei due
commissari nominati da Bankitalia
per la gestione provvisoria di Banca
Marche insieme a Federico Terrinoni, ha pronunciato durante un’intervista alla Rai regionale. Feliziani
ha sostenuto che “Banca Marche
deve proseguire sulla storia per la
quale è nata, vale a dire una banca
prettamente domestica, che prende
i soldi dai suoi risparmiatori con la
sicurezza di ridarglieli, investendo,
poi, gli stessi soldi sul territorio,
destinandoli soprattutto a quelle
aziende meritevoli di poter effettivamente creare un business, uno
sviluppo economico del territorio.
Sono note ormai le criticità della
banca ma è anche chiaro e sicuro
che Banca Marche ha dei punti di
forza sui quali stiamo lavorando
per indirizzarla verso quello che
potrà consentirne un rilancio di
sviluppo. Del resto abbiamo ridato
Come
operatore
economico e
propulsore
dello sviluppo
del territorio
immediatamente sostegno all’attività commerciale della banca,
per esempio con la riapertura del
plafond per l’occupazione, attualmente molto importante per l’economia della regione e non solo.
Abbiamo iniziato a capire quale,
dalle criticità note, potevamo attivare come cantiere per potere, nel
breve, riportare la banca ad essere
nella condizione di camminare su
un processo virtuoso, soprattutto
per ridare i fondamentali di reddito
e di patrimonio alla banca. Abbiamo analizzato attentamente i costi,
rafforzato la parte della organizzazione, chiamato i manager e facendoli partecipare a quelle che sono
le discussioni su dove, come e con
chi si dovrà andare per affrontare
un nuovo percorso. Questo lo facciamo sì nell’interesse della banca
e dei clienti ma anche per creare
i presupposti per una valutazione
molto chiara a quelli che potranno
essere i futuri investitori di questa
banca. Banca Marche deve ritrovare la sua vocazione ed anche l’ingresso di nuovi soci futuri, i quali
devono avere a cuore l’interesse
della Banca stessa. Noi cercheremo
di mettere nelle condizioni questi
futuri potenziali nuovi soci, e nuovi investitori, di valorizzare tutti
i punti di forza che questa banca
sappiamo possiede”.
Cosa farà Primapagina in questo
panorama? Sarà come sempre il
trait d’union coi Soci ed anche con
tutti quelli che hanno necessità di
interagire con la Banca che, più
di tutte ha rappresentato, dalla sua
nascita, che risale a due secoli addietro se si considera quella delle
Casse di Risparmio che l’hanno
fondata, la sostanza del Territorio.
Inteso come Famiglie, Imprese, Società civile, Enti.
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FOCUS
di Giovanni Filosa
questo diritto viene esercitato
nel nostro paese?
N
ella classifica mondiale sulla libertà di stampa, stilata da
“Reporter senza frontiere” l’Italia
è al 57° posto. Rispetto all’anno
scorso abbiamo recuperato quattro
posizioni, ma siamo pur sempre
dietro Botwana, Niger, Burkina
Faso e Sudafrica. Siamo lontanissimi dai vertici dove ci sono, nell’ordine, Finlandia, Olanda e Norvegia.
E’ legittimo dunque chiedersi: questo diritto, nel nostro paese, è veramente in discussione o in pericolo?
Senza pensarci molto dovremmo
rispondere di no. Lo garantisce la
Costituzione e l’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea.
Con tutte queste affermazioni di
principio dovremmo sentirci ampiamente garantiti e tutelati. Invece non è sempre così. I politici non
perdono occasione per cercare di
mettere vincoli e rendere sempre
più difficile la diffusione di noti-
6Primapagina
zie scomode al “Palazzo”. Certo,
i giornalisti non sono immuni da
colpe e da responsabilità. Ma eccessi e abusi non legittimano e non
giustificano la limitazione di un diritto essenziale e irrinunciabile per
ogni società democratica. Querele
e richieste di risarcimento danni in
sede civile sono armi usate sempre
più spesso per bloccare inchieste e
limitare l’autonomia dei redattori.
In un quadro del genere non è senza
significato l’iniziativa dell’Ordine
dei giornalisti delle Marche che,
grazie alla sensibilità e alla disponibilità di importanti artisti, ha realizzato una collezione d’arte, unica
nel suo genere, che dal settembre
del 2011 è al centro di una mostra
itinerante che ha concluso il suo
viaggio a Jesi nella sede dell’Università. Presente il Presidente del
Consiglio nazionale, Enzo Iacopino, si è parlato dei giornalisti
minacciati con Alberto Spampi-
nato, direttore dell’Osservatorio
Ossigeno per l’informazione (che
monitora i casi di minacce e violenze verso i giornalisti), Marilù
Mastrogiovanni, una giovane pugliese più volte minacciata dalla
mafia salentina e Gerardo Adinolfi, collaboratore di Repubblica e Il fatto quotidiano autore di
un ebook dal titolo “La donna che
morse il cane. Storie di giornaliste
minacciate”.
Sono stati presentati i risultati di
una ricerca su come si informano gli italiani, svolta dal Dipartimento di scienze della comunicazione dell’Università di Urbino
e presentata dalla prof.ssa Lella
Mazzoli, professore ordinario di
sociologia della comunicazione,
direttore del Dipartimento e del
progetto news-Italia.org che indaga appunto il modo di informarsi degli italiani in rete, con
particolare attenzione alla fruizione di notizie attraverso il device mobili.
La mostra itinerante (realizzata
con il contributo di Banca Marche, presente il direttore genera-
Foto Cristian Ballarini
Una mostra
sulla libertà di stampa
FOCUS
le Luciano Goffi, e del Consiglio
nazionale dell’Ordine dei giornalisti) è partita da Caldarola
nel settembre 2011 e ha toccato
diverse città marchigiane (Ascoli Piceno, Fermo, San Benedetto
del Tronto, Ancona, e Pesaro). Nel
dicembre 2012 ha fatto tappa a
Roma nella prestigiosa sede della Biblioteca Centrale Nazionale
dove, su richiesta del Ministro dei
beni culturali Lorenzo Ornaghi, è
stata prorogata per consentire la
visita ai vincitori del Premio creatività 2012 riservato ai giovani
studenti italiani. A Jesi sono state
presentate due nuove opere degli
artisti Giuseppe Fortunato e Giulia Gorlova. Il testo critico del catalogo è stato curato da Armando
Ginesi, mentre l’allestimento è di
Renato Barchiesi. Nel corso della
mattinata il Presidente dell’Ordine dei giornalisti delle Marche,
Dario Gattafoni, ha consegnato
una targa al decano dei giornalisti, lo jesino Giuseppe Luconi,
che svolge la professione da sessant’anni.
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FOCUS
di
Laura Moretti
Grande successo a Urbino
per il festival del
giornalismo culturale
D
alla terza pagina all’informazione sul web. Due giorni di
incontri, dibattiti e confronti con
giornalisti, scrittori e accademici per discutere l’evoluzione del
giornalismo e della cultura in Italia. Più di mille persone , sopratutto giovani, hanno partecipato
alla prima edizione del festival
sul giornalismo culturale svoltosi
all’interno dello splendido palazzo
ducale di Urbino, patrimonio mondiale dell’Unesco. “Di festival ce
ne sono tanti ma questo mancava e
la cultura dovrebbe essere il motore dell’economia e della crescita di
questo paese” ha dichiarato Lella
Mazzoli, direttrice del festival. “Bisogna però parlarne, usare tutti gli
strumenti, i luoghi e le cornici. Pensiamo alle generazioni di domani,
cominciamo con loro, come questo
festival in una piccola sezione ha
fatto portando anche ragazzini delle
scuole nei luoghi del dibattito. Parola detta, scritta e visiva sono sempre
fonti della cultura o delle culture”.
Con la consapevolezza che cultura
vuol dire tante cose: arte e letteratura certo, ma anche gastronomia.
A parlare di informazione culturale,
nomi noti del giornalismo italiano
come Corrado Augias che ha aperto
il festival con una lectio dal titolo
“Si può raccontare il mondo?”. “ Il
8Primapagina
FOCUS
giornalismo culturale si può fare,
basta soltanto osare un po’ di più,
perché la gente che si interessa c’è.
La cultura è una costruzione che ha
bisogno di un avvio” ha sottolineato Augias. Poi e’ stata la volta del
giornalista e critico letterario Piero Dorfles che durante la lezione
dal titolo “J’accuse al giornalismo
culturale italiano” ha lanciato un allarme: “Se il giornalismo culturale
non fa parte del progetto comunicativo dei mass media, è destinato a
estinguersi”. “A volte nella rete si
tende a guardare quello che già si
condivide e non ci si apre al dibattito, all’incontro”. Infine Concita de
Gregorio di Repubblica ha chiuso
la rassegna dicendo: “ il tabù esiste,
sacralizzare il web è sbagliato. È un
luogo pubblico e in quanto tale va
aperto anche alle critiche”. Tutto
parte dal concetto di ‘terza pagina’,
nicchia culturale dei giornali nata
proprio in Italia e scomparsa dai
quotidiani odierni. Ma non può prescindere dall’esistenza di internet
oggi, con i suoi ritmi frenetici che
sembrano mal coniugarsi con un
giornalismo più riflessivo e ragionato. “Credo che - ha spiegato Lella
Mazzoli, organizzatrice dell’evento
- tutti noi dovremmo essere attenti
alla cultura, o meglio alle culture.
Abbiamo usato due spazi, quello di
Palazzo Ducale e quello del Collegio Raffaello, proprio in piazza, per
coniugare gli spazi dell’accademia
con quelli della gente”. Uno degli
incontri e’ stato poi dedicato alla
dimensione internazionale del giornalismo culturale, con l’intervento
di giornalisti di importanti giornali europei, come Lucia Magi (El
Pais), Philippe Ridet (Le Monde) e
Irene Hernandez Velasco (El Mundo). L’evento è stato organizzato
dal dipartimento di Scienze della
comunicazione dell’università Carlo Bo di Urbino e dalla Scuola di
giornalismo di Urbino.
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FOCUS
di
Alberto Sensini
Pantheon
personale
c’era una volta
la tribuna
politica
F
ra le vittime innocenti della tanto bistrattata Prima Repubblica
ci sono le famose Tribune Politiche.
Certo, la trasmissione che andava
rigorosamente in onda in prima
serata, non era entusiasmante e non
sempre il dialogo fra giornalisti
e politici forniva lumi sui meandri della politica di casa. Tuttavia
quelle Tribune erano di qualità
nettamente superiore rispetto all’
alluvione dei talk show di oggi. Il
Gran Cerimoniere delle Tribune è
stato per molti anni il giornalista
Jader Jacobelli, il Moderatore per
eccellenza. Uomo schivo, di poche
parole, attentissimo a non derogare dalla regola aurea dell’ assoluta
neutralità, Jacobelli, che nelle Tribune aveva il compito di scegliere
i giornalisti e di dirigere i dibattiti
con il cronometro in mano, era nella vita privata un intellettuale finissimo, uno studioso appassionato
di Croce e dell’idealismo italiano:
tutto diverso da quello “ uomo
orologio” come lo chiamavamo
scherzosamente noi, ospiti fissi degli appuntamenti tribunizi. Di più,
comunque, in quella sede il povero
Jacobelli non poteva fare dato il ruolo
di asettico e neutrale
conduttore - manovratore del dialogo
televisivo. Ma si deve
a lui, per esempio, lo
sdoganamento dei leader della destra tagliati fuori in quegli
anni dalla normale
dialettica giornali politica.
Almirante,
Daniele nella
fossa dei leoni
Il leader del MSI
Giorgio
Almirante
aveva due facce. Una
era quella del comiziante abituato ai fischi degli oppositori.
L’altra era quella del
leader politico, capace di discutere con chiunque senza mai alzare
la voce, dialettico furbo, abituato
all’isolamento ma quasi lieto di
questa condizione. Lo avevo conosciuto, appunto, in occasione
delle Tribune. I colleghi facevano
di tutto per evitare di essere invitati
da Jacobelli , un po’ per un comprensibile ripudio ideologico, ma
soprattutto per la paura di risultare
soccombente nel dialogo in TV. Io
ci andavo fiducioso da vecchio liberale e sicuro che il superdialettico
Almirante non mi avrebbe messo in
difficoltà. Mi era grato, infatti, perché avevo scritto un editoriale del
“Corriere della Sera” in cui si sosteneva che un attentato alla stazione
Tiburtina di Roma, attribuito alla
svelta ai neofascisti, era invece di
provenienza anarchica, come poi fu
provato in tribunale. Non era stato
un atto di coraggio da parte mia, ma
un invito a ragionare al di là degli
schemi allora in voga. Almirante lo
capì e me ne dette atto in una lettera
di ringraziamento. Ho sempre creduto che non per caso in TV fu, con
me, sempre rispettoso e garbato.
Malagodi, poliglotta
ma non tanto
Non era simpatico Giovanni Malagodi ma era certamente un uomo di
grande cultura, di autentica passione, di rude e talora sgradevole
franchezza. Aveva respirato la po10Primapagina
FOCUS
litica fin da bambino e dal padre
– famoso giornalista, direttore
della “ Tribuna” e autore della celebre biografia di Giovanni Giolitti
– aveva ereditato certe stranezze di
carattere. Come quella, nota solo a
pochi intimi, di parlare a casa soltanto in latino, costringendo così i
poveri figlioli ad una fatica improba. Era coltissimo, dicevo e davvero Malagodi è stato, in questo senso, un’eccezione nel nostro mondo
politico che non è certo un’ accademia di pensosi intellettuali. Eppure anche Malagodi aveva qualche
lacuna. Curiosamente quel politico
che scambiava lettere con Luigi
Einaudi, De Madariaga e Willelm
Roepke (luminari della cultura
liberale) e citava a memoria Benedetto Croce,prendeva cantonate
curiose in fatto di lingua italiana.
Un giorno (ero allora redattore capo
del settimanale liberale “La Tribuna “ ) piombò in redazione. Era
scandalizzato perché in un articolo
di Manlio Lupinacci si parlava di
uno zio: “un zio“, si dice e si scrive, tuonava Malagodi e solo dopo
un attento controllo di vocabolari
italiani, si convinse di aver torto.
Da buon liberale si scusò, sforzandosi si sorridere. Anzi fece di più:
ci offrì un fiasco di Chianti della
sua tenuta del senese. Gesto che ci
fece restare di stucco, dato che tutti
conoscevamo la fama di uomo parsimonioso ( eufemismo… ) che lo
accompagnava da sempre.
Covelli, viva e abbasso
la monarchia
Leader del monarchici, Alfredo Covelli era un gran signore meridionale, amico di tutti, frequentatore
assiduo del Transatlantico, uomo
simpaticissimo, cordiale, sempre
pronto alla battuta e al sorriso. A
differenza di tutti gli altri, Covelli
andava a “ Tribuna politica“ per divertirsi, ben consapevole di rappresentare un’ideologia – l’idea monarchica – nettamente minoritaria
nella pubblica opinione. Un giorno,
un collega di un giornale romano
ebbe un momento di crisi: la domanda a Covelli toccava a lui, ma
il povero collega si era visto bruciare tutte le domanda da chi lo aveva
preceduto e non sapeva come fare.
Le Tribune, infatti, erano rigorosamente in diretta e quindi bisognava
per forza dire qualche cosa o simulare un malore. A quel punto scrissi
una domanda e la passai al collega
che, in preda al panico, la lesse a
malapena,farfugliando
appena
quel che era scritto sul foglietto. “
Fermi tutti tuonò allora Covelli con
il suo vocione da baritono: “Sensini
ha scritto la domanda del collega.
Jacobelli, lo mandi dietro la lavagna…”. Una risata corale chiuse la
scenetta . Ma da quel giorno ogni
volta che ci incontravamo a Montecitorio, Covelli mi salutava con un
tonante “abbasso la repubblica”. E
io rispondevo “abbasso la monarchia”. Altri tempi.
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FOCUS
di
Chiara Cerri
“La mafia siamo noi”
Anche l’antimafia siamo noi
“La mafia siamo noi
e il nostro modo
sbagliato di
comportarci”
LA CAROVANA ANTIMAFIE
FA TAPPA A ISOLA DEL PIANO
Rita Atria,
testimone di giustizia,
suicida a 18 anni
il 26 Luglio 1992,
una settimana dopo
l’uccisione di Borsellino
e la sua scorta.
Q
uel “noi” si riferisce alla società civile, quell’insieme di
teste e cuori che spesso dimentica
quanto potere creativo e resistente
ha tra le mani. La società civile, prima interlocutrice di chi promuove
la cultura della legalità, di chi sollecita la partecipazione nella lotta
alle mafie, di chi fa di tutto questo
un caposaldo della democrazia e si
impegna nel riutilizzo positivo dei
beni confiscati.
Uno di questi beni si trova a Isola
del Piano, piccolo Comune della
Provincia di Pesaro e Urbino che
conta circa 640 cittadini, il primo
dei quali, il Sindaco Giuseppe Paolini (per tutti Peppino), sin dalla sua
elezione nel 2010, si è adoperato
per ridare dignità a quel luogo che
era stato residenza, già dagli anni
’80, dell’imprenditore di Erba Ruggero Cantoni e della sua famiglia.
A seguito dell’operazione “Sciacallo”, che ha visto in prima linea il
sostituto procuratore Luca Masini,
si è arrivati alla condanna del capofamiglia Cantoni, il quale era al
vertice di un’associazione a delinquere dedita in particolare a truffa e
usura. Nel 2002 sono stati confiscati diversi beni appartenenti alla fa12Primapagina
miglia e al suddetto, tra cui appunto
due edifici e oltre sei ettari e mezzo
di terreno a Isola del Piano.
Nel 2006 i beni sono stati assegnati al Comune che, inizialmente,
aveva ideato un progetto relativo
alla nascita di una struttura socioassistenziale; più tardi invece, nel
2010, la nuova Giunta ha ritenuto
di rivedere quel progetto, e nel gennaio 2011, ottenuto il riaffidamento
unico del bene, sono stati presi i
contatti con Libera – associazioni,
nomi e numeri contro le mafie. Proprio nell’estate dello stesso anno si
è tenuto a Isola del Piano il primo
campo di volontariato di eState Liberi sui beni confiscati alle mafie
nella regione Marche, importante
iniziativa che ha visto la partecipazione di cinquanta giovani provenienti da tutta Italia.
Oggi in questo luogo sorge La Fattoria della Legalità, e proprio qui
recentemente ha fatto tappa la Carovana Internazionale Antimafie,
copromossa da Libera e Avviso
Pubblico, con il sostegno di Cgil,
Cisl, Uil e Lingue de l’enseignement. Si tratta di un’iniziativa nata
nel 1994 in Sicilia, ad un anno e
mezzo dalle stragi di Capaci e Via
D’Amelio, con l’intento di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle
tematiche mafiose e di portare solidarietà, attraverso un percorso a
tappe, a coloro che combattono per
la legalità e la giustizia nel proprio
territorio. Oggi, oltre a tutto questo,
è un laboratorio itinerante che offre
la possibilità di creare relazioni e
reti tra vari luoghi e comunità, per
rafforzare il senso di democrazia,
per combattere il degrado e la marginalità sociale, per cooperare a riformare la politica.
Quest’anno la Carovana è partita
il 30 Marzo da Tusini, per poi attraversare tutta l’Italia dalla Sicilia
al Trentino Alto Adige, e ad ottobre, dopo la pausa estiva, riparte in
Francia, con le tappe di Marsiglia,
Nizza, Tolone, Nimes e Bastia; ovviamente ad ogni sosta avviene il
FOCUS
passaggio del testimone, rappresentato fisicamente dall’arrivo e della
partenza dei furgoni della Carovana.
Dall’arrivo della Carovava a Isola
del Piano si sono succedute diverse
iniziative nell’arco di questi mesi:
dall’incontro con Susanna Camusso, passando per l’evento conclusivo di Alimentazione e Legalità, con
incontri, spettacoli teatrali, proiezioni e ovviamente stand gastronomici di qualità, arrivando infine al
Campo di volontariato ed ai laboratori di formazione e di promozione
della cultura della legalità promossi
da Arci, SPI-Cgil e Libera; il Campo, svoltosi l’estate scorsa, ha visto
impegnati una ventina di ragazzi
non solo negli incontri e nei laboratori formativi, ma anche nella ristrutturazione attiva dello stabile
confiscato alla mafia.
Ognuno di questi eventi si innesta
all’interno del progetto della Fattoria della Legalità, possibile grazie alla legge n.109/96 che prevede
l’uso sociale dei beni confiscati alle
mafie: l’obiettivo è quello di creare
una cooperativa sociale di tipo B,
ovvero una cooperativa che svolge
attività economiche al fine di creare occupazione e reinserimento
sociale, coinvolgendo quindi anche
categorie di persone quali disabili,
ex tossicodipendenti, ex detenuti.
Concretamente l’idea è di recuperare l’edificio principale per farne
un agriturismo, abbinando quindi
ristorazione e soggiorno, e ricavarne anche dei luoghi per la didattica;
il secondo edificio invece dovrebbe
essere destinato alla realizzazione
di un birrificio artigianale ed eventuali altri laboratori; infine, il terreno sarà utilizzato per l’agricoltura
biologica e la biodiversità.
Tante idee in divenire che sono
altresì bandiera di un alto valore
simbolico, anche e soprattutto in un
territorio come quello marchigiano
che, a ben vedere, non è rimasto im-
mune da infiltrazioni di tipo mafioso: si contano ben 17 beni confiscati
nella provincia di Pesaro e Urbino.
La mafia, le mafie, ci riguardano,
non ne siamo immuni. Se noi siamo
la mafia, noi possiamo essere anche
l’antimafia.
“C’è un’antimafia degli eroi ma c’è
un’antimafia quotidiana, fatta da
chi respinge una raccomandazione,
da chi parcheggia sulle righe e non
sul marciapiede, da chi prende un
brutto voto e si mette a studiare di
più, da chi ha la forza di dire a una
amico che sbaglia” (Bruno Contigiani, “La nostra parte quotidiana”,
Linus 08/12).
primapagina13
di
Ilaria de Maximy
Il ROF?
Un’idea geniale tornare
alle origini
Abbiamo intervistato
il sovrintendente gianfranco mariotti
A
ridosso dell’inizio della 34ª Edizione del Rossini Opera Festival,
che attraverso la riscoperta dell’autenticità del repertorio operistico di
Rossini ha ridato splendore al Cigno
di Pesaro ottenendo passione e amore da ogni parte del mondo, ho avuto
il piacere di intervistare il Sovrintendente Dottor Gianfranco Mariotti che
ringrazio per aver condiviso con noi
parte della “Sua Storia”.
Come le è nata l’idea del Rossini
Opera Festival, e quali sono state le
difficoltà per affrontarne la nascita
in un momento storico in cui Rossini era conosciuto solo per poche
opere?
L’idea è nata quando nel ‘69 ho assistito, per puro caso, al Barbiere di
Siviglia alla Scala diretto da Abbado
con l’edizione critica di Alberto Zedda: non avevo mai sentito Rossini fatto in quel modo, fino a quel momento
su quella partitura erano stati esercitati tutti gli abusi e gli arbitrii possibili,
mentre eseguita in quel modo le si
restituivano leggerezza e trasparenza
mozartiana.
Per me fu uno shock e tornai a Pesaro
con l’idea che Rossini forse andava
riportato tutto alla sua lezione originale. Poi è stato un concomitare di
situazioni favorevoli perchè la Fondazione Rossini mise mano ad un
progetto di opera omnia in edizione
critica di tutto il corpus rossiniano
nei primi anni ‘70, così presentai, in
14Primapagina
popolari come è stato! Avendo a disposizione una miniera di capolavori
, una specie di Atlantide, è stato facile
ogni volta, stupire il mondo con una
nuova opera!
Consiglio Comunale, il progetto di
un Festival che fosse la prosecuzione dell’attività musicologica con anche un versante teatrale ed editoriale
(partecipò la casa Ricordi di Milano)
e nell’ ‘80, con il recupero del Teatro
Rossini che era l’anello mancante,
partimmo con la prima edizione che
ebbe subito una grande ricezione da
parte del pubblico ma sopratutto della
critica. Insomma, era la cosa giusta al
momento giusto! Come scrisse dopo
qualche anno il New York Times,
nessuno poteva immaginare che una
formula musicologia più teatro non
avrebbe interessato solo una fascia
di spettatori colti ma sarebbe stata
la base di una lunga serie di successi
Il Festival è ormai conosciuto e seguito in tutto il mondo e numerosa è la partecipazione del pubblico
straniero; come sono stati invece i
rapporti con Pesaro e con i pesaresi
inizialmente e come lo sono ora?
I primi anni siamo dovuti andare
“contro” la città: ci chiedevano di fare
il Festival non d’estate ma a giugno o
a settembre, di usare l’Orchestra del
Conservatorio, i costumi dell’Istituto
d’arte e richiedevano sempre il Barbiere di Siviglia o il Guglielmo Tell.
Invece, dall’inizio, abbiamo pensato
che quest’impresa avrebbe interessato il mondo, non solo Pesaro o l’Italia,
quindi i costumi furono fatti nella più
grande sartoria teatrale e quasi subito
ci fu data la disponibilità dell’Orchestra di Abbado..inizialmente si è dovuto combattere contro il localismo
ma anche la città si convinse presto
delle nostre scelte, il successo mondiale infatti arrivò abbastanza presto.
Passando ai luoghi in cui si svolge
il Festival: l’Adriatic Arena è un
luogo che continua a non piacere ai
frequentatori del Rof: ci sono speranze che tutta la manifestazione
torni in città in tempi brevi?
Anche noi non siamo affezionati a
Foto Studio Amati Bacciardi
A COLLOQUIO CON
A COLLOQUIO CON
questo luogo...ma abbiamo dovuto
fare di necessità virtù perchè il vecchio palazzetto dello sport, che era
stato riarredato in modo da avere
una sede tecnologica ed attraente, era
diventato inagibile e non sono stati
trovati fondi per ristrutturarlo. Siamo
riusciti quindi a bonificare gli spazi
dell’Adriatic Arena costruendoci due
teatri. Ma si è poi preso atto del fatto
che il centro storico così si svuotava,
si perdevano il clima e l’atmosfera
tradizionale del Festival, con il rito
degli stranieri melomani che dal mare
attraversano la città a piedi per i vicoli entrando nelle botteghe prima
di andare a Teatro ..andare in navetta
non è la stessa cosa! Abbiamo fatto
uno sforzo e abbiamo riportato 80%
del Festival in centro facendo spettacoli più agili che potessero avvicendarsi al Rossini nel giro di 24 ore. Siamo giunti ad un buon compromesso
perchè ora c’è una sola produzione
all’Adriatic Arena.
Anche questa città è colpita dalla crisi
, ma non il nostro botteghino, abbiamo un pubblico fidelizzatissimo fatto
da 2/3 di stranieri , spettatori che vengono da tutti i cinque continenti, che
si informano, conoscono il libretto, i
cantanti, l’Accademia, c’è un rapporto che va aldilà del biglietto! Pensi
che c’è gente che vede tutti gli spettacoli, ogni replica! Abbiamo bilanci
sani, ci siamo autoridotti, facciamo
spettacoli con costi molto minori rispetto al passato ma abbiamo delle
maestranze e dei tecnici straordinari e
di primissimo livello.
Può commentare i suoi rapporti con
gli sponsor ed in particolare con la
Banca delle Marche?
Il fatto che la Banca delle Marche abbia riconfermato la sponsorizzazione
è per noi un fatto estremamente positivo non solo positivo!
Qual è stato, secondo lei, lo spettacolo più importante prodotto dal
Festival in questi anni e a quale Lei
è più affezionato ?
Lo spettacolo più importante è stato
probabilmente il Viaggio a Reims del
1984 con la più spettacolare locandina dei tempi moderni. E’ una cantata
in onore dell’incoronazione di Carlo
X Re di Francia con 18 personaggi
principali e congegnata da Rossini per
fare cantare tutti i più grandi cantanti
d’Europa del periodo: compose per
ogni personaggio musiche al limite
del virtuosismo e quindi servivano i
migliori in ogni ruolo- e noi abbiamo
messo insieme una compagnia di canto di quel livello. I bassi erano Ramey,
Raimondi e Leo Nucci, soprani la Cuberli, la Ricciarelli, la Gasdia, poi la
Terrani... io ho una personale predilizione per Le Comte Ory che per me
è un immenso capolavoro ma anche
per il Moïse et Pharaon del ‘97 che fu
uno spettacolo straordinario, e anche..
davvero non saprei rispondere!
Mancano ancora opere del catalogo
rossiniano da rappresentare al Rof?
L’unico titolo che manca ai nostri palcoscenici è Aureliano in Palmira che
faremo l’anno prossimo, dopodichè
abbiamo fatto tutte le opere del catalogo rossiniano questo però non significa tutti a casa!
Da uno studio effettuato dal Dipartimento di Economia di Urbino è risultato che ogni euro investito dalle
istituzioni per il Rossini Opera Festival produce un valore pari a sette
euro in termini di crescita economica, in più il Festival nell’edizione
2012 ha avuto eccellenti risultati al
botteghino. Pensa che l’edizione di
quest’anno riuscirà a mantenere
questo andamento positivo nonostante la crisi economica attuale ?
primapagina15
A COLLOQUIO CON
di
Pamela Temperini
I gustosi “Aperitivi Culturali”
di Sferisterio Cultura
quando gli aperitivi stuzzicano
non solo il palato, ma anche la mente
S
torie nude di passioni, vestite di
parole e di musica, intrecci incisi nella partitura del tempo che ogni
anno tornano alla ribalta nell’arena
dello Sferisterio di Macerata, che
dal 2006 è Sferisterio Opera Festival, avvincente watershed nella
tradizione della stagione lirica maceratese, inaugurato con tre opere
di Mozart, Puccini e Verdi idealmente unite dall’emblematico filo
conduttore del viaggio iniziatico.
Ed un altro viaggio è cominciato da
allora, all’interno e a fianco della
rassegna lirica, con la manifestazione degli “Aperitivi Culturali”, promossa dall’Associazione Sferisterio Cultura, in collaborazione con
il Comune di Macerata e l’Amat, e
sostenuta dal generoso contributo di
sponsor tecnici e di Banca Marche.
Ho il piacere di parlarne con la curatrice, l’avvocato e Presidente del
Comitato Pari Opportunità Stefania
Cinzia Maroni, da sempre appassionata di lirica. “Quando Pier Luigi
Pizzi ha assunto la direzione artistica dello Sferisterio nel 2006 ha
introdotto una svolta nel modo di
intendere la lirica. Con il Maestro
Pizzi ha inizio il Festival. Ricordo
quel periodo ricco di confronti ed
iniziative che ben armonizzavano
con l’idea del Festival e che hanno
fatto nascere gli aperitivi culturali.
L’intenzione è di offrire all’interno
della stagione lirica altre opportunità culturali, in forma di appuntamenti e di incontri attinenti al tema
delle opere in cartellone. Tra l’altro, in linea con il nome, ogni incontro si conclude con degustazioni
enogastronomiche spesso legate
alle opere ma anche e soprattutto
all’eccellenza del nostro territorio.
Con questo spirito da due anni sono
nati anche gli Aperitivi Culturali a
Teatro che si riallacciano agli spettacoli della stagione teatrale del
Lauro Rossi.” Il viaggio iniziatico,
il potere, la seduzione, l’inganno
sono alcuni dei temi che hanno caratterizzato il Festival in questi anni
e che hanno dato lo spunto per un
affascinante rendering delle opere,
in un sottile gioco di contaminazioni, di rimandi e di interpretazioni
concertate con filosofi, giornalisti
ed altre realtà sociali. Intrigante ad
esempio è la lettura data della Tosca qualche anno fa. “La Tosca di
Puccini, spiega Cinzia, si è prestata per un quesito particolare. Il
melodramma è stato approfondito
alla luce di un possibile caso di
concussione sessuale, così come
l’anno dopo per la Madama Butterfly si è tirato il filo di un’indagine
Cinzia Maroni con l’attuale direttore artistico del Macerata Opera Festival, Francesco
Micheli, gli attori Lunetta Savino ed Emilio Solfrizzi, protagonisti al Teatro Lauro Rossi
della commedia “Due di noi”. Foto: Veronica Antinucci
16Primapagina
dell’opera nella prospettiva del turismo sessuale e della prostituzione
minorile. La stagione teatrale che
si è appena conclusa è stata particolarmente fertile di contaminazioni culturali. Gli attori e i registi si
sono confrontati con filosofi, musicologi, letterati e si sono aperte
tante e diverse visioni sui temi degli spettacoli dimostrando come
la tradizione ben s’innesta nella
contemporaneità. Per esempio, la
storia di Cyrano de Bergerac è stata proiettata nel presente grazie al
suggestivo tema dell’identità che
scivola e si frantuma nella molteplicità come oggi testimoniano gli
stessi social networks, mentre la
relazione di coppia, passando di
genere in genere, dal melodramma
alla commedia, se pur diversa nella
pluralità degli eventi rimane straordinariamente sempre la stessa.”
In una contingenza difficilissima
come quella attuale in cui il ritmo di
chiusura delle aziende è sempre più
gravoso, il dramma della recessione
imperversa spietato anche sui sipari italiani che chiudono da Nord a
Sud. Che le crisi economiche portino quasi sempre al fisiologico taglio
della cultura non è un mistero. Fa
molto piacere per questo riscontrare come invece a Macerata si riesca
Cinzia Maroni con la filosofa Monia Andreani e l’attore Alessandro Preziosi, regista ed
interprete del Cyrano de Bergerac. Foto: Veronica Antinucci
A COLLOQUIO CON
Cinzia Maroni curatrice della rassegna “Aperitivi Culturali”
ancora a non soccombere nel disagio generale. “Quando siamo partiti sette anni fa con questo progetto
abbiamo trovato nella Banca delle
Marche un’alleata significativa che
ha riconfermato il suo sostegno
anno dopo anno, convinta di condividere con noi un obiettivo importante, quello di non sottovalutare
il ruolo della cultura quale volano
indispensabile per l’economia maceratese.” Per festeggiare Giuseppe
Verdi nel bicentenario della sua nascita, quest’anno lo Sferisterio Opera Festival ha affiancato due opere
del compositore emiliano, “Nabucco” e “Il trovatore” a un dittico di
Benjamin Britten, “Il piccolo spazzacamino” e “Sogni di una notte
di mezza estate” in un programma
originale e dal titolo accattivante
“Muri e Divisioni”, omaggio implicito al potere dell’arte di demolire
ogni muro, anche quello temporale,
e di annullare le divisioni. Gli Aperitivi culturali non hanno mancato
l’occasione di tirare nuovi fili di
riflessione “dentro” e “fuori” delle
opere in cartellone e, tra gli appuntamenti di quest’estate la presenza
di Patti Smith ha lasciato il segno.
La sacerdotessa del rock nel tempio
della lirica, questo il titolo dell’aperitivo da lei animato, ha dato di sé
un ritratto di scrittrice, poetessa,
musicista, donna e madre incantando il pubblico e confermando come
il potere dell’arte superi ogni arbitrarietà umana.
“È per me molto significativo
avere l’onore di suonare allo
Sferisterio, specialmente nel
mezzo della stagione lirica. Anche se siamo una rock and roll
band, porterò con me il mio
amore per l’opera che è iniziato
quand’ero bambina grazie ai lavori di Verdi e Puccini”.
Patti Smith
primapagina17
A COLLOQUIO CON
di
Matteo Pierelli
Una Chiesa povera
per i poveri?
ce ne parla il vaticanista
giacomo galeazzi
I
l Vaticano e il Papa sono sempre
più spesso tra le prime pagine dei
giornali e dei telegiornali. Dopo gli
ultimi scandali, Papa Francesco sta
tentando di portare “aria nuova” nei
palazzi pontifici. Per sapere cosa
sta succedendo in Vaticano, abbiamo intervistato Giacomo Galeazzi,
jesino, vaticanista de “La Stampa”. Giacomo Galeazzi, laureato in
scienze politiche, ha cominciato la
sua esperienza professionale con Il
Resto del Carlino, diventando pubblicista il giorno del suo diciottesimo compleanno - è stato il più giovane pubblicista d’Italia. Dal 1997
al 2001 ha lavorato al Tg1 occupandosi di esteri e di informazione
religiosa; dal 2001 è alla redazione
romana de “La Stampa” con l’incarico di vaticanista.
Papa Francesco già dal suo insediamento ha portato delle novità,
rinunciando ai privilegi e agli ori.
Bergoglio rappresenta davvero la
svolta per la Chiesa?
Già con Papa Benedetto XVI c’è
stata una diminuzione della “corte
pontificia”, ma con Papa Francesco
il cambiamento è stato radicale. Il
nuovo Papa ha un atteggiamento
semplice, sobrio, gli piace stare in
mezzo alla gente ed avere un contatto diretto. Questo suo modo di
“fare Chiesa” l’ha caratterizzato da
sempre, sin da quando era un semplice prete argentino. Il suo stile è
tra quello di Papa Giovanni XXIII
e Papa Giovanni Paolo II, mite e
compassionevole. Nel viaggio in
Brasile, in occasione della Giornata
Mondiale della Gioventù, ha visitato le favelas portando la parola di
Dio tra i più poveri ed emarginati.
Il suo motto è: Una Chiesa povera
per i poveri.
18Primapagina
Il nuovo Papa quali riforme intende attuare?
Tra i primi nodi da sciogliere vi è la
radicale riforma dello Ior, l’Istituto
delle Opere religiose. L’«operazione trasparenza» iniziata dal suo predecessore, Benedetto XVI può non
bastare. I vari scandali, il coinvolgimento dello Ior in operazioni non
troppo pulite, spingono il vescovo
di Roma a recuperare la buona reputazione dell’istituto finanziario
vaticano. Ha richiamato la Chiesa
alla ‘’gratuità’’ e alla ‘’povertà’’.
‘’San Pietro non aveva un conto
in banca’’, ha avvertito Papa Francesco.Questi primi mesi di governo sono stati di studio, di presa di
coscienza diretta dei problemi da
affrontare. Si è imbattuto in gruppi
di potere che resistono in zone opache che favoriscono la corruzione.
Bergoglio è intenzionato a pulire e
a semplificare la Curia romana, ci
sarà un Consiglio di otto cardinali
che affiancheranno il Papa.
Ho letto di una “lobby gay”. Di
che si tratta?
Le tre condotte errate del Vaticano, che Papa Francesco cerca
di scardinare, riguardano: il carrierismo, l’avarizia e la sessualità. In riferimento a quest’ultima
condotta,Bergoglio ha ammesso
l’esistenza di una “lobby gay” nella
Chiesa. Un gruppo di vescovi che
utilizza la propria omosessualità
per la ricerca del potere, di favoritismi per fare carriera, anche attraverso il ricatto.
Cosa c’è dietro alla rinuncia al
soglio pontificio di Papa Benedetto XVI?
Papa Ratzinger si è dimesso semplicemente perché non riusciva
a tenere testa agli scandali, che
all’inizio del 2013 avevano colpito
il Vaticano e fatto cadere la moralità
della Chiesa ai livelli più bassi. Non
c’è stata nessuna pressione affinché
Ratzinger si dimettesse, ma è stata
solo una suavolontà. Ad eccezione
di suo fratello e di Padre George
nessuno sapeva delle dimissioni, è
stato un gesto di forte cambiamento
e di ripartenza. In epoca moderna
nessun Papa si è mai dimesso.
Che ruolo ha lo IOR all’interno
del Vaticano? Ha influenzato e influenza i rapporti politici con gli
altri Paesi?
Lo IOR (Istituto per le Opere di
Religione) è un istituto privato, fu
creato nel 1942 da papa Pio XII per
finalità etiche conlo scopo di provvedere alla custodia e all’amministrazione dei beni mobili e immobili
trasferiti o affidati allo IOR da persone fisiche o giuridiche e destinati
a opere di religione e carità. Ora è
diventato un peso per il Vaticano
e non è più un asset fondamentale
come lo era nei tempi della Guerra
Fredda; lo si può definire “l’ultimo pezzo del muro di Berlino”. In
quei tempi la Città del Vaticano era
l’epicentro della contrapposizione
del blocco occidentale e del blocco
comunista. Oggi si potrebbe fare a
meno della Banca Vaticana e trasferire i 5miliardi di depositi presenti
in una banca internazionale.
Veniamo a te. Qual è la giornata
tipo di un vaticanista?
Ormai dal 2001, da quando sono
vaticanista, ogni mattina mi reco
alla sala stampa del Vaticano per le
ultime notizie che poi nel pomeriggio trascrivo sia per la carta stampata che per il blog su La Stampa on
line. La domenica seguo l’Angelus
e il mercoledì l’Udienza Generale.
Perché hai scelto proprio questo
tipo di giornalismo?
Sono arrivato a fare il vaticanista
quasi per caso. Dal 1997 ho iniziato
a lavorare al Tg1, dove seguivo gli
esteri e la preparazione del Giubileo del 2000 di Roma, poi il direttore del Tg1 passò a La Stampa così
lo seguii e diventai vaticanista de
La Stampa.
Se potessi ritornare indietro rifaresti il vaticanista?
Sono soddisfatto della mia vita e
della mia professione, anche se
quando iniziai il mio percorso di
giornalista erano altri tempi. Ora
non mi sento di consigliare a chi
volesse intraprendere la mia professione di farlo. Oggi c’è un cambiamento continuo del modo di fare
comunicazione, internet ha reso tutto più semplice e più difficile allo
stesso tempo. Una volta chi faceva
il giornalista aveva bisogno di un
cameramen, di un fonico e di buone
gambe. Oggi è sufficiente una sola
persona a fare tutto, è sufficiente
vedere la trasmissione di Rai3 Report. Credo che saranno premiati i
giornalisti che riusciranno a stare al
passo con la tecnologia ed anzi chi
riuscirà a prevederla.
Nel lavoro nascere in una città di
provincia ti ha ostacolato?
Non mi ha ostacolato, anzi mi ha
fatto vedere i fatti da un’ottica periferica facendomi crescere la curiosità di scoprire cose nuove.
primapagina19
A COLLOQUIO CON
di
Laura Moretti
Jovanotti
ti porto via con me negli stadi
jovanotti per la prima volta negli stadi,
è partito da ancona per un tour di
successo
N
on è stato solo un concerto, ma
uno show in piena regola, una
grande festa di musica, parole, suoni e colori che per quasi due ore e
mezza ha infiammato oltre 20.000
fans lo Stadio del Conero di Ancona, aprendo ufficialmente il primo
vero tour negli stadi di Jovanotti
che si è concluso il 20 luglio a Cagliari.
zio per liberare la macchina allora
fai il back up, cioè lo metti da parte
per far girare meglio il pc e questo è quello che ho voluto fare con
questo concerto, dopo aver suonato
e e cantato in tutta Italia, archivio
questa esperienza stupenda per iniziarne un’altra, senza dimenticarla, semplicemente mettendola da
parte. di storia col pubblico. Non è fatto
personale ma credo anche una generazione che è cresciuta e si riconosce nel modo di guardare al mondo e che è venuta negli stadi prima
di tutto è in grado di progettare e
immaginare il futuro. È stata una
grande festa, il mondo è rimasto
fuori dallo stadio, è stato un modo
per dimenticare un clima pesante.
Come mai hai scelto di chiamare
il concerto “Back up”?
Back up è una parola tecnica, si
usa per i computer. Quando hai il
software pieno hai bisogno di spa-
Hai voluto festeggiare i tuoi 25
anni di carriera con un concerto
per la prima volta negli stadi Italiani, come mai?
Ho voluto festeggiare i miei 25 anni
Tu sei sempre molto vicino alla
gente tramite i social network. In
questo periodo difficile sopratutto per l’elevata disoccupazione
giovanile, di che cosa hanno biso-
20Primapagina
gno secondo te i giovani per essere incoraggiati?
Hanno bisogno prima di tutto di
un lavoro, di condizioni nuove, di
un paese nuovo, con nuove regole,
nuove forme di solidarietà e di una
leadership il più possibile preparata
ad affrontare i problemi del futuro.
È importante che ci sia qualcuno
che li guidi, che proponga strade
nuove e poi i giovani secondo me
hanno bisogno di affetto, di sostegno da parte dei più grandi, aiuto
emotivo, e anche di un po’ di tifo,
perché no, di qualcuno che dica “ragazzi possiamo farcela”. Bisogna
passare questo guado, è una nuova
sfida, ogni generazione ne ha una,
penso a quella di mio padre, nel
dopoguerra. La sfida dei ragazzi di
oggi è svoltare, andare avanti. Credo che possono farcela ma bisogna
impegnarsi, mettersi in discussione,
muoversi.
Dodici ore di prove al giorno sul
palco ma anche tanto sport, dieta
ferrea. Qual’è il tuo allenamento
prima di un concerto?
Quando sono venuto a giugno nelle
Marche, prima tappa nazionale del
mio tour, ho fatto più di 12 ore di
prove al giorno, ho dormito solo
4 ore, ho provato sul palco sotto
pioggia e vento. A fine serata mi
ricordo che crollavo sul letto, stanco morto. Alla mattina presto mi
alleno, faccio un po’ di corsa poi
vengo allo stadio dove seguo gli
hardware, provo con i musicisti,
in realtà io non faccio quasi nulla
tranne che la cosa più importante,
offro la visione. Poi faccio un allenamento specifico per il concerto con un personal trainer che è lo
stesso di Alonso e di Fiorello. Sui
giornali hanno scritto che andavo
tutti i giorni al mare invece non
era vero, ma ti confesso che l’avrei
fatto volentieri, sarei andato con
piacere in spiaggia, a Portonovo,
un posto bellissimo. Proprio come i
marchigiani, secondo me sono belle
persone, gentili, genuine e discrete.
Mi piacciono molto.
Qual è la canzone che dopo tanti
anni ti emoziona sempre?
“Penso in positivo”. La metto alla
fine di ogni concerto, questa frase vorrei che fosse la mia firma
da qui all’eternità, mi piace pensare
sempre in positivo.
primapagina21
A COLLOQUIO CON
di
Paola Stefanucci
Da una Rotonda sul Mare
nasce la nuova generazione
dei cantautori
Nostra intervista con
Gianmarco Frascaroli,
in arte Fraska
È
marchigiano, e ne va così fiero,
tanto da dedicare un travolgente swing alla località famosa per
la rotonda sul mare: “Senigallia”.
Gianmarco Frascaroli, in arte Fraska, classe 1980, voce magnetica,
respiro pop-jazz, è uno dei migliori
cantautori italiani della nuova generazione. Prodotto da Sergio Caputo,
noto anche per la sua partecipazione all’Edicola con Fiorello, lo scorso agosto ha conquistato il titolo
“Marche Ambassador of the Year”
e bissa altresì il “Franco Enriquez”
che aveva già ricevuto nel 2011, naturalmente per meriti musicali. Gira
tutto lo stivale con la sua chitarra,
l’inseparabile Fly Band e una valigia di album accattivanti (i suoi). Lo
abbiamo incontrato.
Gianmarco, abbiamo appurato che
nel suo caso la musica è una passione (e un talento) familiare.
Mio nonno trombonista e fisarmonicista, insieme a suo fratello sassofonista e clarinettista, emigrato
22Primapagina
in Francia (dove è nata mia madre)
alternava il lavoro in miniera a concerti di musica da ballo per le ricche
famiglie del posto. Mi ha trasmesso
la passione per la musica ma il merito va senza dubbio a mia madre,
che a dieci anni m’iscrisse ad un
concorso canoro radiofonico. Vinsi.
Iniziai così a pensare che, forse, la
musica mi avrebbe accompagnato
negli anni a venire.
Lei ha 33 anni e certo il tempo trascorso all’Accademia musicale di
Ancona, così importante per la sua
formazione artistica, non è ancora
sbiadito…
L’accademia musicale di Ancona è
una bellissima realtà. Gli insegnanti
mettono a disposizione degli allievi non solo conoscenze artistiche e
tecniche ma anche organizzative, realizzando a fine anno saggi itineranti
dove cantanti e musicisti prendono
dimistichezza con il palco e soprattutto con il pubblico, le due componenti su cui si regge una performance dal vivo. Ringrazio ancora tutti
coloro con i quali ho condiviso anni
di crescita interiore e musicale.
Primo brano?
“Così rifletti” dedicato al mio migliore amico, colpito a soli diciotto
anni da una grave malattia, che ha
poi vinto facendoci capire il senso
della vita.
Prima esibizione in pubblico?
Più o meno a vent’anni in un locale,
che ora non esiste più, al porto di Ancona. Era una sorta di circolo culturale. Allora amavo interpretare Gino
Paoli e Frank Sinatra. Fu atipico per
quel locale e il suo pubblico “alternativi”, ascoltarmi. Quell’esperienza mi servì per acquisire sicurezza
e consolidare il mio stile musicale.
Quale incontro, secondo lei, è stato
determinante per la sua carriera?
Senza nulla togliere a Ricky Portera, Greg e Sergio Caputo, quello con
Fiorello.
Ci presenti la Fly Band…
La mia seconda famiglia. Condividiamo ogni scelta artistica e musicale. Abbiamo arrangiato insieme il
mio nuovo album “Come la Primavera”. E’ composta da sei musicisti,
ormai degli amici, sempre al mio
fianco nei concerti, rappresentano
il valore aggiunto della mia musica:
Marco Zagaglia, chitarra, Nico Tangherlini, tastiera, Simone Castracani, basso, Simone Pozzi, batteria,
Rocco Vecera, tromba e flicorno,
Luca Tangherlini, sax.
Di dove sono?
Chiaravalle, Agugliano, Camerano e
Ancona.
Una band rigorosamente tutta marchigiana: c’è una ragione particolare?
Oltre alla ragione logistica (sono
nato e vivo nelle Marche, da cinque
anni a Sirolo), soprattutto perché
riconosco di avere quel campanilismo, tipico dei francesi. La propria
terra e la propria gente sono risorse
preziose che, unite, creano qualcosa
di immediatamente identificabile.
Leopardi ne è un esempio. Passeggiare per le vie di Recanati è come
leggere a voce alta una sua poesia.
Parliamo del successo del suo ultimo album, autoprodotto, “Come la
primavera”. Se lo aspettava? Non
mi creo delle aspettative, altrimenti
vivrei male la magia del comporre.
C’è sicuramente la curiosità di conoscere il parere del pubblico, ma
A COLLOQUIO CON
credo sia importante prima di tutto,
e questo vale in ogni forma d’arte, impegnarsi nel realizzare opere
originali senza tempo che sappiano
emozionare prima di tutto noi che le
scriviamo, sperando che ciò avvenga anche per chi le ascolterà.
Sapere che artisti come Fiorello, Antonacci, Gianluca Guidi, o giornalisti quali Vincenzo Mollica, apprezzino la mia musica è una notevole
gratificazione in questo momento
così atipico per la musica italiana,
dove l’immagine conta più dei contenuti. Il nostro è un mestiere fatto di
emozioni, non di numeri. Infatti, non
so neanche quante copie dell’album
io abbia venduto su Itunes. Amici
e collaboratori me lo chiedono, ma
preferisco non interessarmene.
Perché?
Ho paura di entrare in un meccanismo (mercenario) lontano dal mio
ideale di musica.
La tournée dei desideri?
Mi piacerebbe compiere un tour nei
piccoli teatri storici della Regione e
attraverso la mia musica valorizzarne l’unicità.
Lo scorso luglio è arrivata Greta.
La paternità ha indubbiamente segnato una svolta nella sua parabola
esistenziale…
D’ora in poi avrò due muse cui ispirarmi. A mia moglie ho già dedicato una canzone che ha per titolo il
suo nome “Chiara”. Con quel brano
conquistai l’attenzione di Sergio
Caputo. Anche Fiorello lo apprezza molto. Difatti, nei miei concerti
“Chiara” non manca mai proprio per
ricordare che l’amore è in ognuno di
noi arriva inaspettato, come quando si scrive una canzone, ma è solo
l’inizio...
primapagina23
A COLLOQUIO CON
di
Chiara Giacobelli
Alla scoperta della
nostra regione con le
Guide delle Marche
A
rriva l’autunno e con esso cresce la voglia di esplorare la
nostra meravigliosa regione in lungo e in largo, alla scoperta di mare,
montagne e colline.
Molte passeggiate le abbiamo già
fatte più di una volta, ma non ci
stanca ripeterle; altre invece saranno del tutto nuove, inedite. E
allora una maniera alternativa per
apprezzare fino in fondo le bellezze del territorio è quella di affidarsi
a dei professionisti del settore, che
del turismo hanno fatto la propria
bandiera: saranno loro a suggerirvi itinerari più o meno tradizionali
a cui finora non avevate pensato,
oppure semplicemente ad arricchire con qualche informazione in più
quegli stessi gioielli architettonici e
naturalisti che fino a ieri credevate
di conoscere bene.
Tra chi si occupa di accompagnare
gente del posto e non nell’esplorazione della nostra terra troviamo
l’Associazione Guide delle Marche, un gruppo di esperti in grado
di toccare praticamente ogni provincia.
“La nostra associazione nasce dalla volontà di affrontare il segmento
dell’incoming nell’ambito del mer24Primapagina
un’associazione di
professionisti
suggerisce itinerari a tema
e accompagna turisti o
habitué nell’esplorazione
delle marche più inedite
cato turistico in maniera più strutturata e solida, per fornire un’offerta articolata ai clienti italiani e
stranieri” spiega Daniela Perroni,
una delle figure che compongono la
squadra.
Che genere di percorsi avete in
mente per i vostri clienti?
“Le nostre proposte sono molteplici, perché intendono esprimere al
meglio le diverse potenzialità del
territorio. Generalmente abbiamo
due tipi di clientela, quella che per
la prima volta scopre le Marche e
quella degli habitué: alla prima offriamo una panoramica delle città
più importanti, alla seconda itinerari tematici ed enogastronomici”.
In che modo avviene al lato pratico l’organizzazione di questi pac-
chetti turistici?
“Le nostre competenze sono relative all’ideazione di itinerari, all’organizzazione di eventi tramite la
nostra P.C.O. (Professional Congress Organiser), all’assistenza da/
per aeroporto e poi anche all’accompagnamento e alla consulenza.
È però importante precisare che
non proponiamo pacchetti turistici completi, che per legge sono di
competenza esclusiva delle agenzie
di viaggio”.
Allora diamo ai nostri lettori
qualche spunto per scoprire le
Marche in autunno.
“Tre itinerari tematici che ci piacciono molto e che riscuotono sempre un certo successo sono: 1) La
matematica e le scienze alla corte
dei Montefeltro; 2) La pittura adria-
A COLLOQUIO CON
tica tra 1400 e 1500, con un’attenzione particolare ai polittici di Carlo
e Vittore Crivelli, senza ovviamente dimenticare la grande pittura di
Lorenzo Lotto; 3) L’arte della musica e le sue cattedrali: Pergolesi,
Spontini, Rossini interpretati dalla
grande voce di Beniamino Gigli nei
maggiori teatri marchigiani”.
Se doveste stilare una Top Four
dei monumenti/luoghi più belli
delle Marche?
“1) Palazzo Ducale di Urbino; 2)
Duomo di San Ciriaco; 3) Sferisterio di Macerata; 4) Piazza del popolo ad Ascoli Piceno”
Altri itinerari da non perdere?
“Le Sirene del Monte Conero è una
passeggiata naturalistica e panoramica che conduce lungo alcuni
sentieri del più importante promon-
torio marchigiano. Vi è compresa
anche la visita alla chiesa di San
Pietro, con i suoi antichi capitelli
densi di misteri e simbolismo. A
Osimo il tour della città – con il
Duomo, il Battistero e il Santuario
di Giuseppe da Copertino – viene
affiancata dalle affascinanti grotte
del sottosuolo, con tanto di labirinti
e camere segrete. Spostandoci più
a sud, un itinerario storico-artistico
per tutti, comprese le scuole, si
snoda attorno ai siti archeologici
di Fermo: Montefortino, Smerillo,
Monte Vidon Corrado, Falerone,
Monterinaldo e l’imperdibile Museo del Cappello. Infine, in provincia di Macerata possiamo suggerire
una passeggiata a Camerino, San
Severino e il Castello di Lanciano,
seguendo le tracce del Ducato dei
Da Varano, denso di storia e fascino
senza tempo”.
UID
dell
Per approfondire:
www.guidedellemarche.com
primapagina25
A COLLOQUIO CON
di
Roberto Ceccarelli
New York 2013
professione reporter
T
rent’anni di news sugli schermi americani iniziando
come assistente di produzione in una piccola, televisione via cavo locale. Frank LoBuono, origini italo americane, è un reporter newyorkese e lavora per la CBS News,
il “rullo” d’informazione di una delle più importanti emittenti d’oltreoceano.
E proprio per la CBS, Frank LoBuono lavorava anche nel
2001, quando per otto giorni consecutivi ha raccolto le immagini di devastazione dell’attacco terroristico alle torri
gemelle, immagini che l’11 settembre di ogni anno ripropone sul suo blog, in ricordo delle vittime.
Chi ha la fortuna di averlo come amico su Facebook ha
l’opportunità di vedere in tempo reale alcune delle immagini di back stage su ciò che dopo poche ore verrà trasmesso
sui notiziari di tutto il mondo. Insomma, il lavoro di Frank
raccontato sui social media, è una specie di vetrina privilegiata delle cronache che provengono dagli Stati Uniti e
che si materializzeranno dopo poche ore anche nei notiziari
anche nostrani. E’ cronaca dell’attesa, per un’inquadratura,
per un’intervista o per uno scatto ben piazzato. E’ successo
di recente con la grande fuga dei due terroristi della strage alla maratona di Boston, ma anche con i racconti delle
devastazioni di origine naturale, come l’uragano Katrina,
per arrivare all’elezione di Papa Francesco, raccontata da
Roma al mondo, ma anche per i volti celebri raccolti alle
passerelle degli Oscar cinematografici. Merito dei social
network, dunque, è anche questo, poter assistere alla creazione delle notizie e avere un punto di vista più largo di
quello dello schermo televisivo.
Frank, quali ruoli hai ricoperto durante la tua carriera
e qual è il tuo legame con l’Italia?
frank lobuono,
videoreporter e
giornalista di cbs
news, racconta la
professione tra nuovi
media e grandi eventi
della
storia degli stati
26Primapagina
uniti d’america
Nel business televisivo ho ricoperto praticamente ogni posizione. Ho fatto l’assistente di produzione, il produttore,
l’editore, lo scrittore, il fotografo e lo studio manager. Attualmente lavoro per una delle principali news tv degli Stati
Uniti: CBS News.
Entrambe le mie famiglie d’origine provengono dalla Sicilia. Quella di mia madre Celeste/Vitanza, viene da un piccolo paese della Sicilia orientale, San Salvatore di Fitalia.
La famiglia di mio padre, Ferrara/LoBuono, viene invece
da una città della parte occidentale dell’isola, Lercara Friddi.
Quali notizie dall’Italia appassionano gli ascoltatori
americani? E cosa pensano, se è possibile generalizzare,
gli americani dell’Italia?
Gli americani amano la maggior parte delle cose italiane.
Tuttavia, detto francamente, vedono alcuni aspetti della
vita politica italiana e del sistema giuridico, come una specie di “scherzo”. La costante ricomparsa di Silvio Burlesconi come Premier e il “fiasco giudiziario” del processo
ad Amanda Knox, sono alcuni dei casi che contribuiscono
alla costruzione di questa immagine negativa. Più in generale gli americani vedono l’Italia come un bellissimo paese
storico, dove alcune cose vengono fatte molto bene e altre
cose (come la politica) molto male.
A COLLOQUIO CON
Tu lavori da trent’anni con la televisione. Come è cambiata la professione di giornalista in tutti questi anni?
L’industria dell’informazione sta vivendo le evoluzioni che
stanno sperimentando anche altri ambiti. E’ un settore dove
si sta cercando di fare sempre di più, ma con meno risorse. Nel business delle notizie, la redditività fino a tempi
recenti raramente è stata una priorità. Potevi avere a disposizione tutto il necessario per raccontare una storia. Ora,
è rimasta una certa attenzione alla linea di fondo, che in
molti casi, in realtà, diventa la vera priorità. A causa delle preoccupazioni legate ai bilanci, storie che fino a pochi
anni fa erano considerate degne di avere una copertura, non
possono oggi ricevere la stessa attenzione. Tuttavia, la tipologia d’informazione dei canali “all news”, con notizie
che coprono l’arco delle ventiquattro ore, ha fatto si che vi
sia una sempre crescente domanda di contenuti. Questo ci
porta a seguire molte storie che, alcuni anni fa, non avrebbero ricevuto alcuna copertura. L’esigenza oggi è quella di
garantire il giusto equilibrio tra la necessità di riempire il
tempo di messa in onda e il fatto di dover fare i conti con
un budget limitato.
Pensi che il panorama dei social media e del “citizen
journalism” cambieranno ulteriormente il modo di lavorare degli operatori della tv? Quale ruolo per la televisione nei prossimi anni?
Social media e “citizen journalists” hanno già avuto un
enorme impatto sul business dell’informazione e per alcuni
aspetti, è un fatto positivo. Il giornalismo rimane una professione seria, che richiede professionisti preparati a fornire informazioni accurate e tempestive. I giornalisti sono
addestrati ad esercitare l’integrità e l’imparzialità di ogni
storia che raccontano. C’è un percorso professionale per
raggiungere queste caratteristiche che, temo, un cittadino
“normale” non possiede. Inoltre, poiché la maggior parte
dei “citizen journalists” offrono in genere il loro materiale
gratis, le agenzie di stampa spesso li usano al posto dei pro-
fessionisti pagati. Questo fenomeno ha già causato massicci licenziamenti, in particolare di fotoreporter.
Tu hai coperto i principali eventi di cronaca che hanno
sconvolto o cambiato gli Stati Uniti, cosa ti è rimasto di
quelle esperienze?
Parte della soddisfazione di questo lavoro consiste nella
presa di coscienza di essere stati testimoni della storia. Ho
avuto la fortuna di assistere ad alcuni degli eventi più significativi del nostro tempo. Essi hanno contribuito a fare
di me quello che sono oggi. Certo, però, non siamo immuni
alla tragedia. Rimangono anche delle cicatrici emotive perenni.
Quali immagini ti hanno particolarmente colpito?
La distruzione indescrivibile dell’11 settembre 2001 e gli
effetti del passaggio dell’uragano Katrina, sono immagini
che rimarranno con me per sempre. Io sono nato a New
York e ho dovuto lavorare sodo per “allontanarmi” da ciò
che stavo vedendo durante i servizi a ground zero. In quel
momento non potevo permettere che le emozioni offuscassero la resa del mio lavoro. Ma, ora, solo dopo tanti anni,
posso riflettere su ciò a cui ho effettivamente assistito. Tuttavia, mi porto dietro anche le immagini positive e toccanti,
come il lancio e l’atterraggio dello Space Shuttle; inoltre,
ho avuto il privilegio di assistere ad altri tipi di eventi di
portata storica: la copertura della campagna elettorale del
primo presidente nero degli Stati Uniti, Barack Obama .
Nelle tue foto ci sono moltissime celebrità dello spettacolo. C’è qualcuno che avresti voluto conoscere o fotografare, ma che non hai ancora avuto modo di avvicinare?
In effetti, parte del mio lavoro consiste anche nella copertura dei cosiddetti “eventi di celebrità”. Così, ho potuto intervistare la maggior parte degli attori più famosi a livello
mondiale. Ma devo dire che questo tipo di servizio non è il
mio preferito. Insomma, fin da giovane non sono mai stato
uno “star gazer” e non lo diventerò certo oggi. Non sono
impressionato dalla celebrità. All’opposto, trovo che il culto della celebrità sia uno dei grandi mali della nostra società. Tuttavia, fa parte del mio lavoro e continuo a impegnarmi al meglio delle mie capacità. Del resto penso sempre a
quello che uno dei miei mentori, un fotografo Premio Pulitzer, (Ndr. Nat Fein, fotografo del New York Herald-Tribune
vincitore del Pulitzer nel 1949) mi ha detto una volta: “non
ci sono cattivi incarichi, solo cattivi fotografi”.
primapagina27
A COLLOQUIO CON
di
Simonetta Cipriani
“Il profumo delle bugie”:
la storia grottesco-borghese
di una potente famiglia
del nostro tempo
B
runo Morchio, psicologo e psicoterapeuta genovese, è uno
scrittore contemporaneo del genere
noir che ha da tempo collaudato in
numerose pubblicazioni le gesta del
suo personaggio Bacci Pagano. Ma
il suo nuovo romanzo, edito Garzanti, per la prima volta se ne discosta e descrive il contesto odierno,
troppo lontano dal respiro di verità
necessario alla ripresa dalla degenerazione che l’affligge. Esso è la
fotografia nuda e cruda di una certa
Italia di oggi. Lei racconta la storia
28Primapagina
di una potente famiglia genovese.
Come mai ha scelto di affrontare
oggi le logiche connesse ai rapporti all’interno di questo particolare
nucleo?
Perché al di là dell’estro narrativo,
a me premeva fare una riflessione
sulla borghesia italiana, che a mio
parere ha un po’ il difetto di chiamarsi fuori dalle responsabilità.
Ancora oggi dopo quindici anni di
paralisi dell’Italia dal punto di vista
dell’investimento sull’innovazione,
sulla tecnologia, sul futuro, la bor-
Foto Cristian Ballarini
ne parliamo con bruno morchio,
in una rassegna di “incontri con
l’autore” a san severino marche
ghesia si presenta con facce e proposte di un candore assolutamente
inattendibile. Allora mi premeva
parlare di questa borghesia per
quello che è e non per quello che
A COLLOQUIO CON
si rappresenta. E con questo fine ho
narrato la vicenda di una famiglia
alto borghese, che è una cosa un po’
insolita nei miei libri.
Perché lo fa utilizzando lo strumento dell’ironia? La sua è un’ironia di
tipo sociale, psicologico, filosofico
o di entrambi?
Filosofico non direi. E’ un’ironia di
tipo sociale e in alcuni casi anche
di tipo psicologico. Però ho utilizzato soprattutto la prima, perché ho
l’impressione che una saga sulla
borghesia italiana, oggi, non possa
che essere trattata in tal modo; difficilmente si può pensare a risvolti
tragici perché è una borghesia il cui
codice appropriato, secondo me,
non può che essere la comicità.
E’ una comicità un po’ amara
però...
Molto amara nel senso che, poi, alla
fine la scontiamo tutti: questo è il
problema.
Quindi i personaggi principali del
suo racconto sono immersi nella
nostra realtà? Ci spiega il perché
descrivendoci sommariamente in
quali tratti?
E’ una storia calata in questa realtà
che però racconta i vizi della borghesia italiana che vanno al di là di
quello che abbiamo visto nell’ultimo anno e mezzo, cioè è una
borghesia fondamentalmente irresponsabile. La spregiudicatezza di
Edoardo, il capostipite, il vecchio,
il nonno, unita all’ipocrisia delle
generazioni successive costituiscono un buon mix per rappresentare
una società che difficilmente sarà
capace di riconoscere fino in fondo
le proprie responsabilità riguardo
ad una situazione come quella del
degrado attuale. Noi abbiamo bisogno non tanto di invenzioni sul piano economico quanto della capacità
del Paese di assumere la responsabilità morale e culturale di una ripresa che richiederà, secondo me,
molti anni duri.
Ma la bugia pervade davvero la
nostra società, tanto da lasciarne il
profumo?
Direi di sì: il problema vero è che
non è un buon profumo.
Oggi la borghesia diventa sempre
più povera, quanto differisce dalla
dimensione che Lei racconta?
Questo è un romanzo che racconta
la storia di una famiglia alto borghese, di quelle che “più povere”
non diventano affatto. Però ci sono
anche personaggi come Dolores,
che è figlia del proletariato, uno
spirito della terra, o come Rosita,
che è figlia della piccola borghesia,
figlia di un carabiniere, che ha tutte le aspirazioni della borghesia ma
non ha i mezzi per poterle realizzare. Quindi ci sono tutti.
Quale denuncia e quale messaggio propositivo culturale ed umano
vuole trasmettere al lettore?
Nessun messaggio propositivo.
Il romanzo è molto amaro: non si
salva nessuno. Quindi è una presa
d’atto del fatto che la situazione è
veramente preoccupante.
Anche se poi al pessimismo dell’intelligenza si accompagna l’ottimismo della volontà, per cui tutti
finiamo per tirarci su le maniche e
cerchiamo di fare qualcosa di buono per il Paese.
primapagina29
A COLLOQUIO CON
di
Chiara Giacobelli
Uno sguardo dentro la magia
di un “Matrimonio perfetto”
DONATELLA E ARIANNA PADUANO
RACCONTANO IL MESTIERE
DEL MOMENTO:
QUELLO DEL WEDDING PLANNER
L
e note musicali si alzano
nell’aria, le damigelle d’onore
prendono posto accanto alla sposa,
il profumo dei fiori inebria i sensi
ed ecco che, proprio sul più bello,
qualcosa va terribilmente, maledettamente storto!
L’incubo di rovinare il giorno più
importante della vita è qualcosa che
tutti, prima o poi, sperimentano.
D’altra parte, chi non vorrebbe che
le proprie nozze fossero il coronamento di un sogno d’amore in grado di donare magia ad ogni singolo
giorno? E allora sono sempre di più
le coppie che si affidano a professionisti del settore, il cui obiettivo è
unicamente quello di trasformare un
semplice “Sì” in un attimo speciale, intenso, che durerà per sempre.
Come nei film, come nelle favole.
È esattamente il caso de “Il matrimonio perfetto”, un’agenzia con
sede ad Ancona – ma ormai abituata
a lavorare con clienti provenienti
da tutto il mondo – che del proprio
mestiere, quello cioè di creare, ap-
30Primapagina
punto, matrimoni perfetti, ne ha
fatto un’arte e una passione. E così
uno staff di professionisti accoglierà
calorosamente tutti quegli sposi che
al proprio giorno indimenticabile ci
tengono particolarmente.
“La nostra attività nasce in origine come organizzazione di eventi,
attraverso il marchio “Advanced
Snc”, che esiste ormai da ventidue
anni – spiega Donatella Paduano,
una delle due titolari insieme ad
Arianna Paduano – Dopo tanti anni
di esperienza è stato quasi naturale
cominciare ad occuparsi di matrimoni: in un certo senso essi rappresentano un evento, molto speciale.
È nata così l’agenzia “Il matrimonio
perfetto”, il cui staff si compone
oggi di noi due titolari, la Wedding
Planner Alessandra Sensini, Cristiana Bezzeccheri ed Elisa Caprari, più
tutta una serie di collaboratori fidati
che si occupano di allestimenti, fotografie, fiori ecc”.
Negli ultimi anni la moda di affidare
il proprio matrimonio a realtà pre-
A COLLOQUIO CON
parate, fino a farne quasi un evento
cinematografico, televisivo, ha preso sempre più corpo in tutto il mondo; anche in Italia, dove migliaia di
sposi ogni anno approdano dai paesi
più disparati attratti dalle location
da sogno che solo il Bel Paese può
offrire.
“L’aspetto più bello del nostro mestiere è il rapporto di stima, di fiducia e anche di affetto che si instaura
con le persone: spesso esso sopravvive nel tempo, così che a distanza
di anni può capitare di rivedere le
stesse famiglie ormai cresciute, ora
alle prese con Battesimi, Comunioni, Cresime e così via – continua
Donatella Paduano, che del suo lavoro ne ha fatto un vero e proprio
amore: una parte di sé – questo accade perché condividiamo insieme
agli sposi, e ai loro genitori, tante
emozioni per un periodo di tempo
lungo. Solitamente lavoriamo dietro
a un matrimonio 10-12 mesi, anche
se c’è anche chi ci chiama due, tre
anni prima perché tiene tantissimo
alla propria festa e ha piacere di
vederla crescere passo dopo passo.
Alla fine diventiamo quasi un membro della famiglia e questo è bellissimo”.
Ma al lato pratico, che cosa fa
un’agenzia che si occupa di organizzare matrimoni? Ce lo spiega
sempre Donatella: “Per prima cosa
si sceglie la sede, che può essere
un semplice ristorante, oppure una
villa, un castello, un luogo speciale.
Dopodiché si comincia a considerare tutto quello che andrà ad arricchire il matrimonio, in ogni dettaglio: il
catering, la musica, gli allestimenti
esterni ed interni, il fotografo, il
video, le bomboniere e moltissimi
altri aspetti. Nello specifico, una
parte del nostro lavoro riguarda il
coordinamento di fornitori esterni,
un’altra invece è svolta internamente, attraverso un lavoro artigianale
che tenta di essere il più possibile di
qualità”.
Ecco allora sbocciare come per magia centrotavola, bomboniere, gessi,
fiocchi, lanterne, arredi e piccole
bellezze fatte a mano. Insomma,
quello del Wedding Planner è un
mestiere originale ed emozionante,
che consente a chi lo vive di entrare in punta di piedi nel mondo delle
favole, per poi farle diventare realtà. È proprio per questo motivo che
Donatella conclude il suo racconto
con una confessione: “Prima o poi
mi piacerebbe scrivere un libro su
tutte le meravigliose esperienze fatte in questi anni”.
Per saperne di più:
www.ilmatrimonioperfetto.it
primapagina31
A COLLOQUIO CON
di
Federica Grilli
Quando va in scena
il vino
dall’incontro di due eccellenze
del territorio nasce una proposta
per la valorizzazione del verdicchio
dei castelli di jesi doc
“T
eatri del Verdicchio” è la
storia di un’idea, che da progetto di studio si concretizza in progetto d’impresa.
Ne è protagonista Simonetta Sbarbati (jesina, classe 1981) che, messa in tasca una laurea in Scienze
della Comunicazione con una tesi
sul brand naming del Verdicchio
dei Castelli di Jesi, inizia a fare
qualche riflessione sulla strategia di
marketing più efficace per vendere
il prodotto oggetto del suo studio.
Negli ultimi decenni molto, anzi,
moltissimo è stato fatto per riabilitare il Verdicchio dei Castelli di
Jesi, squalificato in passato da scelte produttive e commerciali poco
lungimiranti. Eppure, nonostante la
generale elevata qualità, un disci-
plinare severissimo, le
azzeccate campagne
di brand naming e di
comunicazione, i molteplici premi prestigiosi, nonostante infine
l’ottimo rapporto qualitàprezzo, il Verdicchio di Jesi
continua ad essere un vino
di nicchia, cha fatica a decollare nello spazio aperto della
concorrenza vinicola.
Perché? Qual è il motivo di
questo mancato successo? «Certamente un sistema produttivo molto
frazionato può essere di ostacolo
al consolidamento di una presenza forte dei vini marchigiani nel
32Primapagina
A COLLOQUIO CON
mercato globale» dice la Sbarbati.
«Eppure, dalle interviste realizzate
con i 14 produttori di Verdicchio
dei Castelli di Jesi ho potuto riscontrare in tutti, grandi e piccoli, una
forte volontà di raccontare se stessi,
il proprio prodotto e la storia della
propria azienda.»
Ma le occasioni di promozione, di
“raccontarsi” - come dice Simonetta - sono ridotte: Vinitaly, la più
grande vetrina italiana sul comparto vinicolo, e un paio di altre fiere
nel settore. I produttori maggiori
possono permettersi strategie di comunicazione pubblicitaria di livello
internazionale e spazi pubblicitari di maggior visibilità, ma anche
questo non è sufficiente.
«Bisogna invertire la tendenza»
propone Simonetta: «È poco produttivo proporsi all’estero in realtà
frammentarie e perciò irriconoscibili. Meglio allora investire nell’
incoming, far venire persone nelle
Marche, cosicché possano valutare il vino, ma anche conoscere la
storia e la qualità che sono dietro
il Verdicchio. Abbiamo un enorme
patrimonio da far conoscere, invitiamo quelli che sono fuori a fare
esperienza delle Marche.»
Ecco allora che comincia a farsi strada l’idea: perché non creare
un’identità associata di tutti i pro-
duttori di Verdicchio dei Castelli
di Jesi, uno strumento comune per
la diffusione e comunicazione del
prodotto, magari uno strumento
che parli linguaggi diversi da quelli già sperimentati? E in fondo le
parole “fare squadra”, “sinergia”,
“creazione di rete” sono diventate non soltanto di moda, ma tanto
più necessarie adesso, ora che la
crisi economica morde e obbliga a
escogitare nuovi schemi mentali e
proposte inedite.
Simonetta Sbarbati, insieme con
suo padre Silvano, decide allora
di registrare il marchio “Teatri del
Verdicchio”, che intende così racchiudere due eccellenze del territorio: da una parte il teatro (e le Marche sono per definizione la “regione dei Cento Teatri”) e dall’altra il
Verdicchio, considerato come ambasciatore delle Marche nel mondo.
L’associazione d’idee crea scenari
suggestivi: le cantine non sono
semplici spazi di imprenditorialità, ma diventano luoghi parlanti,
dei palcoscenici in cui “mettere in
scena” il fare vino. Perché il vino,
come recita una scritta sul retro del
biglietto da visita, “è come la ruota:
non esiste in natura”: dietro il vino
ci sono persone, c’è una tradizione,
che hanno impresso una precisa
identità.
Tra le attività promosse da Teatri
del Verdicchio da segnalare l’iniziativa “ariabòna”, svoltasi per
la prima edizione l’anno scorso a
Monte Roberto (An).
Cinque serate di eventi di diverso
genere, ma accomunati dalla provenienza a km 0, in cui si sono innestati momenti di degustazione e
presentazione di cantine. Cosa vedono nel futuro i creatori di “Teatri
del Verdicchio”? «Nell’immediato
senz’altro la riproposta di Ariabona, visto il successo passato, ma gli
spazi per lavorare sono tanti: dal
creare pacchetti turistici ad hoc per
il Verdicchio a progetti educativi
per parlare di vino nelle scuole.»
primapagina33
A COLLOQUIO CON
di
Agnese Testadiferro
Lo scultore Massimo Ippoliti
e la cultura della storia
L
a scultura, come ogni forma d’arte, è specchio e figlia
dell’artista. Viene generata e plasmata con le proprie mani fino a
quando non risulta perfetta. Inizialmente il materiale è grezzo e solo
un occhio creativo può vedere la
potenziale bellezza. Massimo Ippoliti è uno scultore e restauratore
marchigiano, jesino d’adozione,
fiero delle sue origini e per questa
ragione stimato e apprezzato nel
territorio per le sue creazioni e per
l’amore con cui cura i monumenti
corrosi dal tempo. Il suo laboratorio
è come un’opera d’arte. Regnerebbe il caos al primo impatto. Regna
invece un ordine artistico, una geometria di materiali, scalpelli, gessi,
disegni, libri, poster, colori, pennelli, fotografie color senape, in bianco
e nero e a colori. In poche parole, la
34Primapagina
sua vita. Quando parla del suo lavoro gli occhi azzurri si illuminano
ed emerge la passione per ciò che
fa, mentre spiega ogni sua opera,
della quale rimane impressa l’estetica e il valore che rappresenta.
Immerso nel verde e ad un’altezza
collinare tale da poter scrutare il
paesaggio sottostante che nasconde
laghi e resti di città ormai lontane
nella storia, a Montegranale di Jesi,
emergono i bozzetti di ciò che è
esposto all’Arma Caserma Puccini
di Ancona, al Teatro Pergolesi, alla
Guardia di Finanza, alla Fondazione Francesco Darini, alle Chiese
di San Sebastiano e di San Giuseppe di Jesi, allo Stato Maggiore
dell’Esercito di Roma, a Ortona,
Mosca, Detroit e New York. La sua
firma in terra jesina è semplice da
trovare, nel restauro della Fontana
dei Leoni, nel monumento ai Martiri XX Giugno e in quello bronzeo
dedicato a Federico II di Svevia
realizzato su progetto di B. Robazza e H. Schwahn che dal 1995
dà il benvenuto da una delle porte
della città. Oltreoceano, a Detroit
e a New York, due statue gemelle
sul Santo della Repubblica di San
Marino dedicate ai primi sanmari-
nesi emigrati. Recentemente ha riportato alla luce utensili e corredi
della vita picena. che fa rinascere
dalla sua maestria, come il Rasoio.
È autore della statua a dimensioni
naturali dell’artista poliedrico ed
eclettico che incantò l’Europa negli anni Trenta, Alberto Spadolini,
in arte Spadò. Nei suoi progetti la
realizzazione dell’Affondo, opera
dedicata alla scherma che porta il
nome di Jesi alto nel mondo. Affezionato all’Arma, ha realizzato
immagini votive per le Caserme di
Montelupone e di Jesi, ma anche un
monumento di candidi blocchi di
calcare bianco dedicato al giovane
ed eroico carabiniere Salvo D’Acquisto.
Professore di discipline plastiche,
nonché scultore e restauratore di
opere in gesso, marmo e terracotta. Da cosa ha inizio la sua passione?
Da uno scalpello di legno che all’età
di dodici anni decisi di acquistare
con i primi risparmi. Scolpivo con
dedizione e concentrazione i pezzi
di legno che riuscivo a procurarmi. Conseguenza fu la decisione
di iscrivermi a una scuola artistica.
Una grande soddisfazione quando a
A COLLOQUIO CON
vent’anni ho presentato la mia prima mostra al Palazzo dei Convegni
di Jesi.
Quali sono state le tappe fondamentali della sua formazione artistica?
Sono diplomato all’Istituto d’Arte di Ancona in formatura stucchi
e fonderia artistica, e in scultura
all’Accademia delle Belle Arti di
Macerata dove ho discusso, nel
1983, una tesi sulle architetture rurali nella Vallesina. Dopo l’Accademia sono entrato in contatto con il
dietro le quinte dei teatri dove ho
lavorato in qualità di macchinista al
Teatro Pergolesi di Jesi e al Teatro
Rossini di Pesaro. La passione per
l’archeologia nasce invece grazie
all’esperienza maturata all’Anfiteatro romano di Ancona. Ho avuto la fortuna di lavorare a fianco
dello scultore Valeriano Trubbiani. Quando si lavora tra artisti è
inevitabile coinvolgersi l’uno con
l’altro, si è curiosi di capire il perché e il come l’altro ragioni in un
determinato modo. La curiosità, ma
anche la conoscenza profonda del
proprio mestiere, sono essenziali.
Ogni opera da realizzare o restauro da effettuare sono per me nuove avventure dalle quali apprendo
continuamente: nonostante abbia in
mente il lavoro che andrò a compiere, l’incontro quotidiano con l’opera mi sorprende sempre e in base a
questo l’approccio può cambiare di
volta in volta. Quando sono professore coinvolgo molto i miei ragazzi affinché si sentano partecipi del
territorio. Nel 2012, grazie al loro
impegno, è stata donata una scultura alla Compagnia dei Carabinieri
di Jesi.
La conoscenza della storia, ma
anche del passato più recente, che
valore hanno?
Il passato è grande maestro. Ci
sono cose accantonate ma favolose.
Conoscere il territorio è altrettanto
importante. Niente è anomalo, ma
ogni zona ha la sua particolarità che
racconta una storia. Si trovano detriti in posti apparentemente senza
connessione con essi, ma dall’osservazione del terreno si vedono i
segni di un fiume che vi scorreva.
Fare lo sculture significa modellare
e scolpire dopo un lavoro di ricerca e di studio approfonditi. Essere
padrone della materia che si lavora
ne fa apprezzare le qualità. Sapere
come e per cosa veniva utilizzata
dai nostri antenati valorizza ogni
fase di realizzazione e l’opera finale.
Ipotizziamo due sculture identiche ma di diverso autore. Possibile trovare almeno una differenza?
Due sculture non possono essere
uguali, ma verosimili. Dalla manualità intuisci le differenze. Il tocco dell’artista non è mai uguale a
quello di un altro. L’energia interiore che ne scaturisce osservandolo,
cambia. Il modo di dare forma a un
volto o a un oggetto rispecchia la
propria personalità, la capacità di
immedesimarsi in quel che si realizza, il proprio bagaglio interiore
che è frutto di esperienze, sbagli,
successi, sensibilità e istinto.
primapagina35
A COLLOQUIO CON
di
Paolo Termentini
Il trionfo della pictofoto,
parola di Fabrizio Carotti
L
a pelle ocra affiora dall’oscurità più nera. I corpi vibrano
contratti tra fede e ragione per salvarsi da quell’oscurità opprimente.
È il conflitto dell’uomo con sé stesso il centro di gravità delle opere
dell’artista jesino Fabrizio Carotti.
Sono opere di una contemporaneità senza tempo. Nascono da un uso
sapiente dei moderni mezzi dell’era
digitale per affrontare temi universali. Orbitano attorno a paradigmi
concettuali atavici, ripropongono
interrogativi mai risolti.
Alla base del procedimento creativo c’è la fotografia, perché le figure vengono dapprima scritte con la
luce, catturate dall’obiettivo all’interno di set studiati ad hoc. Un lavoro preparatorio equiparabile a un
bozzetto. I soggetti vengono poi ri-
36Primapagina
dipinti con un pennello virtuale, ovvero attraverso un meticoloso lavoro di postproduzione al computer.
Quel che ne risulta è un prodotto
ibrido, tecnicamente definibile pictofoto, neologismo sdoganato dal
critico Gianluca Marziani, che ha
già avuto modo di analizzare l’arte
di Carotti curandone un’esposizione personale al museo Carandente
di Spoleto nel 2011. Dal 20 marzo
al 7 aprile di quest’anno i lavori di
Carotti sono stati ospitati dalle stanze nobili della Pinacoteca Civica di
Palazzo Pianetti a Jesi, raccolti nella mostra «Notte oscura dell’anima». Un evento organizzato per
celebrare l’acquisizione di due suoi
quadri da parte del polo museale,
resa possibile grazie ai fondi del
Premio Rosa Papa Tamburi, voluto
anni fa dal maestro Orfeo Tamburi per arricchire la galleria di arte
contemporanea. Oltre ai pezzi
entrati nella collezione permanente jesina, uno dei quali già
esposto nel 2011 al Padiglione Italia della 54ª Biennale
di Venezia, sono state presentate altre sette nuove
creazioni ispirate ai testi
del mistico Juan de la Cruz
(1542-1591), in particolare alla poesia che ha dato
il titolo alla personale.
Il tuo percorso artistico è
iniziato ufficialmente nel
2008 con le prime partecipazioni
a fiere ed esposizioni in tutta Italia. Dopo cinque anni sei tornato
nella tua città con una mostra
personale. Si chiude il cerchio?
«Il riconoscimento da parte
dell’amministrazione e il calore
ricevuto dai miei concittadini sono
stati motivo di grande gratificazione. In più, entrare a far parte di
una collezione museale permanente è un traguardo che non mi sarei
aspettato così presto, e per questo
ringrazio l’ex assessore alla cultura di Jesi Leonardo Lasca per aver
avanzato la mia candidatura».
Questo progetto
procede nel segno
della continuità
stilistica rispetto
alle tue esposizioni recenti. Ancora
una volta è il nero
a dominare. Che
senso ha per te
questo colore?
«Per me il nero è
soprattutto ricerca di senso. Esigenza di trovare,
ma soprattutto di
cercare. Devo dire
che una certa “cupezza” in questa
serie è in parte
dovuta alla mia
passione per
Dostoevskij,
alla
sua
sensibilità
nell’indagare
le zone
nascoste
dell’anima
umana, e in questo ha anticipato le
teorie di Freud. Sono
stato affascinato dalla sua rappresentazione del buono, che di tanto
in tanto emerge come oro dal pozzo
oscuro e corrotto dell’umanità.»
Entriamo nello specifico di
quest’ultima serie. Su quali temi
hai fatto leva?
«Senza pretendere di poter dare
punti fermi riguardo a tematiche
come la fede e la pietà, in questa
ultima serie ho incontrato le poesie
del mistico Giovanni Della Croce.
In particolar modo mi interessava
indagare il rapporto esistenziale tra
l’uomo e le sue aspirazioni. Nella sua poesia Della Croce indaga
A COLLOQUIO CON
l’illusione dell’appagamento del
desiderio rivolto al corpo e il suo
superamento attraverso la “notte
oscura dell’anima”, che è appunto
il percorso dell’uomo attraverso
gli inganni e le illusioni dovuti ai
limiti della sua mente. Nella mia
ispirazione al testo ho tentato di
rappresentare i vicoli ciechi di questo percorso, immaginandomi un
incontro d’amore tra l’uomo e Dio,
o meglio, tra l’uomo e la
filosofia cristiana, che, al
di là del suo fondamento
religioso, a mio avviso potrebbe funzionare
anche come soluzione
laica, seppure ostica, al
vuoto di senso che ci attanaglia».
Il tuo istinto creativo è
evidentemente mediato
da istanze metafisiche.
Che rapporto c’è tra la
tua tecnica espressiva e
la tua formazione culturale?
«Ho una formazione di
tipo umanistico e la mia
conoscenza delle tecniche fotografiche è da
autodidatta. Mi sono laureato in Filosofia, indirizzo estetico, un percorso che ha contribuito sin
da subito a farmi avere
un approccio critico nei
confronti dei contenuti
che andavo a esprimere. Infatti, nonostante i
miei lavori scaturiscano
esclusivamente da una mia libera
esigenza espressiva, mi capita spesso di reinterpretare la mia espressione tramite filtri critici filosofici.
Spesso l’esigenza creativa nasce
dalla lettura dei grandi classici della
letteratura europea.»
Che ne pensi dello stato dell’arte
contemporanea in Italia?
«La mia ricerca è svincolata dal
percorso delle arti contemporanee.
Nonostante l’utilizzo del computer,
non sono orientato verso la forma
del fare, mi interessa piuttosto riflettere sul perché, cioè sui contenuti. La mia indagine poggia su
interrogativi antichissimi, talmente
antichi da essere contemporanei.
Con la coscienza critica di chi non
vuole costruire paradigmi di lettura, ma offrire spunti costruttivi che
muovano dal dubbio. Infatti, nonostante costruisca le composizioni a partire da schizzi
scaturiti dalla mia immaginazione, mi capita di lasciare spazi di senso aperti
all’interpretazione del fruitore. Penso che la smania
delle avanguardie artistiche contemporanee nel ricercare nuovi linguaggi sia
arrivata a una saturazione
tale da bloccare la comunicazione tra artista e pubblico, rischiando di essere
troppo autoreferenziale».
Progetti per il futuro?
«Ho presentato questi ultimi lavori a Venezia in
occasione di Photissima,
fiera di fotografia contemporanea organizzata in
concomitanza della Biennale. Nel frattempo sto
lavorando a un progetto
per concludere la serie dei
“Neri”, ma preferisco non
anticipare niente perché è
ancora in fase di gestazione».
primapagina37
costume E ATTUALItà
di
Giorgio Filosa e Leonardo Bugatti
Polo oncologico-chirurgico
la realtà della dermatologia a Jesi
L
a Dermatologia è la scienza che
studia le malattie cutanee. Fino
a non molti anni fa i dermatologi
erano visti come quei medici, capaci di risolvere con una crema tutti i
problemi legati a prurito, macchie e
rilevanze della pelle. L’affinamento
delle tecniche diagnostiche e terapeutiche e le maggiori conoscenze
in campo epidemiologico, genetico, hanno modificato l’approccio
verso le patologie cutanee, portando in primo piano l’importanza di
un organo che non è solo organo
di confine con il mondo esterno,
catalizzando su di sé tutti i problemi legati all’inquinamento, ma è
anche un organo spia di patologie
interne. La maggior longevità della
popolazione, l’aumento del fotodanneggiamento, hanno nettamente
aumentato l’incidenza delle neoplasie legate all’azione di raggi ultravioletti, con un aumento continuo
dei tumori cutanei superiori addirittura a quelli degli organi interni.
In riferimento a quanto asserito, la
Dermatologia oncologica, in questi
ultimi anni, ha acquisito sempre
maggiore importanza nell’ambito
della pratica clinica del dermatologo. Infatti nel 1985 nasce ufficialmente la Dermatologia Chirurgica
38Primapagina
Oncologica, che sancisce l’appartenenza al dermatologo della terapia
chirurgica delle lesioni tumorali
dermatologiche: la Dermochirurgia
oncologica viene considerata come
il presidio terapeutico più efficace
nelle lesioni tumorali primarie.
Quali sono le neoplasie cutanee più
frequenti e quali armi abbiamo prima nel prevenirle e poi nel combatterle? Le neoplasie cutanee non melanomatose, cioè il carcinoma basocellulare e squamocellulare sono
quelle più frequenti, secondarie
solo al carcinoma della mammella e della prostata, circa 1.300.000
casi all’anno in America. Sebbene
tali tumori abbiano un bassissimo
rischio di mortalità, il loro impatto sulla qualità della vita è molto
importante. La loro incidenza sta
aumentando a livello esponenziale, così come stanno aumentando i
casi di melanoma, che per fortuna
sono ben lontani dalle percentuali
dei tumori descritti sopra. Il carcinoma basocellulare è quattro volte
più frequente del carcinoma squamocellulare e di circa 20 volte il
melanoma. Una menzione particolare va alle cheratosi attiniche, veri
stadi pretumorali legati all’esposizione solare e all’invecchiamento
cutaneo, della cui esistenza molti
pazienti non sono consapevoli,
scambiandole per verruche. Tra
i fattori di rischio da prendere in
considerazione dobbiamo annoverare il fototipo chiaro, l’esposizione
alle radiazioni ultraviolette naturali
e artificiali, le radiazioni ionizzanti,
l’immunosoppressione, i fattori genetici, le patologie cutanee preesistenti come ulcere croniche cutanee
ecc… Sembra ovvio che la riduzione all’esposizione delle radiazioni
ultraviolette e l’adozione di presidi,
come le creme ad alto fattore protettivo, siano le prime misure da
adottare per prevenire l’insorgenza dei tumori cutanei. La revisione
dei dati della letteratura conferma
la chirurgia come terapia di prima
scelta per la rimozione dei carcinomi della pelle. Tuttavia in alcune
occasioni si preferisce ricorrere ad
altre terapie, meno demolitive ma
altrettanto efficaci. Quali?
Va distinto il trattamento delle
cheratosi attiniche da quello dei
carcinomi cutanei. Per le prime si
possono distinguere trattamenti che
hanno come obiettivo la sola lesione e quelli mirati non solo alla
lesione ma al campo di cancerizzazione, cioè alla cute circostante la
costume E ATTUALItà
lesione che in maniera non visibile
può già contenere cellule mutate e
quindi predisposte alla progressione tumorale. Nella prima tipologia
di trattamento rientrano le procedure prevalentemente distruttive
inquadrabili nella terapia cosiddetta fisica: criochirurgia, curettage,
elettrocoagulazione, laserterapia
con laser ablativi. Nella seconda tipologia di trattamento ricorriamo a
farmaci applicati localmente come:
l’acido retinoico, il 5-fluorouracile
al 5%, il diclofenac/HA, l’imiquimod 5% e l’ingenolo mebutato di
prossima commercializzazione. Di
particolare impiego è la terapia fotodinamica che consiste nel trattare
localmente in occlusione una superficie con un farmaco con elevata
selettività per le cellule neoplastiche e nella sua successiva fotoattivazione con una sorgente luminosa
a luce rossa. Questo trattamento è
particolarmente efficace in pazienti
con un fotodanneggiamento spiccato e presenta il vantaggio della
tollerabilità e l’assenza di esiti cicatriziali. Altrettanto utile è la prevenzione sotto forma di norme di
fotoprotezione tramite adeguati criteri di fotoesposizione e l’adozione
di schermi solari, nonché l’utilizzo
topico della fotoliasi. L’approccio
terapeutico dei carcinomi basocellulari e squamocellulari dipende da
numerosi fattori, quali: dimensione,
sede, e tipo di tumore, età e condizioni generali del paziente. Gli
obiettivi sono: la radicalità oncologica, il risultato estetico-funzionale
accettabile, il minimo disagio per il
paziente e il contenimento dei costi.
L’escissione chirurgica rappresenta
il trattamento elettivo, ed è quello in
effetti utilizzato in oltre il 90% dei
casi, in quanto permette il controllo
della radicalità istologica e quindi
dà migliori garanzie per impedire
la recidiva locale. All’asportazione
chirurgica è strettamente collegata
la ricostruzione plastica. Terapie
chirurgiche alternative di secondo
livello sono: il curettage e l’elettrocoagulazione, la criochirurgia, il
laser CO2. Tecniche alternative non
chirurgiche sono: l’imiquimod to-
pico, la terapia fotodinamica (solo
per forme superficiali), la radioterapia.
A scopo palliativo e/o citoriduttivo
sono utilizzabili l’elettrochemioterapia e di prossimo impiego (solo
per il carcinoma basocellulare) il
vismodegib per via orale. Rimane
comunque fondamentale l’inserimento del paziente oncologico cutaneo in uno stretto programma di
controlli longitudinali per cogliere
sul nascere le recidive e/o l’insorgenza di precancerosi e nuove neoplasie.
L’Unità Operativa di Dermatologia
di Jesi, inserita come branca chirurgica nell’organigramma delle Specialità dell’AV 2 dell’ASUR Marche, è dotata delle caratteristiche di
prevenzione e trattamento e svolge
da anni tale opera nel territorio della Vallesina.
primapagina39
costume E ATTUALItà
di
Laura Marinelli
Imprenditori e manager,
tutti a lezione di Facebook
G
estione delle relazioni con i
clienti ed i potenziali, il marketing la promozione, l’informazione, l’ascolto delle esigenze degli
utenti sono alcune delle potenzialità dell’uso di Facebook nei contesti
di business. E’ per questo che molti
imprenditori e manager frequentano corsi su questi argomenti. Ne
parliamo con Daniel Casarin, blogger e docente dei corsi che organizza con Pressform, e con un imprenditore, Lorenzo Manservigi, che li
frequenta.
Casarin, perchè corsi su Facebook?
Ad ottobre 2012 Facebook aveva
un miliardo di utenti attivi al mese
ed oggi ha 23 milioni di iscritti in
Italia, cioè uno ogni tre italiani. Il
social network ideato da Mark Zuckeberg è oggi la vera “second life”,
il prolungamento della propria vita
reale attraverso il mondo digitale.
Facebook ha cambiato il modo in
cui le persone usano la rete, così
come molti altri social network,
quali YouTube o Twitter. Il pay-off
sulla home-page dice “Facebook
ti aiuta a connetterti e rimanere in
contatto con le persone della tua
vita” ed è proprio così. Non solo,
Facebook è gratis e lo sarà sempre.
Una peculiarità molto importante in
quello che possiamo chiamare “social web” e alle persone piace, da
qui i grandi numeri.
Cosa significa Facebook Marketing e quale uso può farne
un’azienda?
Facebook marketing significa scoprire nuovi canali di comunicazione con i propri clienti e acquisirne
di nuovi. Attenzione, per ottenere
risultati interessanti, non si tratta
40Primapagina
solo di aprire una semplice pagina
Facebook, che è una necessità per
qualsiasi azienda, dalla piccola alla
grande. Sempre più concorrenti
usano Facebook per raggiungere
vecchi e soprattutto nuovi clienti. Molte di queste aziende sono
già nella seconda era di Facebook
marketing, quando vuoi i risultati
dall’uso dei social media. Possiamo
monitorare costantemente il ritorno
d’investimento nelle attività di comunicazione online e il social web
apre un mondo di nuove possibilità
per le aziende. Aumentare il supporto al cliente, migliorare l’assistenza prima e dopo l’acquisto e
sicuramente aumentare il proprio
parco clienti, queste sono solo alcune delle potenzialità offerte dai social network e in particolare da Facebook. Dal B2B al B2C, Facebook
è un’opportunità per tutti. Non è in
discussione il se farlo, ma il come.
Cosa chiedono i partecipanti?
Le richieste vanno divise in due
tipologie: strategia e contenuti e a
seguire i risultati.
Su strategia e contenuti, la semplicità d’uso del social network è chiara
a tutti. Basta un minimo impegno e
si scoprono rapidamente numerose
funzionalità della piattaforma. Per
questo durante i corsi illustriamo
le funzionalità del social network
e come creare una strategia efficace, un calendario giornaliero delle
attività, aggregare e pubblicare al
meglio contenuti quotidianamente
attivando e ingaggiando fan. Sui risultati, sono tutti interessati
alla quantità di fan e alla qualità in
termini di business e fatturato. Per
le aziende Facebook è un nuovo canale di comunicazione e proprio per
questo richiede quotidianamente risorse e tempo, elementi che qualsiasi azienda ha sempre meno. Capire
come organizzare il proprio lavoro
di gestione quotidiana, automatizzare alcuni flussi, sono elementi
affrontati costantemente durante i
corsi, adattando la propria attività
di marketing relazionale alle altre
attività giornaliere dell’azienda.
Inoltre Facebook evolve continuamente nell’estetica e nelle
funzionalità, perciò i partecipanti
chiedono aggiornamenti sull’uso,
vogliono diventare sempre più abili
per avere successo.
Quali sono i vantaggi per gli imprenditori che si iscrivono?
Imparano a conoscere dove i propri
clienti attuali e potenziali “vivono”
la propria giornata. Significa aumentare i propri “punti di contatto”
e soprattutto fidelizzarli. Facebook
è un canale importante per la fidelizzazione, grazie alla comunità
di fan, in grado di generare nuovo
passaparola, potenziale business
per l’azienda.
Aiutiamo gli imprenditori a creare
la strategia più efficace per conseguire i propri obiettivi di business,
mettendoli in grado di operare subito.
Nei corsi trattiamo continuamente
i casi aziendali seguiti sul campo,
dalle realtà piccole fino ai brand leader mondiali. I corsi sono progettati per tutti, da chi non sa proprio
nulla a chi è già su un uso avanzato.
Lorenzo Manservigi, imprenditore, perché si è iscritto al corso?
Il gruppo Manservigi si occupa da
oltre 40 anni di grafica pubblicitaria, fotografia industriale, stampa
offset/digitale e quindi i nuovi sistemi di comunicazione digitali,
rappresentano una necessaria integrazione ai servizi già offerti. Il
nostro Gruppo già da anni propone
e sviluppa siti internet per i propri
clienti e riteniamo che la comunicazione tramite il sito debba essere ormai integrata e supportata dai
social media, nuova frontiera della comunicazione, che permette ai
nostri clienti di farsi notare su scala
mondiale con investimenti decisamente abbordabili.
Cosa ha ottenuto e cosa sta applicando?
Gli obiettivi che mi ero dato sono
stati raggiunti e sto iniziando a proporre le soluzioni ai miei clienti.
costume E ATTUALItà
di
Marina Argalìa (*)
A scuola di valori
per essere cittadini
più responsabili
L’
educazione alla cultura finanziaria ha una valenza formativa importante in quanto tesa
a stimolare nei giovani l’interesse
per le tematiche dell’economia e
della finanza, sviluppando quelle
competenze trasversali che gli consentiranno di essere futuri cittadini
responsabilmente attivi.
A tal fine Banca Marche, nell’ambito del Protocollo d’Intesa sull’Educazione Finanziaria per le Marche, ha messo a disposizione delle
scuole di ogni ordine e grado della
regione, il progetto “Economi@
scuola” promosso dal Consorzio
PattiChiari, che prevede l’uso dei
percorsi didattici “L’impronta economica” ed una serie di iniziative
rivolte agli insegnanti, propedeutiche al coinvolgimento degli studenti in classe. I materiali didattici di
PattiChiari, redatti in collaborazione con il MIUR, vengono erogati
gratuitamente grazie al supporto
degli esperti di Banca Marche. Tra
questi, il modulo “L’impronta
Economica TEENS”, rivolto ai
ragazzi delle scuole superiori di II
grado italiane che, nell’anno scolastico 2012-2013, ha coinvolto in
tutta Italia circa 14.000 studenti in
35 province, ha l’obiettivo di fornire le conoscenze di base sui servizi bancari, il sovraindebitamento,
l’accesso al credito e il Business
Plan. Su quest’ultimo argomento è
La classe IV B Geometri dell’ITCG Umberto I di Ascoli Piceno con la coppa Banca Marche
imperniato il concorso “Sviluppa
la tua idea imprenditoriale”, che
prevede la creazione di un progetto
di impresa socialmente utile e radicata sul territorio.
Nel maggio scorso, Banca Marche
ha premiato a Jesi la classe vincitrice per le Marche: la IV B geometri dell’ITCG UMBERTO I di
Ascoli Piceno con l’idea imprenditoriale “Le strade del vino” guidata da Valeria Carpani. Sostanzialmente si tratta di una cooperativa per la promozione dello sviluppo rurale e del territorio, che
favorisce l’Eno-Turismo, quale
La classe IV B Geometri dell’ITCG Umberto I di Ascoli Piceno sul palco di Palazzo Altieri
movimento inteso a valorizzare la
produzione vitivinicola regionale
nell’ambito di un contesto culturale, ambientale, storico e sociale.
“Bere bene e con consapevolezza”
è il motto della classe che vince
un viaggio a Roma di 3 giorni per
partecipare alla selezione nazionale del concorso, dove, il 4 ottobre a
Palazzo Altieri, alla presenza di una
prestigiosa giuria, questi ragazzi si
sono aggiudicati il premio per la
miglior presentazione dell’edizione
2012-2013. Ma nel frattempo, un
nuovo anno scolastico all’insegna
dell’educazione finanziaria è già
iniziato, con l’incontro di formazione “A scuola di valori: cittadinanza
ed economia” che, presso i locali
della Regione Marche, ha coinvolto insegnati e Dirigenti Scolastici
delle Marche per valorizzare anche
l’impegno delle Istituzioni su questi temi.
Banca Marche crede nell’educazione finanziaria perchè il progresso di un paese si misura anche dal livello di conoscenza dei
temi dell’economia e della finanza.
(*) Servizio Marketing
primapagina41
costume E ATTUALItà
di
Marina Argalìa (*)
Banca Marche e
High School Game
per imparare divertendosi
L
a crisi economica ha evidenziato, in modo ancor più
netto, il gap culturale degli italiani sulle tematiche
economico-finanziarie. Il livello di diffusione dell’educazione finanziaria nella popolazione italiana infatti,
corrisponde circa alla metà di quello registrato negli altri paesi europei con un indice di cultura finanziaria pari
a 4,3 su una scala da 0 a 10 (fonte Consorzio PattiChiari, Rielaborazione Ambrosetti). Per contro l’educazione finanziaria è ormai parte dell’educazione civica del
cittadino ed è sempre
più uno strumento di
benessere per l’individuo e per l’intera
collettività.
Da anni BancaMarche “sostiene la crescita della cultura finanziaria dei giovani
nella
convinzione
che un cittadino meglio informato è più
consapevole e soddisfatto delle sue scelte finanziarie e quindi più libero”.
Tra le altre iniziative di Responsabilità Sociale d’Impresa, dirette a rafforzare tra i giovani la conoscenza di
queste tematiche, è nata “High School Game”: il gioco
a quiz ad eliminatoria diretta, simile ai noti format TV,
che ha coinvolto gli studenti delle classi V delle Scuole
Secondarie Superiori di 2° grado di tutte le Marche. Il
gioco consiste nel rispondere esattamente ad una serie
di domande che appaiono sul megaschermo gestite da
un moderatore esperto come DJ Alvin. I quiz prevedono
la multirisposta (5 scelte). Le classi in gara usano una
pulsantiera wireless per rispondere a quesiti di cultura
generale, educazione finanziaria,
relativi al programma di studi e
curiosità varie. Ogni classe aderente sceglie un rappresentante
che si prepara sui temi indicati
e che viene supportato nelle risposte dalla propria squadra. Durante le singole gare, un collega
BancaMarche della Zona Territoriale di riferimento della scuola,
interviene per ricordare ai ragazzi i concetti di base di educazione
finanziaria attinenti alle domande previste. Nel 2013 la classe
VC del Liceo Classico Vittorio
Emanuele II di Jesi ha vinto la
selezione regionale della seconda
edizione di “High School Game”:
42Primapagina
La classe vincitrice con i tutor didattici
i ragazzi del team, guidati dal professor Federico Lecchi, si sono guadagnati il trofeo di Banca Marche, main
sponsor dell’iniziativa, svariati gadget e altri importanti
premi. Si sono qualificati rispettivamente al 2° e 3° posto, la VC del Liceo Classico Carlo Rinaldini di Ancona e la VA dell’Istituto Matteo Ricci di Macerata.
Le 56 classi partecipanti alla selezione regionale si sono
misurate, in più turni, su domande di cultura generale,
del loro programma di studi, di educazione finanziaria
e anche d’inglese in un connubio vincente tra apprendimento e divertimento. L’iniziativa ha riscosso, un
grande successo presso le scuole e sta assumendo ormai
dimensioni nazionali.
Per BancaMarche questa iniziativa è una grande occasione di Responsabilità Sociale d’Impresa. “Quello
che ci ha colpito - ha detto Fabio Gentilucci, Responsabile del Servizio Marketing di
Banca Marche - è stata la grande
partecipazione dei ragazzi, il loro
coinvolgimento autentico e il reale bisogno di eventi che possano
sostenere tra i giovani una customer experience di valore. “High
School Game” ha questo potenziale: permette ai giovani di confrontarsi, raccontarsi, emozionarsi e imparare divertendosi”.
BancaMarche aMa i giovani e
vuole sostenere concretamente
la crescita della cultura finanziaria della società e contribuire allo sviluppo sostenibile del
proprio territorio!
(*) Servizio Marketing
ATTUALItà e cultura
di
Stefano Gottin
Il “Lamento di Federico”
esalta la stagione a Jesi
O
rmai i migliori spettacoli lirici
vengono prodotti in occasione
del ripescaggio di opere cosiddette
“rare”, mentre riserve più o meno
ampie si possono fare sulla riuscita delle opere di “repertorio”, ma
questa considerazione vale, beninteso, per la parte vocale e musicale
degli spettacoli. Infatti, per la parte
scenico-registica le cose vanno diversamente poiché i registi - padroni assoluti della lirica del nostro
tempo – rivolgono equanime attenzione ai titoli dell’una e dell’altra
categoria. Ovviamente non si può
generalizzare, ma questa situazione,
che si riassume nella formula “teatro di regia”, ha finito “educare” un
pubblico che guarda e non ascolta,
sicché, al cospetto di un cantante o
di un direttore, esso non è più in grado di distinguere il grano dal loglio,
anche se poi è l’istinto che porta a
dosare gli applausi commisurandoli
ai (non sempre eccelsi) meriti.
Così è stato per le stagioni estive dei tre principali poli musicali
marchigiani, Macerata, Pesaro e
Jesi, di cui commenteremo un titolo
ciascuno in scrupoloso ordine cronologico, a iniziare da Il Trovatore
di Verdi, messo in scena dal Macerata Opera Festival 2013 con
regia di Francisco Negrin, scene
e costumi di Louis Desiré, disegno
luci di Bruno Poet e direzione affidata a Paolo Arrivabeni alla guida
dell’Orchestra Filarmonica Marchigiana e il Coro Lirico Marchigiano “V. Bellini”. Allestimento
originale, innovativo e senza ridondanze scenografiche, due tavoloni
lunghi e stretti dietro la buca dell’orchestra e, sul retro, la torre dove “di
stato gemono i prigionieri”, suggestivi giochi di luci con l’incendio
che divampa lungo il perimetro dei
tavoli al momento del tragico epilogo; costumi tradizionali e un’aura
fosca e tenebrosa, come suggerisce
la truce e farraginosa vicenda. La
direzione del maestro Arrivabeni è
stata un po’ a corrente alternata, soprattutto per i tempi osservati, con
una dispersione della carica emotiva non nuova nei teatri all’aperto,
anche se questo fino a una ventina
d’anni fa non accadeva (in proposito, per meno di 10 euro, mia moglie
ha reperito al supermercato un’Aida
e un Nabucco registrati – pure bene
- all’Arena di Verona sotto l’eccelsa
direzione di due grandi direttori “di
tradizione” quali Anton Guadagno e
Nello Santi: tutta un’altra roba…).
La compagnia di canto prevedeva
Aquiles Machado quale Manrico,
voce di bellissima qualità ma traballante nelle note tenute e in zona acuta, il che per Manrico non è il massimo. Comunque, la voce di centro
del tenore sudamericano si espandeva bellissima come raramente accade e non si perdeva una sola parola
del suo canto. Il baritono veronese Simone Piazzola interpretava il
Conte di Luna con buone intenzioni
di fraseggio ma scenicamente era
poco consono al rango, cosa che il
regista avrebbe dovuto correggere.
La maturità vocale è ancora scarsa
e la voce risultava un po’ affaticata,
quindi Piazzola ci pensi, perché un
conto è fare Luna all’aperto, altro è
essere un ottimo papà Germont in
una sala “a misura di voce” come
quella del Teatro Pergolesi a Jesi.
Susanna Branchini esibiva nella
parte di Leonora una bella presenza
e un’interessante voce di soprano
che correva assai bene ancorché risultasse affetta dal “vibrato” e non
in ordine sugli acuti. Il mezzosoprano Enkelejda Shkosa era un’efficace Azucena sotto ogni profilo, mentre Luciano Montanaro (Ferrando)
mostrava una vera voce di basso
risolvendo il ruolo con proprietà.
Completavano il quadro Enrico
Cossutta, Rosanna Lo Greco e
Alessandro Pucci, rispettivamente
nei ruoli di Ruiz, Ines e il messo.
primapagina43
Foto: Alfredo Tabocchini
una stagione che ha visto
trionfare “Guillaume Tell”
a Pesaro.
“Trovatore” a macerata con
luci e qualche ombra
Applausi convinti alla fine.
A Pesaro, pochi giorni dopo, i pochi vociomani superstiti vivevano
la spasmodica attesa di come il tenore Juan Diego Florez avrebbe
risolto l’impervissimo ruolo di Arnold in quel capolavoro assoluto
che è il Guillaume Tell, titolo che
nel 1829 conclude l’intensissima
e gloriosissima carriera operistica
dell’appena trentasettenne Gioachino Rossini dando piena e definitiva
misura del genio assoluto del suo
Autore che in questo grand opera
va - per fortuna! - anche contro le
proprie convinzioni estetiche facendoti toccare il dramma con mano,
evocando e descrivendo la natura e
dando il “la” a quel romanticismo
che pure egli, a parole, rifuggiva. E’
ovvio che Rossini, vero propugnatore della musique de l’avenir, fosse l’autorità indiscussa del mondo
musicale ottocentesco e dei salotti
parigini, non foss’altro perché Egli
conclude magistralmente l’epopea
barocca con Semiramide (1823), rivoluziona l’opera buffa (Il Barbiere
di Siviglia - 1815) e inaugura, infine, l’opera romantica, nel 1818, con
La Donna del Lago e poi, soprattutto, col Tell, in cui addirittura si
44Primapagina
colgono anticipazioni wagneriane,
basti pensare al preludio dell’aria
di Mathilde, “Sombre forêt”, al
declamato del protagonista, “Sois
immobile”, e alla famosissima sigla dei programmi Rai della nostra
infanzie che altro non è che il sublime finale “Tout change et grandit
en ces lieux”. Il regista Graham
Vick, come già nel Mosè in Egitto”
del 2011, confermava che la musica
di Rossini regge bene anche la violenza. Infatti, ambientata la vicenda
agli inizi del Novecento con rimandi alle lotte socialiste, al “Quarto
Stato” di Pellizza da Volpedo e al
film “L’Albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi, Vick – col supporto
di Paul Brown (autore delle ariose
scene e dei costumi), del coreografo Ron Howell e di Giuseppe di
Iorio (progetto luci) - dava ampio
risalto alle prevaricazioni dei perfidi Asburgo in danno dei coraggiosi
elvetici e ai sussulti rivoluzionari di
questi ultimi, Ciò scatenava le critiche e i malumori dei rossiniani di
“stretta osservanza”: ma se è vero
che la storia elvetica non ha a che
vedere col socialismo in modo di-
retto, altrettanto vero è che i leader
socialisti, Lenin in primis, vissero
ospiti di quella nazione che incarna
libertà, indipendenza e democrazia
come nessuna altra. Quindi, “viva
la libertà” direbbe Don Giovanni, e
viva anche quella di Graham Vick
che è stato capace di dimostrare in
Rossini anche ciò che pareva o si
voleva che fosse indimostrabile,
sicché anche i ballabili del I e del
III atto, lungi dall’essere un’insulsa
sequela di leziose movenze, erano il
contenitore e lo strumento per manifestare tutta la violenza e l’umiliazione perpetrata dagli invasori. In
questa discussa e intelligente messa
in scena di un’opera colossale e rara
in ogni senso, eccellente per gesto,
colori e tempi era la direzione di Michele Mariotti alla guida dei “suoi”
complessi del Teatro Comunale di
Foto: Studio Amati Bacciardi - Foto Binci
attualità e cultura
Bologna. E Florez? Questi se l’è
cavata con grande intelligenza venendo a capo intelligenza e perizia
di un ruolo di difficoltà stratosferica
per lunghezza e tessitura, un ruolo
che non è per lui (basti dire che in
passato lo cantavano Tamagno e
Lauri Volpi e che un tenore come
Pavarotti non l’ha mai affrontato
in teatro). Quindi tanto di cappello
alla classe purissima e al coraggio
di Florez ma…non insista col Tell,
per lui troppo pesante. Ottimo sotto ogni profilo – vocale, scenico,
interpretativo – il soprano Marina
Rebeka (Mathilde), mentre un po’
sotto tono è parso il protagonista
Nicola Alaimo, baritono di bella
e ampia voce e di sicura presenza
scenica, ma discontinuo vocalmente
anche se appropriato nel delieare la
figura paterna e il senso della famiglia espressi da Guillaume. Bravi i
bassi Simon Orfila (Walter Furst),
Simone Alberghini (Melchtal) e
Luca Tittoto (il perfido Gesler),
sugli scudi il soprano en travesti
Amanda Forsythe come Jemmy,
convinti e meritati gli applausi per il
mezzosoprano Veronica Simeoni,
partecipe ed emozionante Hedwige.
Di classe il contributo del blasonato
tenore canario Celso Albelo nel breve e difficle ruolo del Pêcheur. Alla
fine un trionfo, con mugugni sulla
regia, ma si sa che per un regista è
importante che se ne parli e, anzi,
più voci discordanti ci sono è meglio è (e questo dovrebbe valere dovunque), perché così si pensa tutti
un poco di più, il che non fa male…
Al Teatro Pergolesi di Jesi il direttore artistico Gianni Tangucci e
l’amministratore delegato William
Graziosi (due professionisti di livello internazionale) hanno deciso
di aprire la stagione di tradizione,
dedicata a Franco Corelli, con L’Arlesiana di Francesco Cilea, data al
Teatro Lirico di Milano nel 1897
con protagonista Enrico Caruso,
in seguito più volte rimaneggiata
dall’Autore e uscita di repertorio
negli anni Trenta del secolo scorso. Opera verista e ricca di richiami
espressionistici, inquietante, turgida
nell’orchestrazione, de L’Arlesiana
sopravvivono due arie, il “Lamento di Federico”, cavallo di battaglia
di ogni tenore, e in seconda battuta, l’aria di Mamma Rosa “Esser
madre è un inferno”. La vicenda,
ambientata in Francia nei pressi di
Arles, racconta dell’amore inappa-
gato e via via più folle di Federico, fino a morirne suicida, per una
donna – l’Arlesiana, appunto – che
non compare mai in scena se non
nel ricordo (o nel sogno?) del protagonista. Questi ha una madre possessiva, anzi troppo, con un figlio
letteralmente “scemo”, l’Innocente
che via via rinsavisce mano a mano
che Federico si piega al vortice
della follia alimentata dalla stessa
madre che vorrebbe dargli in sposa
Vivetta, una buona ragazza di paese.
Rosetta Cucchi, brillante e intelligente regista nonché valida musicista pesarese, ha sollecitato gli artisti
a prodursi in una recitazione tanto
partecipe ed efficace quanto rara,
ed è stata abile e arguta nel lasciare
al pubblico momenti di riflessione
e interrogativi: dunque, è sogno o
realtà? Il pubblico della prima, in
verità un po’ più scarso di quanto
non meritasse l’ottima riuscita dello spettacolo, ha salutato con calore
tutti gli artisti a iniziare dal direttore torinese Francesco Cilluffo alla
guida della FORM - Orchestra
Filarmonica Marchigiana e del
Coro Lirico Marchigiano “V. Bellini”. Quindi i cantanti, tutti efficaci,
in buona forma vocale,e, come detto, attori eccellenti: il mezzosoprano Annunziata Vestri, tremenda e
indimenticabile Rosa Mamai, Dmitry Golovnin, per nulla intimorito
dalle difficoltà dell’arduo ruolo di
Federico, l’ottimo soprano Mariangela Sicilia (Vivetta), infelice e non
corrisposta innamorata di Federico.
Quindi il bravo ed elegante baritono
Stefano Antonucci nel ruolo paterno e saggio di Baldassarre, Valeriu
Caradja (Metifio), di buoni mezzi
vocali, il Marco di Cristian Saitta
e, infine, L’Innocente del controtenore Riccardo Angelo Strano. Le
scene erano di Sarah Bacon mentre i costumi erano firmati da Claudia Pernigotti, le luci di Martin
McLachlan.
primapagina45
ATTUALITà E CULTURA
di
Lucia Cataldo
Casa Leopardi:
i Libri di Giacomo
diventano multimediali
“F
iliis Amicis Civibus Monaldus de Leopardis Bibliothecam MDCCCXII. Recanati”. Questa l’epigrafe che Monaldo Leopardi
fece incidere su una piccola lapide
marmorea sulla porta della seconda
sala in ricordo della sua volontà di
aprire al pubblico la sua biblioteca.
Nel Bicentenario dell’avvenimento
la famiglia Leopardi, che continua
ad attuare le volontà di Monaldo
tenendo aperta al pubblico la biblioteca, si è adoperata per celebrare la
ricorrenza con la splendida mostra
“Giacomo dei libri. La Biblioteca
Leopardi come spazio delle idee”,
che è stata inaugurata lo scorso 30
giugno e si protrarrà fino alla fine di
quest’anno.
L’immensa biblioteca viene esplorata – come afferma la curatrice Fabiana Cacciapuoti – con il doppio
sguardo di Monaldo e di Giacomo.
L’impronta di Monaldo sta nell’evidente l’influsso della cultura del
‘700 francese che gli permise di
La biblioteca Leopardi
ordinare maniera illuminista la collezione di libri, dividendoli per categorie e materie. La biblioteca permise a Giacomo, negli anni della sua
formazione, di “accedere alle chiavi
del pensiero moderno” che alimentarono e potenziarono il suo pensieIl conte Leopardi aziona una proiezione multimediale
46Primapagina
ro estetico, filosofico e morale.
Gli spunti di riflessione sono moltissimi, attraverso lo snodarsi delle sei
sezioni della mostra, che raccontano
- ad esempio - la strutturazione della biblioteca da parte di Monaldo o
gli scambi con diversi librai e stampatori, fino ad Antonio Fortunato
Stella (che sarà l’editore di Leopardi). Si continua con i primi libri con
cui entrò in contatto Giacomo e con
materiale di lavoro autografo, alcune schede di memoria conservate
alla Biblioteca Nazionale di Napoli.
La sesta sezione è un approfondimento della scrittura leopardiana
nello Zibaldone e va ricollegata alla
parte in cui si tratta delle lingue e
dell’origine del pensiero.
La volontà testamentaria di Monaldo era stata molto precisa: «Voglio
ancora provvedere – scrisse infatti –
alla conservazione e buon uso della
mia Biblioteca, la quale ho raccolta
con grandi cure e dispendi, non solo
per vantaggio e comodo dei miei
discendenti, ma ancora per utile e
bene dei miei concittadini recanatesi».
Con questa mostra la famiglia Leopardi, in particolare il conte Vanni
curatore della mostra insieme Lucio
Felici e Fabiana Cacciapuoti, ha
FOCUS
I libri di Gacomo in una vetrina della mostra
proseguito sulla via della valorizzazione di questo immenso patrimonio culturale, che diviene veramente patrimonio di tutti. La mostra
ha inoltre aperto scenari e contenuti
del sapere a diversi pubblici, ai quali
sono state fornite molteplici chiavi
di lettura con modalità espositive
tradizionali o innovative.
L’allestimento dello Studio Montanari con l’alternarsi di piccole vetrine contenenti i libri ispiratori di
Giacomo - rigorosamente aperti su
due pagine - o mediante grandi pannelli e gigantografie (come un’antica stampa del porto di Ancona associata a note di diario di Monaldo)
rende dinamica la fruizione.
Una serie di installazioni multimediali potenziano la comunicazione e
rendono la mostra veramente innovativa: libri sfogliabili virtualmente,
animazioni e proiezioni collegano
argomenti e tematiche molto dense
con leggerezza e al contempo rigore
filologico.
Il progetto multimediale è stato
curato da Matteo Catani ed Auretta Loria, rispettivamente docente
di Applicazioni digitali per l’arte
presso l’Accademia di Belle Arti di
Macerata e neo laureata presso la
stessa Accademia e da Diego Bonura per la parte informatica.L’intento
è stato quello di fornire una visione
Uno scorcio dell’esposizione
Panoramica della mostra
nuova e più moderna dei libri legati
a Giacomo. Sicuramente le installazioni che colpiscono maggiormente
sono quelle legate alla magia dei
gesti che permettono di sfogliare
l’Encyclopédie e all’emozione degli
estratti dello Zibaldone che si materializzano in visionarie animazioni in motion graphic. Non sono da
meno le illustrazioni della Nouvelle
Héloïse di Rosseau che fondendosi
tra loro permettono al visitatore di
“entrare” nel libro in modo altrimenti impossibile, particolare an-
che dialogo virtuale tra la Madame
de Staël e Leopardi che prende vita
in eteree visioni nella Corinne. La
mostra è stata promossa dalla famiglia Leopardi in collaborazione con
Provincia di Macerata, Comune di
Recanati, Centro Nazionale di Studi
Leopardiani; Centro Mondiale della Poesia e della Cultura “Giacomo
Leopardi”; Fondazione Cassa di
Risparmio di Macerata, Camera di
Commercio di Macerata, Direzione
Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici delle Marche.
Una proiezione multimediale su schermo trasparente
“Giacomo dei libri - La Biblioteca
Leopardi come spazio delle idee”
Casa Leopardi - Recanati
Dal 30 giugno 2012
al 31 dicembre 2013
Aperta tutti i giorni ore 9 -18
(info: www.giacomoleopardi.it).
primapagina47
ATTUALITà E CULTURA
di
1
Laura Marinelli
2
Vermeer,
mostra sul periodo olandese
e non solo sull’artista
V
ai all’esposizione pensando di trovare tutto Vermeer e credendo che gli altri pittori non t’interessino e scopri che non è così.
E’ un percorso di pittura e cultura olandese, in cui l’arte
di Vermeer va in un crescendo di stili che dal realistico
passa per l’evocativo fino a giungere all’universalità
dei concetti.
Sono solo otto i quadri del famoso artista olandese
e altri cinquanta quelli dei suoi contemporanei della
rassegna dal titolo “Vermeer – il secolo d’oro dell’arte
olandese” che si è tenuta alle Scuderie del Quirinale
a Roma negli scorsi mesi. “Un meraviglioso insieme
– dice Arthur K. Weelock Jr., uno dei tre curatori della mostra - che per la prima volta si tiene in Italia su
questo artista”. Un racconto su di lui, sul suo rapporto
con gli altri pittori, ma anche la storia di un ricco paese,
l’Olanda, che proprio in quegli anni diventa repubblica.
Entri affascinato dal pungente e sospeso sguardo della
“Fanciulla con cappello rosso”, non a caso scelta come
immagine del manifesto promozionale dell’evento e ti
48Primapagina
aspetti un grande quadro. Poi lo vedi e scopri che è piccolo, molto piccolo, eppure quello sguardo quasi colto
d’improvviso, che osserva in modo profondo proprio il
visitatore, quasi a scrutarne i più intimi sentimenti, cattura l’attenzione fino a distogliere l’attenzione da tutto
il resto, ipnotizzati da quello sguardo così magnetico,
intrappolato tra il rosso del cappello e delle labbra e da
un raggio di luce che colpisce la parte destra del volto.
Il primo quadro che ammiri all’avvio del percorso è
“La stradina di Delft”, commovente opera di Vermeer
di piccole dimensioni, come molte opere di questo artista, che rappresenta una scena di vita quotidiana di case
e persone vicini di casa. La particolarità di quest’opera
è che appare come una scena ferma e più la guardi e
più i personaggi sembrano muoversi nel ripetersi infinito di gesta e movimenti, che appartengono alla vita di
tutti ed in cui ognuno di noi può riconoscersi. La semplicità ed i dettagli delle case, degli oggetti riprodotti e
delle persone colpiscono così intimamente da arrivare
realmente a commuovere. Effetto ottenuto attraverso
l’uso di un particolare strumento, la camera oscura, che
ATTUALITà E CULTURA
3
permetteva all’artista di controllare gli effetti di luce da
lui voluti e di cui fece molto uso nella sua produzione
artistica. Da notare, peraltro, quanto sia stato precursore nell’usare uno strumento così innovativo – la camera oscura - già inventato ma non ancora applicato
all’arte fotografica, che all’epoca non era ancora stata
inventata.
Ad aiutare lo spettatore a ritrovare le opere di Vermeer
c’è il colore azzurro, che identifica i pannelli su cui
sono esposte le sue opere, mentre su pannelli verde
chiaro sono quelle degli altri artisti.
“La rassegna ricostruisce l’evoluzione del pittore,
dall’inizio giovanile fino alla maturità – spiega Sandrina Bandera, curatrice dello mostra oltre che Direttore
della Pinacoteca di Brera – in un crescendo dell’arte
olandese dal 1850 al 1870. Il filo conduttore è il suo
rapporto con gli altri grandi artisti del tempo che diventeranno famosi – prosegue Bandera - come Pieter
De Hooch, Gerrit Dou, Frans Van Mieris, Gerard ter
Borch, con cui condividerà la rappresentazione della
luce, della prospettiva, della donna e dei valori della
famiglia”.
Ed ecco allora due scene di due artisti diversi e pure
così vicini allo stile del racconto di Vermeer: “Ritratto di
famiglia in cortile a Delft” di Pieter de Hooch e “Donna
che legge una lettera” di Gabriel Metsu. Nelle loro interpretazioni così differenti, eppure è notevole la contaminazione di linguaggio, di colore, di luce, di prospettiva,
di rappresentazione degli ambienti e dei personaggi con
il più noto artista, a dimostrazione di come questo racconto riproduca la cultura dell’Olanda del tempo e non
solo l’arte di un singolo personaggio.
4
DIDASCALIE IMMAGINI:
1. Johannes Vermeer (1632-1675),
Ragazza con il cappello rosso, 1665 - 1667
Washington, National Gallery of Art
Andrew W. Mellon Collection.
2. Johannes Vermeer (1632-1675),
La stradina, 1658 circa
Amsterdam, Rijksmuseum Gift of H.W.A. Deterding,
London© Rijksmuseum, Amsterdam.
3. Pieter de Hooch (1629-1684),
Ritratto di famiglia in cortile a Delft, 1658 circa
Vienna, Gemäldegalerie der Akademie
der bildenden Künste.
4. Gabriel Metsu, (1629-1667),
Donna che legge una lettera, 1664–1666
Presented Sir Alfred and Lady Beit, 1987 (Beit Collection)
Dublino, National Gallery of Ireland Collection
Photo © National Gallery of Ireland.
primapagina49
ATTUALITà E CULTURA
di
Carmen del Vando Blanco
Da Rubens a Maratta
Le meraviglie del Barocco
nelle Marche
“O
gni momento della storia
artistica delle Marche è documentato da monumenti e opere
spesso di sorprendente originalità.
Alcuni periodi sono meglio conosciuti: dal mito fondativo dei Piceni
al mistero delle necropoli longobarde, agli itinerari perigliosi che congiungevano i cenobi protomedievali
ma soprattutto, allo stato attuale,
sono noti l’aspro vivere delle parcellizzate signorie rinascimentali, fonti
di una committenza di sorprendente
ricchezza e la severa chiamata all’ordine della Controriforma cattolica
dei secoli successivi. Sembrava che
fossero rimasti meno indagati altri
momenti, in particolare, la stagione
barocca, eppure,
anche tra Seicento e Settecento,
le Marche ebbero
una straordinaria
fioritura artistica. Il velo era
stato squarciato,
in
particolare,
dall’importante
mostra che nel
2010 fu realizzata a San Severino, che condusse
alla conoscenza
di un periodo della storia artistica
- il Barocco - in
un angolo di territorio antecedentemente pressoché
ignorato, attraverso un imponente
sventagliarsi di testi pittorici, la cui
cifra caratterizzante può costituire
la chiave di lettura per quella che
si apre a Osimo. Rigore scientifico
garantito da un gruppo di noti studiosi guidati da Vittorio Sgarbi -già
curatore della mostra di San Severino- e godimento profondo dei sensi,
assicurato dalla bellezza delle opere
scelte, dal loro essere esemplari dimostrazioni della forza coinvolgente
dell’immagine” così ci introduce alla
mostra aperta a Osimo, Maria Rosa
50Primapagina
OSIMO E LA MARCA DI ANCONA
(fino al 15 dicembre 2013)
Valazzi, Sovrintendente per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico delle Marche-Urbino.
Un doveroso omaggio a Carlo Maratta illustre artista nato a Camerano
(1625) ma di fama internazionale
nel compimento del terzo centenario
della morte, mette in luce avvalendosi delle pregevoli tele, la sostanza
profonda della sua pittura, apprezzata anche nelle grandi corti europee.
Attraverso una serie di itinerari che
mirano ad approfondire la conoscenza di luoghi e opere che attestano la vitalità artistica di Osimo e di
quei centri dove più incisiva si fa la
presenza del lascito di grandi artisti
come Pomarancio a Loreto e Carlo
Maratta a Camerano, la cospicua rassegna di capolavori di maestri come
Rubens, Guido Reni, Guercino e dei
grandi artisti del Seicento romano
fino a Maratta, accanto alle opere
provenienti dalle Marche, offre un
panorama esauriente delle vicende
pittoriche del XVII secolo.
Riemergono dall’oblio opere inedite,
che documentano la vitalità artistica
del territorio marchigiano, esaminando un’area dalla costa, con le importanti realtà di Osimo, Ancona, Camerano, Loreto, Senigallia e Fano, fino
all’entroterra con le storiche località
di Fabriano e Sassoferrato.
Quando e come inizia il Barocco nelle Marche? Secondo Vittorio Sgarbi
“nei passaggi epocali da un secolo
all’altro e da un millennio all’altro,
i mutamenti dell’arte sembrano po-
ATTUALITà E CULTURA
tenziarsi e caratterizzarsi nelle aperture di secolo, soprattutto a Firenze
e a Roma. Nella periodizzazione si
conviene fare iniziare il Barocco a
Roma alla fine del XVI secolo con
l’arrivo del Caravaggio, ma l’inizio
del Barocco a Roma è anche Carracci e, a seguire tutti i più notevoli
maestri della pittura
italiana ed europea,
fino all’attenuarsi
della fiamma caravaggesca verso il
1630-1635”.
Tra i campioni
dell’esperienza
barocca, nel 1601
per conoscere Caravaggio e la sua
lezione dal vivo
giunge a Roma Rubens, che dipinge
le pale dell’altare
della Chiesa Nuova
dei Filippini, Santa Maria in Vallicella. Già nel 1608, Rubens si reca
a Fermo dove esegue la Adorazione
dei Pastori, aprendo la via maestra
dei rapporti con Roma nella terra
appartenente allo Stato Pontificio.
Valga l’esempio dell’arazzo - il miglior conservato della serie di quattro
tappezzerie tessute nelle Fiandre -,
eseguito su cartone di Rubens, del
Museo Diocesano di Ancona, di
smagliante bellezza e perfetto cromatismo, che da un glorioso benvenuto al visitatore.
A mantenere sempre vivi i rapporti con l’ambiente
culturale romano
ha concorso anche
il contributo internazionale di Carlo
Maratta. Artista tanto apprezzato dalle
Corti europee e dalle più alte Gerarchie
Ecclesiastiche da
diventare il modello
estetico per eccellenza nel passaggio
fra i secoli XVII e XVIII, meritato
protagonista di questa mostra, nel
terzo centenario della sua morte a
Roma.
La sede principale dell’evento espositivo è il Palazzo della nobile famiglia Campana, estintasi alla fine del
‘600 e dalla cui donazione nacque il
‘Nobil Collegio Convitto Campana’,
che annoverava fra gli insegnanti
famosi intellettuali ai quali corrisposero allievi altrettanto illustri come i
futuri Papi Leone XII e Pio VIII oltre
a molti grecisti, storici e poeti.
Mentre il dominio della Chiesa si
consolidava di pari passo col legame sempre più stretto con Roma, si
preparava il secolo successivo, con
l’incremento esponenziale della ricchezza terriera, grazie ai privilegi
concessi dalla Chiesa: il porto franco
di Ancona, la vendita di grano alla
Turchia e la presenza degli immigrati
dalmati (dai quali discendeva la stessa famiglia del Maratta, Maratti).,
Continuando e completando questa
mostra, parte un altro progetto in via
di realizzazione varato dalla Direzione Regionale e intitolato ‘Civiltà del
Settecento nelle Marche’, che non
si limiterà ai dipinti di quel secolo
ma farà un’analisi dello sviluppo
urbanistico, economico, le scoperte
archeologiche, le trasformazioni del
paesaggio, la grande committenza
artistica, le ville, i palazzi e le opere d’arte di un periodo cruciale per
la fisionomia della regione e che, sicuramente, svelerà tante importanti
pagine di questo capitolo della storia
nel territorio marchigiano.
primapagina51
ATTUALITà E CULTURA
di
Armando Ginesi
Alice verso la porta dei colori
C
he cosa si può scrivere di questo viaggio per immagini che Luciana Zanetti ha costruito con la sua lieve fantasia creatrice calata nel medium fotografico? Che
cosa si può scrivere – voglio dire – che lei non abbia già
detto nel suo essenziale ma puntualissimo (sia nel senso
che nei termini) testo- guida, nato forse con la volontà
di costituire una traccia utile al visitatore-lettore delle
immagini, ma che in realtà si è risolto come autentico
componimento poetico, ancorché composto in prosa ?
Ci si può richiamare forse alla breve dedicatoria di questa narrazione fotografica intitolata “Racconto”, firmata
da un gigante della letteratura mondiale, il portoghese
Fernando Pessoa: “Andiamo via, creatura mia, via verso
l’altrove. Lì ci sono giorni sempre miti e campi sempre
belli”. Perché se ci soffermiamo su due parole del poeta
lusitano – la voce verbale “Andiamo via” e il sostantivo
“altrove” – noi abbiamo perfettamente chiaro il portato simbolico e poetico che la nostra
autrice ha raggiunto con le parole e
con le foto delle sue costruzioni che
oserei chiamare sceniche.
Infatti va detto subito che Luciana
Zanetti non è una fotografa, nell’accezione propria, professionale, del
termine né – molto probabilmente
– intende diventarlo: è una poetessa
che usa indifferentemente le parole,
le immagini fotografiche di
eventi da lei costruiti manualmente
accostando
oggetti e cose di varia
estrazione. Una poetessa
nel senso che emerge dal
saggio di Pier Paolo Pasolini, recentemente scoperto
nell’archivio Bonsanti di Firenze, nel quale si sostiene che si può essere poeti, per esempio, pur essendo pittori. Poesia, dice
Pasolini, come “frutto di un contatto dello spirito
con la realtà in sé ineffabile e con la sua sorgente,
la quale, in verità, è Dio medesimo, nei movimenti
d’amore che lo portano a creare immagini della
sua bellezza”.
Ma torniamo alle due espressioni di Pessoa:
“Andiamo via”, quindi incamminiamoci, dirigiamoci lungo i sentieri privi dei segnaletica,
quelli che non ci dicono dove conducono ma
di certo portano “via”. Dove finiremo? Verso
l’Altrove, che è il regno del Mistero. Dell’ineffabile,
dell’indicibile, dell’inconoscibile, il mondo dell’anima
alla cui soglia, tra tutte le cose umane, soltanto la Poesia
(in quanto figlia dello Spirito e contigua all’Infinito) ha
52Primapagina
la possibilità di accostarsi. Una poesia che diventa rito,
liturgia, preghiera.
Marcel Duchamp, genio dell’arte (ma non solo) del XX
secolo, ha inventato i “ready-made”, detti anche in francese “objets trouvés”, vale a dire oggetti rifiutati, degradati, che hanno perduto la loro funzione, ogni interesse
pratico , ogni forma di utilità e che, una volta ritrovati
tra le cose rifiutate e sottoposti alla manipolazione artistica, cioè collocati in una situazione diversa da quella
per cui sono stati creati, possono assurgere alla dignità
di opera d’arte, anche solo in virtù della scelta o del loro
casuale rinvenimento da parte dell’artista.
Il racconto di Luciana Zanetti forse non sarebbe nato se
Duchamp non avesse fatto questa eccezionale scoperta (che ha rivoluzionato i modelli artistici codificati da
millenni di tradizione) di elevare che so, il famosissimo
orinatoio o la ruota di bicicletta o il portabottiglie, ad
espressione della genialità creativa. Perché Duchamp
ha dato agli oggetti decontestualizzati e sostanzialmente
resi inutili, in qualche modo, dunque, inanimati, senza
vita, un tipo di dignità nuova richiamandoli ad una esistenza non solo di nuovo tipo, ma superiore a quella preesistente, qual è quella artistica. Gli oggetti di un quotidiano neanche più visto dagli occhi dell’uomo comune
che però, all’improvviso, diventa scopribile e scoperto
da quell’uomo un po’ speciale che si chiama artista
(o poeta); oggetti che
rinascono, dunque,
a nuova vita, si rivitalizzano, si trasformano in metafore e in simboli e, in quanto
tali,
elementi
essenziali per
costruire brani
poetici.
Che,
anche nel
nostro
ATTUALITà E CULTURA
caso, prendono la via del mito: di un
mito moderno il quale, però, è, da
un punto di vista strutturale, identico a quello antico, considerato che
esso, costruttivamente e finalisticamente parlando, è sempre identico a
se stesso, quale che sia il tempo storico che lo esprime. Il mito esistenziale dell’uomo attratto dall’ignoto,
che compie azioni (a volte anche
eroiche), che supera continuamente
prove, che dà il meglio di sé (come
l’amicizia o l’amore), che racconta
come ci si relaziona con i propri simili e con il resto del mondo; il mito
che è sempre autobiografico indipendentemente dai nomi dei protagonisti: (Ercole, Atlante, Prometeo
o Alice, com’è nel caso del racconto
della Zanetti.
Dunque Alice (che è una bambola,
anch’essa dimenticata nelle pieghe
della memoria oltreché nella ceste
delle cose smesse) recupera vita e
sentimenti, al pari del cavallino,
del bruco spaziale, dello gnomo
spaziale creatore dei fili rossi (i
lacci dell’esistenza usati per imbrigliare e catturare ma anche per
aiutare a muoversi e a risalire), il
tappeto (che, come in ogni storia
fiabesca che si rispetti, in omaggio alla grande cultura orientale,
diventa volante). Alice è la protagonista che lotta, che supera le
prove per arrivare da qualche parte. Dove? Verso l’Altrove, come
dice Passoa, che si identifica, nel
racconto, con la “Porta dei Colori”.
A cui Alice, riesce, dopo fatiche,
peripezie, sgambetti di taluni ma
anche aiuti fraterni e amichevoli
di altri, a pervenire. Rimanendo
sull’uscio, però. Sta per entrare,
ma… Ma la storia si interrompe,
perché l’Altrove è l’altrove e non si
può sapere che cosa sia, dove conduca, come sia fatto, di che cosa sia
fatto. Guai se lo scoprissimo, infatti. Finirebbero la curiosità, la spinta a cercare, a sperare, a sognare.
Finirebbe la fantasia, quella stessa
che ha portato Alice fin sull’uscio
della Porta dei Colori e a farle intravvedere che di là si spalanca un
mondo nuovo, straordinario, tutto
da scoprire, ma dove, certamente,
“ci sono giorni sempre miti e campi sempre belli”, come canta Fernando Pessoa.
primapagina53
ATTUALITà E CULTURA
di
Sergio Rinaldi Tufi
Osimo, antica colonia Romana
La sua storia antica
N
ell’ambito dell’espansione romana verso l’Italia settentrionale, sul versante centroadriatico fu
fondata una serie di colonie: la prima
fu Ariminum (Rimini), l’ultima fu,
nel 157 a.C., Auximum (Osimo), in
una posizione strategica che domina,
non lontano dalla costa, alle spalle di
Ancona e Numana, le valli dei fiumi
Aspio e Musone. Appollaiata sulla
cresta, con i suoi pittoreschi dislivelli,
con l’imponenza del Duomo (sul punto più alto), con il grande santuario
di San Giuseppe da Copertino e con
l’eleganza delle piazze e dei palazzi,
la Osimo che noi oggi visitiamo non
mostra, a prima vista, molte tracce
delle sue fasi più remote: per l’epoca
romano-repubblicana, si conoscono
la Fonte Magna e gli adiacenti tratti
di mura in blocchi squadrati. Non è
chiaro inoltre se e in che misura alcune delle infinite grotte e gallerie che
54Primapagina
si ramificano sotto la città attuale (che
costituiscono un’attrazione di indubbi
fascino) siano di origini antiche.
Ma, entrando nel Palazzo Comunale,
vediamo una raccolta di statue di età
imperiale, tutte acefale: i “senza testa”
secondo la definizione popolare. Nel
Museo Civico, poi, lo sguardo si allarga anche al periodo preromano; e
gli scavi eseguiti all’interno della città
attuale, per esempio sotto il mercato
coperto, hanno evidenziato il sovrapporsi di numerosi livelli di vita. Frequentata già dal Paleolitico Superiore,
l’altura dal IX secolo a.C. è occupata dai Piceni (non solo sul colle di
Osimo stessa, ma anche sul Monte
San Pietro): Piceni che peraltro creano anche molti altri insediamenti in
questa che è una zona di raccordo fra
le rotte dei mercanti greci che risalgono l’Adriatico e gli itinerari che,
seguendo le vie di fondovalle lungo i numerosi fiumi,
si dirigono verso i valichi
varcando l’Appennino.
L’Adriatico, si sa, è sempre stato tramite di intensi scambi (non solo
con i naviganti greci,
ma anche con le culture
della sponda orientale):
nel Museo Civico troviamo esempi della produzione vascolare locale
picena (gli specialisti
parlano di vasi di impasto e bucheroidi),
ma anche di pregevolissimi vasi greci
(spicca una coppa attica con raffigurazione di uomo barbato e fanciullo),
rinvenuti negli abitati e nelle adiacenti
necropoli.
La città romana sembra sovrapporsi
direttamente alle ultime fasi dell’abitato piceno, e mantenerne, o addiruttura incrementarne, la rilevanza.
L’impianto urbano di età repubblicana corrisponde alla parte più alta della
città attuale: si estende per circa 16
ettari, ed è racchiuso da una cinta muraria in poderosi blocchi squadrati),
di cui il già ricordato tratto presso la
Fonte Magna (lungo la via moderna
che prende il nome proprio dalla fonte stessa) è l’unico superstite. Lungo
il tracciato si aprivano ovviamente
porte di accesso: cospicui, anche se
alterati da interventi successivi, gli avanzi di quella
settentrionale, sempre
in via di Fonte Magna.
All’interno della cinta
probabilmente il cardo
maximus e il decumanus
maximus (le due strade
principali) corrispondono
agli attuali allineamenti
via Mazzini + via Matteotti e via del Sacramento.
Durante le guerre civili la
città parteggia per Pompeo, che fra l’altro vi recluta soldati; più tardi Cesare,
varcato il Rubicone, la assoggetterà nel corso della
discesa verso Roma. Proprio a Pompeo la tradizione
attribuisce la già ricordata
Fonte Magna: i cospicui
ruderi di un monumento a
esedra sono identificati con
una fontana monumentale
ATTUALITà E CULTURA
citata da Procopio
(autore che peraltro
scrive molto più tardi,
nel V secolo d.C.).
Espressione della classe dirigente
della città nell’ambito della stessa età
repubblicana è il ritratto di un uomo
anziano rinvenuto a fine Ottocento
in via Saffi e conservato sempre nel
Museo Civico. Si data alla seconda
metà del I secolo
a.C., e fa parte di
una serie di opere prodotte soprattutto a Roma
ma
destinate
talvolta, come
in questo caso,
a committenti
fuori dell’Urbe:
espressione di
una cerchia patrizia che intende
esaltare l’integrità della stirpe, legata al possesso e
allo sfruttamento
della terra e alle tradizioni contadine.
Quindi un realismo spinto, rughe profonde, labbra serrate, a significare uno
spirito energico e volitivo.
Se, dunque, per l’età repubblicana si
può quasi dire che dall’ambito delle
arti figurative emergono testimonianze notevoli almeno quanto quelle architettoniche, il discorso si può ripetere, in misura anche più decisa, per
l’età imperiale, età per la quale le testimonianze monumentali davvero scarseggiano. La città mantiene probabilmente cardo, decumanus e impianto
urbano dell’età precedente: ma tutto
ciò è congetturale, basato sull’ipotesi
che l’impianto medievale e moderno
ricalchi in sostanza quello antico. Ancora più congetturale è l’ubicazione
dei complessi monumentali principali: il Foro in corrispondenza del Palazzo Comunale e dell’adiacente piazza,
un tempio (tempio di Giove? tempio
della Triade Capitolina, e cioè GioveGiunone-Minerva?) sul luogo più
elevato dove oggi
sorge la cattedrale.
Del Foro è stata tentata una ricostruzione, che
ha valore puramente indicativo:
l’unico elemento di cui si sono effettivamente rinvenuti i resti (fra le attuali
Piazza Boccolino e Piazza Don Minzoni) è una cisterna che, con le sue
robuste arcate, forse faceva parte di
un terrazzamento con cui si era risolto
uno dei dislivelli del terreno.
Le sculture di età imperiale, conservate nel Palazzo Comunale, sono
numerose, ma “decapitate”: e così, in
conclusione, torniamo a parlare dei
“senza testa” di cui si diceva all’inizio. Senza testa, fra l’altro, è diventata
scherzosamente l’epressione (chissà
quanto gradita) con cui vengono chiamati gli abitanti della città. Per la verità queste sculture non vengono tutte
da Osimo stessa, e non costituiscono
perciò soltanto una testimonianza del
livello artistico della città antica, ma
anche della storia del collezionismo
delle epoche successive. Statue di loricati, cioè di personaggi (ufficiali, generali) vestiti di corazza; statue di togati, cioè di uomini che indossano la
toga, la “divisa” di chi gode del diritto
di cittadinanza romana; statue, come
suol dirsi, in nudità o in seminudità
eroica, parché la nudità è prerogativa
degli eroi e degli dei. Opere spesso di
notevole qualità, accurate sia nell’impostazione della figura, sia nella resa
dei panneggi o delle muscolature. Ma
perché tutte senza testa? Può colpire il
fatto che qui tale prerogativa riguardi
il cento per cento dei casi, ma anche
altrove non è inusuale: un po’ perché
la testa e gli arti sono le parti più esposte al rischio; un po’ perché spesso
teste e corpi erano eseguiti separatamente, le teste talvolta erano sostituite, e qualche sostituzione potrebbe
non essere andata a buon fine. Non è
da escludere, inoltre, un atto di violenza punitiva nel XV secolo, durante il
quale la città subì numerose occupazioni straniere.
primapagina55
ATTUALITà E CULTURA
di
Michele De Luca
Timide forme
nel silenzio metafisico
D
iscreta, silenziosa e netta è
l’immagine che dalle opere di
Nino Ricci ci appare, come condensata in una luce aurorale o crepuscolare; una solidificazione in un’atmosfera lieve e rarefatta, o un’incerta
epifania di forme e volumi che dalla
superficie della tela o della carta si
protendono verso di noi conquistando nello spazio un rilievo di timida
tridimensionalità. A differenza delle
nature morte del periodo metafisico
di Morandi, in cui le forme rispondono a regole compositive di tipo
geometrico e una luce cruda ne segna nettamente i contorni, qui, come
annotava Fabrizio D’Amico nel prezioso volumetto Nino Ricci. Opere
1996 – 2006 (Edizioni della Cometa), “quando di frequente l’orizzonte si eclissa, e viene a mancare
con esso l’ordinata scansione nello
spazio degli oggetti … franano allora le cose, scivolando dal loro piano
d’appoggio, sorrette come soltanto
da un fiato, adesso, nel campo vi56Primapagina
Una
antologica
di Nino Ricci
al Palazzo
Buonaccorsi
di Macerata
ATTUALITà E CULTURA
sivo. E quando, assieme, il chiaroscuro che, pur lieve, si intrometteva
fra luce e luce nelle figure di Ricci,
delineando oggetti e volumetrie, si
ritira anch’esso, come risucchiato
all’interno del colore, avverti che la
stagione del comporre per nitide sin-
tassi visive ha ceduto il passo ad una
diversa avventura”.
Una nuova “visione” dell’artista,
che attraverso l’intermediazione del
quadro, ci viene offerta, con un linguaggio che parla con leggeri strati
di colore, mai aggressivi o dirompenti, che crea un seducente “gioco”
di ritmi e di fratture, non geometrico
o meccanico, ma come librato sulle ali dell’immaginazione; sono le
“forme”, dai contorni come sbrecciati, e gli spazi, nel loro dialettico
colloquiare, a creare addensamenti,
solide esistenze, prive di ogni identità o riconoscibilità naturalistica (se
non un lontano rinvio a scaglie di
marmo o di ghiaccio), ma come frut-
ti di percezione, di immaginazione o
di sogno che si raggrumano in strati
di colore, e trovano un flusso ed un
palpito vitale (una vita propria) in
ritmi e confronti dialettici.
Una vasta antologica promossa
dal Comune di Macerata – Assessorato alla Cultura, curata da Giuseppe Appella ed allestita nei sontuosi
spazi del settecentesco Palazzo Buonaccorsi, costruito nel cuore di Macerata, ne fa ripercorrere , attraverso
più di cento opere (dal 1957 al 2013)
tra olii, acarilici, acquerelli, pastelli
e lavori grafici inseriti in raffinate
pubblicazioni a commento di opere
poetiche; in catalogo, testi – oltre
che del curatore, anche di Paola Ballesi, Roberto Crespi e Giancarlo Liuti. Nato a Macerata nel 1930, Ricci
dopo gli anni della sua formazione,
prima ad Urbino, all’Istituto di Belle Arti, dove stringe amicizia con il
coetaneo Elvidio Farabollini, nativo
di Treia e prematuramente scomparso nel 1971, e poi (tra il 1950 e il
1955) all’Accademia di Belle Arti di
Roma, dove ha come insegnanti, tra
gli altri, Sante Monachesi, Toti Scialoja e Mario Rivosecchi, e al Centro
Sperimentale di Cinematografia, è
vissuto sempre piuttosto appartato
nella sua città, ma, dalla quiete della provincia che è stata comunque il
suo primo vero “laboratorio” in un
ambiente stimolante per la presenza
di tanti artisti affermati a livello nazionale, ha sempre partecipato intellettualmente al dibattito sulla ricerca
artistica italiana ed internazionale
della seconda metà del Novecento.
Profonda è l’empatia che Ricci sente
nei confronti di Paul Klee, che influenza la sua produzione a partire
dalla fine degli anni cinquanta; egli
fa sua l’ansia di cercare sensazioni
generate dalla pittura attraverso il
segno grafico. La sua urgenza precipua è quella di una resa cristallina
e nitida della forma non attraverso
una scansione geometrica delle superfici, ma mediante una articola-
zione ritmica dell’opera. Quello che
affascina Ricci è la singolare sottigliezza tattile di Fautrier, con la propria produzione ripercorre itinerari
già cari a Seurat, Boccioni, Magnelli, Prampolini, Reggiani, all’amato
Licini, per approdare ad una serie
di metamorfosi costruite, con rigorosa concezione logica, al di fuori di
qualsiasi impegno teorico, su sottili
simmetrie di rapporti lineari durevoli. La sua ricerca fondamentale
è rivolta , anche negli anni più recenti, alla costruzione architettonica
che assorbe con i volumi, tutte le
relazioni spaziali fissate dalla luce
e dalle ombre; con il conseguente
trapasso dall’immagine mentale
alla realizzazione grafica mediante
l’emozione del segno.
A proposito della produzione
degli ultimi anni, che si collocano
nella fase più matura della creatività dell’artista maceratese, scriveva
ancora suggestivamente D’Amico:
“Governa la sua pittura un sentimento che è facile scambiare, alla
prima, per malinconia: tanto il suo
fare insiste, senza remore o nascondimenti, a ridire valori lontani, desueti … sganciate ora più che mai
dal mondo e dalle sue apparenze,
le figure narrano soltanto storie di
vita non vissute, di forme appena
sognate: trepidi schermi inframessi
alla luce”. Queste forme condividono, nella loro “esistenza” di colori,
in uno spazio assorto e senza tempo,
in un silenzio metafisico, un destino
comune e sembrano stringersi tra di
loro in una specie di complice “solidarietà”.
primapagina57
ATTUALITà E CULTURA
di
Giulia Pieretti
Incontro con i Fratelli Quay,
un cinema visionario
e coinvolgente
L’
incontro con un professionista
del cinema è spesso un’occasione di crescita e di confronto
per gli addetti ai lavori, ma anche
una scoperta di mondi, emozioni ed
espressività nuove per il pubblico.
Vedere un film e ascoltare le parole
di chi l’ha realizzato, svela diverse
prospettive e consente di “partecipare” al processo creativo, spesso fatto
di genio e contingenze: di intuizioni
e ispirazioni, ma anche di casualità e
aspetti pratici.
Per questo abbiamo deciso di raccontarvi l’incontro con due maestri
del cinema di animazione, i gemelli Stephen e Timothy Quay, che si
è svolto in Ancona, presso la Sala
Proiezioni della Fondazione Marche
Cinema Multimedia.
L’evento fa parte dell’iniziativa
“L’ora di cinema” (una serie di incontri aperti al pubblico e rivolti in
particolare ai professionisti del set58Primapagina
tore cinematografico), organizzata
dalla Fondazione, in questo caso in
collaborazione con Inteatro.
Il pubblico ha avuto l’opportunità di
vedere due cortometraggi dei fratelli
Quay -“Maska” e “In Absentia” - e
di porre loro delle domande al termine delle proiezioni. Noi di Primapagina abbiamo partecipato all’evento,
un’esclusiva regionale, e ne siamo
rimasti particolarmente colpiti.
The Quay Brothers - L’inanimato
prende vita
Timothy e Stephen Quay sono due
cineasti, meglio conosciuti come The
Quay Brothers, nati a Pennsylvania
(Stati Uniti) nel 1947, che lavorano a
Londra dal 1969, creando opere per
il cinema e la tv, la grafica e l’opera.
Maestri dell’animazione in stop-motion, hanno alternato progetti autonomi a lavori commissionati dalle più
importanti reti televisive britanniche
(come BBC e Channel 4), da aziende
multinazionali e da musicisti famosi,
come Peter Gabriel.
Il loro cinema si ispira alla tradizione
del teatro di marionette europeo, ai
registi di film d’animazione dell’Est
Europa (Jan Svankmajer, Ladislas
Starewicz e Walerian Borowczy) e
più ingenerale alla tradizione culturale mitteleuropea e russa (dallo
scrittore Franz Kafka ai compositori
Leoš Janáček e Igor Stravinskij).
Il MOMA di New York li ha recentemente omaggiati di una retrospettiva, e il regista Terry Gilliam ha citato
il loro film “Streets of Crocodiles”
(del 1986) come uno dei 10 migliori
film di animazione di tutti i tempi.
I fratelli Quay creano un mondo cinematografico surrealista, misterioso
ed ermetico, un immaginario animato controverso, popolato da uomini
ATTUALITà E CULTURA
senza volto e marionette cariche
di espressività. Lavorando con pazienza e meticolosità, curano i dettagli degli oggetti e delle marionette e controllano con precisione
i loro movimenti. Così gli oggetti
inanimati prendono vita e i soggetti animati vengono destrutturati,
raccontati attraverso alcuni dettagli o
parti del corpo.
I due registi descrivono così il loro
cinema: “Non si tratta di incubi, noi
pensiamo veramente che l’animazione possa creare un’alterità, e ciò
che noi vogliamo raggiungere con i
nostri film è un’alterità “oggettivata”, non un sogno o un incubo ma un
mondo autonomo ed autosufficiente,
che abbia le proprie leggi. È un po’
come quando si osserva il mondo degli insetti: ci si chiede a quale logica rispondano i loro comportamenti
(…), è un miracolo bizzarro. Ecco,
penso che guardare uno dei nostri
film sia come osservare il mondo
degli insetti. La stessa logica d’altra parte si può trovare nel balletto,
dove non esiste il dialogo e tutto si
basa sul linguaggio dei gesti, della
musica, del ritmo, che vanno interpretati dallo spettatore. Non ci piace
utilizzare dialoghi, ci bastano la musica e i movimenti, la luce, i suoni”.
Le atmosfere cupe, la poesia del
movimento
Durante l’evento sono stati proiettati due cortometraggi: “Maska” e “In
Absentia”.
Difficile tradurre le atmosfere, le
suggestioni e le inquietudini evocate da entrambi i film. Il primo è
una storia d’amore e inganno, i cui
protagonisti sono delle marionette.
La videocamera si sofferma sui loro
movimenti, sui loro corpi, in una sorta di poesia del movimento.
Il secondo invece racconta da vicino
il rituale di Emma Hauck, che dal
manicomio scrive lettere (mai spedite) al marito.
In entrambi i lavori la luce ha un ruolo importante, sia in assenza che per
effetti di animazione.
Lo sguardo, la carezza
Al termine della proiezione i fratelli Quay si sono resi disponibili a un
incontro con il pubblico. Anna Olivucci, responsabile della Fondazione
Marche Cinema Multimedia, ha sottolineato come lo sguardo della videocamera si avvicini ai soggetti ritratti
con delicatezza, quasi accarezzando
i volti, le superfici, i corpi, gli oggetti. Ha poi domandato ai fratelli Quay
come - e se - questo effetto sia stato
voluto e ricercato.
Stephen Quay ha spiegato che durante la fase di preparazione pianificano
e progettano le riprese, ma che poi si
lasciano trascinare dalle suggestioni
e dalle intuizioni del momento, “modificando i piani originari scena dopo
scena”.
Si crea così un’interazione creativa
tra chi è dietro la macchina da presa
e chi viene ripreso, ed “è difficile capire chi prende il controllo”.
La musica, il cambiamento
Anche la musica ha un ruolo essenziale nel loro processo creativo.
“In Absentia” è un cortometraggio
commissionato dalla BBC, parte di
un progetto che vede diversi registi realizzare dei film interpretando
dei brani di compositori famosi. In
particolare, ai fratelli Quay è stato
chiesto di utilizzare - e di trarre ispirazione da - alcuni brani di Karlheinz
Stockhausen.
Hanno così proposto una sceneggiatura alla BBC, e hanno ricevuto
la loro approvazione. Ma dopo aver
ascoltato i brani e aver iniziato a lavorare con la musica di Stockhausen
in sottofondo, hanno deciso di “buttare via la sceneggiatura” e ricominciare da capo, lasciandosi ispirare
dalla melodia.
Questo lasciarsi trascinare dal momento e dalle emozioni, riesce a essere trasmesso allo spettatore, che resta coinvolto dalle atmosfere e dalle
storie raccontate nei loro film.
E possiamo assicurarvi che il pubblico presente in Sala Proiezioni della
Fondazione Marche Cinema Multimedia non è rimasto indifferente.
www.fondazionemcm.it
www.inteatro.it
www.moma.org/visit/calendar/exhibitions/1240
primapagina59
ATTUALITà E CULTURA
di
Loretta Fabrizi
Un momento del laboratorio didattico
La magia della
vecchia tipografia
con l’odore
d’inchiostro
“E
mozionante”. “Un’esperienza coinvolgente”. “La performance e la testimonianza di chi
ha lavorato per una vita in tipografia hanno reso la visita un viaggio
nel tempo e la scoperta di un’arte
sconosciuta”.
Questi, alcuni dei commenti nel
libro delle presenze alla MOSE –
Mostra Operativa della Stampa e
dell’Editoria, la cui prima fase è
60Primapagina
stata allestita presso Palazzo Collio a San Severino Marche alla fine
dello scorso anno.
La mostra è nata dalla volontà della
Fondazione Archivio Storico Bellabarba (formata dal Comune di
San Severino, dalla Tipografia Bellabarba e dall’Opera Pia Luzi), di
rendere fruibile il fondo cartaceo,
gli oggetti storici e gli strumenti
dell’antica tipografia Bellabarba,
nata nel 1883.
Secondo una modalità dinamica del
concetto di “mostra” – nello stile
del Museum Theatre europeo – è
stata proposta una drammatizzazione con un personaggio in costume
calato nell’epoca di Johann Gutenberg, l’inventore della stampa a caratteri mobili moderna, che ha guidato i visitatori in un affascinante
viaggio nel tempo e fatto sperimentare le antiche tecniche di stampa..
Annina, sposa mancata di Gutenberg, ha recitato le problematiche
della stampa in Europa e l’evoluzione stilistica dei caratteri mobili,
in un intreccio di eventi storici, spy
story e drammi individuali, agganci
geografici tra Germania ed Italia,
tra Venezia, Fabriano e Pesaro, rendendo più comprensibile e avvincente il tema affrontato nei pannelli
didattici.
La MOSE ha offerto anche “la
magia della vecchia tipografia con
l’odore d’inchiostro”, come ha
scritto Giuseppe Benelli, presidente del Premio Bancarella, che in un
incontro a latere ha ricordato la figura di Giorgio Zampa a cui si deve
la stampa dei primi Xenia di Eugenio Montale (1966) proprio nella
Tipografia Bellabarba. L’edizione
di San Severino Marche è, tra l’altro, la più rara delle pubblicazioni
montaliane, perché commissionata
dal poeta in un numero limitatissimo di copie da donare a pochi intimi per ricordare Drusilla Tanzi, la
moglie del poeta soprannominata
“Mosca” dagli amici, a tre anni dalla sua morte. Ai visitatori la possi-
ATTUALITà E CULTURA
Uno scorcio dell’allestimento
bilità di osservare una copia originale di questi Xenia – dal nome che
i Latini davano agli omaggi destinati agli ospiti quando lasciavano
la dimora – dalla semplice fattura
voluta da Montale “come un opuscolo di un prete di campagna”.
I numeri hanno confermato il gradimento: 1400 presenze dal 21
to, ideato di Lucia Cataldo, è stata
sicuramente la formula innovativa,
concreta realizzazione delle nuove teorie sulla comunicazione interattiva nei musei e nelle mostre
attraverso il teatro e la performance, oltre che con la multimedialità.
La preziosa consulenza scientifica
e collaborazione tecnica di Stefano
Performance dell’attrice in costume
nell’antica tipografia
settembre al 10 dicembre, 821
gli studenti dei vari ordini e gradi di scuola. I piccoli della scuola
dell’infanzia e della primaria hanno
avuto a disposizione un laboratorio
didattico dove giocare, manipolare
gli elementi, riconoscere ad occhi
bendati le lettere grandi e piccole,
cimentandosi infine in semplici e
divertenti esercizi di composizione
tipografica.
La macchina tipografica, la magia
della pagina che prende vita nelle
mani del compositore ed esce stampata dalla “pedalina”, ha affascinato adulti e bambini. Alcuni hanno
commentato: “è un’idea veramente
fantastica, doveste organizzare dei
corsi”. Superate dal computer e
dalla stampa digitale, le arti tipografiche tradizionali conservano
infatti tutto il fascino di una tecnologia obsoleta che rivalutata come
abilità artigianale e come arte può
essere rilanciata in una dimensione
di nuova significazione.
La chiave del successo del proget-
Lucinato, inoltre, hanno reso possibile il racconto della storia dell’arte
tipografica e dei caratteri all’interno dei pannelli didattici.
Partner del progetto la Fondazione
CARIMA e Confartigianato Imprese di Macerata, sono state affiancate dal Comune di San Severino
Marche e dall’Associazione Archivio Storico Tipolitografia C. Bellabarba in questa innovativa proposta
territoriale che ha visto coinvolte
anche imprese artigiane come la
Sartoria Arianna e MastroT-Restauro, nonché i tecnici ormai in
pensione della tipografia Bellabarba che facevano l’antico mestiere
del “proto”.
Il progetto ha infatti voluto sperimentare la possibilità di sinergia
operativa e partnership con le realtà artigianali e produttive del territorio, secondo l’ottica delle linee
programmatiche del Distretto Culturale Evoluto istituito dalla Regione Marche.
La seconda fase si baserà invece
sulla comunicazione multimediale:
verranno attivate sezioni multimediali interattive sui documenti e gli
incunaboli della Biblioteca Comunale di San Severino, sui documenti dell’Archivio tipografico Bellabarba e un lavoro-video su Eugenio
Montale.
I tipografi al lavoro
per la composizione
a caratteri mobili
primapagina61
ATTUALITà E CULTURA
di
Pamela Temperini
La singolare storia di Staffolo,
a “cavallo” della fiaba,
del mito e della realtà
Noi non ci perdiamo nel labirinto dove Staffilo sarebbe il figlio di
Teseo e di Arianna. Il nostro discorso è un altro; le indagini a cui ci
volgiamo scaturiscono dal terreno. Come c’insegna la storia, questo
paese di Staphilus si perde nella notte dei tempi.
(da “Il Cavaliere di vetro” di Natale Anconetani)
Torchio del 1695
I
n poche ed incisive battute lo scrittore jesino dà inizio al suo particolare racconto di un cavaliere altrettanto particolare e affida alla terra la
chiave di lettura di un paese ancor più
singolare: Staffolo, in provincia di
Ancona. Una terra che fa innamorare
i turisti stranieri e li spinge a comprarsene un fazzoletto o a ristrutturarne
un casolare, e che a suo tempo aveva colpito Natale Anconetani quando
vi aveva trovato rifugio nel 1944 dai
bombardamenti aerei e vi era ritornato anni dopo in villeggiatura, perché
il Balcone della Vallesina, dall’alto di
un imponente colle, a metà tra i monti e il mare Adriatico, fa allungare lo
sguardo all’infinito e, sfidando la storia, scatena la fantasia. Poco importa
se il nome è fatto derivare dal longobardo staffal, ovvero palo di confine,
svettando il paese, prima del Mille,
al limite tra il Ducato di Spoleto e i
territori bizantini. La staffa da caval-
catura, al centro dello
stemma comunale, sembra dare più ragione allo
scrittore quando delega
l’autorevole Filocrate a
narrare a Gentildonne
di buona estrazione la
storia di Staffolo e della
staffa perduta da un Cavaliere di vetro, lui che
era di un’altra pasta, a
confronto degli altri della sua epoca. Di un’altra
pasta lo era in tutti i sensi, perché di
vetro trasparente tanto che si poteva
vedere il suo interno, proprio come
erano stati gli uomini del luogo, i
naïfs, di cui lui l’ultimo esemplare.
Costretto a tenersi lontano dagli uomini di carne per garantirsi l’incolumità, trovava riparo nella selva e più
si allontanava più destava interesse
e attenzione, in particolare di certe
fanciulle di dubbia estrazione, che
addirittura se lo sognavano di notte.
Un bel giorno decidono di seguirlo e
trovatolo a cavallo lo invitano a scendere danzando per lui da vere seduttrici. Il Cavaliere, confuso da una simile accoglienza, pensa d’impegnarle
nella ricerca di una staffa perduta
poco prima nel bosco, promettendo
ingenuamente di sposare la fanciulla
che l’avrebbe rinvenuta. Pessima idea
di un’anima candida e trasparente a
fronte di anime opache e irruenti, perché una volta trovata l’ambita staffa,
mordendo e graffiando, ognuna giura
di essere lei ad averla ritrovata. Vani
son dunque gli sforzi del Cavaliere di
restare incolume perché
a questo osceno spettacolo provò tanto disgusto del genere umano,
così come era ridotto,
che non resistette e si
buttò con il cavallo tra le
rocce, polverizzandosi
fino all’ultima molecola,
dentro un burrone. Dal
ricordo della staffa perduta, un giorno venne
decretato di dare il nome
di Staphilus a questa altura. E con il
fascino sempre verde della leggenda,
lo scrittore mette in ombra anche la
tradizione popolare per cui Staffolo
deriva dal greco staphilé, grappolo
d’uva, e deve i natali a Stafilo, figlio
del dio del vino Dioniso e Arianna il
quale, sbarcato in Italia, si avventura
fino a questo colle portando con sé
la vite. In verità, è la terra stessa che
reclama questa origine avendo fatto
del frutto dei numerosi filari la sua
eccellenza economica, il “Principe tra
i bianchi”: il Verdicchio Classico dei
62Primapagina
Pompa a ruota
ATTUALITà E CULTURA
Esposizione staffe da cavalcata
del museo di Staffolo
Castelli di Jesi, rigorosamente DOC.
Biondo, fragrante di frutta e di fiori,
questo vino ha la luminosità e la trasparenza di una natura schietta e verace, come quella del Cavaliere, figlio
di un terreno particolarmente versatile
e vocato per la vite. Simbolo indiscusso del luogo, Staffolo non poteva non
rendergli omaggio se non con la Festa
del Verdicchio, che si svolge ad agosto, il Premio nazionale della Gastronomia “Verdicchio d’Oro, a settembre, ed il Museo dell’Arte del Vino.
Silvia Brocani, che insieme alla famiglia si occupa del Museo e dell’enoteca di proprietà del Comune, mi fa
strada in una piacevolissima struttura
che si sviluppa su tre piani e tra gli
strumenti per la lavorazione dell’uva
il più antico che mi mostra è un torchio in rovere del 1695 perfettamente
conservato e recuperato nella vicina
campagna. La famiglia Brocani lavora in questo settore da circa trent’anni
nel rispetto più totale delle tradizioni
e dell’ambiente e rappresenta una
delle quattordici aziende vitivinicole
presenti nella zona tipica del Verdicchio. Davanti ad una preziosa raccolta
di bottiglie esposta al secondo piano,
Silvia esalta e mi conferma la vivacità di sfumature nel sapore e nel profumo che caratterizza questo vitigno,
grazie anche alla varietà delle componenti del terreno stesso e alla giacitura
del vigneto. Ad esempio, il terreno
in cui è prodotto il Lunatico, uno dei
loro vini di gran scelta, è chiamato
“calcinello”, particolarità che già di
per sé lo rende unico. A chiudere in
bellezza questo delizioso viaggio nel
mondo del vino, al terzo piano del
museo, allineate con cura in teche di
vetro, riposano diverse staffe da cavalcatura, di lavorazione e di materiale diversi. Che abbia ragione la storia
oppure il mito, in fondo in fondo agli
staffolani piace pensare che in un
tempo indefinito un cavaliere di vetro
dall’anima pura abbia realmente attraversato questi luoghi e chissà, magari
tra le staffe conservate, c’è quella da
lui perduta!
Fonte bibliografica
• Natale Anconetani, Il Cavaliere di
vetro: cronache di Staffolo tra favola
leggenda e fantasia, Jesi, 1999.
Imbuti e bollitori in terracotta
primapagina63
PRODOTTI DI MARCA
di
Giulia Pettinelli*
Il Trading on line
di Banca Marche si rinnova
I
l trading on line, conosciuto anche
con l’acronimo inglese TOL, è la
compravendita di strumenti finanziari tramite internet. E’ nato in Italia
solo nel 1999, quando il “Nuovo Regolamento Consob di attuazione del
Testo Unico dei mercati finanziari”
ne ha definito gli aspetti normativi.
In ogni caso, da quando l’accesso
ai mercati finanziari è diventato più
facile, guadagnare con il trading si
è trasformato nel sogno di tanti pur
con le dovute cautele che questo strumento necessita. Non esiste, infatti, il
guadagno facile senza rischi!
In Banca Marche, già dal 2001, è disponibile il servizio TOL di cui, il 24
luglio 2013, è stata rilasciata una
versione completamente rinnovata.
Il nuovo servizio di Trading on line
consente di effettuare a distanza operazioni di compravendita di strumenti
finanziari, di avere in tempo reale le
notizie sul mondo finanziario, i prezzi, i grafici dei titoli delle principali
borse e molto altro.
Il T.O.L. Banca Marche è stato rivisitato in base ai principi stabiliti nel
Nuovo Modello di Servizio della
Banca ed alla necessità di mettere a
disposizione dei Clienti una piattaforma informatica evoluta e completamente rinnovata.
Con il nuovo Trading on line il clien64Primapagina
te può personalizzare la modalità di
visualizzazione dei contenuti disponibili nell’applicazione, disporre in
tempo reale di notizie ed informazioni sul mondo degli affari e della
finanza nazionale (notiziario Milano
Finanza DJ News che offre una dettagliata copertura del mercato domestico e le maggiori notizie a livello
internazionale).
Il servizio in questione consente,
inoltre, la visualizzazione di clip multimediali di informazione finanziaria,
analisi fondamentale (Borsa Italiana),
analisi tecnica (su azioni Italia) e la
possibilità (in base al profilo scelto)
di gestire ordini condizionati semplici (stop loss / take profit) e ordini
condizionati complessi; è, infine, prevista la possibilità di attivare la notifica gratuita tramite SMS degli ordini
eseguiti.
Il nuovo T.O.L. di Banca Marche
permette, quindi, sia ai meno esperti sia a chi ha esigenze di trading più
evolute, di avere subito a disposizio-
ne le informazioni e le funzionalità
desiderate per operare sui mercati
scegliendo tra uno dei tre profili proposti: “Easy” - per un primo approccio ai mercati finanziari (riservato
alle persone fisiche); “Advanced”
- per chi vuole seguire il mercato disponendo di informative finanziarie
più approfondite ed operare attraverso strategie di investimento più complesse (riservato alle persone fisiche)
e “Business” – per tutte le aziende
che vogliono usufruire del servizio
TOL (riservato alle imprese).
Il nuovo Trading on line è ospitato
all’interno del “Portale dei Servizi
Online Banca Marche”, che consente alla Clientela di usufruire di altri
servizi web, quali Self Bank, Deposito Sicuro e ON CARD WEB, da un
unico punto di accesso e con uniche
credenziali.
Oggi, con Banca Marche, è quindi
ancora più facile fare trading!
scoprire tutte
r
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di Banca Marc
*Servizio Marketing
PRODOTTI DI MARCA
di
Filippo Cantarini*
Nuovo “Mutuo Energy”
Banca Marche
C
’è ancora tempo per beneficiare
dei “bonus fiscali” per le ristrutturazioni edilizie e la riqualificazione energetica che sono stati recentemente potenziati e prorogati dal
Decreto Legge n. 63/2013.
Al fine di permettere alla Clientela
di sfruttare tali agevolazioni fiscali,
Banca Marche ha arricchito la propria gamma prodotti con la nuova linea di mutui residenziali denominati
“Mutuo Energy”.
L’iniziativa è rivolta a privati e
ditte individuali che sostengono
spese per ristrutturazione e/o riqualificazione energetica di immobili residenziali, per le quali è possibile usufruire di detrazioni fiscali
pari al 50% per le ristrutturazioni
edilizie e al 65% per gli interventi
di efficienza energetica, compresi
gli interventi su immobili colpiti dal
terremoto e gli interventi antisismici
su immobili delle aree territoriali a
rischio.
La Banca finanzia fino al 100% dei
costi sostenuti con un massimo di
€ 150.000, comunque rispettando
un “loan to value” (rapporto tra l’importo del mutuo e il valore dell’immobile) massimo dell’80%.
Il Cliente può scegliere tra due di-
*Servizio Marketing
verse tipologie di mutuo: tasso variabile con durata massima fino a 30
anni o tasso e durata variabili a rata
costante con durata massima fino a
40 anni.
Sono previste condizioni di tasso
agevolate anche in funzione della
nuova classe energetica raggiunta a
seguito dell’intervento di ristrutturazione/riqualificazione energetica.
Il mutuo può essere erogato in
un’unica soluzione (con possibilità di posticipare il pagamento della
prima rata per massimo 12 mesi) o
a Stato Avanzamento Lavori (SAL).
Le consistenti detrazioni fiscali per
gli interventi di efficienza energetica
e per le ristrutturazioni edilizie, associate ai vantaggi del nuovo “Mutuo Energy” di Banca Marche, sono
dunque la migliore soluzione per la
manutenzione, la sicurezza e la riqualificazione energetica della casa.
Banca Marche si conferma ancora
una volta punto di riferimento per
l’offerta di credito, contribuendo
concretamente allo sviluppo sostenibile della società e del territorio.
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PRODOTTI DI MARCA
di
Stefania Rango*
La risposta alle tue domande…
il Buono di Risparmio
di Banca Marche
I
n un contesto di mercato sempre
più complesso, in cui ogni giorno si sente parlare di alta finanza
e di prodotti tanto sofisticati quanto incomprensibili, Banca Marche
riscopre il valore della tradizione
e della semplicità, proponendo il
Buono di Risparmio.
Il Buono di Risparmio è un classico deposito bancario vincolato,
che consente di investire anche
piccole somme per un periodo
che può andare da 1 a 60 mesi a
fronte di una remunerazione predeterminata che può essere a tasso fisso o variabile.
E’ essenzialmente una forma di risparmio a breve termine in quanto, per durate del vincolo superiori
a 12 mesi, è prevista la facoltà di
estinzione anticipata esercitabile in
qualsiasi momento successivo ai
primi 12 mesi dalla sottoscrizione,
dietro pagamento di una penale fissa, indicata sul contratto.
Il Buono di Risparmio Banca Marche si rivolge sia ai piccoli risparmiatori sia a coloro che hanno esigenze di investimento più complesse; può essere sottoscritto anche da
quella parte della Clientela che non
ha un dossier titoli e che al contempo non gradisce la materialità tipica
del libretto di risparmio.
Bastano poche parole per descrivere il Buono di Risparmio Banca
Marche:
semplice, perché si sottoscrive velocemente con pochi adempimenti
amministrativi e non necessita di
consulenza (per esempio non richiede la compilazione del questionario MiFID ed il suo mantenimento nel tempo);
sicuro, in quanto le somme depositate sono custodite dalla Banca;
garantito, grazie alla copertura del
Fondo Interbancario di Tutela dei
depositi;
flessibile, visto che si può scegliere
tra una gamma di soluzioni molto
vasta sia in termini di durata del
vincolo che di modalità di determinazione ed erogazione degli interessi (rispettivamente, a tasso fisso
o variabile, e tutti alla scadenza oppure con un flusso cedolare periodico).
Se ami la semplicità, vieni in Banca Marche e troverai le risposte che
cerchi!
Ti aspettiamo in Filiale per proporti la soluzione migliore per investire i tuoi risparmi!
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*Servizio Marketing
FOCUS
di
Giovanni Filosa
Intervista a Michele Ambrosini,
Presidente di Banca Marche
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