Economia e università: il caso spagnolo
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Economia e università: il caso spagnolo
CHESS Centre for Higher Education & Society Studies Economia e università: il caso spagnolo Loris Perotti Università degli Studi di Milano CHESS WORKING PAPER N. 5/2010 1 Indice 1. Evoluzione storica del modello 2. Caratteristiche attuali del sistema spagnolo 3. I meccanismi di finanziamento 4. Il sistema di governance 5. La riorganizzazione dell’offerta formativa 6. I servizi agli studenti 7. La ricerca e il mondo delle imprese 8. Cenni conclusivi Appendice: l’individuazione della regione e dei casi di studio Riferimenti bibliografici 2 1. Evoluzione storica del modello Le vicende storiche che hanno interessato l’università spagnola hanno visto un sistema di istruzione superiore estremamente accentrato, in cui programmi e autorità accademiche venivano stabilite dal ministero (dal secondo dopoguerra ai primi anni ’80), passare ad un modello connotato da un notevole grado di autonomia regionale e di ateneo, privo però di strumenti efficaci di controllo ministeriale (anni ’80 e ’90), per finire con un sistema decentrato sottoposto (faticosamente) a meccanismi di valutazione (dal 2001 ad oggi). Fase del controllo ministeriale (1943-1970)1 Il periodo tra il 19432 e il 1970 coincise con il momento di massima centralizzazione delle decisioni attorno al ministero: insegnamenti, durata e articolazione dei corsi, titoli, finanziamenti e nomina delle autorità accademiche erano tutte questioni decise a Madrid. Il rettore e i presidi di facoltà, sempre di nomina ministeriale (i presidi su proposta del rettore), venivano scelti tra i cattedratici iscritti alla Falange spagnola tradizionalista. Anche l’ingresso tra le fila dei professori di ruolo era un processo molto centralizzato e burocratico: un concorso nazionale in un’unica sessione davanti a una commissione anch’essa di nomina ministeriale. Il modello era insomma spiccatamente elitario, con un’offerta universitaria limitata a dodici atenei statali3, affiancati da alcune antiche istituzioni legate alla chiesa cattolica. Fase del primo ammodernamento (1970-1982)4 Il modello elitario entrò però in crisi, come altrove in Europa, per effetto della crescita degli iscritti e della conseguente massificazione dell’istruzione superiore (figura 1). Nel governo franchista iniziò a diffondersi la consapevolezza dei pesanti ritardi della Spagna in campo economico ed educativo, consapevolezza che portò nel 1970 a una legge con qualche ambizione riformatrice: la Ley general de educación (LGE). Figura 1: Studenti iscritti nelle Facoltà e nelle ETS 1 La legge di riferimento è quella del 29 luglio 1943. La legge di riferimento è quella del 29 luglio 1943. 3 Barcellona, Granada, La Laguna, Madrid, Murcia, Oviedo, Salamanca, Santiago de Compostela, Sevilla, Valencia, Valladolid e Zaragoza. 4 La legge di riferimento è la LGE del 1970. 2 3 Studenti 1100000 1000000 900000 800000 700000 600000 500000 400000 300000 200000 100000 0 1949-50 1960-61 1971-72 1981-82 1991-92 1998-99 Fonte: Pérez-Díaz e Rodríguez [2001], p. 411. Le novità di maggiore portata furono la soppressione delle prove di ingresso all’università, sostituite dalla sola frequenza ad un corso di orientamento universitario5 (COU), l’equiparazione tra Istituti Politecnici e Facoltà universitarie, e soprattutto l’articolazione dei corsi in cicli: il primo della durata di 3 anni, un secondo di specializzazione della durata di 2 e infine il dottorato. Viene sancita la differenziazione tra Facoltà, Scuole tecniche superiori e Scuole universitarie: nelle Scuole universitarie, a differenza che nelle prime due, potevano essere impartiti solo corsi di primo livello triennali, con esclusione quindi di specializzazioni e dottorati. Gli atenei videro aumentare il grado di autonomia a proposito delle modalità di accertamento delle conoscenze degli studenti, dei curricula, e riguardo ad alcune disposizioni sulla docenza, anche se il controllo da parte del ministero non scomparve. Negli anni ’70 vide dunque la luce un primo tentativo per adeguare l’istruzione universitaria a una domanda in espansione e in rapida trasformazione (in primo luogo quanto a provenienza sociale degli studenti), e a una società che era andata faticosamente aprendosi grazie allo sviluppo economico del decennio ’606. Ad esempio, si iniziò a prendere atto senza troppe interferenze delle richieste provenienti dalla comunità accademica per la nomina dei rettori e dei presidi di facoltà. A causa della dissoluzione del regime in seguito alla morte di Franco (1975), però, il dettato della legge rimase sempre particolarmente distante dalla sua implementazione concreta (pur prevedendo l’introduzione dei dipartimenti quali “unità fondamentali di insegnamento e ricerca in discipline affini”, il ruolo della cattedra non fu per 5 In un secondo tempo i test di ingresso verranno reintrodotti, ma pur sempre nell’ottica di una maggior lassismo nella selezione degli aspiranti studenti, come starebbero ad indicare le percentuali crescenti di ammessi. 6 Basti ricordare che tra il 1960 e il 1966 il tasso di crescita della produzione industriale fu del 138%; stime OECD contenute in Scarciglia e Del Ben ( 2005), p. 33. 4 nulla scalzato, dando vita a dipartimenti quasi mono-cattedra), e sarà necessario attendere il primo governo socialista per vedere delle reali trasformazioni nelle università. Fase del decentramento senza controllo (1983-2000)7 La transizione democratica rappresentò una cesura nel sistema di istruzione terziario, non solo nel campo dell’organizzazione della didattica, ma soprattutto per i processi di devoluzione e di decentramento a cui i nuovi governi democratici (e in particolare il PSOE) diedero seguito. Alcuni osservatori hanno addirittura ritenuto che la prima riforma dopo il ritorno alla democrazia, vale a dire la Ley de Reforma Universitaria (LRU) del 1983, abbia rappresentato una sorta di “rivoluzione copernicana”. Basti leggere un passo tratto da uno dei più attenti studiosi del sistema universitario spagnolo: Il sistema di istruzione superiore spagnolo è oggi radicalmente differente da quello di 14 anni fa [cioè pre-riforma]. Le università, che erano sotto il completo controllo del governo centrale, sono ora autonome. Sono passate dal dipendere dal governo centrale, al dipendere da governi regionali autonomi. Hanno visto un’evoluzione da strutture interne gerarchiche nelle quali tutti i funzionari degli atenei venivano nominati dal governo, a stili di condotta estremamente democratici. I curricula, che erano gli stessi in ogni università, sono ora diversificati. L’organizzazione dei curricula, in precedenza rigidamente basata sugli anni accademici, è ora modulare e strutturata in semestri. I finanziamenti per l’istruzione superiore, la ricerca, e i programmi di sostegno agli studenti sono aumentati considerevolmente (Mora 1997; p. 187). Sebbene in queste parole sia rintracciabile una certa enfasi dovuta al fatto che il confronto è operato sulla base di due tipi ideali di sistema, al lordo quindi delle resistenze e delle risposte adattive che qualsiasi traduzione concreta delle norme comporta, i cambiamenti furono senza ombra di dubbio profondi. I compiti di creazione e finanziamento8 delle università furono trasferiti alle diciassette neoistituite Comunità autonome, vale a dire ad un attore (la regione appunto), contrassegnato da interessi in buona misura differenti rispetto a quelli del governo nazionale, basti pensare alla crescita impressionante delle sedi universitarie9 (passate da una trentina ad una settantina in meno di vent’anni) e dei corsi dietro impulso delle Comunità autonome, e ai problemi di spesa pubblica che questo avrebbe comportato. Inoltre, per segnare la distanza dalla passata esperienza franchista, fu promossa una marcata autonomia 7 La legge di riferimento è la LRU del 1983. Seppur in un quadro istituzionale imperniato sui trasferimenti statali. 9 Nel 1991, tra l’altro, un decreto sbloccò la fondazione degli atenei privati. 8 5 nei processi di reclutamento della docenza, abolendo le commissioni di concorso nazionali, sostituite da commissioni locali a livello d’ateneo. Nelle intenzioni del legislatore la maggiore autonomia avrebbe però dovuto essere accompagnata da un meccanismo di rappresentanza degli interessi sociali attraverso la creazione, all’interno di ciascun ateneo, dei Consigli sociali, definiti proprio dalla LRU organismi “di partecipazione della società all’interno dell’università”10. Persino la regionalizzazione dell’istruzione superiore era stata ispirata dalla convinzione che questo avrebbe consentito una maggiore vicinanza delle università ai bisogni della società e in particolare dell’economia. Tuttavia, negli anni, era emersa una marcata tendenza all’autoreferenzialità da parte degli atenei che, contrariamente agli auspici del governo, non erano affatto divenuti più permeabili alla domanda esterna. Iniziavano inoltre a palesarsi le difficoltà nel “tenere insieme” un sistema terziario che, a patto di rispettare alcune indicazioni burocratiche provenienti dal centro, era composto da sottosistemi indipendenti (le regioni), oltre che privo di meccanismi sanzionatori efficaci (i finanziamenti non erano statali ma provenivano dalle Comunità autonome, la riproduzione del corpo docente avveniva su base locale, ecc.). Gli stessi Consigli sociali, pensati per far partecipare gli attori sociali al governo degli atenei, dovettero fronteggiare fin da subito la ferma opposizione dei docenti, che riuscirono nel 1987 a vincere un ricorso di incostituzionalità11 contro alcune delle loro prerogative12. Fase dell’autonomia controllata (2001-2007) Tra la fine del decennio ’90 e il 2000 era quindi diffusa la consapevolezza dell’urgenza di una riforma del sistema universitario. Furono fatti allora alcuni tentativi di intervento in corso d’opera, con tre progetti di revisione della LRU (nel 1992 e 1994 con il PSOE, e nel 1998 con il Partito Popolare), nella speranza di correggere quantomeno le tendenze che più si stavano allontanando dalle intenzioni originarie del legislatore. Tra gli obiettivi, oltre a una revisione 10 Come chiarisce l’articolo 14 della LRU del 1983: «Il Consiglio Sociale è l’organo di partecipazione della società all’interno dell’università. Spetta al Consiglio Sociale l’approvazione del bilancio e della programmazione pluriennale della Università, su proposta della Giunta di Governo e, in generale, la supervisione delle attività di carattere economico dell’Università e del rendimento dei suoi servizi. Gli spetta inoltre la promozione della collaborazione della società nel finanziamento dell’Università». Molto importanti sono poi le indicazioni in merito alla sua composizione: il legislatore era infatti persuaso che solamente una composizione mista del Consiglio (rappresentanti della società e accademici) avrebbe reso possibile il dialogo, ma che solo una maggioranza a favore dei membri laici avrebbe poi reso realmente operativo il ruolo di «servizio pubblico» che la medesima legge attribuiva agli atenei. 11 Ricorso formalmente promosso dal Governo basco, ma in realtà pensato dalle associazioni dei docenti stando a quanto riferito dall’allora ministro Maravall. 12 Il fatto ad esempio di poter decidere in merito agli organici degli atenei, questione ritenuta dal Tribunal Constitucional di esclusiva pertinenza accademica (sentenza 26/1987). 6 delle procedure concorsuali per l’immissione in ruolo dei professori, vi era quello di contrastare l’utilizzo massiccio e abusivo dei professori “Asociados” che nonostante fossero stati pensati per far partecipare all’insegnamento dei professionisti “di riconosciuta competenza” (con dedicazione a tempo parziale quindi, dato che la loro occupazione principale avrebbe dovuto rimanere extra-universitaria) si erano presto trasformati in uno strumento per contrattare a costi assai inferiori a quelli dei professori di ruolo una schiera di giovani docenti necessari per rispondere alla crescita vertiginosa delle immatricolazioni. Queste iniziative fallirono però sul fronte parlamentare (non ottennero mai la maggioranza) e lasciarono il campo a una serie di dibattiti, non per ritoccare qualche aspetto della legge del 1983, per quanto rilevante, bensì per arrivare a un complessivo riordino del sistema universitario spagnolo. Furono i Popolari di Aznar, dopo aver vinto le elezioni del 2000, a far approvare l’anno successivo una nuova legge sull’università, la LOU, che incise soprattutto sulla governance d’ateneo nel tentativo di ridurre il potere dei docenti. La LOU modificò le procedure per l’elezione del rettore (introducendo il suffragio universale13); istituì delle nuove procedure per l’accreditamento dei corsi, più tortuose e sottoposte al vaglio di una agenzia nazionale (l’ANECA); e infine introdusse i concorsi nazionali per ottenere l’abilitazione a professore funzionario. L’opposizione alla legge si rivelò però massiccia e diffusa. Due mesi dopo la sua entrata in vigore, il PSOE e Izquierda Unida presentarono ricorso di fronte al Tribunale Costituzionale per una presunta limitazione dell’autonomia universitaria contenuta nella LOU (ricorso che sarà ritenuto fondato ma che perderà di importanza a causa del successivo cambio di maggioranza seguìto alle nuove elezioni). Alcune università arrivarono persino a proporre una forma di disobbedienza civile, consigliando a chiare lettere di non applicare la riforma, tanto che un anno e nove mesi dopo la sua promulgazione solo quattordici atenei pubblici su quarantotto avevano approvato i nuovi statuti in ottemperanza alla legge (che avrebbe previsto al massimo quindici mesi per la loro ultimazione)14. Fase della armonizzazione europea (2007-) Ad aprile del 2007, vale a dire a soli cinque anni dalla promulgazione della LOU, si decise di modificare ulteriormente il sistema universitario con l’approvazione della Ley Orgánica de Modificación de la Ley Orgánica de Universidades (LOMLOU). Le circostanze che portarono in così breve tempo alla revisione della legge del 2001 sono sostanzialmente 13 In precedenza era il Claustro e quindi un organismo assembleare espressione delle élite accademiche ad eleggere il rettore. 14 El Mundo, 7/10/2003. 7 riconducibili a due fattori. Il primo furono le elezioni del 2004 che consegnando il paese ai socialisti determinarono un ricambio della maggioranza al governo e quindi, per l’ennesima volta, la volontà di distinguersi in un area di policy strategica (o almeno mediaticamente ritenuta tale) come l’istruzione superiore e la ricerca. La seconda ragione che condusse alla precoce rivisitazione dell’assetto normativo precedente è invece attribuibile alla centralità assunta, in Spagna come altrove, dal processo di armonizzazione europeo. Se in una prima fase questo era stato un tema piuttosto negletto (sebbene la LOU del 2001 contenesse dei rimandi al Processo di Bologna alcuni osservatori accusarono la legge di non aver dato sufficiente risalto alle novità che esso avrebbe comportato), nel corso degli ultimi anni il processo di convergenza europeo è divenuto una questione di importanza crescente all’interno del dibattito spagnolo sull’università. La prima risposta ai ritardi sulla via dell’armonizzazione dell’offerta formativa è stata la pubblicazione, nel 2005, di due decreti (Real Decreto 55/2005 e 56/2005) con i quali si è avviata la riforma dei curricula, successivamente ripresa e completata dalla LOMLOU e dal decreto 1393, entrambi del 2007. Oltre a recepire in forma organica le innovazioni introdotte dal Processo di Bologna a cui abbiamo accennato a inizio paragrafo, e ad aver concesso maggiore libertà agli atenei delegando molte questioni di governance a quanto stabilito dai singoli statuti (v. par. 4), la LOMLOU ha posto un forte accento sui legami tra il sistema di istruzione terziaria e quello delle imprese, con ripetuti richiami ai bisogni del sistema produttivo, alla funzione di “motore per lo sviluppo” degli atenei, e all’importanza della “cooperazione con il settore produttivo”. A queste dichiarazioni di principio fissate per via legislativa è corrisposto un impegno economico altrettanto convinto da parte del governo spagnolo sotto forma di finanziamenti alla ricerca e di sostegno alle imprese innovative che, nonostante scontino gli effetti della crisi economica in corso, sembrano aver inciso sui comportamenti di imprese e docenti. 2. Caratteristiche attuali del sistema spagnolo Il sistema di istruzione superiore spagnolo si articola in un canale universitario vero e proprio (nettamente maggioritario all’interno dell’istruzione terziaria con circa 1 milione e 400mila iscritti) e in un ramo professionalizzante rappresentato dalla Formazione professionale di livello superiore che nell’anno 2009/2010 ha fatto registrare circa 235mila iscritti15. I corsi di formazione professionale, generalmente impartiti nei medesimi istituti in cui trovano sede i 15 Fonte: Ministerio de Educación, www.educacion.es. 8 corsi di livello medio, hanno una struttura modulare di durata compresa tra le 1.300 e le 2.000 ore, e prevedono (sulla falsariga del sistema duale tedesco) sia una parte teorica d’aula, sia un periodo di tirocinio presso le imprese (fino al 25% delle ore). La distribuzione per età degli iscritti fa però pensare a corsi riservati ai drop-out del sistema universitario, oppure a individui dalla carriera educativa discontinua, dato che la fascia d’età maggioritaria è quella con 23 anni e più (33%), mentre l’età tipica di ingresso per queste scuole è fissata a 18 anni16. Nonostante la compresenza a livello terziario di percorsi universitari e percorsi professionalizzanti, numero e profilo degli iscritti al ramo vocational non consentono dunque di equiparare il modello spagnolo a quello di altri sistemi binari (come quello tedesco o olandese ad esempio), in cui il prestigio goduto dalle istituzioni formative professionalizzanti è in genere di poco inferiore a quello degli atenei. La vera e propria istruzione di tipo accademico, rappresentata dalle università, è stata profondamente riformata nel corso degli ultimi anni. Tra il 2005 e il 2007 la Spagna ha recepito, anche se piuttosto tardivamente, il modello europeo definito nel 1999 a Bologna, e ha riorganizzato l’offerta formativa articolandola in un primo livello di 4 anni (240 crediti) e in un secondo livello di 60/120 crediti17 (1 o 2 anni). Vecchio modello: - ciclo corto (3 anni) - I e II ciclo o ciclo lungo di 4, 5 o 6 anni - solo II ciclo (2 anni) a cui si poteva accedere al termine di alcuni corsi triennali Nuovo modello: - laurea (Grado): 240 crediti (4 anni) - master: 60 o 120 crediti (1 o, più raramente, 2 anni) I requisiti per l’accesso all’istruzione di tipo universitario sono (a) il possesso del titolo di Bachiller (un corso biennale post-obbligo a carattere liceale) oltre al superamento di una prova di ingresso (PAU); (b) limitatamente ad alcune facoltà, il titolo di Tecnico superiore che si ottiene dopo aver completato la formazione professionale superiore; oppure (c) dei test riservati, più semplici della PAU, per coloro che hanno più di 25 o 45 anni. La tabella sottostante mostra l’andamento delle iscrizioni all’università negli ultimi due decenni. Dopo un picco raggiunto tra la fine degli anni ’90 e il Duemila, con più di un 16 17 Fonte: www.mec.es. Valori riferiti all’anno 2007/08. I corsi di secondo livello da 120 crediti sono in verità meno diffusi di quelli di un anno. 9 milione e mezzo di iscritti, le iscrizioni sono andate calando in misura considerevole (-13% tra il 1998 e il 2008). Tabella 1: Iscritti all'università in Spagna e variazioni percentuali (1988-2008) 1988-89 1998-99 2008-09 Variazione 2008/1998 Variazione 2008/1988 1.026.202 1.584.785 1.377.228 -13,1 34,2 Scienze sociali e giuridiche 507.864 803.057 700.656 -12,8 38,0 Ingegneria e architettura 181.737 372.835 337.849 -9,4 85,9 Scienze umane 158.780 161.134 124.480 -22,7 -21,6 Scienze sanitarie 101.753 113.025 126.993 12,4 24,8 76.068 134.734 87.250 -35,2 14,7 Totale Discipline Scienze sperimentali Fonte: Ministerio de Educación, Datos y cifras del sistema universitario. Curso 2009/10 (www.educacion.es) Anche se il grafico 2 consente di ricondurre gran parte di questa diminuzione a ragioni demografiche (la coorte dei 18enni, età tipica di ingresso all’università, si è contratta del 21% nel medesimo periodo) ciò non toglie che gli andamenti tra le diverse discipline non sono stati per nulla omogenei (dal + 12% di Medicina al -35% di Scienze). Ai fini del nostro discorso appare soprattutto degna di nota la contrazione degli iscritti nelle facoltà tecniche (9,4%) e la caduta vertiginosa in quelle scientifiche (-35%), cioè nelle discipline di cui le imprese knowledge intensive dovrebbero in teoria avere più bisogno. 10 Figura 2: Andamento dei 18enni in Spagna (1998-2008) 700000 600000 500000 400000 300000 200000 100000 0 1998 2000 2002 2004 2006 2008 Fonte: Instituto Nacional de Estadística (www.ine.es) Pur essendo un problema comune a molti altri paesi europei (fatto che non da ultimo rimanda alla maggiore difficoltà mediamente associata a questo tipo di corsi), l’ampiezza del fenomeno nel caso della Spagna suggerisce l’esistenza di ragioni strutturali legate alle peculiarità del tessuto industriale e alla struttura occupazionale che renderebbero poco agevole l’ingresso nel mercato del lavoro per i laureati in genere e per quelli scientifici in particolare (infra par. 5 e 7). 3. I meccanismi di finanziamento Il sistema universitario spagnolo è stato fino ad anni molto recenti (e in alcune Comunità autonome lo è tuttora) caratterizzato da una certa arbitrarietà nei trasferimenti pubblici agli atenei (Consejo de coordinación universitaria 2007). In mancanza di criteri oggettivi in base ai quali calcolare i trasferimenti, ogni anno si apriva infatti un processo di negoziazione tra regioni da una parte e università dall’altra per stabilire l’ammontare delle risorse necessarie. Tale meccanismo, oltre a rendere poco trasparente l’allocazione, contribuiva ad accrescere le difficoltà di programmazione a lungo termine (visto che non era chiaro su quanto i singoli atenei avrebbero potuto contare negli anni successivi), e a generare condizioni di disparità 11 inter- e intraregionali. Nonostante in cinque Comunità autonome18 su diciassette si continui a utilizzare questo modello negoziale, la regionalizzazione dell’istruzione universitaria ha spinto a una sua revisione a favore di schemi più oggettivi. Oggi il modello prevalente è quello misto, che contempla sia l’assegnazione di risorse in base al numero di studenti, di docenti e/o di corsi di laurea, sia una porzione di finanziamenti su base contrattata (per progetti e obiettivi) il cui ammontare è però di gran lunga più modesto di quello del primo canale calibrato su variabili dimensionali. Tabella 2: Criteri di finanziamento dell'università in Spagna Criterio19 Negoziale Regioni Baleari, Cantabria, Extremadura, Paesi baschi, la Rioja Castilla e León, Galizia In base a formule Negoziale e contrattato Asturie, Castilla-La Mancha Formule e contrattato Andalusia, Aragón, Isole Canarie, Catalogna, Comunità valenciana, Madrid, Murcia, Navarra Fonte: tabella tratta da Consejo de Coordinación universitaria (2007). Il fatto che lo schema di finanziamento più diffuso sia strettamente correlato al numero di studenti e di docenti o al numero di corsi di laurea consente, sul fronte della didattica, una buona corrispondenza tra spese effettivamente sostenute dall’ateneo e denaro pubblico ricevuto (da cui dipende circa il 75% dei bilanci). Dal lato della ricerca ha invece avuto spesso la conseguenza di porre le università di fronte a un dilemma, quasi un trade-off. Se infatti decidono di fare molta ricerca per darsi un alto profilo sono destinate ad andare incontro a problemi di sostenibilità finanziaria (visto che non esistono trasferimenti automatici parametrati sulla ricerca). Se, al contrario, decidono di tenere in ordine i bilanci si trovano a dover tagliare le spese per la ricerca dati gli alti costi fissi associati ad altre voci come le retribuzioni del personale o le infrastrutture. Non è un caso che alcune regioni, come la 18 Isole Baleari, Cantabria, Extremadura, Paesi Bachi, la Rioja (Consejo de coordinación universitaria 2007). Si tratta di Comunità autonome che contano un solo ateneo pubblico sul proprio territorio e che pertanto non sono state incentivate a cambiare dai conflitti che inevitabilmente sorgevano nel caso di una molteplicità di atenei finanziati secondo criteri non omogenei. 19 I modelli sono: negoziale: utilizzato in regioni che contano un solo ateneo pubblico in base a formule: in genere il numero di docenti e di studenti, negoziale e contrattato: oltre alla negoziazione vengono fissati obiettivi o standard che danno diritto a finanziamenti, in base a formule e contrattato utilizzato nei due sistemi universitari regionali più importanti, quello catalano e di Madrid. 12 Comunità di Madrid, l’Aragón e l’Andalusia, stiano cercando una soluzione a questa palese inefficienza, predisponendo schemi di finanziamento più articolati che distinguano tra i costi della didattica e quelli dipendenti dalla ricerca. Ovviamente, non è che l’innovazione e la ricerca scientifica siano ritenuti di scarsa importanza dal governo spagnolo e quindi tale da non meritare un sostegno. A partire dalla «Legge della scienza» del 1986 sono infatti previsti dei Piani nazionali per la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico, di durata quadriennale, finanziati da appositi fondi statali. Gli investimenti sono cospicui se pensiamo che l’ultimo Piano, quello che copre il quadriennio 2008-2011, prevede un esborso di fondi pubblici pari a 47 miliardi di euro20 (il doppio di quanto stanziato nel quadriennio precedente). L’erogazione di questi fondi, proprio perché pensata per indirizzare le attività di ricerca verso settori o temi ritenuti strategici dal governo, avviene però per via competitiva (tramite bandi), e non può quindi garantire quella continuità e prevedibilità di risorse di cui ha bisogno qualsiasi programmazione a medio/lungo termine. Come vedremo, questo è stato uno dei fattori che ha condotto a un mutamento nelle strategie delle università, aumentando la loro propensione a stabilire relazioni con il mondo della produzione. Il nesso tra finanziamenti e strategie degli atenei non è peraltro da intendere esclusivamente come il facile e intuitivo rapporto tra il volume dei finanziamenti pubblici e la propensione delle università ad aprirsi all’esterno (semplificando: al diminuire dei primi corrisponderebbe un aumento della seconda), ma anche come rapporto tra i criteri di allocazione dei fondi e la diversificazione delle strategie delle università. Il mutare dei principi in base ai quali vengono distribuite le risorse può indurre mutamenti nei comportamenti delle università (più propriamente: dei docenti e dei ricercatori) anche in presenza di trasferimenti pubblici complessivamente stabili o persino in crescita. Inoltre, anche se lo studio dei fattori esplicativi nelle relazioni tra università e sistema economico non può esaurirsi con l’analisi dei modelli di finanziamento, perché è chiaro che questa variabile incide quasi esclusivamente sui comportamenti degli atenei e molto meno su quelli di imprese e attori sociali, proprio le difficoltà finanziarie delle università possono aprire finestre di opportunità inedite anche per questi ultimi. BOX 1 Schematizzando per grandi capitoli, i vincoli a cui sono sottoposti gli atenei nel reperire fondi per le proprie iniziative possono essere così riassunti: 20 La cifra comprende sia i trasferimenti all’università che quelli ad altri enti di ricerca e alle imprese. Solo una parte corrisponde a veri trasferimenti dato che il totale include una quota di cofinanziamento a carico dei beneficiari dei fondi. 13 Finanziamenti per i corsi di laurea con valore legale: le tasse pagate dagli studenti sono stabilite a livello statale; Finanziamenti per i corsi “propri” (“propios”): le tasse sono libere e fissate da ciascun ateneo; Ricerca di interesse nazionale (Piano nazionale): risorse su base competitiva e stabilite ex ante dal governo; Servizi di ricerca per imprese ed esterni: prezzi e tariffe liberamente fissati da ciascun ateneo. 4. Il sistema di governance Dopo anni di dittatura e di centralismo, all’inizio degli anni ’80 i socialisti decisero che per segnare una svolta rispetto al franchismo la soluzione fosse quella di disarticolare la dimensione nazionale dell’istruzione universitaria a favore del regionalismo, e di aumentare la collegialità e il tasso partecipazione negli atenei attraverso un rafforzamento del ruolo istituzionale di un organismo collegiale come il Claustro, rappresentativo dell’intera comunità universitaria. Con la Ley de Reforma Universitaria (LRU) del 1983, si definisce così l’assetto di governance che, con qualche variazione, caratterizzerà per i successivi vent’anni il modello universitario spagnolo, con una chiara supremazia degli organi partecipativi di tipo collegiale, cioè del Claustro (formato da non più di trecento membri, la maggioranza dei quali docenti di ruolo in possesso del dottorato) e del Consiglio di governo21, organismo ristretto composto dal rettore e da un rappresentanza di presidi di facoltà e del personale amministrativo, oltre che degli studenti. Già a partire dai primi anni ’90 era però divenuto evidente che collegialità ed efficienza non erano riuscite ad andare a braccetto. Nel 2001, con la Ley Orgánica de Universidades (LOU) ci fu un primo tentativo di ripristinare parte del controllo perduto dal ministero dopo l’approvazione della LRU. La LOU incise in profondità sulle logiche di governo degli atenei con una serie di misure che ebbero l’effetto di introdurre, stando ad alcuni osservatori, un certo “presidenzialismo” (Souvirón et al. 2002), contenendo il potere dei docenti. Basti a chiarire quanto appena detto una carrellata delle aree interessate dai cambiamenti: a) un nuovo metodo per l’elezione del rettore (ora eletto dall’intera comunità universitaria e non più dal solo Claustro espressione dei Catedraticos); (b) la sostituzione dei concorsi locali con 21 Nella LRU il nome corretto era “Giunta di governo”. 14 un’abilitazione a livello nazionale per la chiamata dei docenti; (c) l’ingresso di stakeholder esterni in alcuni organi di governo degli atenei (Consiglio di Governo); (d) la valutazione dei docenti da parte di una neoistituita agenzia nazionale (ANECA). Del resto, già alla fine degli anni ’80, era andata aumentando nel ceto politico spagnolo la consapevolezza che la strada in direzione di un’università aperta alle domande provenienti dalla società, sarebbe stata tanto più impervia quanto meno si fosse riusciti a scardinare l’autoreferenzialità ancora presente in molti professori. Il primo tentativo in tal senso era stato portato avanti proprio con la riforma del 1983 (LRU) che istituendo i Consigli sociali aveva voluto promuovere la partecipazione degli attori esterni al governo degli atenei. Molto importanti le indicazioni in merito alla loro composizione: il legislatore era infatti persuaso che una composizione mista del Consiglio (rappresentanti della società e accademici) avrebbe reso possibile il dialogo, ma che solo una maggioranza a favore dei membri laici avrebbe reso realmente operativo il ruolo di servizio pubblico che la medesima legge attribuiva agli atenei. Come è già stato ricordato, le attività del Consiglio sociale non ebbero però vita facile e, dopo la sentenza del 1987 che di fatto li delegittimò dichiarandone incostituzionali alcune funzioni, si videro trasformati nella maggior parte dei casi in una sede di mera ratifica delle decisioni assunte in altri luoghi dal ceto accademico. Nel 2007 il nuovo esecutivo socialista (con la Ley Orgánica de Modificación de la Ley Orgánica de Universidades, LOMLOU), sembra aver preso definitivamente atto delle difficoltà di un coinvolgimento diretto degli attori esterni nel governo dell’università, cancellando la norma sulla necessaria presenza di tre membri laici all’interno dei Consigli di governo e lasciando piena libertà ai singoli statuti in merito all’inclusione o meno di rappresentanti esterni. La LOMLOU ha poi aumentato in modo significativo l’autonomia degli atenei nella governance, delegando agli statuti la scelta tra due procedure alternative per l’elezione del rettore: ad opera del solo Claustro (come nella LRU del 1983), oppure di tutta la comunità universitaria (come nella LOU del 2001). Pur non rinunciando al principio della valutazione (e al potere che questa conferisce a chi ne stabilisce i criteri), la riforma del 2007 ha quindi voluto dilatare gli spazi di autonomia concessi agli atenei. Memore dei fallimenti del passato, il legislatore ha dunque promosso un processo di ricalibratura dei poteri che è però rimasto interno alle università, tentando per questa via di ridurre le reazioni di rifiuto e i poteri di veto che si erano manifestati in occasione della riforma del 2001. Nonostante l’apertura della governance d’ateneo agli esterni sia stata per certi versi ridimensionata dalla riforma del 2007, c’è da riconoscere che quando i rappresentanti dell’economia non hanno cercato spazi di potere direttamente dentro gli atenei, e non sono 15 quindi stati vissuti come una “limitazione dell’autonomia accademica” (per riprendere l’espressione della sentenza del 1987), la loro influenza indiretta non è stata trascurabile. È ad esempio probabile che dietro alla vistosa diffusione degli atenei privati (oggi ben 2722, la maggior parte dei quali nata nell’arco di pochi anni) ci sia stato proprio il tentativo del mondo economico di aggirare gli ostacoli alla penetrazione nelle università pubbliche. Nonostante l’autonomia più marcata di cui godono gli atenei privati abbia significato una notevole eterogeneità nel numero e nei compiti degli organismi di governance, la fisionomia di questi atenei è infatti spiccatamente manageriale (il rettore ha poteri ben superiori a quelli del suo equivalente pubblico), con una forte presenza di attori provenienti dal mondo produttivo. Questo fenomeno sembrerebbe indicare l’adozione di una strategia di parziale exit (Hirschman 1970) da parte delle imprese, alla ricerca di spazi di cooperazione con il mondo accademico diversi dalle classiche sedi di rappresentanza degli atenei pubblici in cui gli attori esterni sono stati perlopiù confinati in ruoli marginali. 5. La riorganizzazione dell’offerta formativa L’offerta formativa spagnola è oggi in piena fibrillazione. I cambiamenti introdotti dal Processo di Bologna (recepito piuttosto tardivamente in Spagna, come si è visto) hanno comportato un certo disorientamento dal lato delle amministrazioni universitarie e dei docenti (chiamati a un lavoro per la definizione dei nuovi curricula che tutti i protagonisti non esitano a definire gravoso). Ma hanno anche provocato fenomeni di vero e proprio rifiuto tra gli studenti, che accusano la riforma di introdurre surrettiziamente forme di “privatizzazione” dell’istruzione superiore, a causa della maggiore attenzione ai bisogni del sistema produttivo e della presunta subordinazione dei fini educativi a questioni di occupabilità. Le accuse di privatizzazione espresse da una parte degli studenti sembrano, se non del tutto infondate, quantomeno non trovare grandi riscontri nella realtà (almeno a proposito di didattica), visto che le innovazioni legislative non hanno inciso sui meccanismi di finanziamento del sistema universitario, le cui risorse restano pertanto abbondantemente dipendenti dai trasferimenti pubblici23. Ciononostante, l’opposizione studentesca (ma in parte anche accademica) non deve essere semplicemente ascritta nel novero dei comportamenti irrazionali, poiché è 22 Quattro di queste sono università per l’insegnamento a distanza. Persino nelle facoltà tecniche in cui sono tradizionalmente presenti legami più radicati con il sistema economico la quota di finanziamento che deriva da attori privati è bassa: nell’Università Politecnica di Catalunya rappresentano ad esempio meno del 10% del bilancio d’ateneo, molto meno nelle altre facoltà. 23 16 comunque rivelatrice di un clima culturale che ha radici profonde nelle vicende spagnole. L’autonomia dei docenti è un tema che ha rilevanza politica, oltre che scientifica, in tutti i paesi (democratici), ma in Spagna ha assunto un significato particolare perché è stata associata con la transizione alla democrazia tra la metà degli anni ’70 (morte di Franco) e gli anni ’80 (prime riforme socialiste dell’università). In questo senso, il fatto di “piegare” i contenuti degli insegnamenti a esigenze esterne, come quelle del sistema economico, può avere ancora oggi un sapore indigesto, specialmente quando le caratteristiche di relativa arretratezza del modello produttivo non lascino subito intravedere ricadute positive sui bilanci d’ateneo o sull’occupabilità dei laureati. Nel caso invece delle perplessità espresse dai docenti a proposito di Bologna è necessario fare alcune considerazioni. In primo luogo, la riorganizzazione dei cicli ha richiesto un significativo cambiamento in alcune routine accademiche: mentre in precedenza era sempre stato il ministero a stabilire i contenuti qualificanti di ciascun corso di laurea ora sono gli atenei a doversi far carico della maggior parte del lavoro di definizione dei contenuti formativi. Questa maggiore autonomia, che in via teorica avrebbe dovuto avvantaggiare gli atenei, si è tradotta in frequenti episodi di conflitto tra i docenti per ragioni collegate al peso, e quindi al prestigio, da assegnare a ciascun insegnamento nella riscrittura dei curricula. [In precedenza] c’era un catalogo ufficiale con cui il governo stabiliva per decreto i contenuti minimi dei piani di studio, in modo che per stabilire un titolo universitario ciascuna università doveva prendere il modello proposto dal ministero e adottarlo. […] Ora si è deregolato il processo e si è sostituito il catalogo ufficiale con un registro24. […] Questo ha comportato un carico di lavoro enorme per gli atenei, invece di pianificare dal centro si è “centrifugato” lo sforzo. (Preside della facoltà di diritto nell’Università di Girona) Il nuovo quadro dato dalla maggiore libertà nella programmazione dell’offerta formativa ha quindi avuto l’effetto di ridurre l’integrazione sociale dentro gli atenei. Le pressioni corporative, che in precedenza trovavano nel ministero una sorta di camera di compensazione, sono ora destinate a manifestarsi a livello periferico (nelle facoltà). In alcuni casi sono state pensate misure di coordinamento a livello regionale (nel nostro caso catalano) attraverso forme di regolazione informale e volontaristica tra gli attori a livello decentrato, che potessero fungere da equivalente funzionale del coordinamento ministeriale del periodo precedente. Nel caso delle facoltà di diritto, ad esempio, i diversi presidi hanno deciso di istituire dei tavoli di 24 Ora sono gli atenei a definire i propri piani di studio e a sottoporli successivamente all’ANECA (l’agenzia nazionale di valutazione) per l’approvazione, affinché siano iscritti nel registro dei titoli ufficiali con valore legale. 17 confronto per definire i contenuti minimi dei curricula. Questa soluzione, oltre a favorire il contenimento dei conflitti tra i rappresentanti delle diverse discipline, ha giocato un ruolo molto importante anche nei confronti degli attori sociali. L’ampia autonomia didattica ha infatti avuto l’effetto inatteso di ridurre la funzione di “segnale” delle lauree, lasciando imprese e potenziali datori di lavoro in uno stato di incertezza riguardo alle competenze dei laureati post-riforma. Dopo anni di relativa uniformità dei titoli, il processo centrifugo associato all’introduzione del Bologna Process ha significato in altri termini per i datori di lavoro trovarsi di fronte a un medesimo “Licenciado en ...”, a cui possono però corrispondere percorsi universitari assai diversificati. L’autonomia nella definizione dell’offerta formativa è andata a scontrarsi anche con alcune norme in vigore nel settore pubblico, incrinando il precedente equilibrio tra omogeneità dei titoli (garantita dall’iniziativa del ministero nella costruzione dei curricula) da un lato, e requisiti educativi richiesti dai concorsi nella pubblica amministrazione dall’altro. La riforma del sistema universitario sembrerebbe aver quindi involontariamente ridotto la “coerenza” tra due istituzioni chiave (università e pubblica amministrazione), e quindi anche nell’architettura istituzionale a livello sistemico (Amable 1999). Aldilà di questi fattori contingenti connessi all’implementazione del Bologna Process, destinati a risolversi non appena il mercato del lavoro avrà familiarizzato con le nuove lauree, un ostacolo sulla strada della collaborazione tra università e mondo economico è dato dal sistema di finanziamento degli atenei. Abbiamo infatti visto che i trasferimenti alle università pubbliche avvengono sulla base di alcune variabili (come il numero degli studenti, quello dei corsi di laurea, dei docenti, ecc.) che generalmente consentono una buona corrispondenza delle risorse ai bisogni connessi alla didattica. Se questa è una condizione necessaria per consentire agli atenei di programmare la propria offerta formativa anche nel medio-lungo periodo, è anche vero che la disponibilità di risorse su questo fronte può aver disincentivato la ricerca di sinergie con il settore produttivo. Non a caso i non moltissimi esempi di cooperazione tra attore economico o amministrazioni pubbliche e atenei si concentrano spesso nei corsi post-laurea, vale a dire dove vengono meno gli automatismi tra risorse pubbliche erogate e compiti didattici. Certamente esistono differenze tra facoltà umanistiche da un lato (a cui per certi versi si possono associare le facoltà scientifiche “dure” come fisica o matematica) e facoltà tecniche ed economiche dall’altro. Mentre nelle prime i rapporti con l’esterno sono rari quanto a progettazione dei corsi, nelle facoltà economiche e tecniche i contatti sono più frequenti. Nelle facoltà di ingegneria e di economia esistono corsi interamente o parzialmente finanziati 18 dalle imprese (come per il settore finanziario all’Università di Barcellona e alla Pompeu Fabra), o insegnamenti vicini alla domanda proveniente dall’economia come nel caso delle “cattedre di impresa” (v. par. 7) che erogano borse di studio agli studenti impegnati su temi di interesse della società finanziatrice25. Nonostante tali ovvie diversità in ambito disciplinare è però innegabile che a livello di sistema le università spagnole non trovino consueto confrontarsi con i rappresentanti del mondo esterno per quanto riguarda la didattica. Anche le volte in cui ciò accade, il metodo prevalente è comunque quello delle consultazioni ex post, quando il processo di definizione dei curricula è già stato portato a termine e quindi difficilmente modificabile. Tabella 3: Didattica: la cooperazione con l’esterno Università di Barcellona Forme di collaborazione e co-progettazione nel corso di scienze bancarie (nato come corso di formazione permanente per bancari). Il presidente del Consiglio sociale di questa università non ha riscontrato interesse degli attori economici nella partecipazione alla riscrittura dei curricula Politecnica di Catalunya Fanno corsi di formazione continua “su misura” direttamente presso le imprese. In questo politecnico esistono una ventina di cattedre finanziate da imprese (le aziende finanziano circa 90mila euro in 3 anni attraverso borse di studio e stage). Esistono anche corsi co-organizzati a livello di master e post-laurea. Univ. Autonoma Barcellona di Il curatore delle ricerche sull’esito occupazionale dei laureati ha riferito che i collegi professionali sono consultati in merito ai piani di studio ma come “osservatori esterni”, a cose fatte. L’ex rettore ha detto che i collegi professionali sono conservatori e corporativi, e pertanto un freno al cambiamento. Secondo lui seguire le richieste degli attori economici sarebbe un errore perché le occupazioni cambiano velocemente e le imprese pretenderebbero “dettagli effimeri” nella preparazione degli studenti. Iniziano ad esserci corsi pensati per il lifelong learning. Esiste una cattedra Caixa Serra Ramoneda totalmente finanziata da esterni. Univ. Pompeu Fabra Il corso di Economia finanziaria 3 è totalmente finanziato dalle banche I piani di studio sono pensati solo dai docenti al limite esistono limitate forme di consultazione ex post su base volontaria. 25 Nell’Università Politecnica di Catalunya, la più attiva su questo versante, sono una ventina le cattedre di questo tipo. 19 Alcuni interlocutori hanno ricondotto questo fenomeno alla scarsa conoscenza della realtà universitaria da parte delle imprese: o perché gli imprenditori stessi non l’avrebbero frequentata (in Spagna la massificazione è avvenuta più tardi rispetto agli altri paesi europei), oppure perché gli imprenditori, pur essendo laureati, sono rimasti all’immagine che si sono costruiti nel periodo (lontano) in cui erano iscritti. Del resto, a prescindere da analisi fenomenologiche, le caratteristiche del sistema produttivo spagnolo non lo rendono certo un partner naturale delle università. La percentuale di imprese spagnole che innova è modesta, pari al 35%, valore certo vicino al 36% di Italia e Grecia, ma distante dal 43% della Gran Bretagna, dal 50% della Svezia e dal 65% della Germania (Eurostat, News release 27/2007)26. Quanto poi alla struttura occupazionale, la Spagna è un paese in cui il mercato del lavoro ruota ancora oggi attorno ai bassi profili, se pensiamo che la quota di professioni definibili come qualificate è la più ridotta (il 32%) tra i paesi di cui ci siamo occupati in questa indagine. Per quanto riguarda le occupazioni elementari la situazione è invece opposta, con la Spagna saldamente al vertice a causa del persistente peso dell’agricoltura e per l’espansione di settori quali quello del turismo (inservienti di alberghi e ristorazione) e delle costruzioni (manovali). Tabella 4: Struttura delle occupazioni (percentuali riferite al 2007) Qualificate Poco qualificate Qualificate Occupazioni non manuali non manuali manuali elementari Spagna 31.8 24.8 28.3 15.1 Francia 40.3 25.0 24.9 9.8 Italia 40.7 22.6 27.5 9.2 Germania 41.9 25.1 24.4 8.5 Regno Unito 42.1 30.2 16.9 10.7 Paesi Bassi 48.1 26.5 16.1 9.3 Fonte: Eurostat, LFS Annual results 2007, Data in focus 27/2008. Lo scarso interesse di atenei e imprese nello stabilire relazioni potrebbe dunque in quest’ottica non rappresentare tanto una “patologia” del sistema universitario spagnolo (come talvolta si afferma), quanto uno stato fisiologico dovuto alla relativa arretratezza della sua controparte (il sistema produttivo). 26 Tra le regioni spagnole la Catalogna è comunque tra quelle che mostrano i migliori indici sul fronte dell’innovazione (INE, Encuesta sobre innovación tecnológica en las empresas, www.ine.es). 20 Figura 3: Numero di brevetti per milione di abitanti (2005) 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 Spagna Italia UK Francia Paesi Bassi Germania Fonte: OECD, Compendium of patent statistics 2008 (www.oecd.org) 6. I servizi agli studenti Le storiche, e per certi versi ancora insuperate, difficoltà di inserimento occupazionale dei laureati spagnoli hanno fatto sì che si sviluppasse precocemente rispetto ad altri paesi un sistema di servizi di placement rivolti agli studenti per facilitare il loro ingresso nel mercato del lavoro (i primi esempi risalgono infatti al 1975). Oggi, praticamente tutti gli atenei dispongono di uffici placement e di supporto agli stage (practicas), anche se le loro attività si focalizzano più sugli adempimenti burocratici previsti dalla legislazione che sull’offerta di veri servizi. Nei siti d’ateneo sono consultabili le “borse di lavoro” che raccolgono le offerte provenienti dalle imprese e le candidature degli studenti. Sembra dunque prevalere un approccio “spontaneistico” senza l’importante, e per certi versi insostituibile, attività di mediazione e raccordo che dovrebbe mettere in opera qualsiasi servizio di questo tipo. Questa è una delle ragioni per le quali resta una prassi poco diffusa valutare il funzionamento di tali uffici, così come è raro fare indagini a livello d’ateneo sull’utilità formativa dei tirocini. Ci troviamo dunque di fronte ad azioni di supporto perlopiù improntate a logiche di tipo amministrativo o al più informativo, lontane dal modello di counseling individualizzato che prevale in altri paesi (Vidal et al. 2003). Negli ultimi anni qualcosa sta però cambiando da questo punto di vista. Da una parte gli atenei iniziano a prevedere forme di sostegno individuale con l’istituzione della figura del tutor universitario. Dall’altra, gli stage vanno acquisendo sempre maggiore importanza all’interno dei percorsi formativi, almeno se utilizziamo come indicatore della loro rilevanza la professionalità delle persone a cui ne viene affidata la gestione operativa: in passato erano 21 molto spesso giovani docenti, mentre ora si tende ad assegnare queste funzioni a docenti con maggiore esperienza di insegnamento e ricerca. Il nuovo rilievo assegnato dai piani di studio ai tirocini non è peraltro riuscito a tradursi in una loro capillare diffusione. Gli studenti coinvolti nelle practicas restano ovunque una netta minoranza. Al di là del modesto gradimento che gli stage sembrano riscuotere tra gli studenti, gli ostacoli maggiori sono legati alla struttura produttiva spagnola (caratterizzata come abbiamo visto da una domanda contenuta di lavoratori con skills elevate). In questo senso i recenti slanci in avanti della Generalitat catalana, che ha stabilito che nei nuovi curricula debbano essere obbligatoriamente inclusi anche i tirocini, non sembrano trovare consenso tra i presidi interpellati, convinti che una generalizzazione degli stage non sia concretamente realizzabile nella realtà catalana, data la scarsità di posizioni qualificate in grado di accogliere gli studenti. Il quadro complessivo mostra pertanto alcuni chiaroscuri. Pur avendo studiato uno dei contesti spagnoli più dinamici ed economicamente sviluppati, sono emerse difficoltà dettate dal contesto produttivo nel voler costruire percorsi formativi che includano anche esperienze in azienda. Solo in parte queste difficoltà possono essere superate con una più attenta offerta di servizi mirati all’inserimento nel mercato del lavoro, tenuto conto che l’efficienza degli uffici che dovrebbero erogarli è ancora ostacolata da una visione amministrativo-burocratica delle proprie attività istituzionali. Ciò non significa che le università siano rimaste immobili nelle loro relazioni con l’ambiente economico, e neppure che i vertici d’ateneo non si stiano occupando dei modi in cui il lavoro degli accademici possa produrre ricadute positive per il contesto locale. Si potrebbe citare il caso dell’università di Girona che nel 2007 ha affidato a tre sociologi il compito di stilare (attraverso interviste ai rappresentanti di associazioni datoriali, ordini professionali, imprese e amministratori locali) un rapporto sulle necessità formative del proprio territorio: un fatto certamente innovativo nella realtà spagnola27. 27 La lettura del rapporto stimola tra l’altro alcune riflessioni in merito a un effetto spesso trascurato della presenza di un ateneo in un territorio, vale a dire il fatto di essere un catalizzatore della domanda di servizi (ristorazione, trasporto, ecc.). Nel dibattito sui rapporti tra università e ambiente economico questo aspetto viene ricordato raramente (mentre nelle città medievali sedi di universitates e studii era fatto risaputo): nel caso di piccole realtà, come appunto Girona, la presenza di un ateneo ha significato l’avvio di attività commerciali anche nel vecchio, arroccato, centro storico. 22 7. La ricerca e il mondo delle imprese Le domande rivolte dalla società e dagli attori economici all’università si sono molto diversificate nel corso dei decenni, contribuendo non solo al mutamento di questa istituzione formativa (nelle routine, nei valori della comunità accademica, nelle aspettative degli studenti, ecc.), ma anche alla ridefinizione dei ruoli e del potere dei principali attori e degli stakeholders. Secondo Etzkowitz sarebbero state due le grandi rivoluzioni accademiche, la prima avvenuta a fine Ottocento quando la ricerca è divenuta una delle funzioni fondamentali dell’università affiancandosi al tradizionale compito dell’insegnamento. La seconda rivoluzione, di cui saremmo ora spettatori, sarebbe invece iniziata nel secondo dopoguerra, e in particolare negli anni ’80, quando ai compiti di insegnamento e di ricerca si è aggiunta la promozione dello sviluppo economico (Etzkowitz et al. 2000). Naturalmente, fin dal medioevo la presenza di un’università in un dato territorio è stato un fattore non secondario di sviluppo: basti pensare ai flussi di studenti in cerca di alloggi e servizi che costituivano una quota non secondaria delle entrate comunali. È però vero che è stato l’avvento di nuovi modelli produttivi e di quella che noi oggi definiamo knowledge economy a far aumentare la domanda di ricerca applicata e di trasferimento tecnologico da parte di sistemi economici nazionali sempre più in difficoltà nella competizione internazionale. La centralità assunta dalla ricerca scientifica nello sviluppo nazionale ha fatto sì che i governi per un verso abbandonassero l’inutile pretesa di controllare ogni questione procedurale (il vecchio modello burocratico continentale), ma per l’altro iniziassero a voler indirizzare l’attività di docenti e ricercatori verso obiettivi di interesse collettivo (o ritenuti tali), sottraendo loro una parte della tradizionale autonomia nella definizione dell’agenda di ricerca. I grandi programmi di ricerca nazionali ed europei sono un chiaro esempio di questa strategia in quanto le risorse sono subordinate allo studio di specifici progetti o temi ritenuti di interesse nazionale o comunitario. In questo senso l’attribuzione ai sistemi di istruzione superiore del compito di promuovere lo sviluppo economico ha significato l’abbandono (parziale) di un certo tipo di etica accademica, ad esempio la concezione della ricerca come “sapere disinteressato”, o dell’insegnamento come attività libera da condizionamenti esterni. I governi, poi, non sembrano più disposti a trasferire risorse pubbliche all’università senza contropartite. Gli atenei devono essere valutati sia sul versante dell’efficienza (fare di più con meno) che su quello dell’utilità sociale (fare di più per più attori). In Spagna, queste nuove funzioni di sostegno allo sviluppo attribuite all’università hanno fatto sì che sia necessario tenere distinto quello che avviene nella ricerca da ciò che abbiamo 23 tratteggiato a proposito della didattica. Innanzitutto nelle facoltà tecniche spagnole l’attenzione ai bisogni produttivi è un fenomeno non nuovo, per certi versi connaturato agli abituali interessi di ricerca dei docenti. Nei politecnici, ad esempio, la richiesta di “aprirsi all’esterno” non ha significato una minaccia ad abitudini e prassi istituzionalizzate, ma è stata invece interpretata come un’utile strategia per migliorare i bilanci. Aldilà delle inclinazioni più o meno spontanee all’ascolto della domanda esterna da parte delle diverse discipline, la collaborazione tra atenei e sistema economico ha poi potuto giovarsi di un forte sostegno da parte dello stato spagnolo, sia sotto forma di risorse ad hoc (come quelle distribuite dai Piani nazionali per la ricerca), sia sotto l’aspetto normativo. Dal punto di vista legislativo una delle innovazioni più importanti è stata l’istituzione della rete OTRI (Oficinas de Transferencia de Resultados de Investigación) sul finire del decennio ’80: un network di uffici con sede in quasi la totalità degli atenei spagnoli con il compito di individuare tra le ricerche realizzate nell’università di appartenenza quelle potenzialmente utili alle imprese, promuovendone la conoscenza da parte di queste e affiancando i ricercatori nelle questioni legali e nella brevettazione dei risultati. E’ innegabile che l’insieme di queste misure abbia intensificato le relazioni tra accademia e sistema economico, con un trend estremamente positivo che ha fatto passare in soli dieci anni le attività di ricerca annualmente contrattate dalle università dai 122 milioni di euro del 1996 ai 428 del 2006 (Informe RedOTRI 2007). Figura 4: Ricerca universitaria contrattata (milioni di euro) 428 450 400 339 350 281,8 300 250 173,9 200 150 122,2 192,3 206,9 218,3 2000 2001 252 257,8 2002 2003 145,3 100 50 0 1996 1997 1998 1999 2004 2005 2006 Fonte: RedOTRI e CRUE, Informe RedOTRI 2007 (www.redotriuniversidades.net) Il ruolo di primo piano giocato dallo stato spagnolo è un fatto degno di nota perché significa che l’ingresso di logiche di mercato negli atenei non richiede necessariamente una 24 contrazione del ruolo dello stato a favore del mercato, ma semmai un ripensamento delle modalità del suo intervento. Naturalmente, i mutamenti non sono da ricondurre esclusivamente agli interventi pubblici. Accanto a misure, come la creazione delle OTRI, intenzionalmente pensate per aumentare le relazioni tra atenei e attori del mondo produttivo, ha infatti pesato il modello di finanziamento delle università che, come abbiamo visto, finisce per penalizzare proprio gli atenei che maggiormente investono nella ricerca. Le università hanno quindi iniziato a diversificare le proprie entrate attraverso contratti di ricerca (notevolmente cresciuti), i fondi europei (soprattutto i “Programmi quadro”), i fondi su base competitiva provenienti dai Piani nazionali per la ricerca. Uno strumento più complesso e interessante dal nostro punto di vista è quello offerto dalle “cattedre di impresa”, che sono diventate uno dei canali privilegiati con cui atenei e aziende tentano di mettersi in contatto. I partners, con cui vengono concordati i temi di ricerca, sono prevalentemente grandi realtà industriali (Abertis, Telefónica, Nissan, Endesa, ecc.) o fondazioni bancarie che si impegnano a finanziare una parte dei costi delle attività di ricerca e di insegnamento collegate a ciascuna cattedra per un importo che generalmente si aggira intorno ai 90mila euro all’anno. Contrariamente ai contratti di ricerca e alle convenzioni che hanno generalmente breve durata, le cattedre di impresa riescono a instaurare rapporti più duraturi (minimo 3 anni, con accordi rinnovabili annualmente), e su una pluralità di versanti per giunta: dalle borse di studio ai convegni, dalle attività di trasferimento tecnologico alla promozione di progetti su scala regionale o internazionale. L’arco temporale piuttosto lungo è un particolare di rilievo, tenuto conto che una della cause della scarsità di relazioni tra atenei e rappresentanti dell’economia deriva spesso dal disallineamento tra il desiderio delle imprese di avere ritorni a breve termine e la predilezione delle università per ricerche orientate al medio-lungo periodo. Se negli ultimi anni ci sono pertanto stati mutamenti per quanto riguarda le iniziative condotte negli atenei, un fatto su cui riflettere è che volumi di risorse ben superiori a quelli appena visti sono investiti non direttamente nelle università ma in istituzioni parallele, e in particolare nei parchi scientifici. I parchi sono centri giuridicamente autonomi (quasi sempre fondazioni di diritto privato costituite da università, imprese, associazioni e amministrazioni regionali), anche se strettamente collegati alle università quanto a sedi e personale scientifico. 25 Figura 5: Fatturato dei parchi scientifici in Spagna (milioni di euro) 14000 12000 10000 8000 13230 6000 9156 4000 2000 0 1064 1382 2182 3034 3790 4716 5535 6115 7494 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Fonte: APTE (www.apte.org) I parchi hanno sia il compito di mettere in contatto gruppi di ricerca universitari e mondo esterno28 (imprese tecnologiche, centri biomedici, ecc.) sul modello della più famosa Silicon Valley, sia di dare vita ad autonome iniziative imprenditoriali attraverso la creazione di spinoff. Sulla rapida e capillare diffusione dei parchi scientifici hanno influito due fattori: i cospicui investimenti che il governo spagnolo ha concesso per la loro creazione29 da un lato, e la possibilità di svincolarsi dal regime contrattuale utilizzato negli atenei pubblici dall’altro. In più occasioni ci è stato segnalato come uno dei principali ostacoli alla collaborazione con gli attori sociali fossero la mancanza di personale amministrativo con competenze adeguate e la farraginosità del processo decisionale negli atenei. A convincere ricercatori e imprenditori è stata infatti la semplificazione burocratica consentita dal fatto di dipendere da fondazioni di diritto privato. Ciò non dovrebbe stupire se teniamo a mente quanto è stato detto a proposito della crescita e diversificazione delle domande rivolte all’università. La “conversione” verso nuovi fini e funzioni (Streeck e Thelen 2005), non ha infatti intaccato tutti gli aspetti dell’assetto istituzionale del sistema universitario spagnolo. La richiesta rivolta agli atenei di aumentare le proprie relazioni con il tessuto economico ha causato dei conflitti tra una struttura amministrativa interna permeata da routine e logiche d’azione tarate sui vecchi compiti, e il nuovo atteggiamento “imprenditoriale” delle università. La cooperazione in luoghi esterni (come i parchi) è stata dunque interpretata come una possibile soluzione, e non 28 Nel 2007 erano circa 3.800 le imprese installate all’interno dei parchi scientifici spagnoli (fonte: APTE). Questa considerazione rende dubbiosi alcuni nostri interlocutori in merito alla effettiva sostenibilità economica di una parte di questi progetti, proprio perché in alcuni casi queste iniziative non sarebbero sorte per rispondere a reali esigenze del sistema produttivo, quanto per ottenere risorse pubbliche. 29 26 è un caso che spesso siano stati i Consigli sociali, vale a dire gli organismi di rappresentanza degli interessi sociali frequentemente penalizzati dai conflitti con la componente accademica, a farsi promotori della creazione di queste istituzioni relativamente autonome. Se volessimo usare un linguaggio alla Hirschman potremmo definirla una strategia di exit, adottata in seguito al fallimento dell’opzione di voice (Hirschman 1970). Il processo appena descritto di graduale affiancamento (e per certi versi sostituzione) di nuove istituzioni al tradizionale sistema di ricerca universitario non è stato però privo di conseguenze. Innanzitutto è chiaro che il modello dei parchi tecnologici può funzionare solo per alcune facoltà tecnico-scientifiche, ma non può essere generalizzato. E in verità, l’ipotesi di dirottare una parte crescente di finanziamenti pubblici su queste iniziative “extra-ateneo” può creare difficoltà anche in casi difficilmente immaginabili. Il preside di fisica dell’Università di Barcellona ce ne ha dato un chiaro esempio quando ci ha confidato che la strategia utilizzata nella sua facoltà per rispondere all’esiguità dei finanziamenti ordinari per la ricerca è stata quella di spostare sempre più gli interessi dei ricercatori dalla ricerca applicata a quella teorica, dato che quest’ultima è molto meno costosa della prima (che richiede attrezzature, laboratori, ecc.). Ma anche volendosi focalizzare esclusivamente sugli interessi del sistema produttivo, la presenza sempre più massiccia dei parchi scientifici può rappresentare un ostacolo per le imprese tecnologiche in settori ad alto valore aggiunto. Spin-off e start up si trovano infatti in concorrenza con le attività delle imprese private impegnate in servizi o prodotti analoghi, e il calcolo costi-benefici non è detto vada sempre a vantaggio degli attori economici. Da questo punto di vista assume un senso la recente decisione del governo spagnolo di localizzare i parchi scientifici non nelle zone economicamente più vivaci (nelle quali sarebbe più facile attendersi fenomeni di cooperazione), bensì nelle aree industriali depresse. Qui il compito degli atenei sarebbe quello di promuovere l’innovazione e la crescita senza però entrare in concorrenza con il sistema produttivo locale. 8. Cenni conclusivi Possiamo ora fare alcune considerazioni di ordine generale dall’analisi della situazione catalana. Innanzitutto, nonostante la Catalogna sia una delle regioni più sviluppate dell’intera Spagna, e quindi potenzialmente tra le più adatte per osservare fenomeni di collaborazione tra università e attori sociali, non sono stati trovati molti esempi di questa cooperazione. Certo è necessario distinguere tra le differenti facoltà e tra atenei, alcuni dei quali possono ormai 27 vantare sinergie di lunga data con le imprese, ma ciò non toglie che a livello aggregato l’incontro tra settore educativo e settore produttivo risulti piuttosto problematico. Le relazioni sono apparse sporadiche in particolare per quanto riguarda la didattica: rare le forme di consultazione degli attori esterni (e comunque ex post) e rarissima la co-progettazione di corsi. La stessa riorganizzazione dell’offerta formativa causata dall’adozione del modello bachelor-master europeo (Bologna Process) è rimasto un processo tutto interno agli atenei con una debole rappresentanza degli interessi sociali. Ciò sia per ragioni culturali (le manifestazioni studentesche contro la “privatizzazione” non rispecchieranno la posizione dell’intero corpo accademico ma sono comunque un indicatore di un clima ideologico), che istituzionali (ad esempio per le modalità di finanziamento, oppure per le posizioni del Tribunale Costituzionale a favore dell’autonomia universitaria e quindi indirettamente contro il potere dei Consigli sociali). Ma un motivo non meno importante sono stati i conflitti causati dalle diverse velocità di mutamento delle singole istituzioni. Pensiamo alle riforme della didattica in senso autonomista che sono andate a scontrarsi con la rigidità dei requisiti per l’accesso nel pubblico impiego, al contrario perfettamente coerente con il centralismo burocratico precedente. Oppure al disallineamento tra accademici e vertici d’ateneo avviati sulla strada dell’“imprenditorialità”, e un corpo amministrativo ancora legato alla conformità procedurale, quindi del tutto inadatto ad assecondare quegli sforzi. Riferirsi a quanto è accaduto nell’università non è pertanto sufficiente: primo perché esistono complementarità tra più ambiti istituzionali che andrebbero analizzate per capire come mai un certo risultato si sia o non si sia prodotto, e per prevedere le sue probabili conseguenze sull’architettura istituzionale complessiva. E in seconda battuta perché il tentativo di introdurre logiche di mercato in arene in cui queste sono state tradizionalmente vissute come estranee presuppone non solo dei mutamenti dal lato dell’offerta (gli atenei), ma anche un interesse a collaborare dal lato della domanda. In questo senso la debolezza del sistema produttivo spagnolo, ha fatto sì che le relazioni rimanessero piuttosto sporadiche, in particolare per quanto riguarda la didattica. La percentuale di risorse che provengono da contratti o servizi rivolti ai privati rappresentano una quota ridotta dei bilanci d’ateneo (non raggiungono il 10% neanche nelle facoltà tecniche), a cui va aggiunta una piccola percentuale per la ricerca commissionata da organismi pubblici a livello locale. Anche quando le relazioni esistono, come nei parchi scientifici, esse non sono comunque il frutto di fenomeni spontanei nati dall’incontro tra una domanda (di servizi, ricerca, laureati, ecc.) e un’offerta secondo logiche di mercato. Sullo sfondo ci sono al contrario notevoli incentivi pubblici erogati dal governo spagnolo, che vanno dal finanziamento diretto dei parchi scientifici fino ai 28 complementi retributivi per i docenti impegnati su temi vicini alla produzione. Del resto, che l’intensificazione dei rapporti tra attori sociali e atenei a cui hanno mirato i governi spagnoli degli ultimi anni non potesse essere costruita su una presunta convergenza di interessi era apparso già nella vicenda che ha riguardato i Consigli sociali a metà del decennio ’80, e più in generale nelle difficoltà incontrate per favorire la rappresentanza degli interessi sociali nelle università. È pertanto emerso in modo abbastanza chiaro che l’azione dello stato spagnolo, lungi dal rappresentare un ostacolo alla (difficile) penetrazione di logiche di mercato dentro le università, si è tradotta in realtà in un potente incentivo. Quello che in un primo momento avrebbe potuto sembrare un processo di lento ma inesorabile ridimensionamento dell’intervento pubblico, a favore dell’autonomia universitaria e di una maggiore indipendenza economica garantita dalla diversificazione delle fonti di finanziamento degli atenei (le entrate per servizi e contratti sono modeste ma in crescita ormai da alcuni anni), ad uno sguardo più ravvicinato si rivela invece un intreccio di logiche di coordinamento differenti (scambio di mercato, autorità) in difficile “coabitazione”. Chiaramente questa coabitazione è tanto più difficoltosa quanto meno le logiche di mercato rappresentano una strada percorribile dalle facoltà: se la loro adozione non è accompagnata da vantaggi tangibili, i conflitti tra vecchi schemi mentali e nuovi compiti richiesti alle università tendono a generare rifiuto o inerzia. Così alla nostra domanda rivolta a un preside su quali fossero le strategie adottate nella sua facoltà per far fronte ai deficit di bilancio la risposta è stata “l’unica strada è indebitarsi, chiedere prestiti alle banche”. Per concludere, cercando di tenere insieme quanto sappiamo dalla storia del sistema universitario spagnolo e quanto è emerso dalla nostra indagine sul campo, è possibile individuare almeno tre modalità di interazione tra attori sociali e atenei. La prima è quella inaugurata dalla riforma del 1983 (LRU), in cui ai rappresentanti del mondo esterno furono affidati poteri rilevanti, come l’approvazione del bilancio e l’indicazione delle aree prioritarie per l’istituzione di nuove cattedre. La logica sottostante era quella del coinvolgimento diretto, soprattutto attraverso l’azione esercitata dai Consigli sociali (“organismi di partecipazione della società nell’università”). Proprio la rilevanza delle funzioni dei Consigli sociali è stata però una delle ragioni dell’opposizione dei docenti e conseguentemente dell’affossamento dei Consigli stessi, sfociati nella sentenza a loro sfavore del Tribunale Costituzionale. Memore di quanto avvenuto nell’’83, il legislatore nel 2001 evitò di pronunciarsi sulla composizione dei consigli sociali delegandone la regolazione alle Comunità autonome. Allo stesso tempo furono incentivate le occasioni 29 di collaborazione tra personale docente/ricercatore e sistema produttivo attraverso contratti per la realizzazione di ricerche a favore di imprese e il trasferimento tecnologico (art. 83 LOU). La logica è stata quella della cooperazione esterna, oggi esemplificata dai parchi tecnologici. La terza modalità è collegata a un mutamento nelle strategie del decisore politico e ha trovato espressione compiuta nella riforma approvata ad aprile del 2007 (LOMLOU). Dopo aver preso definitivamente atto delle difficoltà di un coinvolgimento diretto degli attori esterni nel governo dell’università30, il legislatore sembra aver voluto promuovere in modo mediato, vale a dire attraverso l’intervento di organismi pubblici (il Consiglio di coordinamento universitario, le agenzie di valutazione, ecc.), il raggiungimento di interessi sociali31. In un certo senso la strategia è stata quella di aggirare le difficoltà di incontro tra sistema di istruzione superiore e mondo economico ritagliando per lo stato il ruolo di interprete delle istanze provenienti dall’economia, attraverso il potere di indirizzo sulla ricerca dato dalla possibilità di concedere risorse (ingenti), come per i Piani di ricerca nazionali. In effetti è innegabile che le leve a disposizione dell’attore pubblico siano generalmente più numerose ed efficaci (valutazione, concorsi, finanziamenti, apparato normativo, ecc.) di quelle a disposizione dell’attore privato, in particolare se questo attore privato, per ragioni strutturali, non nutre un grande interesse a collaborare con le istituzioni universitarie. Modalità di presenza degli attori esterni (non necessariamente esclusive): 1. Coinvolgimento (interno): gli attori esterni partecipano direttamente alle decisioni degli atenei attraverso modalità definite e in luoghi istituzionali => Consigli sociali, membri laici negli organismi di governo d’ateneo; 2. Cooperazione (esterna): l’azione degli attori esterni non si realizza nell’università, ma cerca di costruire sinergie all’esterno (per sottrarsi all’egemonia dei docenti nelle università e/o per ridurre la burocrazia) => Parchi tecnologici, spin-off, rete OTRI; 3. Mediazione pubblica: non è prevista sotto il profilo normativo, o incentivata, la presenza diretta degli attori esterni dentro gli atenei, ma vengono comunque prese in considerazione le esigenze della domanda attraverso l’iniziativa del governo e la valutazione => Incentivi alla ricerca che abbia ricadute sulle imprese, complementi 30 Spia di ciò è la scomparsa delle indicazioni sulla necessaria presenza di tre membri laici all’interno dei Consigli di governo degli atenei. Al riguardo è ora lasciata piena libertà ai singoli statuti sulla inclusione di esterni o meno, e qualora questi si pronuncino a favore dell’inclusione dei rappresentanti laici, viene specificato che questi debbano essere al massimo tre. 31 La riforma del 2007 insiste continuamente sulla necessaria introduzione di meccanismi incentivanti (ad esempio i complementi retributivi per i docenti impegnati in attività di trasferimento tecnologico) per aumentare l’impatto della ricerca e dell’insegnamento universitari sull’ambiente economico, e per favorire la costituzione di società miste (atenei e privati) ad alto contenuto tecnologico. 30 retributivi per i docenti impegnati in attività di trasferimento tecnologico, agevolazioni per la creazione di imprese tecnologiche con capitale misto, ecc.. Un’ultima annotazione su imprenditorialità e sostegno allo sviluppo economico. Nel caso della Spagna quello che nel dibattito pubblico viene spesso presentato come un binomio, vale a dire l’atteggiamento proattivo delle università alla ricerca di risorse complementari (o sostitutive) dell’intervento statale da un lato, e il compito di promozione della crescita economica assegnato agli atenei dall’altro, è apparsa in realtà una problematica convivenza di due logiche d’azione differenti. La prima è infatti una logica orientata a relazioni di mercato con la controparte produttiva al fine di accrescere le proprie entrate (vendita di servizi, contratti di ricerca, vendita di brevetti, ecc.). Il ruolo di sostegno allo sviluppo, invece, può sia armonizzarsi con questa prima strategia (ad esempio nel caso in cui il sistema delle imprese acquisti dalle università servizi che non avrebbe altrimenti potuto produrre al suo interno), sia entrare in conflitto con essa (nell’eventualità che l’azione degli atenei nel mercato entri in concorrenza con beni o servizi prodotti dal sistema produttivo). Se pensiamo alla ricerca, un ateneo che voglia aumentare le entrate sarà orientato all’appropriazione in via esclusiva dei risultati e alla loro successiva commercializzazione, mentre un’azione di sostegno allo sviluppo potrebbe al contrario richiedere un’idea di ricerca più vicina al concetto di “bene pubblico”. Trovare il giusto mix tra le due logiche non sembra un compito sempre agevole per i governi nazionali. 31 APPENDICE: L’individuazione della regione L’analisi dei rapporti tra sistema universitario e sistema sociale viene spesso affrontata nei termini della maggiore o minore propensione degli atenei ad aprirsi all’esterno, vale a dire nella loro maggiore o minore distanza dal modello (polemico) rappresentato dall’“universitàtorre-d’avorio”. In questo senso, la questione viene risolta indagando i comportamenti di docenti e amministrazioni universitarie alla ricerca di qualche segnale di questa apertura, stilando una specie di benchmark tra i sistemi nazionali, tutti pensati lungo lo stesso cammino sulla strada della “modernità”, il che significherebbe sulla strada dell’“imprenditorialità” (Clark 1998; Etzkowitz et al. 2000). Così facendo, però, si trascura il fatto che qualsiasi fenomeno sociale è la risultante dell’incontro (e dello scontro) degli interessi, delle strategie, del potere di gruppi sociali distinti (nel nostro caso di docenti, ricercatori, imprenditori, ceto politico, studenti, ecc.), e che questo incontro avviene in arene territoriali e istituzionali differenti (quanto a modelli produttivi, tecnologie, leggi, risorse pubbliche, ecc.). Ciascun paese è poi portatore di una cultura e di ideologie che derivano, tra le altre cose, dalla sua storia passata, cultura e ideologie che sono destinate a incidere sia sulle modalità con cui saranno costituite le relazioni tra gli attori, sia sul loro livello, ad esempio sulla possibilità e sull’intensità con cui le logiche di mercato possono penetrare all’interno dell’istituzione universitaria. Esistono poi complementarità istituzionali che possono condurre a molteplici equilibri nei sistemi universitari dei vari paesi, complicando ancor più la prospettiva comparata (ma rendendola al tempo stesso necessaria). Abbiamo visto che quanto appena asserito trova più di un riscontro nel caso delle vicende spagnole, che diventano al contrario difficilmente comprensibili qualora si assuma un’ottica esclusivamente focalizzata sui mutamenti interni agli atenei. Abbiamo accennato più sopra, ad esempio, agli effetti di differenti schemi di finanziamento regionali sulla didattica e sulla ricerca, ma potremmo anche citare la diversa capacità incentivante dei programmi di ricerca nazionali nel caso di atenei inseriti in un contesto territoriale economicamente sviluppato o al contrario arretrato, o ancora, le differenze nelle strategie adottate da imprese innovative o da quelle tradizionali. È per questo che anche se abbiamo prevalentemente parlato del sistema universitario spagnolo in termini aggregati, tratteggiando cioè la cornice istituzionale e normativa comune a tutte e diciassette le Comunità autonome che compongono la Spagna, per gli studi di caso abbiamo scelto di concentrarci esclusivamente su una regione: la Catalogna. La decisione di focalizzare l’analisi su di essa (una delle quattro regioni motore europee 32 trattate in letteratura32) deriva dalla volontà di indagare ciò che è accaduto nelle aree più sviluppate sia per cogliere in questo modo le dinamiche più avanzate nelle relazioni tra atenei e attori sociali, sia per evitare di dover descrivere una poco chiarificatrice “tendenza media” nei diversi sistemi universitari che avrebbe inevitabilmente risentito della diversa omogeneità nello sviluppo economico dei territori nazionali. Nel caso della Spagna, poi, la scelta trova un’ulteriore spiegazione nel fatto che esistono solo due aree con una presenza di università sufficiente a costituire un sistema universitario (la Comunità di Madrid e, appunto, la Catalogna), e quindi tali da garantire un’adeguata rappresentanza di atenei piccoli e grandi, pubblici e privati, con facoltà umanistiche e tecniche, tutte variabili che hanno evidenti ripercussioni sul nostro oggetto di ricerca. Basare gli studi di caso su Madrid avrebbe però comportato un forte bias dovuto al suo ruolo di capitale, in particolare per la sovrarappresentazione degli occupati nei servizi, il 64% in Catalogna e ben il 78% a Madrid (INE 2004), con una scarsa incidenza quindi degli stakeholders di tipo industriale che rappresentano in verità dei partner importanti per le università (si pensi ai politecnici o alle scienze biomediche). 32 Si veda, ad esempio, Regini 1996 per uno studio dei rapporti tra imprese e istruzione secondaria nelle quattro regioni motore: Lombardia, Baden-Württenberg, Rhône-Alpes e Catalogna. 33 Riferimenti bibliografici Amable, B. (1999), “Institutional Complementarity and Diversity of Social Systems of Innovation and Production”, Discussion Paper FS I 99-309, Wissenschaftszentrum Berlin für Sozialforschung. Ballarino, G. e Regini, M. (2005), Formazione e professionalità per l’economia della conoscenza. 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