Una riflessione su cittadinanza e democrazia: il nodo degli anni

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Una riflessione su cittadinanza e democrazia: il nodo degli anni
Una riflessione su cittadinanza e democrazia: il nodo degli anni Settanta.
L’Italia nel contesto internazionale
Convegno
Bologna, 29-30 settembre/1° ottobre 2011
Interventi
L’Italia negli anni ’70: rapporti con Cile e Argentina
Enrico Calamai, già Console d’Italia a Buenos Aires (Argentina)
L’espressione mondo bipolare coglie bene la contrapposizione ideologico-politica in
corso tra i due blocchi che caratterizzarono i quasi cinquant’anni della guerra fredda.
Non rende tuttavia conto delle problematiche inerenti il mantenimento della coesione
all’interno di ognuno dei blocchi stessi.
E d’altronde, se molto si è detto e divulgato sui discutibili metodi con cui veniva
implementata la logica imperiale della superpotenza che dalla guerra fredda uscirà
debellata, come al solito verità e giustizia sono ancora ben lungi dall’essere fatte in
relazione al modus operandi dei vincitori – l’attuale iperpotenza e i suoi satelliti del
blocco occidentale – specie per quanto riguarda i crimini contro l’umanità,
paradossalmente attuati nell’ambito di una linea politica avente la finalità dichiarata di
difendere la democrazia e i diritti umani. In generale, vale la pena annotare che sia all’Est
che all’Ovest, anche se con modalità ben diverse, vittima illustre della guerra fredda
sembra essere stata la sovranità degli Stati,come intesa dalla pace di Westfalia (1648) in
poi.
Per meglio comprendere, conviene a mio avviso ipotizzare l’esistenza di un isomorfismo
tra le metodologie politiche e le linee attuate nei diversi Paesi del blocco occidentale. In
altre parole, al di là delle pur vistose differenze esistenti tra la vita nei Paesi europei e in
quelli dell’America Latina, perché è del rapporto tra Italia e questi ultimi che ci stiamo
interessando, è possibile inferire l’esistenza in quegli anni di un substrato comune, di una
materialità operativa omologata anche se diversamente attuata dai ceti dirigenti subalterni
che si susseguirono nella gestione del potere nei diversi Stati che costituivano il blocco
occidentale.
Ciò è intuibile a livello di servizi segreti , o, per meglio dire, a livello di rapporti operativi
tra la rete dei servizi Nato e italiani in particolare, e le reti stabilite in America Latina, tra
cui il Piano “Condor”, sotto l’unificante regia statunitense. È inoltre a mio avviso da
vedere un’analogia tra partiti politici di governo in Europa e forze armate e di polizia in
America Latina: pur fatte le dovute differenze, siamo nell’uno e nell’altro caso in
presenza di realtà strutturanti, capillarmente presenti in tutta la società e in tutto il
territorio di ognuno dei Paesi in questione, i cui integranti, attentamente selezionati se
non cooptati con criteri di affidabilità politica, erano consapevoli di poter godere di carta
bianca nel loro operato, purché garantissero il mantenimento dello status quo. Un
discorso a parte, nel quale non sono in grado di avventurarmi, meriterebbe il ruolo della
Chiesa cattolica, negli anni ’70 impegnata a imbrigliare le aspettative suscitate dal
Concilio Vaticano II, in modo da partecipare con tutto il suo peso e la sua forza al
braccio di ferro dell’anticomunismo mondiale. Altrettanto dicasi per il ruolo svolto dalla
criminalità organizzata e da organizzazioni di stampo massonico, laddove la classe
politica non si dimostrava pienamente in grado di combinare il controllo del potere in
funzione anticomunista con il rispetto delle forme democratiche.
In America Latina sono anni di ebollizione potenzialmente prerivoluzionaria, date anche
le sperequazioni esistenti e le condizioni socio-economiche delle grandi masse diseredate,
alle cui rivendicazioni per prima volta era sembrata andare la comprensione della Chiesa
postconciliare e in particolare della teologia della Liberazione. L’esempio concreto della
rivoluzione cubana e la sopravvivenza del mito guevarista, lo stesso ’68 che ha appena
scosso gli animi con la sua travolgente ventata di libertà, diffondono tra i giovani la
convinzione, che si dimostrerà tragicamente sbagliata , di una fragilità strutturale dei
governi occidentali di fronte a movimenti armati fortemente motivati a mettere fine alle
ingiustizie sociali. Come se riuscire a scuoterli, questi governi, in alcuni casi farli anche
crollare, equivalesse ad avere il potere a portata di mano.
Gli Stati Uniti non stanno certo a guardare. Umiliati su scala mondiale dalla resistenza
frapposta dal minuscolo Vietnam, sono decisi a prevenire a tutti i costi la benché
minima possibilità che una fuga in avanti finisca per aprire all’ingerenza sovietica, come
profilatasi dopo il trionfo della rivoluzione a Cuba, la porta di quello che è da sempre
considerato il cortile di casa. Questa spinta contrapposta tra repressione e aspirazioni
rivoluzionarie o anche semplicemente democratiche è già evidente nel 1970 quando
Salvador Allende viene eletto presidente del Cile, in controtendenza con la presa del
potere da parte dei militari, già avvenuta in Brasile e in Paraguay e che, come sappiamo,
si andrà rapidamente estendendo a tutto il cosiddetto Cono Sud.
In Cile, la strategia seguita per riprendere il controllo della situazione sarà semplice:
prima la destabilizzazione, poi il colpo di Stato come rimedio atto a tirar fuori il Paese
dal caos, e, infine, una combinazione di repressione e terrore, sia per eliminare tutti i
potenziali oppositori e le loro organizzazioni, partiti politici e sindacati compresi, che per
costringere il popolo cileno, uno dei più politicizzati in America Latina, a prendere atto
della propria sconfitta, togliendogli qualunque velleità rivoluzionaria o anche
semplicemente rivendicativa e rendendo di pari passo possibile la sperimentazione del
neoliberismo della scuola di Chicago.
Il tutto, nel rispetto formale della sovranità del Cile, a differenza del rozzo interventismo
praticato mediante l’armata rossa. Eppure, nel rivoltarsi contro i popoli del proprio
blocco, la parte occidentale mette in mostra una faccia che nulla ha a che fare con il
modo in cui si rappresenta a livello mediatico: in nome di un anticomunismo tutto da
dimostrare, la guerra da fredda diventa psicologica e soprattutto sporca, il terrorismo si
fa di Stato e la disseminazione del terrore un obiettivo felicemente raggiunto. Mi sia
concesso di dire tra parentesi che esiste, a mio avviso, un’analogia di fondo tra la
strategia della tensione attuata in quegli stessi anni in Italia e lo stragismo in America
Latina, anche se la radicalità degli interventi e il numero delle vittime mostra una
fondamentale disparità quantitativa di attuazione, in ciascuna delle due aree geopolitiche.
Strategie che, sempre a mio avviso, vengono entrambe richiamate in maniera alquanto
evidente dal sicuritarismo che si è affermato a livello mondiale a partire da quell’altro 11
settembre, quello dell’attentato alle Torri Gemelle nel 2001. È noto, d’altronde, che i
pochi sopravvissuti ai campi clandestini in Argentina hanno ritrovato nelle foto di Abu
Graib quanto da loro a suo tempo sperimentato.
Tornando al golpe di Pinochet, c’è un nodo che non sembrerebbe esser stato
sufficientemente valutato nel programmare le atrocità cilene, ed è quello
dell’informazione. La televisione infatti negli anni ’70 porta fin nei punti più sperduti del
globo la percezione degli accadimenti mondiali e si dimostra in grado di colpire gli animi
in maniera molto più diretta di quanto ottenibile attraverso la carta stampata, creando
una consapevolezza dell’opinione pubblica internazionale, che ha già dato prova della
propria forza nella diffusa condanna dell’intervento americano in Vietnam e appare
destinata a condizionare le linee guida della politica mondiale.
La feroce repressione attuata dai militare cileni viene non casualmente ripresa dalla
televisione e, con l’effetto moltiplicatore del terrore in tal modo suscitato, si dimostra
funzionale al “ristabilimento dell’ordine” in tempi brevissimi, in tutto il Cile. Ma verrà
proiettata anche all’estero, suscitando una concorde e fortissima ripulsa.
Interessante la problematica che si apre a quel punto per il nostro Governo. Nell’ambito
della solidarietà occidentale, che poi non è altro che la capacità di formulare posizioni
subalterne alla linea caso per caso voluta da Washington, si vorrebbe ricucire fin da
subito i rapporti diplomatici, ma l’opinione pubblica italiana non lo permette. Sono
troppe e troppo evidenti le analogie con il caso italiano e con la strategia di
avvicinamento elettorale al potere, portata avanti dal Pci.
Il problema non troverà soluzione, a differenza di quello relativo alla presenza di
richiedenti asilo nell’ambasciata a Santiago, dove, nei circa 18 mesi successivi al golpe ,
erano riuscite a rifugiarsi a ondate successive centinaia di persone. Si trattava di
sindacalisti e militanti dei partiti che avevano appoggiato l’esperimento di Allende, ma
anche dei familiari, tra cui anziani e bambini. La loro presenza veniva a complicare il già
difficile andamento dei rapporti diplomatici, dato che, per quanto interessava i cileni,
dimostrava a livello internazionale il protrarsi della violenza repressiva, smentendo
l’affermazione secondo cui il Paese aveva accettato di buon grado l’intervento di
Pinochet, mentre, per quanto interessava il nostro Governo, si voleva a tutti i costi porre
fine a quello che si riteneva potesse diventare un afflusso permanente di pericolosi
sovversivi in Italia.
Ci si trovava in una situazione di stallo, in cui i militari cileni rifiutavano di concedere il
salvacondotto necessario a permettere che i rifugiati abbandonassero il territorio cileno,
mentre da parte italiana si rispondeva negando il visto di entrata ai rifugiati stessi. Sotto
sotto, i militari cileni tentavano di avvalersi della situazione per ottenere il
riconoscimento del nostro governo, a cambio di un deciso intervento di sorveglianza che
ponesse fine all’afflusso di rifugiati nella nostra ambasciata. E la partita veniva abilmente
rilanciata dai rifugiati stessi, grazie ai contatti con la stampa internazionale e con la
diaspora cilena nel mondo, che permetteva di tenere viva l’attenzione dell’opinione
pubblica italiana e non solo.
Alla fine il nodo fu sciolto da una missione effettuata a Santiago da un esponente dei
nostri servizi, accompagnato dall’Ispettore Generale della Farnesina. Venne in tale
occasione raggiunto un accordo informale in base al quale da parte italiana si concedeva
lo status di rifugiati e l’accoglienza in Italia a tutti i presenti in ambasciata, mentre da
parte cilena si garantiva la concessione dei salvacondotti. Nel contempo, da parte italiana
ci si impegnava all’innalzamento del muro di cinta e alla sua protezione mediante filo
spinato e si sollecitava una maggiore sorveglianza del muro perimetrale da parte dei
militari cileni. Unica nota discordante risultò essere la richiesta cilena di poter procedere,
durante il trasporto all’aeroporto o in qualunque modo prima che l’aereo uscisse dallo
spazio aereo cileno, a prelevare il più noto tra i rifugiati presenti in ambasciata,
Humberto Sotomayor, ex numero due del Movimiento Izquierda Revolucionaria, Mir.
Fortunatamente la proposta non ebbe seguito, a mio avviso soprattutto per lo scalpore
che un fatto del genere avrebbe suscitato a livello internazionale; resta che venne recepita
e vagliata da parte italiana, come del tutto comprensibile. Quella che venne presentata
all’opinione pubblica come una vittoria della diplomazia italiana a difesa dei diritti umani,
lasciava in ombra l’ottenimento dell’obiettivo comune al governo italiano e ai militari
cileni: la chiusura dell’ultima possibilità di salvezza rimasta ancora aperta a Santiago per i
perseguitati politici.
Quanto ho sopra riferito si basa sui miei ricordi di giovane funzionario diplomatico in
missione a Santiago. Mi pare si presti ad avvalorare la possibilità dell’esistenza di una
zona grigia, di una no man’s land in cui i servizi di Paesi democratici possono
tranquillamente interloquire con i servizi di Paesi totalitari, al riparo da occhi indiscreti,
fino ad arrivare ad un impasto di interessi accomunanti. Nulla di più facile, d’altronde,
che l’intersecarsi di due sottosistemi appartenenti ad un unico sistema. Giustificabile
anche, se vogliamo, in considerazione della particolare delicatezza della situazione e del
comune interesse al superamento di contrapposizioni incongrue rispetto alla logica
avviluppante della solidarietà occidentale. Il problema è che i rapporti stessi evidenziano
l’esistenza di un duplice livello della politica estera italiana: quello ufficiale,
dichiaratamente rispettoso dei diritti umani e quello materiale, di ben diversa natura. E la
richiesta cilena di ottenere, con modalità da concordare, la consegna di un politico in
vista, sembra sinistramente preludere a quanto avvenuto anni dopo, con le astuzie
seguite per salvare la faccia nell’indiretta consegna di Ocalan alle autorità turche, che una
media potenza democratica rispettosa dei diritti umani e della propria sovranità non
avrebbe mai dovuto permettere, o ai favori ancora oggi ambiguamente scambiati dai
nostri servizi, al di fuori da ogni controllo democratico, con i loro omologhi di Paesi
come Siria, Algeria, Libia ecc, in cui tortura, esecuzioni e abusi carcerari sono all’ordine
del giorno. Per non parlare delle extraordinary renditions che hanno interessato anche il
nostro Paese, come dimostrato dal caso Abu Omar, o peggio ancora, della prassi dei
respingimenti di massa invalsa in questi ultimi anni nel Mediterraneo, ridotto a discarica
a cielo aperto per i desaparecidos dell’Europa opulenta nel nuovo millennio.
Abbiamo visto che i militari cileni, pur riuscendo a controllare la situazione interna in
tempi brevi, restarono condannati all’ostracismo internazionale. Tre anni dopo, i militari
argentini, nel programmare a loro volta un golpe, erano consapevoli di poter fare
affidamento sulla solidarietà occidentale, a condizione che l’opinione pubblica mondiale
restasse all’oscuro delle atrocità che si sarebbero attuate.
Si era compreso che in un mondo ormai costantemente unificato dall’informazione
iconografica in tempo reale, vige la regola per cui tutto ciò che avviene è
iconograficamente rappresentabile e, inversamente, non avviene ciò che non risulta
iconograficamente rappresentato. Quella dei desaparecidos sarà una scelta strategica
vincente perché, come ci ricordano Omero e la tragedia di Antigone, è fin dagli albori
dell’umanità che l’uomo rispetta i resti del nemico ucciso, perché da sempre si sapeva
che militari e forze dell’ordine in Argentina torturavano e uccidevano, ma facevano in
modo che i cadaveri venissero riconsegnati ai familiari per le onoranze funebri, senza le
quali il lutto rimane impossibile da elaborare, perché, infine, esulava dalle categorie del
pensiero sedimentate nell’inconscio collettivo, occidentale se non universale, che un
comportamento diverso fosse possibile.
Fu, quella dei militari argentini, un’opera di ingegneria demografica finalizzata alla
decimazione di un’intera, generosa, generazione di giovani, gli stessi che avrebbero
dovuto governare oggi l’Argentina. Un’opera orwelliana, resa possibile dall’oscuramento
di quanto si stava attuando e dal terrore lasciato accortamente trapelare in un goccia a
goccia che lo rendesse intuibile e negabile insieme e, in tal modo, ancor più paralizzante
per il presente e l’immaginabile futuro del popolo argentino, che anche dopo la caduta
dei militari, avvenuta nel 1983, fino alla crisi del 2001 non oserà rivendicare il diritto a
gestire democraticamente la propria vita collettiva.
Paradossalmente, tale opera fu resa possibile dalla stessa televisione, perché da nessuna
parte si vedevano cadaveri o affrontamenti da riprendere, e se non c’erano affrontamenti
o cadaveri, non c’era violenza. Anche le ambasciate collaborarono, dato che se, come
accaduto a Santiago subito dopo il golpe, si fossero riempite di rifugiati, le cui immagini
potessero venir trasmesse via tv, sarebbe stato chiaro a tutti e in tutto il mondo che nella
Buenos Aires apparentemente calma di tutti i giorni, era in corso la caccia all’uomo
propria di tutti i colpi di Stato, sia pure con modalità notturne e talmente crudeli da
rientrare nell’impensabile.
Collaborò anche il Governo italiano, attraverso la catena di comando che dalla Farnesina
arrivava alla struttura diplomatico/consolare in Argentina: non un rifugiato in
ambasciata, mentre migliaia di giovani vagavano alla disperata ricerca di una via di
salvezza, non una presa di posizione, non una dichiarazione alla stampa, non una
protesta di fronte alla vastità dei crimini contro l’umanità che in quei momenti si stavano
attuando. Non un solo passo, vuoi in termini generali di fronte alla catastrofe umanitaria
in corso, vuoi almeno a tutela dei membri della nostra collettività, una delle più grandi
all’estero, inevitabilmente colpita dalla spregiudicata repressione in atto.
Si trattò di una politica ancora una volta a doppio binario, di cui quello ufficiale,
apparentemente neutrale e distaccato, era gestito dall’ambasciata, mentre ben più rodato
ed efficace si dimostrava l’operato a favore degli spiriti animali del nostro sistema
finanziario e produttivo attraverso i canali occulti della rete della P2, cui facevano capo
molti dei militari argentini. Si trattò di una ben orchestrata collaborazione, cui
parteciparono i nostri servizi, la nostra classe politica, le nostre multinazionali, la stampa
italiana, sia televisiva che su carta, in quegli anni infiltrata dai membri della P2, che nel
suo insieme si caratterizzò per una sorprendente capacità di ignorare, minimizzare o
banalizzare il massacro in corso in Argentina.
Conviene soffermarsi a comprendere le ragioni ultime di questo complesso operare
dietro le quinte, come esempio di quella che è la realtà materiale della nostra politica
estera. In una situazione economica sempre più condizionata dalla componente estera, la
scelta di collaborare all’oscuramento della realtà argentina, significava potersi assicurare
rapporti privilegiati con i militari al potere e in tal modo portare avanti gli interessi del
nostro sistema finanziario e produttivo, ottenerne la partecipazione ai progetti di
sviluppo che sarebbero stati messi in cantiere, e ricavare, quindi, commesse, ritorni in
termini sia monetari che di posti di lavoro e, in fin dei conti, di mantenimento del livello
di vita e del consenso elettorale. Conviene soffermarvisi, perché il meccanismo è tuttora
sostanzialmente lo stesso.
Per concludere, è a mio avviso possibile leggere nell’operato italiano nel corso degli anni
’70 in Cile e in Argentina, delle costanti che sembrano ancora oggi sottostare alla scelte
della nostra politica estera. Appare inevitabile constatare che non ci si tira indietro di
fronte a scelte che si accompagnano a violazioni dei diritti umani o a veri e propri
crimini contro l’umanità, se le stesse comportano benefici in termini economici,
strategici o elettorali. E poiché il ruolo dell’opinione pubblica è centrale, occorre fare in
modo che quanto si sta attuando resti nell’ombra, il che a sua volta comporta il ricorso
all’operato dei servizi segreti, nonché un’accorta capacità di disinformazione.