le argentine - Provincia di Pisa
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le argentine - Provincia di Pisa
LE ARGENTINE Partecipano all’incontro (2 marzo 2006): Rosa Dello Sbarba, Assessora alla Pubblica Istruzione della Provincia di Pisa Alessandra Peretti, Centro per la didattica della Storia Virginia Del Re, Associazione Casa della donna di Pisa Daniela Padoan, autrice de “Le pazze (Un incontro con le madri di Plaza de Mayo)” Virginia Del Re Porto oggi i saluti della Casa della donna di Pisa, scusandomi per l’assenza della settimana scorsa. Prima di tutto un grande ringraziamento ad Alessandra Peretti che ha pensato questa iniziativa straordinariamente nuova. Penso che, specialmente in Italia, di Resistenza si parli spesso, ma la Resistenza delle donne come fatto specifico non è alla ribalta come il fenomeno generale, che conosciamo storicamente con tutte le sue gloriose benemerenze. Quello che trovo particolarmente nuovo ed affascinante è l’idea che queste resistenze femminili non siano resistenze classiche, storicamente inquadrate, ma prendano le forme che spesso la vita delle donne prende, cioè si adattino ad una realtà non di primo piano, non immediatamente restituibile agli schemi militari, di guerra, di armamenti e altre cose simili. Quindi il problema che si pone è come resistono le donne, sotto quali forme resistono. Infatti le madri argentine, di cui sentiremo parlare oggi, hanno “inventato” una forma che è tipica delle donne: si sono armate della loro maternità e della loro caparbietà. Così pure le bosniache hanno trovato altre forme calate nel concreto delle circostanze. E per le iraniane lì addirittura è una storia che si sta facendo, è un qualcosa che non si può ancora dire. C’è una storia della resistenza delle iraniane? Non credo. Mi fermo qui. Mi fa piacere che ci sia stata questa idea veramente intelligente e affascinante, anche per vedere come la storia si fa in forme non canoniche. Alessandra Peretti A nome del Centro per la didattica della Storia, ringrazio tutte le intervenute a questo secondo incontro dedicato appunto alla resistenza delle donne argentine. Il programma del pomeriggio è questo: dopo una mia breve presentazione del tema di oggi, vedremo la prima parte di un’intervista ad una delle madri di Plaza de Mayo, fatta dalla nostra relatrice che è Daniela Padoan, autrice di un bel libro che vi consiglio, intitolato Le pazze. Un incontro con le madri di Plaza de Mayo. Dopodiché Daniela ci parlerà appunto delle madri e del 25 suo incontro con loro. Alla fine, dopo l’eventuale dibattito, sarà possibile assistere alla seconda parte dell’intervista, purché non sia troppo tardi. Comincerei dal fatto che nell’appuntamento di oggi, come in quello della volta prossima, che sarà appunto con le bosniache, parliamo di due grandi tragedie dei nostri tempi. Quelle che si possono definire, senza esagerare, le due più infami carneficine del mondo occidentale dalla fine della seconda guerra mondiale. 30.000 desaparecidos in Argentina, 8/10.000 massacrati solamente nell’enclave di Srebrenica, come vedremo. E quindi Argentina e Bosnia ci rimandano entrambe immagini di morte, di riesumazione dei cadaveri, di fosse comuni. Per noi italiani Argentina e Bosnia sono state poi nello stesso modo, io credo, molto lontane e molto vicine. Molto lontane perché si può ben dire che di queste due tragedie noi non ci siamo accorti o non abbiamo voluto accorgercene nel momento in cui avvenivano, come se si trattasse di cose di un altro mondo. Che la Bosnia sia invece molto vicina, da un punto di vista geografico, è evidente: si arriva in Bosnia con la stessa rapidità con cui si arriva in Germania. Per l’Argentina è diverso, perché è vero che l’Argentina è geograficamente dall’altra parte del mondo; eppure l’Argentina è anche la nostra seconda casa. Dobbiamo ricordarci che la popolazione argentina è per il 40% composta da emigranti italiani, da figli di emigranti, da discendenti di emigranti italiani. Daniela Padoan, nelle prime pagine del suo libro, racconta che nel mondo latino-americano si dice che i Messicani discendono dagli Aztechi, i Peruviani dagli Incas e gli Argentini dalle navi, in quanto provengono appunto dalle navi delle emigrazioni europee, a diverse riprese: questa è la loro storia. Che ci sia tanta parte di casa nostra nell’Argentina così lontana è dimostrato anche dal fatto che sono di origine italiana sei su nove membri delle tre giunte militari che hanno massacrato l’Argentina tra il ’76 e l’83. Ci sono nomi che sono noti: il generale Galtieri, l’ammiraglio Massera, sono tutti nomi italiani. Una domanda che io continuo a pormi tutte le volte che penso all’Argentina - e non solo io, naturalmente - è: perché non l’abbiamo saputo? Perché non abbiamo voluto saperlo? O perché l’abbiamo saputo e non abbiamo voluto pensarci davvero? Alla prima di queste domande - “perché non l’abbiamo saputo?” -, prima ancora che nel libro di Daniela Padoan, io ho trovato delle risposte nelle memorie così dimesse e così drammatiche di Enrico Calamai, che è stato console italiano in Argentina dal ’72 al ’77. Si può dire che è un Perlasca dei nostri tempi, anche se non mi risulta che nessuna istituzione italiana gli abbia mai reso omaggio. Calamai fu console italiano negli anni della dittatura, dopo una prima drammatica esperienza nel Cile di Pinochet, e, prima di essere allontanato da Buenos Aires dal ministero degli Esteri che non gli rinnovò l’incarico, salvò molti italo-argentini. Anche se non si possono fare i conti esatti, almeno 100 italo-argentini dichiarano di dovergli la vita, persone a cui lui procurò 26 passaporti, biglietti d’aereo, che nascose negli scantinati del consolato, facendo quello che lui dichiara essere stato il suo dovere istituzionale, cioè tutelare dei concittadini all’estero. Fu l’unico diplomatico italiano a farlo. Dalle sue memorie si ricava dunque la spiegazione del perché non l’abbiamo saputo. Certo a causa dei caratteri tipici del terrorismo di stato argentino, di cui parleremo fra poco, ma anche per le complicità gravissime che il mondo diplomatico, economico, politico italiano ha avuto con le giunte militari dell’epoca. Molti nel nostro Paese erano interessati a che non si raccogliesse, come ci dirà Daniela Padoan, il grido di aiuto delle madri. La stessa stampa fu in gran parte silenziosa, e sempre Calamai ci parla dell’unico giornalista che si batté fin all’inizio perché si sapesse quello che succedeva, il corrispondente del Corriere della Sera, che fu costretto nel giro di un anno a lasciare l’Argentina e riparare in Brasile, minacciato dagli squadroni della morte e non sostenuto dal suo giornale, che era allora diretto da un uomo della P2. La P2, immagino che voi lo sappiate, non solo era strapotente in quegli anni in Italia, ma era con Licio Gelli energicamente al fianco del regime militare e rappresentava di fatto il vero filone diplomatico tra l’Italia e l’Argentina. L’ammiraglio Massera, che ho citato prima, era un affiliato della P2. Questo può spiegare perché non l’abbiamo saputo. Però io sono anche convinta che non l’abbiamo voluto sapere, né pensarci davvero. Lo devo credere se ricordo quello che è stato l’atteggiamento mio e di tante persone come me, che pure erano scese in piazza ai tempi del golpe cileno, che avevano manifestato contro la repressione di Pinochet e che per l’Argentina non hanno fatto niente di simile. Ci possono essere tanti motivi per questo e, se si finisce con l’indagare nello psicologico, si corrono dei rischi. Però penso che questa specie di rimozione sia dovuta al fatto che, a differenza di cinque anni prima, avevamo allora i nostri problemi. In particolare la sinistra aveva problemi gravissimi: se vi ricordate c’era il terrorismo, il caso Moro, la fine di una militanza combattiva che naufragava nel privato e nella droga, per alcuni. Non abbiamo voluto sapere dell’Argentina, forse, anche perché rifuggiamo dalle enormità, perché le enormità ci costringono in qualche modo a ripensare ed a fare i conti, a ridimensionare le nostre private e pubbliche lamentele. Nella tragedia argentina ci sono state enormità spaventose, non solamente per quanto riguarda il numero dei desaparecidos. Ne vorrei ricordare solo due che sono ormai patrimonio comune, anche e soprattutto perché costituiscono la trama di due film di Marco Bechis, colui che ha avuto il merito di proporre all’attenzione del vasto pubblico quelle vicende. I film - li avete certo presenti - sono Garage Olimpo e Figli. La prima enormità è quella dei voli della morte. Non solo tanti giovani sono stati sequestrati, torturati e tenuti nascosti mentre le madri giravano da un commissariato all’altro, da un carcere all’altro, nel tentativo di trovarli; ma poi queste stesse persone venivano caricate su aerei e 27 scaricate vive in mare aperto. Chi ha visto Garage Olimpo credo che non potrà mai dimenticare l’immagine finale con quel grande aereo che vola sull’oceano, il rombo di motori così normale e il portellone posteriore che si apre per rovesciare il suo carico di morte. L’altra enormità, che costituisce la trama di Figli, è invece la sparizione dei bambini, cioè quella specie di strage degli innocenti alla rovescia per cui gli stessi torturatori e uccisori si appropriavano dei neonati e dei bambini di chi veniva torturato e ucciso. E’ stato calcolato che ben 500 bambini siano spariti in questo modo, bambini dei quali le nonne di Plaza de Mayo - a cui per altro mi sembra che nelle loro interviste le madri non risparmino critiche – continuano a ricercare le tracce. Pare che per ora ne abbiano ritrovati 75. Tutto questo fa sì che, quando si parla dell’Argentina, io senta anche una grande amarezza, amarezza per noi che non ci siamo stati, dopo tanta mobilitazione per il Cile, dopo tanta emozione per le immagini dell’assalto alla Moneda, dello stadio-lager di Santiago, delle ambasciate prese d’assalto. Amarezza per gli esponenti del PCI del compromesso storico che, dopo aver sostenuto il console Calamai durante le prime ricerche, quando è rientrato in Italia hanno chiuso l’ultima porta rimasta aperta al dramma argentino, rifiutandogli un ulteriore aiuto ai “suoi guerriglieri”, come li ha chiamati un funzionario di Botteghe Oscure a cui Calamai si era rivolto. “Ne abbiamo già troppi in Italia” si è sentito rispondere. Questo è il motivo per cui questo tema di oggi mi è particolarmente caro. E’ doveroso accennare a tutto questo anche se, come vedremo, dell’Argentina Daniela Padoan ci parlerà con tutta la forza e la positività che viene espressa dalla resistenza delle madri. Finora ho parlato infatti del versante tragico di questa vicenda e, rispetto a questo versante tragico, la cosa che colpisce e che ha dell’incredibile è la forza di una resistenza che è in apparenza particolarmente fragile, perché è la resistenza degli inermi, degli isolati, di quelle persone che sono particolarmente ricattabili, proprio dalla paura di fare del male ai propri figli. Che questa debolezza si trasformi nella forza che traspare da questo libro è veramente una cosa incredibile. Per concludere rapidamente, voglio ancora darvi alcuni elementi schematici della situazione argentina dell’epoca. Nel ’55 cade con un golpe militare la dittatura di Perón, che aveva governato per più di dieci anni, i peronisti vengono messi fuori legge e Perón esiliato. Inizia un periodo di instabilità in cui si alternano per circa un ventennio presidenti liberamente eletti, successi elettorali peronisti e colpi di stato militari. Negli anni ’60 si sviluppano poi i movimenti di guerriglia, non solo la guerriglia “di sinistra” guevarista o marxista, a seconda dell’epoca, ma anche la guerriglia peronista, perché Perón chiama i suoi seguaci alla lotta armata; in una situazione di crescente tensione sociale anche per le scelte economiche sbagliate, che avrebbero portato progressivamente l’Argentina al baratro in cui si è trovata con la bancarotta istituzionale del 2001. A causa di tale situazione sociale, in effetti, c’è stato un grosso movimento di solidarietà con la popolazione sempre 28 più povera, sempre più emarginata, con questa parte della società abbandonata a se stessa. I desaparecidos di cui parleremo erano per i 2/3 giovani tra i 20 e i 30 anni, in genere figli della borghesia argentina, che andavano nelle bidonvilles a fare attività di volontariato, come infermieri, insegnanti, medici, sindacalisti. Il ritorno al potere di Perón nel ’73 non cambiò le cose, anzi accentuò la corruzione, il disordine, la violenza e la paura dell’esercito che intanto, fin dagli anni ’60, era stato a lezione di contro-guerriglia nei centri organizzati dal Pentagono e aveva reclamato per sé un ruolo di garante sovracostituzionale contro il pericolo comunista. Tutto questo, dopo la morte di Perón e la successione di sua moglie Isabelita, porta ad una situazione di tensione, attentati e violenze, commesse sia dalla guerriglia che dagli squadroni della morte – su cui io non mi soffermo, naturalmente - che fa sì che in Argentina, nei mesi che precedono il marzo ’76, che è la data del golpe, ci sia una diffusa attesa di un colpo di stato alla cilena e che gli stessi militari golpisti si presentino come restauratori dell’ordine. Gli ambienti diplomatici e politici - lo stesso Calamai ne parla - sapevano cosa si preparava. I militari convocarono il corpo diplomatico per avvertirlo che non ci sarebbero dovute essere le ambasciate occupate dai profughi, come a Santiago, e l’ambasciatore italiano si allineò rapidamente, perché la prima cosa che fece fu di mettere nell’ambasciata le doppie porte, come quelle delle banche, per ostacolare l’accesso. Difatti non ci furono profughi nelle ambasciate a Buenos Aires. Ci fu quella repressione clandestina e violenta, senza pietà, che diffuse il terrore nel Paese, attuando un progetto politico di sterminio degli oppositori che non ha eguali. Una parte della popolazione sicuramente fu connivente e complice, alimentando l’idea largamente diffusa che la dittatura di Videla fosse una dittatura moderata, che non avesse niente a che fare con quello che era successo in Cile: e questo spiega anche l’isolamento in cui le madri furono tenute. Io ho trovato un’espressione terribile, che mi ha fatto ricordare quello che successe nella Germania nazista negli anni ’30. Quando qualcuno spariva, l’atteggiamento dei vicini si manifestava nella frase: “Por algo serà”. Per qualcosa sarà. Qualcosa avrà pure commesso. Il ’77 e il ’78 furono anni terribili di repressione da questo punto di vista. Il ’78 fu anche l’anno dei campionati mondiali di calcio: l’Argentina era sotto gli occhi del mondo, moltissimi sportivi andarono in Argentina a seguire le partite, la Nazionale argentina vinse il mondiale e tutto questo avveniva mentre nei “garage Olimpo” della città si torturavano le persone. Le cose andarono avanti fino all’82, fin quando la spedizione suicida nelle Malvinas provocò l’intervento militare del governo della Thatcher, che sconfiggendo la scelta nazionalista argentina provocò l’implosione della stessa giunta militare. Seguirono libere elezioni con la vittoria di Alfonsín e la lenta ripresa democratica, anche se le madri dicono che non c’è democrazia laddove 29 non c’è punizione dei colpevoli, non c’è democrazia laddove i bambini sono costretti a prostituirsi per mangiare o muoiono di fame per le strade. Questo è il quadro, presentato inevitabilmente in modo molto sommario, che fa da sfondo a quello che vi dirà Daniela Padoan, dopo aver presentato il video con la prima parte della intervista che lei ha fatto. Daniela Padoan Solo due parole, per spiegare quello che vedrete adesso, un’intervista che ho fatto ad Hebe de Bonafini, la presidente delle madri di Plaza de Mayo. E’ un documentario che abbiamo girato nel 1999, ma che non è mai andato in onda ed è quindi montato abbastanza artigianalmente. Inoltre non potevamo permetterci un doppiaggio e le madri, tutte le volte che in Italia vanno ad incontrare qualcuno, chiedono di essere tradotte da un gruppo di italo-argentini - che non sono stati desaparecidos per miracolo e sono andati poi esuli - perché dicono che nel loro linguaggio ci sono sfumature che un semplice traduttore non capisce e loro vogliono che siano rese esattamente. Per questo motivo non vi stupite che ci sia una voce maschile a doppiare Hebe. Il contesto è leggermente diverso da quello attuale, perché nel ’99 era ancora al potere Menem e Menem fa parte di quella serie di presidenti che le madri dicono fintamente democratici, perché non solo non hanno fatto i conti con quello che è accaduto in Argentina durante la dittatura, ma addirittura hanno protetto e garantito l’impunità dei colpevoli. Tant’è che Menem, finendo l’opera di Alfonsín che aveva già fatto due leggi, di cui parleremo dopo, a tutela dei colpevoli, emanò un indulto. In questo modo i gerarchi del regime di cui vi parlava Alessandra hanno passato la vita in lussuose ville con piscine, dove potevano di fatto ricevere chiunque e talvolta anche andarsene in giro per Buenos Aires. Hebe all’inizio del governo di Menem era stata intervistata da Gianni Minà ed era stata l’unica volta che la si era vista in televisione, che si era parlato in televisione delle madri. In quella circostanza Hebe si era dimostrata, com’è in realtà, piuttosto spiccia e aveva parlato con la radicalità alla quale sono arrivate le madri, partendo dalla loro immediatezza di donne semplici, casalinghe, poco istruite, che escono dalle cucine cercando i figli e imparano man mano cos’è la politica, ma anche che la cosa necessaria è dire il vero e scegliere le parole per dirlo. Hebe, in questa intervista di Minà, aveva chiamato il governo Menem “una pozzanghera di acqua fetida” e aveva detto che Menem era un trafficante d’armi. Tre anni dopo Menem è stato effettivamente condannato per traffico d’armi, perché aveva dato armi alla Croazia e all’Ecuador. Tuttavia il governo Menem denunciò la RAI e Minà per questa dichiarazione di Hebe. Lo stesso accadde per il fatto che Hebe aveva parlato del coinvolgimento del Nunzio apostolico e delle alte 30 gerarchie ecclesiastiche col regime militare, pur dicendo che in Argentina invece tutta una parte di Chiesa terzomondista e di sacerdoti che lavoravano nei barrios erano stati vicini ai loro figli, addirittura erano stati loro stessi sequestrati e torturati. Però anche lì ci fu una denuncia da parte del Vaticano. Per questo motivo, quando io feci la mia intervista a Hebe alla fine del governo di Menem e provai a chiedere il materiale di copertura - si chiamano così le immagini che vedete sovrapposte all’intervista -, in particolare quando chiesi la cassetta famosa di Minà, non riuscii ad avere quasi nulla. La cassetta di Minà era stata secretata, non in modo formale, naturalmente, così come questo documentario non si può dire che non sia andato in onda per una vera censura. Ci si trova nelle sabbie mobili, non si hanno risposte e poi le cose appunto non si fanno. Abbiamo cercato comunque di finire l’intervista e questo che vedrete è il risultato. Almeno potrete sentire in modo molto immediato la voce di Hebe. Quello che dice è tuttora assolutamente attuale, salvo il fatto che intanto è stato eletto Kirchner e sembra che in Argentina si stia andando verso una possibilità di democrazia vera e anche di fare i conti con 30 anni in cui la giustizia non è esistita. Intervista a Hebe de Bonafini (dal video “La piazza delle madri dal fazzoletto bianco”, regia di Dario Barezzi, prima parte) D. Qual era la situazione politica in Argentina, prima del golpe? R. Prima del golpe militare c’era un governo populista-nazionalista che perseguitava tutti gli oppositori. I nostri figli erano oppositori politici, rivoluzionari, e non erano d’accordo con quello che succedeva, con il piano economico di quel governo, con la persecuzione ideologica, politica, sociale di tutti i giovani, le donne e gli uomini che avevano deciso di trasformare il paese in qualcosa di migliore, non così perverso. C’erano assassinii e tanta morte nelle strade già col governo di Maria Estela Martinez de Perón, che era la donna di Perón, e che ha cominciato la distruzione del paese. D. Voi sapevate che cosa facevano i vostri figli? R. I miei figli hanno cominciato a fare politica da molto giovani, a domandarsi perché siamo qui, in questo mondo, cosa facciamo, perché viviamo, come dobbiamo lottare. Ci hanno insegnato che cos’è la solidarietà, hanno cominciato a fare politica seria da molto giovani, con analisi molto profonde della realtà del paese. Allora hanno deciso di unirsi ad altri giovani per formare gruppi politici rivoluzionari, per opporsi e affrontare la realtà perversa e sinistra che gli è toccato vivere in quell’epoca. E man mano che sono avanzati i governi repressivi, loro hanno avuto 31 più impegno e responsabilità. Facevano il loro lavoro politico, alcuni dentro l’università, altri in forma di guerriglia, altri in quartieri marginali, rendendo consapevole la gente, dando coscienza politica, per non lasciarsi opprimere, per non lasciarsi perseguitare, reprimere. Loro avevano molto chiaro che cosa stava succedendo e che cosa sarebbe successo e ci dicevano: “Mamma, succedono cose molto gravi qui nel paese. I militari hanno molta forza e gli Stati Uniti stanno mettendo la prepotenza”. Noi non ci credevamo. Non capivamo niente. Li ascoltavamo. Ma man mano abbiamo capito che loro avevano ragione. D. Quali sono state le prime avvisaglie che vi hanno fatto capire ciò che stava accadendo? R. I primi fatti che mi hanno colpito sono stati quando ho visto che all’angolo della mia casa suonavano il campanello, usciva una donna incinta e facevano un’esecuzione sommaria lì, senza domandare chi era. E l’hanno lasciata lì, buttata per la strada, circondata di poliziotti, morta. Davanti a questi crimini orrendi uno si impressiona, ma quando è molto ignorante non analizza. Noi sapevamo chi lo aveva fatto, ma non perché. E quel perché lo abbiamo capito dopo tanti anni. Dopo c’è stato l’assassinio di tre giovani che stavano arrivando in moto. Li inseguiva la polizia, e li hanno uccisi in un angolo e li hanno lasciati lì tutto il tempo. Uno si impressiona, si terrorizza, però non analizza. Non analizza perché e come sta succedendo questo. Questo è molto triste, è molto doloroso, ma ci è successo, mi è successo. D. Che cosa è successo nelle vostre case il giorno del golpe? R. Il giorno del colpo di stato ci siamo svegliati con quel comunicato terrificante. Mio marito diceva: “Non andiamo a lavorare, che cosa succederà?”. Però i miei figli, e anche i loro amici che arrivavano sempre a casa, sembrava che avessero toccato un vespaio. Andavano, venivano, facevano telefonate, e quello stesso giorno sono cominciati i sequestri; ma loro non ci dicevano quello che stava succedendo con i loro compagni, ma ci dicevano che cos’era il colpo di stato, che era lo stesso che era successo in Cile, e che ci sarebbero state molte più persecuzioni. Tuttavia il giorno del golpe si vedeva che la gente era contenta che erano arrivati i militari, e noi non capivamo come mai la gente poteva festeggiare questi assassini al potere, ma non sapevamo nemmeno noi che cosa erano capaci di fare. Noi non sapevamo che cosa sarebbe successo, quell’orrore, non sapevamo che i militari erano repressori, che dipendevano dagli Stati Uniti. Sapevamo qualche cosa, ma non con una comprensione esatta. Era un giorno amaro, dove uno vedeva le due differenze: quelli che erano d’accordo con i militari e gli altri, che erano spaventati. D. Quando ha cominciato a esservi chiaro che il golpe cileno, e poi quello argentino, facevano parte di una strategia che riguardava l’intera America Latina? 32 R. Quando è successa quella cosa in Cile, per me il Cile era così lontano. Mio figlio diceva: “Guarda”. Loro avevano tanta illusione con quel governo socialista, gli aveva dato una speranza molto forte. Era così vicino. Ma in tutto il Sud America c’erano problemi. C’era il tema della Bolivia, c’erano già altri segnali molto gravi; la verità è che i miei figli capivano, mi portavano cose da leggere, ma io pensavo: “No, non può essere”. Anche perché non si vuole capire, non si vuole vedere. Credo che fosse anche questo. Man mano non è che si è capito, ma lo abbiamo vissuto sulla nostra pelle. D. Il golpe era stato preparato già da tempo? R. I militari dell’America Latina e gli uomini che erano al governo di Isabel Perón sono stati preparati dagli Stati Uniti con molto preavviso. Il capo della polizia, dopo, è diventato il ministro degli Interni della dittatura, dunque aveva le liste di tutti i compagni, di tutti i giovani che facevano militanza politica attiva. C’era il capo militare dell’esercito, il generale Videla, che poi fu il presidente della giunta militare. Poi c’era Martinez de Hoz, che aveva già un ruolo preciso allora, e poi fu il ministro dell’economia della dittatura che portò al disastro. Noi non abbiamo capito che rapporto c’era tra un piano economico così spaventoso, dove tanta gente sarebbe diventata ricca e milioni e milioni così poveri, e la scomparsa dei nostri figli. Ma poi abbiamo capito che per applicare questo piano era necessario far scomparire tre generazioni. D. Qual era più esattamente la situazione economica in Argentina prima del golpe? R. Ci sono stati tanti cambiamenti bruschi, la svalutazione, col denaro che non valeva più niente. I sindacati avevano soltanto una organizzazione peronista, quindi erano parte del colpo di stato. Loro segnalavano i compagni. Le multinazionali davano molto denaro, non solo ai sindacati ma anche ai politici. Questo lo abbiamo imparato dopo, non allora. Lo abbiamo visto dopo. Lo abbiamo sofferto dopo. Perché uno non sa di politica. Io leggevo il giornale, leggevo la cronaca, ma mio figlio mi diceva: “Leggi la politica nazionale, la politica internazionale, e dopo se vuoi il resto”. Ma era molto difficile capire. D. I militari non hanno preso il potere da soli. Quali sono state le connivenze, sia interne che esterne? R. L’opposizione politica al peronismo, cioè a quel nazionalismo fascista, era rappresentata dai radicali. Ma i radicali erano molto vicini ai militari, sono andati a bussare alla porta dei militari perché venissero a salvare la patria. Durante il governo peronista si erano formate le Tre A: Alleanza Anticomunista Argentina. Tutti i giovani che erano comunisti o socialisti venivano assassinati, perseguitati, emarginati dal lavoro. Allora i radicali hanno chiesto ai militari di venire a salvare la patria. Era molto utile per loro continuare a reprimere i giovani rivoluzionari che facevano attività politica in fabbrica e nelle università. Nelle università erano molto combattivi. E lì 33 man mano è cominciata questa cosa terribile della complicità dei politici e anche della complicità della Chiesa, una complicità molto grande che ha sostenuto il colpo di stato e che sostiene tuttora l’idea militarista. D. Quali sono state le responsabilità degli Stati Uniti? R. Gli Stati Uniti hanno preparato i militari nella scuola di Panama, nella scuola de Las Americas, hanno insegnato le torture più allucinanti, le maniere più nazi. Hanno dato armi, tutte quelle che sono state usate per uccidere i nostri figli. Hanno dato molti soldi. C’è un debito estero che non si può pagare nemmeno adesso, eppure gli Stati Uniti non fanno pagare gli interessi. Hanno inviato tutte le macchine Falcon, della fabbrica Ford: cento, mille di queste macchine Ford Falcon circolavano per il paese a sequestrare i nostri figli. Gli Stati Uniti avevano degli ambasciatori che ci hanno fatto credere che ci avrebbero aiutato e noi siamo andate molte volte a denunciare all’ambasciata degli Stati Uniti quanto avveniva: e abbiamo capito che proprio lì c’erano i nostri nemici. Ma fino a che non ce ne siamo rese conto è passato molto tempo; fino a che non abbiamo imparato che gli Stati Uniti avevano una grande responsabilità, e hanno una grande responsabilità adesso di quello che succede, anche in altri paesi del mondo. Questo lo abbiamo imparato dopo un po’ di tempo. Quando uno è in casa, cucinando, lavando, attendendo ai suoi figli, o lavora in fabbrica, non ha tempo di pensarci e questi governi nazionalisti-fascisti come il peronismo vogliono sempre che i popoli non siano preparati ed educati. A loro serve avere un popolo ignorante per poterlo convincere, per poterlo reprimere. D. Quello che gli Stati Uniti hanno fatto in Argentina rientrava nella più complessa Operazione Condor? R. Dell’Operazione Condor abbiamo saputo in una riunione dell’Organizzazione degli Stati Americani in Bolivia. Siamo andati lì nel 1979, perché andavamo dappertutto, non perché capivamo cos’era. Era un posto dove si poteva denunciare e siamo andati. Quando siamo arrivati, ci siamo trovati con una deputata paraguaiana che ci ha detto: “Madres, io ho una persona molto seria che mi dice che c’è un intercambio di prigionieri tra i nostri paesi. Qualcosa che si chiama Operazione Condor”. Noi non capivamo. Ci ha dato delle lettere. Noi abbiamo letto, le abbiamo analizzate insieme a lei, abbiamo capito che era una cosa molto importante e insieme - donne paraguaiane e madres - abbiamo fatto una denuncia dell’Operazione Condor. Era bellissimo perché la stessa Organizzazione era responsabile di questa cosa; però, con l’ignoranza delle madres, abbiamo denunciato lo stesso. Una denuncia che non è stata ascoltata. E poi abbiamo cominciato a investigare e abbiamo capito che c’era uno scambio di prigionieri cileni in Argentina, consegnati da Videla a Pinochet, o viceversa, da Pinochet a Videla. Oggi noi madres nel nostro archivio abbiamo 34 le lettere dell’ambasciatore nordamericano in Argentina a Kissinger, in cui domandava: “Che cosa facciamo adesso?”. E Kissinger rispondeva: “Va’ avanti”. Alla prima riunione dell’Operazione Condor, che si è fatta in Cile, c’erano tutti i capi della polizia di Paraguay, Cile, Argentina, Uruguay. In quel momento tutti i capi della polizia erano militari, e hanno deciso di infiltrarsi anche dentro l’ambasciata, per capire quando arrivavano i rifugiati e per poterli sequestrare dentro l’ambasciata e fare lo scambio con altri paesi. Abbiamo tanta documentazione anche della consegna dei prigionieri della dittatura paraguaiana; a questo signor Acosta, la Tigre Acosta, che era un capo della Marina, hanno dato due giovani, una donna e un uomo argentini, che sono stati portati via aereo fino a Buenos Aires e poi assassinati nella Scuola della Meccanica della Marina. Lo stesso è successo con una compagna nostra, che era paraguaiana ed era fuggita dalla dittatura paraguaiana: è stata sequestrata nel 1977 e consegnata al governo del Paraguay, ma noi abbiamo capito questo molti anni dopo, non in quel momento. D. E’ vero che dopo la risposta di Kissinger all’ambasciatore americano, nel giro di pochi giorni scomparvero novemila persone? R. Quando Kissinger disse: “Va’ avanti” all’ambasciatore americano in Argentina, in quindici giorni furono sequestrate novemila persone in diversi posti del paese. Sappiamo che queste cifre non sono accettate dai governi. I governi credono che siano meno: noi sappiamo che ci sono più di trentamila scomparsi, ma anche solo uno scomparso ci deve preoccupare. Non è una questione di quantità. Novemila, diecimila sono comunque troppi. La responsabilità degli Stati Uniti in questo, nella morte, nella distruzione, nella tortura in America Latina, è feroce. Continua a essere feroce. D. Che cosa pensa delle ammissioni e persino delle scuse che sono state fatte ultimamente da rappresentanti degli Stati Uniti, tra cui Carter? R. Il governo di Carter ha una grande responsabilità, ma adesso a Carter hanno dato un’immagine di difensore dei diritti umani. Noi abbiamo avuto l’opportunità di dirgli quello che è in realtà nel 1994, in una riunione dell’ONU, quando è venuto da noi a parlarci di diritti umani: lui che ha inviato le armi, che ha permesso la tortura, la morte, la scomparsa. Carter ha una grande responsabilità, e in definitiva l’hanno tutti gli Stati Uniti, un grande impero coi suoi deputati, senatori, presidenti. Non è una sola persona che è responsabile, ci sono tanti responsabili. E’ da tanti anni che gli Stati Uniti vogliono prendere possesso di tutta l’America Latina. Di tutto il mondo, in realtà, non solo del nostro paese, perché c’è tanta ricchezza, c’è tanta terra. Ma noi dobbiamo lottare contro di loro. D. Prima parlava della Chiesa: quali sono state le responsabilità della Chiesa? 35 R. La responsabilità della Chiesa fu totale, perché il Nunzio apostolico inviato nell’epoca della dittatura era un grande amico dei militari. La Chiesa garantiva direttamente che si torturava cristianamente, si assassinava cristianamente. Fino a sette ore di tortura non era peccato. E l’assassinato era buttato nel fiume o in mare con una iniezione che lo addormentava: questa era una maniera cristiana di uccidere, perché erano addormentati. I sacerdoti erano cappellani dell’esercito, della marina, della polizia. Prendevano uno stipendio di giudice istruttorio. Usavano armi, usavano stivali e pistola. Erano sacerdoti armati. Tutta l’altra parte della Chiesa del Terzo mondo fu perseguitata, perché stava insieme con i nostri figli. Ci furono anche religiosi assassinati, insieme a qualche vescovo che lottava per difendere i poveri. La Chiesa fu partecipe diretta delle decisioni della dittatura, e noi madres abbiamo fatto una denuncia molto forte contro il Nunzio Pio Laghi, senza risposta. Ma noi ci aspettiamo che molta gente capisca che la Chiesa non può essere partecipe dell’orrore, della dittatura e del genocidio, perché diventa una Chiesa genocida. D. In Argentina dopo il golpe iniziò il terrore. Vi furono più di trecento campi di concentramento e trentamila desaparecidos. Ci può spiegare che cosa accadde? R. In Argentina dei campi di concentramento all’inizio tutti sapevano, ma nessuno vedeva dove erano. Dove sono? Nei commissariati? Sembrava una bugia, perché non era possibile che davanti ai commissariati ci fosse l’albero di Natale, e dentro ci fossero tante persone torturate. Man mano ci siamo convertite in investigatori privati e abbiamo capito che i campi di concentramento nascevano nelle case, in grandi capannoni, nei commissariati, in alberghi e presso le multinazionali, che prestavano i loro capannoni e i loro camion per sequestrare e torturare e massacrare i nostri figli. Le multinazionali hanno molta responsabilità nei sequestri, perché i nostri figli si opponevano alla loro politica. Le multinazionali pagano ancora oggi i politici per fargli tenere la bocca chiusa. Sono complici di quello che è successo. Trentamila scomparsi sembrano... è quasi una città. Quindicimila esecuzioni sommarie. 8.900 prigionieri politici, nelle carceri sinistre. Più di un milione e mezzo di uomini e donne in esilio. Un paese rovinato, schiacciato, sottomesso, terrorizzato. D. E’ stato allora che voi madri avete cominciato, dapprima individualmente, a fare un’azione politica? R. Noi madri, quando ci scompare un figlio... non si capisce niente, ma si capisce che ci sono altre storie simili. Ma uno ha sempre pensato: “A me non succederà”. E allora esce fuori e dove va? Dove ci hanno insegnato le famiglie: dai giudici, la giustizia. Come, non c’è giustizia? Allora si va dal prete, dall’amico, dal politico: e tutte le porte sono chiuse. E allora un giorno una madre ha detto: “Basta. Noi stiamo pregando, basta, andiamo in piazza. Facciamo una lettera a Videla, che ci dica dove sono i nostri figli”. E così nel ’77 in 14 donne, poi 33, siamo andate per la 36 prima volta in piazza, ma per le nostre storie personali, come una cosa individuale; ma man mano abbiamo capito che la lotta individuale non aveva senso, che lottare solo per il proprio figlio non faceva crescere niente. Man mano abbiamo chiamato altre madres, convocandole in piazza, per dare più peso a questa lettera, e così eravamo diventate un gruppo grande. Allora la polizia è venuta e ci ha detto: “C’è stato di assedio, non potete stare qui”. Ci ha picchiato e ha detto: “Camminate”. E così è iniziata questa marcia che ha 22 anni. Camminando, marciando, in un grido soffocato di richiesta di giustizia. Certo che all’inizio volevamo trovare i nostri figli. Abbiamo cercato disperatamente, tormentosamente, dappertutto. Carceri, commissariati, posti dove c’era l’esercito. Ci ingannavano sempre. Ci dicevano: “Nel tal posto è arrivato un camion carico di persone strane. Saranno desaparecidos”, e lì correvamo. Ma quando arrivavamo alla porta di quella casa ci dicevano: “Non c’è niente”. Nessuno sapeva niente. I giudici sono stati grandi complici della dittatura e c’è stato un uomo che ha preso in giro le madres, che diceva di non sapere niente e che gli scomparsi non c’erano, mentre era un grande servitore della dittatura. D. All’inizio eravate casalinghe. R. All’inizio era molto difficile uscire fuori di casa, era molto difficile spiegare alla famiglia perché eravamo fuori tutto il giorno; ma poi la famiglia ha cominciato a capire che la lotta, la ricerca era la cosa più importante. Noi continuiamo a essere donne di casa, donne che si occupano dei propri figli, delle proprie mamme. Io ho una mamma di novant’anni. Ma essenzialmente abbiamo messo la nostra vita al servizio della nostra lotta. Abbiamo scelto questa lotta, di non stare zitte, di non stare ferme. Uno diventa migliore quando lotta. Io mi sento più sana, più sicura che non abbandonerò mai i miei simili; e finché ci sarà una sola madre, un solo giovane, un solo amico, un solo compagno che li nominerà, un solo programma TV che li ricorderà, un solo film, una sola radio, una sola lettera, i nostri figli non moriranno. Non permetteremo che i nostri figli muoiano. I nostri figli vivono con noi. D. Lei ha perso due figli. R. Io non ho perso i miei figli, perché li porto dentro di me. Sono incinta per sempre di loro. I miei figli li hanno portati via, li hanno sequestrati, hanno voluto farli scomparire, ma non ci sono riusciti. Hanno voluto buttarli in mare, ma non ci sono riusciti. Perché ci siamo noi, a chiamare per loro, a urlare, e ci sono i loro compagni, i figli dei nostri figli, i loro genitori, i loro fratelli. Io non li ho persi. Li ritrovo tutti i giorni. Al mattino presto, quando mi alzo e guardo la loro fotografia con le loro facce bellissime, e lascio che loro mi guardino, solo per un attimo, così mi posso ricordare di quel “ciao mamma” detto al mattino presto. E poi è molto difficile perché quello che si dimentica per primo è la voce. A volte mi sforzo di ricordare la loro voce, ma uno si dimentica del timbro della voce. E voglio immaginarli adesso, ma non ci riesco, anche se una cosa non potrò mai 37 immaginarmi: quella di vedere i miei figli come un cadavere, perché un rivoluzionario non è mai un cadavere. D. Voi non avete mai accettato il discorso della riesumazione dei cadaveri, né quello del risarcimento. R. Per questo che ho appena detto, noi madres non accettiamo la morte dei nostri figli. E non accettiamo la riesumazione dei cadaveri. E’ una cosa sinistra. I nostri figli hanno lottato per la vita e sono vita pura, e anche noi lottiamo per la vita contro la morte e non accettiamo il risarcimento economico che ci vogliono dare per i morti. Nessuno dà un risarcimento per un vivo. Il governo vuole dare 250.000 dollari per ogni scomparso. E’ ripugnante che la vita valga denaro, la vita vale vita e a quella dei nostri figli non permetteremo mai che nessuno metta prezzo. Nessuno metterà prezzo alla loro vita. La loro vita è troppo forte e troppo grande. Hanno donato tutta la propria vita al loro popolo, come ha detto Marcos: “Diamo la vita perché altri vivano, perché altri sognino”. Come possiamo prendere soldi per quella vita? Non c’è denaro, non ci sono soldi che paghino quella vita, né la loro né quella di nessun altro essere umano. Così noi madres possiamo andare a testa alta e dire alla gente: “Signori, noi continueremo a lottare in questo mondo perverso, perché la vita non ha prezzo e può essere spesa solo al servizio di un altro. Noi abbiamo imparato questo dai nostri figli, la vita vale quando uno la mette al servizio di un altro, quando la dà a un altro, così l’altro può vivere, e la dà con generosità, senza aspettarsi niente. Non ci interessa un monumento per i nostri figli. Loro non hanno scelto di essere eroi e martiri. Amavano la vita e per questo l’hanno donata”. D. Tutti i giovedì avete cominciato ad andare in Plaza de Mayo. Come hanno reagito le autorità? R. All’inizio era molto difficile perché eravamo molto sole e ci arrestavano tutti i giovedì; e al commissariato ci mettevano in cella, a volte con un morto. Ma noi decidemmo che quando arrestavano una di noi ci saremmo fatte arrestare tutte. Andare in piazza durante la dittatura era molto duro. Abbiamo madres desaparecidas, hanno sequestrato tre delle nostre migliori madres. Molte volte siamo state dentro anche per quindici giorni. Niente ci ha fermato, né chiuso la bocca. Abbiamo deciso di non abbandonare mai questa piazza. La piazza: è molto difficile spiegare che cosa si sente quando si arriva qui. Io ho bisogno di un paio di minuti per l’incontro che ho con i miei figli. Sono loro che ci danno la forza per continuare, lì. Credo che sia un vero miracolo, la resurrezione che c’è in piazza. Dove loro ci accompagnano, dove questo fazzoletto ci dà forza, dove quando una si mette questo fazzoletto si sente più alta, più forte, più convinta. D. Può raccontare la volta che vi hanno puntato le armi addosso e voi avete gridato “fuoco!”? 38 R. Un giorno arrivò un personaggio dagli Stati Uniti e noi abbiamo pensato: “Questo ci aiuterà”. Siamo andate in piazza, al mattino, perché lui arrivava al mattino. Allora ci hanno detto: “Andate via” e noi abbiamo risposto: “No, rimaniamo qua”. Questo era il delegato dei diritti umani degli Stati Uniti, che poi è stato ambasciatore in Argentina e adesso è presidente di una delle multinazionali più grandi. Figuratevi voi come i giochi fossero già fatti. E quel giorno per mandarci via hanno messo un camion dell’esercito, sono scesi di corsa, noi ci siamo prese forte sottobraccio. Loro hanno detto: “Puntare”. E noi abbiamo detto: “Fuoco”. Tutti i giornalisti hanno chiesto: “Chi sono questi gruppi di donne che hanno gridato “fuoco” a chi li puntava?”. Noi madres abbiamo deciso di dare la vita per i nostri figli. Nel momento in cui uno partorisce un figlio gli dà la vita, credo che tutte le donne quando partoriscono dicano: “Se succede qualcosa, voglio che viva lui, non io”. In quel momento è quello che noi pensiamo: la vita per loro. E noi non abbiamo paura dei militari, perché la vita di noi vale per questo, perché l’abbiamo donata, per questa lotta. D. Vi chiamavano le pazze. R. E’ vero, ci chiamavano le pazze, e qualcuno pensava che fosse offensivo. Certo, ci mettevano dentro tutti i giovedì e noi ritornavamo, e loro ci dicevano: “Eccole lì, le pazze. Le arrestiamo e loro ritornano”. Ma noi pensiamo che siamo pazze d’amore, pazze di ritrovare i nostri figli, e perché no? Un po’ di pazzia è importante per lottare; e così come facciamo sempre, abbiamo ribaltato il significato dell’insulto di questi assassini e a noi non ci offende che ci diano delle pazze. Per fare quello che facciamo dobbiamo essere un po’ pazze. La follia è molto importante. Alle volte i pazzi e i bambini sono gli unici che dicono la verità. Fine della prima parte dell’intervista Daniela Padoan Anch’io, ogni volta che rivedo queste immagini, continuo a stupirmi di come delle persone che hanno vissuto un’esperienza così atroce di dolore possano apparire tanto serene. Per esempio Hebe, che avete visto, ha perso nel giro di un anno e mezzo prima il figlio maggiore, poi il figlio minore, infine la moglie del figlio maggiore che viveva in casa con lei, ed è rimasta con una bambina che allora aveva 12 anni. A quel punto ha cominciato a cercare ovunque, ma non pensava che i figli fossero morti. 39 Le madri dicono di aver accettato fin dall’inizio questo insulto di “pazze”, che veniva dato a loro in Argentina non solo dai militari, ma anche dalle persone che assistevano a ciò che accadeva facendo finta di nulla, perfino dai tifosi di calcio che più tardi durante i campionati del mondo riempivano gli stadi e volevano metterle a tacere perché rovinavano l’enorme festa organizzata da un Paese dove la democrazia, seppur “vigilata”, come dicevano loro, aveva arginato il comunismo, perché questo era lo spettro. E questo è un discorso sul quale magari si può tornare. Queste donne cominciano singolarmente a vedere che i figli non tornano a casa. Avevano imparato a capire che facevano politica in qualche modo, ma non avevano le idee molto chiare di cosa questo significasse. Raccontano molto spesso che i figli facevano riunioni in casa, andavano magari a fare volontariato nelle bidonvilles, nei quartieri dove già una miseria terribile cominciava a dilagare a quei tempi. Soltanto una minoranza di questi giovani ha fatto parte delle formazioni di guerriglia, che erano nate in un Paese dove i golpe si susseguivano uno dopo l’altro, un Paese dove già esisteva un’associazione di fatto completamente interna al governo, ma non ufficiale, segreta, che si chiamava Tripla A, Alleanza Anticomunista Argentina, che andava in giro fucilando e sequestrando per la strada, facendo sparire quelli che venivano considerati oppositori. In questa situazione, alcuni hanno scelto forme di resistenza armata, una minima parte. Altri hanno cercato forme di resistenza che passavano attraverso varie attività, quelle della Chiesa del Terzo mondo per esempio, del volontariato medico; alcuni semplicemente erano studenti che lavoravano nel movimento studentesco delle scuole medie superiori e delle università. Mentre prima dicevate che questa iniziativa è all’interno di un progetto didattico che si rivolge a studenti e insegnanti, mi veniva in mente che in Argentina proprio gli studenti e gli insegnanti sono stati tra i principali nemici del potere, anche prima del golpe del ‘76, perché la sola idea di cultura, la sola idea di insegnamento era considerata di per sé sovversiva. In particolare lo studio delle materie umanistiche lo era. Sono stati letteralmente sterminati sociologi, psicologi, psicanalisti, soprattutto i lacaniani, gente di teatro, attori, sospetti in quanto tali, al di là di qualunque attività potessero in quel momento esercitare. Quindi le madri si trovano in un Paese dove, senza capire bene come e perché, i figli scompaiono e nessuno dice loro, però, né che i figli sono stati arrestati, né che sono stati uccisi. Era stato pianificato fin dall’inizio che, a differenza di quello che aveva fatto Pinochet in Cile, in Argentina non si sarebbero dovuti vedere gli stadi pieni di prigionieri e il mondo non avrebbe dovuto gridare allo scandalo. Questa categoria dello scomparso, del desaparecido, non è venuta fuori poco per volta in modo casuale, è stata scientemente pensata da militari che per altro avevano alle spalle una formazione molto specifica. Lo stesso Perón era andato in Italia e in Germania durante il 40 nazifascismo a imparare, a vedere coi propri occhi sul campo i meccanismi della repressione totalitaria, ed aveva teorizzato queste forme di controllo del potere. Ma poi, in Argentina, dopo le ondate di immigrati ebrei che scappavano dai pogrom e dalle persecuzioni, è arrivata un’altra ondata, alla fine della guerra, che era quella dei gerarchi nazisti che scappavano dai processi in Europa. In Argentina ci sono stati Mengele, Eichmann, Priebke, a Bariloche. I gerarchi argentini erano impregnati di ideologia nazifascista. Ci sono state molte testimonianze, di prigionieri che sono riusciti a salvarsi, che durante il golpe il saluto era “Heil Hitler”, che c’erano le svastiche dipinte sui muri delle prigioni, che insomma tutti i riferimenti erano al nazismo. E’ un Paese dove viene pianificata una sorta di genocidio, anche se il termine “genocidio” ha un’etimologia che richiama la volontà di estirpare un intero popolo; qui si tratta piuttosto della volontà di estirpare una categoria di persone considerate nemiche, in quanto ideologicamente portatrici di un progetto diverso. Questi ragazzi, anche quelli che, come vi dicevo, facevano cose assolutamente innocue, hanno cominciato ad essere considerati un “cancro della società”. Venivano portati via non da militari in divisa, ma quasi sempre da individui in borghese che, appunto come diceva Hebe, entravano nelle case nel cuore della notte e portavano via le persone a bordo di macchine senza targa, oppure le prendevano a scuola, sul posto di lavoro, in mezzo all’indifferenza sempre più grande della gente. Questa è una cosa molto inquietante perché evidentemente, quando un regime riesce ad individuare una categoria di persone e a farle cessare di esistere in quanto individui, ma a definirli in quanto categoria - è quello che è stato fatto per gli ebrei – una minaccia per la società, un cancro, un nemico interno da estirpare, chi sta attorno a queste persone diventa potenzialmente nemico o sospetto e gli altri cercano di prendere le distanze, perché non vogliono essere in nessun modo coinvolti. Così queste madri non solo vedono sparire i figli, ma cominciano a vedere da parte degli stessi parenti, dei vicini di casa, dei colleghi di lavoro dei padri sguardi sospetti, atteggiamenti strani, che rivelano che, in virtù della scomparsa del figlio o della figlia, anche loro non fanno più parte del mondo nel quale erano vissute fino al momento prima. A questo punto, in un Paese dove la gente si era abituata alla proibizione di ogni tipo di manifestazione e di protesta, al divieto di prendere la parola in pubblico, al divieto degli assembramenti - quando si voleva fare una festa di compleanno con più di 5 persone, dice Hebe, bisognava chiedere il permesso - loro sono state le uniche a non abituarsi. Le madri hanno continuato ad apparecchiare la tavola con un posto vuoto, dicendo: “Mio figlio o mia figlia tornerà”, rendendosi conto giorno dopo giorno che non tornavano. Allora hanno cominciato a chiedere informazioni alle persone delle quali si fidavano: erano state educate a fidarsi dei giudici, dei 41 politici, dei sacerdoti e via via hanno cominciato a vedere che - Hebe usa molto spesso questa immagine - “le porte si chiudevano in faccia”. Gli avvocati avevano paura di fare gli habeas corpus perché si era capito che a volte venivano presi e scomparivano anche loro. Frequente è stata per tutte l’esperienza di andare nelle parrocchie dove i figli erano cresciuti e di chiedere al prete di essere aiutate. Ma il prete chiedeva loro i nomi delle persone che avevano incontrato nelle loro ricerche e, se le madri facevano i nomi degli amici dei figli, nei giorni successivi questi nomi corrispondevano ad altri desaparecidos. Poco per volta hanno cominciato a rendersi conto che c’era un’omertà, che c’era una complicità e comunque una paura così forte, così pervasiva, che attanagliava tutto il Paese. D’altronde c’erano dei manifesti sui muri con degli indici accusatori che si rivolgevano ai genitori e dicevano: “Tu sai, in questo momento, cosa sta facendo tuo figlio?”, “come hai cresciuto tuo figlio?”. Una sorta di colpevolizzazione collettiva per il fatto di aver messo al mondo e cresciuto una persona che faceva una qualche forma di attività sociale e politica. Durante la dittatura l’ossessione anticomunista è diventata tale che, per fare un esempio, ci sono stati roghi di libri e tra i libri bruciati c’erano anche Il rosso e il nero di Stendhal e i saggi sul cubismo perché la parola “Cuba” era impronunciabile. E’ grottesco e paradossale, ma si è arrivati a questo punto. Quando le madri hanno cominciato a vedere che nessuno dava loro retta, hanno deciso di incontrarsi tra di loro e di andare in piazza. In piazza, per l’appunto, era vietato stare, la polizia ha cominciato a picchiarle, ma all’inizio loro non pensavano assolutamente di fare quella che poi è diventata la “marcia del giovedì”. La marcia è nata semplicemente perché loro stavano in piedi, parlando tra di loro, e la polizia, picchiandole, diceva che era vietato stare ferme in piazza e che marciassero. Quindi, sotto i colpi dei manganelli, hanno cominciato a camminare una vicina all’altra e a capire, però, che lì in piazza dovevano tornare, perché era l’unico posto dove potevano sperare in qualche modo di avere strumenti per trovare i figli. Poco per volta hanno capito - ma è stato un processo lungo, di almeno tre anni - che i figli non sarebbero tornati. Ad un certo punto soprattutto Amnesty International ha cominciato a parlare di torturati e di morti nei campi. Nessuno sapeva in Argentina dei campi. Nel giro di tre anni si è cominciato a capire che, in luoghi assolutamente impensabili (garage, officine, piccole aziende, alberghi, luoghi dell’esercito) c’erano, come diceva prima Alessandra, tanti “garage Olimpo”, anche molto grandi, come per esempio il Centro della Meccanica della Marina, l’ESMA, che era incaricato dell’eliminazione dei montoneros, i guerriglieri peronisti. All’ESMA il problema a un certo punto è stato l’eliminazione dei corpi perché, se nessuno doveva sapere, cosa si doveva fare di queste persone torturate e uccise? Questo ricorda in qualche 42 modo la soluzione finale dei nazisti, senza voler sovrapporre le cose perché, naturalmente, non è possibile né corretto farlo. Hanno cominciato a buttarli nei fiumi, nel mare, ma i corpi riaffioravano e la gente cominciava a dire: “Chi sono queste persone che si trovano sulle rive?”. Così hanno inventato che li drogavano con una iniezione di pentotal, li portavano a bordo di aerei che volavano in mare aperto, veniva loro messo un blocco di cemento ai piedi e venivano gettati ancora vivi, di fatto - tramortiti dal pentotal ma ancora vivi - in mare. C’erano perfino dei cappellani militari su questi voli. Dire queste cose io credo che sia necessario, non solo per fare un discorso storico, pure importante, ma perché occorre vedere in una situazione estrema, com’è stata quella dell’Argentina, come i poteri riescano a coalizzarsi e, in un certo senso, a supportarsi l’uno con l’altro senza che nulla appaia. Per poteri non intendo soltanto il potere militare, non intendo soltanto i militari americani che hanno addestrato alla contro-guerriglia e anche alla tortura, o i militari francesi che si erano addestrati durante la contro-guerriglia in Algeria. (Qui faccio una parentesi. Una cosa anche paradossale, ma estremamente interessante: i militari argentini utilizzavano per addestrare i loro soldati il film La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, che aveva voluto piuttosto denunciare quello che faceva la Francia). Insomma dietro a questi poteri militari evidenti c’erano quelli potentissimi degli affari, i poteri economici. Perché questo poi alla fine, al di là dei discorsi strettamente etici, è ciò che muove le cose, ciò che occorre imparare. Hebe lo dice sempre: “Noi non capivamo allora che i nostri figli sono spariti perché si attuasse un piano economico, e perché quel piano economico si potesse attuare era necessario che i nostri figli sparissero”. Le democrazie, anche quelle europee, in particolare quella italiana, hanno fatto grandi affari con la dittatura argentina. In Argentina c’erano stabilimenti della Fiat, della Dalmine, della Technit, c’erano molte industrie italiane. Addirittura ci sono testimonianze che dicono che all’interno dei cancelli di alcune c’erano piccoli campi dove venivano tenuti gli attivisti e i sindacalisti e consegnati ai militari. Talvolta venivano torturati già all’interno dei cancelli. Alessandra prima diceva: “Perché noi non abbiamo percepito questa tragedia che si stava svolgendo, mentre solo tre anni prima eravamo in piazza per il golpe in Cile, per l’uccisione di Allende?”. Probabilmente i motivi sono molti e compositi ed è interessante anche capirli, proprio per il discorso che cercavo di fare prima, di come il potere si struttura secondo complicità più o meno palesi, più o meno ampie, ma che a noi serve capire per riconoscerle anche quando capitano in misure minime. In Italia c’era allora la P2 di Licio Gelli, che stava effettivamente diffondendosi spaventosamente, aveva assunto i gangli dell’informazione, aveva fatto la scalata del Corriere della 43 Sera, e il Corriere e tutta la Rizzoli erano presenti in Argentina dove facevano lauti affari. La Rizzoli possedeva la quasi totalità del mercato di libri e giornali in Argentina. Naturalmente il Corriere ad un certo punto smise di dare notizie su quello che accadeva perché lo stesso Massera, uno dei triumviri del golpe in quanto comandante della Marina - i tre capi della Giunta erano i tre comandanti militari di Esercito, Aviazione e Marina -, aveva ottenuto la nomina di ammiraglio sponsorizzato da Licio Gelli. Bene, Massera diventa ammiraglio della Marina, entra a far parte del golpe e pochi giorni dopo si aprono le filiali del Banco Ambrosiano in Argentina. I nostri diplomatici in Argentina, per esempio l’ambasciatore, che si chiamava Carrara, erano noti perché andavano a cavallo con Videla e partecipavano alle feste dei vertici della dittatura. Quando i tanti italo-argentini che cercavano di scappare chiesero aiuto all’ambasciatore, Carrara fece mettere una blindatura e poi ancora una transennatura di fronte all’ambasciata, di modo che nessuno potesse entrare. Ben presto tutti impararono che andare all’ambasciata italiana significava di fatto consegnarsi ai militari. L’unico soccorso reale venne dal console Calamai, che per altro fu richiamato in Italia un anno dopo, promosso ambasciatore e mandato in Nepal. Lui salvò effettivamente molte persone, ma fu l’unico, insieme al giornalista Giangiacomo Foà, che ebbe con grande coraggio la capacità di scrivere delle cronache veritiere, ma poi dovette scappare in Brasile perché stavano per farlo fuori. In Italia, per altro, anche la sinistra non è stata molto attenta all’Argentina perché, come dice Calamai, da un lato il PCI aveva delle direttive precise dall’Unione Sovietica, che in quel momento aveva deciso di appoggiare la dittatura perché aveva bisogno del grano argentino, che scambiava con armi e materiale nucleare. D’altra parte in Italia si stava allora sotto il tiro delle Brigate Rosse e i dirigenti comunisti avevano appunto il terrore di parole come “guerrigliero” o “sovversivo”. E questa è una cosa con cui forse, prima o poi, bisognerà fare i conti. Le madri ebbero la capacità di indicare tutto questo con grande chiarezza. Ora dicono che, partendo dai fornelli e dalle pentole, hanno fatto una scuola di vita andando a bussare a tante porte e subendo disillusioni e ferite profondissime: ma è come se avessero tolto la maschera al potere. A me, alla fine, questo interessava ed è il motivo per cui da tempo lavoro su questa vicenda, perché è come se loro avessero conosciuto la maschera del potere nella sua forma più estrema, che è quella del potere di togliere la vita, e adesso fossero capaci di declinarlo e riconoscerlo anche nelle sfumature e di avere sempre una risposta a partire dalla loro idea che la relazione con le persone, con l’altro - non l’Altro maiuscolo, l’altro che ti sta attorno - è centrale e deve fondarsi sul loro essere madri. Sul fatto appunto di controbattere al potere di dare la morte, nell’inermità totale, dicendo: “Io ho il potere di dare vita. Io una volta ho dato vita e, per quanto tu sia potente, questa vita non hai il potere di togliermela.” E’ una posizione estrema perché è evidente a loro, ed è stato 44 evidente fin da molto presto, che i loro figli sono stati ammazzati; ma loro sono 30 anni che dicono: “No, non ce li avete ammazzati”, nell’idea di una sorta di maternità che non può cessare. Loro dicono: “Noi siamo sempre incinte dei nostri figli”, ma al tempo stesso anche: “Noi siamo state partorite dai nostri figli, perché assumere la loro lotta ci ha dato una nuova lettura del mondo”. E così continuano sempre con le loro marce, tutti i giovedì, anzi dicono: “Anche quando dovremo andare con la sedia a rotelle ci andremo”. Una volta all’anno facevano quella che chiamavano “la marcia della resistenza”, cioè stavano 24 ore di fila in piazza: durante la dittatura questo aveva un significato enorme, perché era la testimonianza di un coraggio di resistenza estremo. Adesso hanno tutte tra gli 80 e i 90 anni, qualcuna anche di più, e non fanno più la marcia di 24 ore, ma ogni giovedì tutte quelle che riescono vanno in piazza. Alessandra Peretti Volevo chiederti di approfondire alcune cose. Intanto mi ha molto colpito nel tuo libro il capitolo in cui si parla dei padri e del rapporto diverso che, senza voler generalizzare, i padri hanno avuto rispetto a questa tragedia: anche questo mi sembra un elemento significativo. Rispetto poi alla valutazione se le madri hanno vinto o se hanno perso la loro lotta - che sono certamente termini molto difficili da usare - francamente una cosa di cui sono convinta è la necessità di riconoscere che si realizza comunque una sconfitta nel momento in cui un terrore di questo tipo invade un Paese. I militari, per far trionfare il loro progetto, dovevano eliminare tre generazioni: e tre generazioni sono state eliminate. Da questo non si può prescindere. Questo è da un lato, certamente, anche la misura di che cosa ha significato e di cosa è stato l’impegno delle madri; però è vero che, rispetto alla vivacità e all’impegno sociale e al movimento, al di là di tutte le contraddizioni, dei giovani argentini degli anni ’60 e ’70, la situazione oggi è ben diversa, anche se si stanno aprendo prospettive positive. Questo lo terrei presente rispetto al giudizio su chi ha vinto e chi ha perso. Certo è che nelle cose che dicono le madri c’è in questo caso, come in tanti altri, una specie di visione paradossale di quanto è successo. Per esempio, un’altra questione su cui mi piacerebbe che dicessi qualcosa di più è il tema della memoria dei morti, che c’è anche nell’intervista. Li vogliamo ricordare vivi, dicono le madri, non vogliamo le riesumazioni: questo, tra l’altro, è in forte contrasto con tutta una certa celebrazione della memoria delle stragi che è invece presente nella nostra società. Se pensiamo alla giornata della memoria e alla memoria della Shoà, a cui noi attribuiamo per altro tanta importanza per le giovani generazioni, è tutto un altro modo di ricordare. Tra l’altro, Daniela si è occupata anche di questo tema, perché ha raccolto in un altro suo libro le testimonianze delle deportate. Allora la rivendicazione di una memoria che sia solo ricordo di come 45 erano i figli da vivi e non del fatto che sono morti, anche questa mi sembra una cosa difficile da capire e che fa percepire che c’è qualcosa che sfugge alla ragione. (Ci sono alcune domande senza microfono che non vengono registrate, sulla dislocazione dei campi di concentramento, sulle divisioni all’interno del movimento delle madri, sulla rimozione di quanto successo da parte della società argentina e in Italia, anche in relazione alle diversità tra la situazione cilena e quella argentina) Daniela Padoan A proposito dei padri Hebe dice sempre: “Non è che i padri non abbiano sofferto come noi”. Anzi dice addirittura che in Argentina ci sono stati studi, nel corso degli anni, che dimostrano che c’è stata una mortalità altissima tra gli uomini che avevano avuto i figli scomparsi, per problemi cardiaci o tumorali. Il fatto di aver tenuto tutto dentro, di non aver trovato vie per esprimere il dolore e il desiderio di far qualcosa di sensato, in qualche modo li ha fatti implodere. Le madri dicono che gli uomini non sono riusciti a fare quello che hanno fatto le donne perché erano troppo legati alle strutture e articolazioni della politica che conosciamo: i partiti, i sindacati, le associazioni e via dicendo. Per cui cercavano tra di loro di mettersi d’accordo, ma alla fine c’era sempre una frattura, provocata dalla diversa appartenenza e identità politica. E’ anche successa una cosa piuttosto buffa perché, ad un certo punto, quando già le madri erano abbastanza strutturate come associazione e avevano la loro prima piccolissima sede, i padri hanno chiesto di farne parte anche loro, e loro, per contro, hanno detto: “No. Noi siamo nate come madri e continuiamo la nostra politica come madri; però, se volete, vi lasciamo una stanzina”. Allora i padri hanno cominciato a riunirsi, a formulare delle idee, e l’unico progetto che ne è venuto fuori è stata l’idea di una partita tra due squadre: diritti umani contro non so chi altri. Ed Hebe gli ha detto: “Ma siete pazzi? E se vincono gli altri?”. Insomma li prendevano in giro. Ma Hebe dice che sono stati importantissimi perché hanno avuto la grande capacità di continuare a lavorare, anche se avevano subito pure loro un rovesciamento delle condizioni di vita. In una famiglia dove era l’uomo che lavorava – si tratta di una cosa molto pratica – era indispensabile che il padre continuasse a mantenere la famiglia, continuasse a occuparsi degli altri figli che rimanevano, mentre la madre andava in giro a cercare i figli e a bussare alle varie porte. Poi, poco per volta, non con la decisione: “Adesso mi iscrivo a un’associazione o ad un partito”, ma in modo naturale, la cosa si è sviluppata ed è diventata evidente da sola: le madri avevano un impegno e a quell’impegno non avrebbero rinunciato per nulla al mondo. A quel punto i mariti hanno dovuto capire che o la famiglia esplodeva - ed in molte circostanze è esplosa, ci sono 46 stati anche molti divorzi – oppure, d’improvviso e nonostante una vita ormai assestata e un’educazione per cui mai avrebbero pensato di mettersi a fare questo, loro dovevano preoccuparsi di cuocere il cibo per gli altri figli o le pappe per i nipotini, perché tanti erano quelli che erano rimasti coi bimbi dei figli desaparecidos da crescere. Insomma gli uomini hanno accettato tutto questo e hanno accettato anche di accompagnare le madri in piazza, di stare dietro gli alberi, di stare intorno a vedere che a loro non succedesse niente, riconoscendo questa loro forza anche simbolica in quanto madri e però proteggendole e sostenendole come potevano. Le madri dicono che il movimento è fondamentalmente loro, in quanto sono riuscite come madri a capire più a fondo i figli in quello che facevano, e che il continuare a dar vita ai figli, come loro lo hanno interpretato, significa continuare a dar vita all’idea che questi figli portavano e ai progetti che volevano realizzare. Dicono che i padri non li hanno capiti nello stesso modo: alcuni padri si sono distanziati dalle scelte dei figli, e comunque hanno seguito una strada razionale di incontro con questi figli che non c’erano più. Invece loro dicono: “Li abbiamo cercati fisicamente, poi abbiamo capito che non aveva più senso cercare dove fossero, e abbiamo cominciato a cercare di capire chi fossero”. Volevano imparare quello che i figli avevano imparato. C’è una questione aperta con Linea Fundadora, il movimento che si è staccato dalle madri. E’ successo che a un certo punto, dato che la giunta aveva avuto il colpo di genio della scomparsa, dei desaparecidos, questi fantasmi hanno cominciato ad aleggiare sulle democrazie che sono venute dopo la dittatura. Quello che doveva essere la garanzia dell’impunità dei colpevoli, perché se non c’è il corpo non c’è il reato e quindi non c’è punizione, è diventato una sorta di boomerang, perché c’è una legge internazionale che dice che il reato di scomparsa non va mai in prescrizione. Finché non viene fuori il corpo, virtualmente il responsabile può sempre essere indagato e processato. Quindi quando Alfonsín è andato al governo nell’83, dopo la caduta della giunta militare in seguito alla spedizione contro le Malvinas, hanno cominciato a dire alle madri: “Firmate una dichiarazione di morte”. Facevano leva anche sul fatto che non doveva essere semplice stare tutti quegli anni in una sospensione che ti nega l’elaborazione del lutto, che non lascia mai che qualcosa si allenti: perché da una parte tu sai benissimo che tuo figlio non c’è più, ma dall’altra devi continuare a stare in quell’incertezza in cui neghi la morte. Però, quando hanno cominciato a dire: “Firmate, vi diamo anche un risarcimento economico perché ne avete diritto e il governo ha fatto una legge su questo”, all’inizio le madri hanno detto tutte di no. Poco per volta poi il governo ha cercato di far riavere i resti dei desaparecidos e sono iniziate delle cose terribilmente macabre, perché arrivavano a casa, alle madri, delle cassette con delle ossa e l’avviso: “Qui dentro c’è suo 47 figlio o sua figlia”. Alcune madri lo hanno accettato, perché volevano avere un luogo dove poter seppellire e andare a ricordare il figlio, invece altre hanno detto no. Dopo sette anni in cui negavano la morte e dicevano che i figli vivevano nelle loro idee, queste hanno detto: “Adesso vivono nelle loro idee, un rivoluzionario non è mai un cadavere”. E hanno deciso che mai avrebbero accettato i resti, che mai avrebbero accettato il risarcimento - che via via Alfonsín e i governi successivi fino a Menem hanno reso sempre più cospicuo - perché in questo modo avrebbero dovuto firmare un documento dove c’era scritto che il figlio era morto: neanche assassinato, morto, verosimilmente il giorno tale. Questo loro l’hanno rifiutato e si è creata una spaccatura terribile, perché hanno avuto un’enorme discussione tra loro e alcune hanno deciso che il risarcimento lo avrebbero preso. Su questo io penso che non si possa dare un giudizio negativo perché, di fronte ad una cosa così enorme, nessuno sa come ci si deve comportare. C’erano per esempio delle madri che avevano la famiglia da mantenere, che magari avevano nipoti piccoli; altre che erano di estrazione sociale anche alto-borghese e avevano mariti avvocati, magistrati, politici, che a un certo punto si sono trovati coinvolti coi nuovi governi e hanno cominciato a dire che non aveva più senso che le madri scendessero in piazza coi loro fazzoletti: “La dittatura è finita, i processi si cominciano a fare, la ricomposizione del Paese si sta attuando. Basta. Si tratta di elaborare la storia passata”. Ne è scaturita una scissione che ha provocato l’uscita di una parte minoritaria di madri, che si è chiamata Linea Fundadora; mentre le altre si sono continuate a chiamare madres de Plaza de Mayo. Sono loro quelle che tutti i giovedì vanno in piazza, quelle che non hanno accettato il risarcimento, quelle che non hanno voluto la restituzione dei corpi: effettivamente, se voi andate a Buenos Aires, le altre non le vedete. Un’altra piccola differenza che viene sempre fuori - forse è bene chiarirlo - è quella con le nonne. Le nonne sono quelle che avevano avuto delle figlie desaparecidas, alle quali erano stati portati via i bambini al momento del parto, per essere poi adottati dai gerarchi o dagli amici dei gerarchi della dittatura. Queste donne hanno fatto una ricerca strenua dei nipoti, hanno cercato di riaverli, in alcuni casi ci sono anche riuscite. Questo le ha portate, secondo le madri, alla scelta di chiedere giustizia in modo singolo; le madri invece dicono: “Noi non vogliamo processi ai singoli. Non ci interessa chiedere che venga processata una persona perché ha portato via un bambino. A noi interessa che venga fuori la verità, il giudizio politico e la memoria storica”. Su questo non sono state d’accordo invece le nonne, che hanno continuato ad andare avanti individualmente, sui singoli casi. Adesso le madri sono ancora più contrarie, perché questi ragazzi hanno ormai 30 anni e le nonne continuano a cercarli e hanno proposto che, per legge, si faccia obbligatoriamente il test del DNA, anche a chi non vuole assolutamente sapere di essere figlio di una desaparecida, perché è stato cresciuto da genitori che ha imparato a considerare i suoi e che in qualche modo ama. Le 48 madri dicono che non si può fare un’ulteriore violenza a persone che già hanno subito una violenza gravissima. Però queste sono cose delicate, sono scelte individuali di fronte a situazioni estreme. Per quanto riguarda le ragioni della rimozione che c’è stata in Italia su questi avvenimenti, io credo che sia stato fondamentale il fatto che noi siamo abituati alle immagini, a ciò che è rappresentabile, a ciò che in qualche modo è visibile. Se ci si trova in una situazione in cui a priori si è decisa la non rappresentabilità di ciò che accade, resta molto più difficile portarlo alla luce. Credo che il Cile, fondamentalmente, sia stato quello che è stato anche per noi per quelle immagini degli stadi, quelle immagini della Moneda... Alessandra Peretti Mi sembrava molto interessante anche la domanda sulla rimozione in Argentina, non solo in Italia. Mi ha molto colpito questo atteggiamento della società argentina rispetto a quanto avveniva, che mi richiama una serie di cose che sono state dette a suo tempo, delle complicità della gente comune col nazismo. A me sembra che questa cosa sia molto intrigante, perché mette da un lato in luce la fragilità di una società che viene terrorizzata e che quindi è disposta comunque a girare gli occhi dall’altra parte; però dall’altro lato mette in luce anche una situazione argentina molto complicata. Io cerco di ricordarmela con gli occhi di allora e alcuni episodi avevano molto a che fare con il terrorismo. C’erano personaggi più o meno autorevoli, il capo della Fiat di Cordoba ad esempio, che venivano sequestrati e uccisi.... Da un lato la Tripla A, dall’altro anche una guerra aperta nella regione di Tucumán creavano una sensazione di instabilità e insicurezza, che spinse senz’altro molti a considerare la dittatura di Videla come il male minore, con quell’errore di prospettiva che si diceva prima, per cui non si prevedeva magari quello che sarebbe successo veramente. E’ molto difficile parlare a posteriori senza rischiare di dire cose che sono sbagliate, ma tutte le volte che si crea questa contraddizione terribile tra il bisogno d’ordine e di vita normale e le tensioni sociali interne di un Paese, c’è una parte della popolazione che in buona fede si schiera dalla parte dell’ordine. Questo io ho avuto la sensazione che sia accaduto in Argentina. Daniela Padoan Io vorrei legare questo discorso alla domanda che mi è stata fatta prima sulla dislocazione dei campi. In Argentina c’è stata, prima del golpe, la guerriglia nel Tucumán, un focolaio di guerriglia rurale al quale hanno partecipato in realtà poche persone, che è stato distrutto. Ci sono stati episodi molto contenuti di lotta armata nel Paese. C’era piuttosto una resistenza nelle grandi città, nelle scuole, nei sindacati, nelle fabbriche, tutta politica. 49 La repressione si è scatenata sicuramente in tutto il Paese e c’erano questi campi di concentramento ovunque, non solo a Buenos Aires. L’Argentina è immensa, con grandi spazi vuoti, e Buenos Aires è una città gigantesca. A Buenos Aires c’erano moltissimi campi e questo dell’ESMA, dal quale partivano i voli della morte, è molto impressionante perché c’è un grande parco - io ci sono stata per girare il documentario -: vi entravano e uscivano le Ford Falcon e si vede dove, c’era un luogo particolare che era il circolo degli ufficiali, dove c’era la struttura che chiamavano la Capucha, dove venivano messi i prigioneri coi cappucci in testa per le torture. Proprio di fronte, nel senso che basta attraversare il viale, c’è una fila di case molto belle, di fine ‘800, di media borghesia ricca, con i gerani alle finestre; e quando sono uscita col responsabile dell’ESMA, per un attimo mi sono guardata intorno stupita e mi sono chiesta: “Ma c’erano già allora? Queste strade, queste case, queste macchine che passavano...?”. E lui mi ha detto: “Immagino cosa sta pensando. Lo penso anche io tutti i giorni che esco di qui”. Era impossibile che le persone non sapessero. Ma il problema è che tu sei così attanagliato dal terrore, perché noi siamo qui, uno di noi dice una cosa e il giorno dopo non c’è più. Non ne sappiamo nulla, però sappiamo che non c’è più. Poco per volta si sta non solo attenti a non dire più quella cosa, ma anche a tenere lontano chi potrebbe dire quella cosa. Questo crea una complicità col potere, un’omertà terribile, da cui nasce il discorso della rimozione. La rimozione è anche conseguenza di un altro atteggiamento perverso, e molto intelligente dal suo punto di vista, della giunta, che ha cercato di estendere il più possibile le complicità. Per esempio, i militari che volavano dall’ESMA nei voli della morte non erano sempre gli stessi: venivano presi in tutto il Paese a rotazione, perché tutti si sporcassero le mani, così loro dicevano. E tutti fossero tenuti al silenzio, perché erano colpevoli. Il secondo figlio di Hebe è stato rapito e sequestrato da un cugino che faceva parte di una squadra. Lo si è saputo dopo quattro o cinque anni. Hebe mi ha detto che, fino a sei mesi fa, quando è morta la sua mamma, lei continuava ad andarla a trovare a La Plata, che è una città vicina a Buenos Aires, e stava male perché in casa sua c’era questo signore, che era il figlio della sorella, e la mamma di Hebe non voleva ammettere questa cosa. Hebe se lo ritrovava a bere il mate, la cosa che loro bevono, e dev’essere stato terrificante. Non ne hanno mai parlato, ovviamente, perché come si fa a parlare di una cosa così? Quando tu hai insegnanti che hanno denunciato degli studenti, quando hai un caporeparto che ha denunciato dei sindacalisti o degli operai, quando tutto è stato così sottile e pervasivo che le persone, pur potendo provare a dirsi che non erano colpevoli perché non hanno agito direttamente, in realtà non ci riescono fino in fondo, è come quando durante il nazismo e il fascismo si denunciavano gli ebrei. La gente non ha inventato le camere a gas, non le ha azionate, ma ha fatto in 50 modo che un anello scattasse, che una deportazione avvenisse... Il discorso che fanno spesso i sopravvissuti della Shoà mette in causa fino ai responsabili dei passaggi a livello: dicono che, se tutti questi treni della deportazione non avessero potuto andare sui binari d’Europa fino in quei luoghi, forse sarebbe cambiato qualche cosa. Quindi più una società è coinvolta e più il livello di coscienza, di rifiuto della soglia che ti fanno attraversare è basso, più probabilmente ti trovi di fronte a qualcosa che non puoi far altro che rimuovere per lungo tempo: fino a che ritorna fuori poderosamente come sta succedendo adesso. Un’ultima cosa, brevissima, la volevo dire a proposito del tema della memoria, molto interessante. Effettivamente, le madri hanno un modo non retorico di pensare alla memoria, proprio perché pensano che i figli continuino a vivere in quello che loro fanno, e dicono che la memoria è viva: anzi, con queste immagini di maternità che usano sempre, loro parlano di “memoria fertile”. Dicono: “La memoria dei musei, dei mausolei, dei monumenti è memoria statica; la memoria che rimette in circolo quello che i nostri figli volevano è memoria fertile”. Per esempio: i figli lottavano nei barrios, nelle bidonvilles, perché non ci fossero bambini di strada; adesso le madri hanno vinto due premi importanti, hanno avuto in Italia del denaro e questo denaro lo stanno usando per una scuola per bambini di strada. Dicono: “Questo è il modo in cui noi facciamo la memoria, questa è la nostra memoria”. Alessandra Peretti Trovo che si tratti comunque di persone straordinarie, come si vede anche nel libro di Daniela in cui dicono delle cose veramente fantastiche. Vi voglio leggere solamente un episodio che è anche divertente, ma che fa capire come sono queste donne. Parla Hebe, come al solito, e racconta che andò al carcere di La Plata, nel periodo in cui cercava di sapere dov’erano stati portati i figli: “un militare mi si parò davanti alla porta, cosa vuole? ho un figlio scomparso gli dico, e so che qui ci sono trecento persone. Come si chiama? mi fa lui. Glielo dico, e mi risponde che lì non c’è. Senti, gli faccio, se tu avessi la testa così buona da ricordarti il nome di tutti quelli che sono prigionieri qui dentro, non ti lascerebbero di guardia alla porta. Mi ha fissato con un odio incredibile e mi ha detto, se anche tuo figlio fosse qui, tu non entreresti”. Una persona in questo stato che si precipita a cercare il figlio davanti al carcere ed è capace di una battuta così, è una persona straordinaria. Loro dicono: “Noi eravamo donne di cucina, è l’occasione che ci ha fatto diventare quelle che siamo”. Questo sicuramente è vero, ma c’è dell’altro. Hebe ha questa grinta che avete vista anche voi, ma ce ne sono altre che dicono cose altrettanto forti. Veramente penso che sia una cosa affascinante conoscerle. 51 L’ora è tarda, ma immagino che molte di voi vorranno vedere la seconda parte dell’intervista. Seconda parte dell’intervista a Hebe de Bonafini D. Il mundial è stato utilizzato come copertura da parte del regime? R. Il mundial, che fu nel ’78, come tutti i mondiali di calcio nei paesi del terzo mondo fu usato per coprire l’orrore. Il mundial alla dittatura servì per far sapere al mondo che andava tutto bene, che non c’erano scomparsi, anche se prima e durante il mundial ci fu una quantità enorme di sequestri. Ma il mondiale servì anche per farci conoscere dal mondo. La TV è un potente mezzo e gli olandesi, siccome era giovedì, invece di riprendere l’inaugurazione del mondiale vennero in piazza a filmare la marcia delle madres. E fu la prima volta che l’immagine delle madres girò il mondo, così il mondo poteva conoscerci, poteva sapere che c’era un gruppo di donne che urlava disperatamente in piazza: “Noi vogliamo i nostri figli, ci dicano dove sono”. Così quel mondiale che avevano preparato per mostrare al mondo che in Argentina non succedeva niente è servito anche per farci conoscere dal mondo. E c’era anche il lavoro di tutti gli esiliati in Europa a dimostrare che cosa succedeva realmente in Argentina. Non era vero che andava tutto bene e che la dittatura era così buona, pulita, come tante persone pensavano. C’erano tanti paesi che vendevano armi al governo militare, lo approvavano e appoggiavano e facevano silenzio su quello che succedeva, perché gli serviva e perché c’erano contratti commerciali in mezzo. D. All’inizio, quando cercavate i vostri figli, avete chiesto aiuto alla Chiesa, mi pare in particolare a monsignor Grasselli. R. Ovviamente, quando succedeva tutto questo, ognuno andava a vedere un sacerdote amico. Nella chiesa Stella Maris, che è la chiesa della Scuola della Marina, c’era un sacerdote che si chiamava Grasselli, che apparentemente sapeva dov’erano gli scomparsi: allora noi siamo andate lì e lui, invece di dirci che cosa succedeva, ci estorceva informazioni. Era informatore diretto della dittatura e della Marina. Noi lo abbiamo denunciato, ma tuttora continua ad essere in libertà, perché è appoggiato dalla Chiesa. Tuttora la Chiesa non ha voluto condannare tanti sacerdoti che hanno partecipato direttamente, e anche monsignor Grasselli. Per entrare lì ci facevano una perquisizione. Era una cosa impressionante, noi non ce ne rendevamo conto per la frenesia di trovare i nostri figli. Un giorno Grasselli ha detto a una madre che suo figlio era morto sotto tortura. Allora noi abbiamo scritto una lettera al papa chiedendo come mai sapesse questa cosa. Il papa non ci ha mai risposto, e neanche Grasselli. E oggi monsignor Grasselli è il confessore della scuola di Nostra Signora della 52 Misericordia, una scuola di élite molto grande di Buenos Aires, dove fa anche il professore. Ecco cosa fa questo assassino, questo torturatore perverso, tuttora sostenuto dalla Chiesa. D. Nonostante il dolore per la scomparsa di ciascun singolo figlio, a un certo punto avete teorizzato la socializzazione della maternità. R. Certo come si possa sopportare questa cosa terribile che è la scomparsa di un figlio non si può spiegare. Non me lo spiego nemmeno io. Noi madres non ce lo spieghiamo ancora. Col tempo abbiamo cominciato a vedere che prima sparivano i nostri compagni, dopo c’erano madri che morivano, famiglie che non volevano denunciare la scomparsa del proprio figlio. Allora abbiamo deciso di socializzare la maternità, farci madri di tutti: lasciare la foto del figlio, il nome del figlio in casa, e non portarlo né sul fazzoletto né sul petto. Volevamo che tutti quelli che non avevano familiari che li rivendicassero fossero rivendicati da noi; così man mano, lentamente, non tutte allo stesso tempo, siamo diventate madri dei trentamila. Abbracciando la loro causa, che era la causa della libertà, della vita del loro popolo, abbiamo alzato la nostra bandiera. I nostri figli non li hanno portati via perché erano medici o avvocati o lavoratori o studenti. Li hanno portati via perché erano rivoluzionari. Allora noi siamo madri di tutti, rivendichiamo tutti, amiamo tutti, difendiamo tutti. D. Che rapporto c’è nella vostra lotta tra azione legale e azione politica? R. Noi madres non abbiamo abbandonato la legalità o la lotta legale o la giustizia. Succede che l’azione legale deve essere accompagnata da un impegno politico, che la denuncia legale deve avere molto più di politico che di giuridico. Noi non sapevamo che è un habeas corpus, o Amnesty, o l’ONU. Quando abbiamo visto cosa succedeva e abbiamo cominciato a denunciarlo, abbiamo capito che non serve a niente. Che l’ONU arriva sempre tardi a tutto. La sola denuncia scritta non serve. E da allora abbiamo più fiducia nella mobilitazione, negli incontri, nelle assemblee, nella forza che uno mette nella denuncia e combiniamo il legale con il politico. Il politico c’entra con la scelta che noi abbiamo fatto di non abbandonare un solo giovedì la piazza. Da 22 anni noi tutti i giovedì marciamo in piazza e tutte le denunce che facciamo nel mondo c’entrano con la politica, e con quello che succede adesso, non solo quello che è successo prima: noi uniamo tutto. Non è facile, ma si può. D. Non accettare di dichiarare morti i vostri figli comporta anche una forma di lotta giuridica? R. La scomparsa forzata di persone è un delitto permanente, un delitto di lesa umanità che non va in prescrizione, invece il crimine sì. Così noi madres non accettiamo la morte dei nostri figli, per poterli cercare sempre, mentre i governi sono molto interessati a farci accettare la morte dei nostri figli. Se accettiamo il crimine, c’è la scadenza dei termini. D. Quali appoggi avete avuto dai governi internazionali? 53 R. I governi internazionali all’epoca della dittatura sono stati molto complici. Noi abbiamo avuto la fortuna di venire in Italia nel ’78 ed essere ricevute da Sandro Pertini, un uomo incredibile, intelligente, che amava la libertà, e fu l’unico presidente in quel momento che ripudiò la dittatura militare e appoggiò la lotta delle madres. Molte volte ancora lo abbiamo visto fino a che lui è morto, e sempre ci ha ricevuto. Ma molti altri governi, anche se ci ricevevano, avevano un po’ di complicità con la dittatura. Abbiamo ricevuto sempre aiuto dai popoli, però. I popoli sono stati capaci di aiutarci, come le donne olandesi che sono state le prime e che hanno formato un gruppo di solidarietà, e poi tutti i gruppi di appoggio che ci sono in tutto il mondo. Oggi abbiamo venti gruppi di appoggio in tutto il mondo, che sono quelli che organizzano i nostri viaggi, le nostre interviste, e che ci danno forza per andare avanti. In ogni paese ci sono migliaia di persone che ci aiutano. Siamo seguite da molti popoli che hanno sofferto prima di noi guerre, torture, persecuzioni, e che hanno capito rapidamente la nostra lotta e continuano ancora oggi ad appoggiarci. E’ molto importante, indispensabile, perché noi madres ci sosteniamo con la solidarietà in tutti i sensi, politicamente, economicamente, eticamente. D. Prima ha detto che all’inizio avete affrontato la dittatura pensando di non fare politica. Quando avete capito che si trattava di una forte azione politica? R. All’inizio dicevamo: “Noi non facciamo politica, non vogliamo saperne”, ma non sapevamo che affrontare la dittatura era fare politica. Prima non volevamo riconoscere questa cosa, perché era così sporca la politica, e poi invece ci siamo convinte che la politica non è sporca. Sono gli uomini che corrompono la politica. E abbiamo cominciato a riconoscere che stavamo facendo politica con etica, con amore, con sentimento, senza volere niente per noi, ma tutto per gli altri. Sono passati parecchi anni e adesso siamo sempre più convinte che siamo un’organizzazione politica: senza partito, ma molto politica. D. Prima diceva che avete ripreso l’azione politica dei vostri figli. In che modo? R. Noi abbiamo cominciato a conoscere l’azione politica dei nostri figli. Non posso parlare per tutte le madres, per ognuna è stato diverso, con più o meno partecipazione; però quando ci mettevamo insieme a parlare, quando parliamo ancora oggi, tutte diciamo lo stesso, tutte siamo passate per le stesse cose. Come non ce ne siamo rese conto prima? Prima non abbiamo visto questo e quello, e ora ricostruiamo l’amore per la politica dei nostri figli e sentiamo che anche noi stiamo facendo una strada rivoluzionaria, senza essercelo proposto, senza leggere libri. La gente pensa che noi abbiamo letto il marxismo, il trotzkismo, il maoismo; no no, noi non sappiamo niente di tutto questo. Abbiamo letto altre cose, più semplici, magari leggiamo nel libro della vita, per la strada, con la gente, con i nostri compagni, e interpretiamo la lotta dei nostri figli partendo dalle cose piccole, non dalle cose filosofiche. Per questo noi alziamo le loro stesse bandiere. Per questo noi li 54 amiamo così tanto. Li amiamo come figli e come compagni. Quello che ci è successo è unico nel mondo: essere compagne nella lotta dei propri figli rivoluzionari quando loro non ci sono più. E’ difficile, però è molto bello... Quando hanno portato via i miei figli mi sono sentita vecchia di mille anni, ma adesso mi sembra di avere vent’anni meno di quella volta lì; non so perché, ma mi succede questo, e credo che sia la lezione del nostro cammino. Penso che sia questo. D. Nel vostro cammino politico siete diventate internazionaliste? R. E’ un’altra cosa che abbiamo fatto senza renderci conto. Noi non abbiamo mai voluto il nazionalismo perché alle volte somiglia troppo al fascismo. E’ molto pericoloso. Uno ama il suo popolo, la sua gente, ma io vorrei che non ci fossero le frontiere: di qua è mio, di là è tuo. E per la prima volta siamo andate a Cuba e per la prima volta abbiamo sentito la forza di quel popolo, e poi siamo andate in tutti i paesi dove c’era conflitto. Siamo state in Palestina, in Perù quando hanno occupato l’ambasciata giapponese, siamo state in Cile, in Ecuador, in Bolivia, in Paraguay, in Venezuela, nei Paesi Baschi, in quasi tutti i posti dove ci sono conflitti. Nelle Asturie siamo scese nelle miniere per vedere come vivevano i minatori. Questo è l’internazionalismo delle madres, questa comprensione. Adesso siamo state a Belgrado, a fare gli scudi umani sul ponte. Noi abbiamo capito che c’è da mettere il corpo e così siamo diventate internazionaliste, mettendo il nostro corpo, percorrendo il mondo, accompagnando, aiutando. Siamo state con il movimento dei Sem Terra del Brasile, un movimento bellissimo, incredibile, libero, forte. Siamo state assieme a Marcos nella selva, in quella selva che ha tanto mistero, tanto dolore e tanta morte, ed è tanto dimenticata. Abbiamo conosciuto un uomo fantastico, realista, che ama quello che fa, che si sente solo. Molte volte si sente solo. E siamo state con i comandanti zapatisti, abbiamo partecipato agli incontri che hanno fatto. Diventare internazionaliste ci ha fatto imparare tante cose, perché uno impara sempre, a tutte le ore, a tutti i momenti, per vedere che cosa possiamo fare, che cosa in più possiamo fare. Quando siamo arrivate in un carcere della Bolivia in mezzo alle montagne, dove le madri non possono vedere i detenuti, dove buttano il mangiare per un buco, come se fossero animali, abbiamo visto che i repressori e i governi si somigliano tanto. Fujimori e Menem, Menem e Fujimori. Sono fatti della stessa pasta. C’è il capitalismo degli Stati Uniti che li appoggia e li sostiene, perché gli serve. Nel mio paese stanno costruendo più carceri che scuole. Hanno fatto una quantità enorme di carceri, vuole dire che vogliono arrestarci tutti. Vuole dire che vogliono farci diventare sempre più ignoranti, perché non ci sono progetti per l’educazione, ma miliardi per fare carceri. Allora è molto facile capire che cosa vogliono fare con noi. Per questo c’è da lottare tutti i giorni, perché il nemico non si riposa. 55 D. Qual è il suo giudizio sull’attuale democrazia argentina? R. I governi si chiamano democratici perché il mondo si è abituato che democrazia è votare. C’è il parlamento, c’è democrazia. Il parlamento è una pozzanghera di acqua fetida, e il governo Menem è un governo di mafiosi che gestiscono il gioco, la prostituzione, che trafficano armi e che sono sottomessi agli Stati Uniti, al Fondo Monetario Internazionale. C’è da capire che la democrazia è quando tutti abbiamo lavoro e libertà, casa, salute e educazione. La democrazia non è solo votare, almeno nel nostro paese, perché i governi assomigliano tanto alle dittature; allora quando uno vota gli dà la possibilità di rubare per quattro anni ancora, di truffare per quattro anni ancora, di dire bugie per quattro anni ancora. Scegliere in realtà non è votare, perché noi dobbiamo votare un candidato che non abbiamo scelto, almeno così succede da noi. Un giorno vedi una faccia sul muro: “Vota il tale”. Ma chi è questo qua? Io non l’ho mai visto. E poco dopo è in una lista elettorale e già devo andarlo a votare. E perché? Io non lo voglio. Non so chi è. La gente è molto confusa. Democrazia non è votare. Democrazia sono tante cose insieme, ma soprattutto è libertà. E’ non vedere migliaia di bambini che vivono, mangiano e muoiono nelle strade di Buenos Aires, e prima questo non succedeva. Questa piaga della droga è imposta dagli stessi Stati Uniti, che è il paese che più traffica droga, perché vuole che i giovani non abbiano progetti, quegli stessi giovani che la società emargina, che la società espelle dal sistema. La sola cosa che gli danno è birra da bere e droga. Un giovane drogato non sarà mai un rivoluzionario, non disturberà mai. Allora gli serve tanto che la droga si spanda, aumenti, la mettono alla portata di tutti. Nel mio paese, i bambini si drogano perché hanno fame e quando consumano droga la fame passa. Noi siamo molto addolorate per questo e non sappiamo cosa fare. Cosa possiamo fare con così tanti bambini, espulsi dal sistema, obbligati a prostituirsi? Poco tempo fa un uomo di una provincia molto povera ha parlato in piazza. Aveva cinquant’anni, pareva che ne avesse novanta, era senza lavoro e piangendo ci ha detto: “Sapete, madres, nelle nostre case quelli che portano il denaro sono i bambini, perché si devono prostituire, vendere i loro corpi per portare da mangiare a casa, perché la mia donna e io abbiamo più di quarant’anni e non riusciamo a trovare lavoro”. Uno deve vergognarsi di questa cosa quando la ascolta, perché dall’altra parte ascolta i miliardi che si spendono per le guerre, per i missili, per le armi, per comprare un giocatore di calcio. E’ terribile, è un mondo molto perverso. D. Che significato hanno avuto le leggi del “Punto finale” e dell’“Obbedienza dovuta”? R. Durante la dittatura ovviamente non c’era giustizia, governavano i dittatori. Ma dopo nemmeno, perché c’è stata una complicità tra dirigenza politica e dittatura, e anche se il governo di Alfonsín, il primo governo democratico, promise di condannare (Jaroslavsky, un uomo del governo, disse queste parole: “Le condanne saranno così forti che sembreranno vendette”), nonostante questo non ci sono state condanne, perché gli stessi radicali hanno fatto due leggi: dell’Obbedienza dovuta 56 e del Punto finale. Obbedienza dovuta significa che colui che aveva ricevuto l’ordine di ammazzare, torturare, rubare, fucilare, violentare, siccome aveva ricevuto un ordine non doveva andare in carcere. E il Punto finale era chiudere con tutti i processi, non si può più condannare nessuno. Mentre tutti chiedevano che venissero condannati gli assassini, una giudice molto amica di Massera, dell’assassino Massera, disse: “Cominciamo a fare un processo per il sequestro dei bambini”. Sono stati presentati degli esposti e alcuni militari sono agli arresti domiciliari per il sequestro di tre bambini, quando in realtà hanno distrutto tre generazioni. Migliaia di famiglie sono rimaste abbandonate a se stesse dopo il sequestro dei figli: abbandonate non economicamente, ma dal punto di vista affettivo. Siamo stati privati di questo piccolo progetto di vita che avevamo con i figli, la nostra famiglia. E loro hanno distrutto tutto questo. D. Il regime argentino ha approntato un potente apparato di repressione: prima parlava di più di trecento campi di concentramento. Che cosa sono stati questi campi di concentramento e in particolare l’ESMA? R. I campi di concentramento in Argentina avevano diverse forme. C’erano campi di concentramento in commissariato, c’erano quelli piccoli, di settanta, ottanta persone, e c’erano i campi di concentramento dentro l’esercito, dentro la Marina. La Scuola di Meccanica della Marina fu il campo di concentramento più grande. C’erano anche cinquemila persone in condizioni tremende. Li torturavano per giorni e giorni. Quando arrivavano donne incinte i sequestratori prendevano i loro figli. Da lì uscivano i voli della morte. Questa idea dei voli della morte fu un’idea della Marina Militare: prima l’esercito li gettava nel Rio de la Plata in un posto che si chiamava Punta dell’Indio, ma i corpi ricomparivano rapidamente. Poi hanno deciso di buttarli a mare, con i piedi in un blocco di cemento a presa rapida. I campi di concentramento in Argentina erano una cosa sconosciuta. Li conoscevamo per il tema del nazismo, con gli ebrei, ma non pensavamo che venissero fatte ai nostri figli le stesse torture. Noi non raccontiamo le torture che hanno subito i nostri figli perché sentiamo che così li torniamo a violare, è una cosa troppo intima. Posso dirvi che i nazisti e i nazisti argentini hanno fatto le stesse cose. Anzi, qualcuna di più raffinata, perché gli Stati Uniti hanno raffinato la forma delle torture. Quando noi madres abbiamo cominciato a sentire non volevamo crederci. Addirittura portavano per divertimento dei giovani a delle feste della polizia, della marina, dell’esercito, dove erano torturati, violentati. Erano così criminali, così torturatori. E questo fu la Scuola della Meccanica della Marina. 57