NOTIZIARIO IN PREPARAZIONE AL CONVEGNO

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NOTIZIARIO IN PREPARAZIONE AL CONVEGNO
LETTERA DELL’ARCIVESCOVO AI PARROCI
Cari confratelli
mi rivolgo a voi che con me portate l’onore e il peso dell’annuncio del vangelo agli
uomini e alle donne che vivono nella nostra terra, per presentarvi e invitare voi e le vostre
comunità al convegno diocesano che si terrà il 16 e 17 giugno prossimo.
Quest’anno, come potete vedere nelle pagine che seguono, questo appuntamento si
presenta con una novità importante: non faremo una verifica o una programmazione pastorale
ma ci ritroveremo per fare - preti, laici, religiosi e religiose – un’esperienza di annuncio di cui
siamo destinatari. Infatti, non potremo essere annunciatori se non di ciò che ci entusiasma e
riempie la nostra vita in tutte le situazioni.
Nelle linee pastorali 2007-2008 avevo chiesto di promuovere nelle comunità dei
momenti di incontro per rendere possibile l’incontro tra la fede e la vita quotidiana in modo
che l’ascolto della Parola illumina il vissuto delle persone e il vissuto delle persone diventi
esegesi della Parola e da questo incontro nasca la speranza e nuovi stili di vita (cf. n. 17).
Questo vivremo al convegno.
Un’altra novità è che al convegno non sono invitati solo gli operatori pastorali, ma tutti i
cristiani (e anche i non cristiani). Vi chiedo dunque di caldeggiare la partecipazione dei fedeli
e per favorire questo sarà importante leggere nelle Messe della domenica 8 e/o 15 giugno il
comunicato che ho preparato e diffondere il volantino che troverete in questo Notiziario.
Per le indicazioni pastorali? La convocazione di giugno si pone come fondamento del
cammino che la nostra Chiesa farà l’anno prossimo. E con chi avrà partecipato al convegno ne
riparleremo lunedì 23 alle ore 18.30 al seminario dove, in un incontro assembleare aperto a
tutti si potranno presentare suggerimenti su come declinare negli anni prossimi l’annuncio.
Sarà bello stare insieme per ritrovare nell’annuncio del vangelo la gioia del Signore e la
speranza. Intanto vi invito a prepararvi con la preghiera
+ Italo Castellani
arcivescovo
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BUONE NOTIZIE
Le linee pastorali 2007-2008 Dalla contemplazione all’annuncio esprimono il dinamismo
vitale della Chiesa e della sua missione: il vangelo che essa proclama al mondo nasce
dall’esperienza di contemplazione del Signore.
In tale contesto il convegno di quest’anno vuol essere un’esperienza di annuncio della
Buona Notizia che raggiunge il cuore dei partecipanti e fa nascere la gioia e il desiderio di
partecipare ad altri quanto vissuto. Poi c’è anche il risvolto pastorale, in un terzo momento. Ne
conseguono alcuni caratteri che danno una impostazione nuova a questo momento ecclesiale:
•
Evento ecclesiale: non si tratta di un incontro per fare elaborati pastorali (come avveniva
gli altri anni) ma di un evento ecclesiale che è contemporaneamente di approfondimento,
di confronto con la realtà, di preghiera, di formazione.
1. destinatari: in conseguenza a quanto detto sopra il convegno è aperto a tutti. In particolare
sono invitati:
- i cristiani che vogliono riscoprire la bellezza della fede,
-
quanti sono in ricerca,
-
quanti delusi o affaticati della loro esperienza ecclesiale e vogliono tornare alle
sorgenti del vangelo,
-
i presbiteri, i religiosi, le religiose e gli operatori pastorali che vogliono ritrovare
entusiasmo per il servizio che svolgono nelle comunità,
-
gli appartenenti a tutti i movimenti e associazioni che intendono fare esperienza di
comunione dell’unica fede,
-
i non credenti che vogliono conoscere il nucleo del messaggio cristiano,
-
gli appartenenti ad altre religioni che intendono entrare in contatto con il
cristianesimo come è vissuto in concreto da una comunità locale.
2. contenuti: l’incontro tra vangelo e vita segue due direzioni che coinvolgono ogni persona:
la dimensione del tempo e delle relazioni interpersonali.
-
il primo giorno conduce nella prospettiva del tempo in cui ciascuno realizza la
propria vita e vuole rispondere a questo interrogativo: cosa nasce di nuovo quando
nella consapevolezza di vivere un tempo difficile e un futuro incerto viene annunciato
il vangelo? Nasce la speranza!
-
il secondo giorno fa ripensare alcune delle relazioni interpersonali nelle quali si
svolge l’esistenza e affronta questo interrogativo: cosa accade quando il vangelo entra
nelle relazioni che ciascuno vive con la società circostante, con un coniuge, con
un’altra generazione? Nasce la comunione!
3. Note logistiche
- sede del convegno è la basilica di s. Frediano, in Lucca e in chiese ad essa vicine.
Anche in questo c’è una novità, perché il convegno vuole caratterizzarsi come
riflessione di fede nei luoghi quotidiani di vita.
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-
Il parcheggio più vicino è il d. Baroni (zona Luna Park) a 5 m. da s. Frediano passando
dalla sortita omonima
-
Ai partecipanti viene offerto un piccolo ristoro
4. data: lunedì 16 e martedì 17 giugno dalle ore 18.30 alle 22.30
5. Il risvolto pastorale
Come passare dalle riflessioni del Convegno ad elaborare linee pastorali?
Lunedì 23 giugno al seminario, si terrà un incontro aperto a tutti, in particolare a chiunque
ha partecipato al Convegno, per tradurre in indicazioni di cammino pastorale quanto il
convegno ha fatto approfondire. È l’occasione di corresponsabilità ecclesiale e anche per
dare all’arcivescovo suggerimenti importanti.
CHE TEMPO FA
(primo giorno, lunedì 16 giugno)
18.30: Preghiera di apertura del convegno
19.00: Buone notizie per il nostro tempo
Relazione (in forma di Lectio divina), Don Federico Giuntoli, biblista
19.45: spostamento nei luoghi di approfondimento
(in questo momento è possibile fare uno spuntino)
20.30: lavoro di gruppo per approfondire come la Buona notizia apre il tempo a una
prospettiva nuova. Ciascun partecipante potrà scegliere di partecipare al gruppo che
risponde al suo interesse. I lavori di ogni gruppo si diversificano secondo le finalità
proprie. Sarà possibile:
1. fare un tempo prolungato di preghiera contemplativa guidata per riscoprire la
presenza di Dio nella storia (dimensione spirituale).
2. comprendere il nostro tempo, letto nell’ottica della fede, con speranza
(dimensione culturale) Interviene il prof. Adriano Fabris
3. accogliere la luce del vangelo sulla percezione del tempo che passa e lascia il
segno nel corpo e nello spirito facendo sperimentare varie fragilità (dimensione
esistenziale). Interviene il dott. Pietro Lastrucci
4. incontro con persone che sono all’altezza dei tempi perché scorgono i segni del
Risorto e vivono nella speranza (dimensione ecclesiale).
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DETTO PER NOI
(secondo giorno, martedì 17 giugno)
18.30: Preghiera
19.00: Buone notizie tra gli uomini
Relazione (in forma di Lectio divina), dott. Rosanna Virgili, biblista
19.45: spostamento nei luoghi di approfondimento
20.30: lavoro di approfondimento per riflettere come la Buona notizia segna le relazioni in cui
si realizza la vita. Sarà possibile:
1. fare una esperienza di preghiera contemplativa per andare alla sorgente di ogni
rapporto di comunione (dimensione spirituale).
2. la comunità che si apre al mondo: in questo gruppo si cercherà di aiutare le
comunità ad accogliere nei loro interessi i molti problemi della vita concreta in cui
si imbatte ogni persona (dimensione ecclesiale).
3. si intende approfondire la relazione coniugale come luogo di comunione vitale
(dimensione esistenziale). Interviene la dott. Rosanna Virgili
4. affrontare il rapporto tra la generazione degli adulti e dei ragazzi nella
prospettiva dell’educazione (dimensione culturale). Interviene il dott. David
Guarneri, direttore dell’ufficio comunità e scuola della diocesi di Brescia.
ANDIAMO AVANTI
(lunedì 23 giugno)
L’incontro, aperto a chi ha partecipato al convegno, ha lo scopo di orientare in termini di
orientamenti pastorali quanto approfondito durante i due giorni del Convegno. È l’occasione
di corresponsabilità ecclesiale e anche per dare all’arcivescovo suggerimenti per la
ore 18.30: preghiera
ore 19.00: breve verifica nei gruppi
20.30 – 22.00 assemblea per proporre orientamenti di cammino alla diocesi,
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NOTIFICAZIONE DELL’ARCIVESCOVO
da leggere alle Messe di domenica 8 giugno
Lunedì 16 e martedì 17 prossimi si tiene il convegno diocesano, è un appuntamento
ormai consueto che serve per approfondire il cammino della nostra chiesa.
Quest’anno c’è una grande novità: l’incontro è pensato e preparato per tutti, per ogni
persona che si lascia interrogare dalla Parola di Dio e dalle domande che il nostro tempo e i
legami interpersonali portano con sé.
Mi rivolgo a voi tutti e invito ciascuno a partecipare a questo incontro che sarà
momento di confronto e di formazione, occasione preziosa per ritrovare la gioia della fede e
l’entusiasmo di comunicarla. Prepariamoci in questi giorni con la preghiera perché la nostra
Chiesa sia docile allo Spirito Santo che la arricchisce con i suoi doni e la spinge sulle vie
dell’umanità.
Di cuore vi benedico
+ Italo Castellani
arcivescovo
INTENZIONI PER LA PREGHIERA DEI FEDELI
Nelle domeniche e nei giorni feriali nella preghiera dei fedeli
si aggiungano le intenzioni seguenti o altre simili:
Preghiamo insieme e diciamo:
Rinnovaci, o Padre, nel tuo Santo Spirito.
Per la nostra Chiesa di Lucca,
perché prenda coscienza viva della dignità profetica, sacerdotale e regale
che lo Spirito del Signore ci comunica
e diventi sempre più un Vangelo vivente,
leggibile dai vicini e dai lontani, preghiamo. R/.
Per noi tutti uomini e donne
quotidianamente impegnati in ogni campo dell'attività umana,
perché diamo sempre Buone Notizie
e con le parole e le opere rendiamo ragione alla società nella quale viviamo
della speranza che il Signore Gesù ci ha dona, preghiamo. R/.
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SCHEDE DI INTRODUZIONE AI LAVORI
COMPRENDERE IL NOSTRO TEMPO
Primo giorno gruppo 2
da Adriano Fabris, L’esperienza del presente e il venir meno di un rapporto con passato e futuro, in
Di generazione in generazione. La difficile costruzione del futuro, V Forum del Progetto culturale,
EDB, Bologna 2004
Se si riflette …, ci si accorge che una delle condizioni che rendono possibile la trasmissione «di
generazione in generazione» di una cultura e della fede è costituita da un’adeguata esperienza del
tempo. Risulta indubbio che nella nostra esperienza quotidiana si stia verificando una sorta di
“restringimento” di campo per quel che riguarda l’esperienza temporale. Si tratta, più precisamente, di
un vero e proprio oblio della dimensione del passato - una sorta di perdita della memoria - e, insieme,
di una messa fra parentesi delle possibilità che il futuro ci può offrire, in relazione a un evento che, al
di là delle nostre aspettative, è sempre in grado di accadere. In questo quadro ciò che resta è solo un
presente senza orizzonte, nel quale ci si illude di avere piena disponibilità di ciò che accade, in cui si è
convinti che tutto può essere recuperato.
Una tale situazione può essere, naturalmente, certificata da analisi di tipo psicologico o
sociologico. Di fatto, però, si tratta di qualcosa che possiamo verificare tutti i giorni, nella vita nostra
e, più ancora, in quella dei nostri figli. E che dobbiamo cercar di approfondire...
In che cosa consiste, più nel dettaglio, questo “restringimento” della dimensione temporale? Nel
fatto, si diceva, che sempre di più siamo sollecitati a occuparci del presente: un presente che, anche
per la sua crescente complessità, richiede ogni impegno e attenzione. Consideriamo tre esempi, fra i
molti che potremmo menzionare. Una tale sollecitazione a volgersi in maniera prioritaria verso ciò che
è dato qui e ora proviene anzitutto dagli odierni mezzi di comunicazione di massa: le connessioni di
Internet si svolgono immediatamente, in “tempo reale”; la televisione rende compresenti avvenimenti
distanti fra loro, li appiattisce nello spazio ristretto dello schermo, propone eventi che colpiscono per
un attimo la nostra attenzione, e poi dileguano. A un tale predominio del presente siamo poi
ugualmente riportati anche se consideriamo i modi, i modelli secondo i quali siamo oggi indotti a
vivere i sentimenti, le emozioni, gli affetti. Ciò accade in maniera spesso superficiale, dissipativa.
Vale a dire: senza che gli affetti si radichino in ciò che siamo stati e che può riproporsi come una
tonalità di fondo del nostro stesso vivere attuale; senza prendere impegni per il futuro, cioè senza che
vi sia spazio per quel modo di aprirsi all’altro che è dato dalla promessa. E, in ultimo, l’appiattimento
sull’adesso, su di un’ora che dilegua senza rimpianti, è richiesto dall’affermarsi sempre più deciso di
quella che è la mentalità tecnica di approccio al mondo e agli altri uomini. Siamo ormai abituati a
forzare le cose, vogliamo subito i risultati, non siamo più capaci di aspettare: e, dunque, spesso, ciò
che non ha il tempo di maturare ci accontentiamo dì gustano acerbo.
D’altronde, immersi nel nostro presente, non sembra che stiamo poi tanto male. Noi: gli abitatori di
un occidente in cui - ne siamo più o meno consapevoli - benessere e capacità di consumo sono guada­
gnati anche a costo dello sfruttamento e dell’ingiustizia nei confronti degli altri mondi. Forse è anche
in questo star bene dove stiamo che risiede il motivo per cui non ci è difficile dimenticare il passato;
forse anche per questo non siamo indotti a cercare prospettive future, nuovi orizzonti. A differenza di
coloro che, proprio per la difficoltà del loro vivere, sono costretti ad aprirsi ad altre dimensioni, sono
spinti a cercare alternative possibili: passate o future, reali o utopiche, ma sempre permeate di
speranza.
…Sembra trovare spiegazione (in questo) quella perdita di un senso della storia che contrad­
distingue la nostra cultura, e che soprattutto nei più giovani si delinea in maniera particolarmente
netta. E dunque può venir meno la consapevolezza delle proprie radici, della propria identità, l’idea
dell’appartenenza a una comunità e a una cultura ben determinate. Si è pronti per essere immessi,
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ormai privi di caratteri peculiari, nel processo di una globalizzazione incapace di salvaguardare le
differenze e tale, dunque, da sollecitare le più dure reazioni da parte dei vari particolarismi, localismi,
fondamentalismi.
Ma è proprio vero che in questo presente siamo ormai adeguatamente inseriti e che ad esso, per dir
così, aderiamo senza problemi? Qual è, in effetti, questo presente di cui finora abbiamo parlato? E’,
appunto, un presente svincolato da ogni rapporto con una possibile alterità, isolato da ciò che risulta,
per dir così, “al di fuori” di esso. Non è il presente che proviene da una manifestazione, da una rive­
lazione precedente... Invece questo presente senza storia e senza prospettiva s’impone in tutta la sua
casualità e contingenza. Esso è tale proprio nell’attimo puntuale in cui si dilegua. Per essere rim­
piazzato non già da un’altra dimensione (quel futuro di cui la stessa esperienza del presente, da un
punto di vista storico, rappresenta il passato), bensì da un altro punto di fuga, da un altro istante, an­
ch’esso dileguantesi. E, tutto questo, in maniera insensata.
…
Parlare di “storia”, prendere in esame il tempo storico, non significa mettere in fila, quasi
ponendoli su di una stessa linea, «passato», «presente» e «futuro». Vuoi dire invece sperimentare,
nell’oggi, l’intimo legame di memoria e profezia. Vuoi dire comprendere il momento attuale come
qualcosa di ricevuto, di donato, e insieme come qualcosa che può essere a sua volta donato. Significa,
in altre parole, assumere il presente come un’occasione di testimonianza: tale cioè da aprire a una
verità liberamente ricevuta e da impegnare a una sempre rinnovata fedeltà nei confronti di essa.
Questa apertura, questo impegno, hanno però bisogno di tempo anche in un altro senso. Infatti
apertura e impegno sono gesti, di nuovo, che accadono nei presente. Ma il presente, qui, è inteso come
autentico kairòs. In esso può realizzarsi il rivolgimento di una vita (la «conversione»); in esso può
trovare ascolto la chiamata alla fede (la «vocazione»). S’impone qui il senso di un’«ora» che rimanda
a una dimensione trascendente, che rivela profondità sempre da attingere, che è luogo di tangenza di
tempo ed eterno. È qui, in altre parole, che si rivela la croce del tempo.
E dunque: di fronte a un tempo ristretto e immiserito nella contingenza di un presente destinato a
dileguarsi, davanti a un tempo ormai incapace di essere funzione di rapporto, la riproposizione di altre
possibilità dell’esperienza appare oltremodo urgente. Si tratta di possibilità che già si radicano nella
nostra vita e che possono, in effetti, essere recuperate. Per evitare, quanto meno, che l’uomo si ap­
piattisca sempre di più in un’unica dimensione e finisca per essere consumato da ciò che ritiene,
illusoriamente, di poter consumare.
Il cuore della proclamazione e della testimonianza cristiana è Gesù Cristo Risorto, fonte di speranza
per il credente e fondamento del suo impegno per rinnovare la vita e il mondo. In un clima sociale e
culturale in cui gli orizzonti sono spesso fissati su piccoli frammenti di vissuto, come può la speranza
cristiana mobilitare le energie spirituali, purificare e orientare le speranze fragili, sostenere i
momenti di delusione?
Chiamati alla santità, in una vita secondo lo Spirito, i credenti devono inscrivere il loro impegno di
rinnovamento dentro la cultura del proprio tempo impregnandola evangelicamente. Quali sono le
possibilità e i rischi che il clima culturale presenta oggi per l’annuncio e la testimonianza cristiana?
La prova non è per scoraggiare, ma per far venire alla luce ciò che realmente c’è nel cuore del
credente, per creare risposta all’azione dello Spirito che sospinge verso nuove figure di santità. Come
è vissuta dai credenti la sfida di questo tempo: è occasione di chiusura, di difesa e di rifugio o apre
alla ricerca di nuovi stili di vita cristiana per una testimonianza gioiosa e credibile?
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LE FRAGILITÀ SEGNO DEL TEMPO NELL CORPO E NELLO SPIRITO
Primo giorno, gruppo 3
Da: BRUNINI M., Ospitare la vita, EDB
L’uomo ferito – Le nostre ferite
La parabola [del buon samaritano] ci presenta, anzitutto, un uomo ferito: «Un uomo scendeva
da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani di alcuni banditi, che gli portarono via tutto, lo
percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto» (Lc 10,30). In noi stessi abita un
uomo ferito e insanguinato, un uomo abbandonato e lasciato mezzo morto sul bordo della strada.
Guardiamolo più da vicino con maggior amore e prendiamo contatto con le sue ferite.
La ferita della paura, la paura del destino, del domani, di dover sottostare al potere di altri. La
paura di essere trascurato, emarginato, perdente. La paura della precarietà. La paura di non poggiare
su un terreno sicuro. La paura dell’abisso che spesso la vita spalanca davanti; una paura che può
risucchiare da un momento all’altro.
La ferita della solitudine, l’esperienza della solitudine. Quella sensazione, più o meno
desolante, che ci fa sentire fondamentalmente soli, pur vivendo immersi in una molteplicità di
relazioni e di rapporti.
La fatica della malattia, che ci pone in contatto con la precarietà del nostro corpo; ci dischiude
la dipendenza dagli altri; ci toglie quel poco o tanto di potere che crediamo di avere e vorremmo
esercitare.
La ferita dell’apatia. Un certo tono depresso, che rende scontenti e trascina verso un futuro
senza prospettive. A meno che non capiti un evento straordinario, l’apatia, il tirare avanti senza
infamia e senza lode, può diventare lo stile prevalente del nostro impegno personale, sociale,
ecclesiale.
Le ferite del passato, dell’origine, spesso non ancora digerite che possono alimentare la
sensazione di essere incompresi, scarsamente considerati e poco amati dagli altri.
Le ferite legate agli insuccessi personali, familiari, professionali connesse spesso a naufragi o
fallimenti.
La ferita dell’impotenza, quella sensazione, cioè, di non poter risanare le proprie ferite.
Di fronte all’uomo ferito, ospitato e avvertito nel cuore, ciascuno può assumere diversi
atteggiamenti. La parabola del samaritano ne indica fondamentalmente due: il comportamento del
sacerdote e del levita, che passano oltre e quello del samaritano, che mostra compassione verso
l’uomo incappato nei briganti.
L’atteggiamento del sacerdote e del levita – La presa di distanza dalle ferite
Il sacerdote e il levita vedono l’uomo percosso, ma non si fermano a soccorrerlo. Anche noi
possiamo avere lo stesso atteggiamento: sperimentiamo le ferite, ma passiamo oltre. Per paura di
affrontarle a viso aperto, tendiamo a emarginarle o, addirittura, a negarle. Siamo portati a fuggire
dinanzi al nostro dolore. Una fuga realizzata con diverse modalità.
Scappiamo, quando consideriamo la sofferenza un fenomeno a lato dell’esistenza, qualcosa che
non dovrebbe esserci e che è meglio riassorbire velocemente e in maniera il più inconsapevole
possibile. In questo modo, operiamo una sorta di anestesia psicologica; addomestichiamo le ferite, ma
non le curiamo.
Si può anche maturare la presunzione di essere invulnerabili. È la convinzione di essere forti
nonostante tutto. Sperimento la debolezza, il dolore, il peso della ferita, ma mi dico che con un poco
di preghiera tutto passerà. Oppure, tiro avanti con volontà ferrea e grande fatica pur di nascondere la
mia fragilità.
Ancora, è fuga idealizzare la ferita, magari attraverso la teologia della sofferenza. In questo
modo essa non viene elaborata, ma «sublimata». Mi dico che fa parte della mia sequela Christi, della
fecondità della mia fede… Ciò è certamente vero, ma il rischio di questa operazione è di passare oltre.
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Così, l’eccessiva esaltazione della sofferenza rischia di non farmi prendere in considerazione né le mie
ferite esistenziali né quelle dell’umanità né, tanto meno, quella di Gesù. Quanto più le idealizzo, tanto
più evito di affrontarle.
Infine, possiamo affondare in esse, rimanendone schiavi col lamento, che trasferisce su altri la
responsabilità di una condizione personale, una sorta di critica, quasi infinita, verso familiari, amici,
colleghi…
L’abbandono dell’uomo interiore sofferente ha ripercussioni sia sulla mia umanità che sulla
fede. Può indurre una visione crepuscolare dell’esistenza; un vivere accompagnato da un continuo e
persistente pessimismo capace di attraversare quasi ogni ambito della vita. Un pessimismo che può
risolversi in lamentosità, in critica, come pure, in timore verso se stessi e verso gli altri. L’animo
diviene esacerbato. Le parole perdono di energia e di convinzione. Lo sguardo si perde nel vuoto.
L’impegno può chiudersi in un’attesa indefinita o spasmodica di un evento straordinario capace di
mutare miracolisticamente il corso degli eventi.
Il «passare oltre» può indurre una ricerca mai sazia di affetto e di riconoscimento da parte degli
altri. Mi convinco sempre più che nessuno è capace di comprendere i miei sentimenti, la mia
situazione, la mia sorte.
Questo atteggiamento può spingere a un eccessivo confronto con gli altri: si continua a scoprire
in essi qualcosa che personalmente non si possiede. Ci si sente svantaggiati rispetto a loro. Un tale
confronto, poi, si risolve in autosvalutazione o supervalutazione: non sono capace di niente… sono
super in tutto, faccio tutto talmente bene che nessuno può starmi alla pari.
Afferma Martini: «Ho l’impressione che talora noi ci priviamo della forza che ci deriva
dall’entrare nelle sofferenze di Cristo proprio perché di fronte ad esse, tratteniamo il fiato, chiudiamo
gli occhi, andiamo avanti lo stesso, senza guardarle in faccia in particolare nella preghiera, nel
colloquio con Cristo. Così facendo, non le interiorizziamo e le prove (come le ferite) rimangono corpi
estranei, non vengono integrate nel nostro cammino e non possono perciò essere trasformate in
consolazione» (C.M. MARTINI, Paolo nel vivo del ministero, , Milano 1990, P. 18).
L’atteggiamento del samaritano – L’accoglienza delle ferite
Il samaritano della parabola, a differenza degli altri due, si accosta all’uomo ferito e
abbandonato mezzo morto ai bordi della strada. «Invece un samaritano, che era in viaggio,
passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi
olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno
seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui; ciò che spenderai in
più, te lo pagherò al mio ritorno» (Lc 10,33-35). La sua compassione è fatta di atteggiamenti peculiari:
vede l’uomo ferito, si fa vicino, fascia le sue ferite, le cura con olio e vino, lo prende con sé, lo porta
in un albergo, e poi paga per lui. In una parola: si prende cura di lui.
Non ha timore a prendere contatto con la ferita, non ha paura di contaminarsi, come il sacerdote
e il levita. La spiritualità della riconciliazione inizia quando ciascuno è disponibile a «toccare» quello
che immediatamente rifiuta di se stesso. Ciò è possibile perché in noi abita lo Spirito di Dio che geme
e soffre nel nostro cuore ferito. Spesso non sappiamo cosa chiedere al Padre, ma è lui che intercede
con gemiti inenarrabili, e il suo gemito è compreso dal Padre. Immersi in questa fiducia, che lo Spirito
Santo ci dona, possiamo farci guaritori di noi stessi.
Il «samaritano» è disposto a considerare le ferite come parte di se stesso, a riconciliarsi con esse
cominciando ad accettare questa semplice verità: la ferita che mi abita è parte di me. Essa è il luogo
dove l’impotenza mi avvolge, dove il dolore si mostra e si fa sentire; il luogo dove la tristezza mi
assale.
È aperto – quel samaritano – a fare spazio al dolore, spesso soffocato perché ritenuto
insopportabile e anche inutile; è capace di ospitarlo e ammorbidirlo con il pianto e l’olio della
compassione. Compassione che è patire-con le proprie ferite, farsi loro compagno e non solo averne
pietà. In questo modo la ferita si mostra come una feritoia. Il vangelo di Giovanni presenta Gesù sulla
croce come benedizione per l’umanità. Dal suo costato trafitto sgorgano sangue e acqua, immagini
dello Spirito Santo, che si effondono sull’umanità e la ricolmano della vita divina.
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COMUNITA’ CHE SI APRE AI PROBLEMI QUOTIDIANI
Secondo giorno, gruppo 2
da: Gianni Ambrosio, L’annuncio del Vangelo nel nostro tempo, in Parabole mediatiche. Fare
cultura nel tempo della comunicazione. Strumento in preparazione del convegno nazionale, CEI 2002
1. “Ci pare che compito assolutamente primario per la Chiesa, in un mondo che cambia e che cerca
ragioni per gioire e sperare, sia e resti sempre la comunicazione della fede, della vita in Cristo sotto la
guida dello Spirito, della perla preziosa del Vangelo”. La Chiesa esiste per evangelizzare. Non ha altra
missione: essa è chiamata ad annunciare ed a testimoniare il regno di Dio tra gli uomini. Il dono del
Vangelo, che è principio di vita nuova e di speranza, chiede di essere comunicato a tutti gli uomini e a
tutte le donne che cercano la pienezza della vita.
Occorre però riflettere sulle modalità attraverso le quali oggi si realizza la comunicazione di Cristo e
del suo Vangelo. L’annuncio della “buona novella” deve inevitabilmente confrontarsi con le speranze,
le sofferenze e le attese delle persone, con la trasformazione dei modelli culturali e di comportamento,
con i mutamenti della società civile.
Si comprende allora la portata della sfida legata all’azione evangelizzatrice della Chiesa: la verità del
Vangelo si manifesta – deve manifestarsi – nel vissuto e nell’ambiente culturale in cui l’uomo vive ed
opera. L’annuncio del Vangelo è rivolto alle persone. Ma l’annuncio è anche confronto con i modelli
culturali cui le persone si richiamano. Così è avvenuto nella storia del cristianesimo: la Chiesa ha
accolto le sfide che sono venute dalle culture e dalle trasformazioni culturali. Proprio nel dialogo
critico con le tendenze culturali, la Chiesa, in fedeltà al mandato missionario di Gesù Cristo, ha
manifestato la verità del Vangelo e il senso autentico della vita umana.
… Poiché la realtà culturale è mutata, oggi è necessario tenere presente, in primo piano, il carattere
radicale della sfida che per la Chiesa viene dalle questioni che si riferiscono alla vita e alla famiglia,
alle biotecnologie e alla bioetica come ai mutamenti del costume e delle legislazioni. La radicalità di
queste questioni è dovuta al fatto che gli indirizzi culturali tendono ad essere sempre più lontani da
un’antropologia e da un’etica che tengano davvero conto del carattere inviolabile dell’essere umano e
dell’indole specifica della famiglia, come società naturale fondata sul matrimonio…
È necessario, quindi, conoscere in profondità il contesto sociale e culturale in cui la missione della
Chiesa deve attuarsi: è il terreno in cui il seme della Parola viene seminato.
2. L’annuncio del Vangelo deve confrontarsi con il disagio e lo smarrimento causati dalla postmodernità, ma anche con le opportunità che stanno emergendo…
Dall’uomo artefice di se stesso, lanciato verso gli “impegni terreni” o verso le “attività professionali e
sociali”, per usare espressioni tipiche della Gaudium et Spes, si è passati in parecchi casi ad un uomo
ripiegato su di sé, succube, più che artefice, dell’evoluzione in atto. Il disagio della postmodernità e
l’incertezza sul futuro provocano in parecchi l’abbassamento delle aspettative di una realtà più vera ed
autentica, fino al radicale annullamento della tensione verso tali aspettative.
Un tempo, quando dominava il mito del progresso, quando le ideologie erano forti, le attese erano
molte e soprattutto determinate, sorrette da una viva speranza anche se spesso rivolta ai soli beni
terreni. Oggi, con il mito del progresso in parte infranto, con le ideologie scomparse, le attese si sono
ridotte di molto. Per alcuni, l’attesa è quasi sparita, fino ad accontentarsi di vivere alla giornata e di
godere dei risultati frammentati e provvisori. Per altri poi si arriva all’insidia del nulla: tutto è solo e
semplice accadimento, senza sostanza e senza verità; tutto ciò che viene alla ribalta, subito sprofonda
e si dissolve nel nulla. In questa luce, l’attesa della salvezza sembra essere fuori luogo, del tutto
anacronistica. La stessa speranza sembra senza senso, quando il soggetto è privo di memoria, quando
il linguaggio ‘umano’ risulta dissolto, quando la storia è vissuta come un’evoluzione anonima, vuota,
senza sorprese.
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3. La tensione stimolante dell’adventus cristiano deve confrontarsi anche con un atteggiamento che
accoglie l’incertezza della postmodernità senza viverla come indifferenza ma come opportunità per far
convivere insieme aspetti assai disparati e contrastanti. Da questo atteggiamento derivano
comportamenti ambivalenti: si può essere sensibili alla questione religiosa, si può anche attendere il
regno di Dio, ma si vive poi all’insegna di valori molto terreni che di fatto disattendono l’attesa del
Regno. Si può riconoscere che Dio, e non l’uomo, è il vero protagonista, ma poi si fa del mondo la
nostra proprietà, si fa dell’uomo il principio di spiegazione del mondo e di autoredenzione, si fa della
libertà un assoluto.
Ugualmente si può avvertire la sete di una spiritualità tendenzialmente aperta verso l’alto, ma poi si
seguono percorsi di conoscenza interiore e interiorizzante, di tranquillità solipsistica, fino ad
accontentarsi delle “vibrazioni” del proprio corpo o dei “suoni” dell’universo. L’attenzione esasperata
per il benessere psicofisico, i costosi metodi per lo sviluppo del “potenziale umano”, le diverse
“scuole di successo” sono lì a testimoniare la ricerca di una ‘spiritualità’ introversa.
4. È possibile intravedere un desiderio di salvezza in questo tempo di certezze solo provvisorie e
precarie? Come risvegliare l’attesa di salvezza e fare in modo che il Vangelo possa essere non solo
comunicato ma accolto come dono prezioso dagli uomini e dalle donne che sono alla ricerca di ragioni
per vivere? Per rispondere a questi due interrogativi, si può fare ricorso – come spunto iniziale – ad
un’espressione cara a Paolo VI, il colloqium salutis. È l’espressione centrale di quell’enciclica sempre
attuale, l’Ecclesiam suam. L’annuncio della salvezza non può prescindere dal dialogo, come stile,
come metodo, come proposta. La Chiesa è Mater et Magistra, ma per essere madre e maestra deve
essere anche sorella. In modo particolare oggi l’annuncio del Vangelo deve essere permeato di spirito
dialogico. L’invito ad accogliere – a “condividere” – il dono straordinario della salvezza passa
attraverso l’ascolto, attento e critico, delle attese e delle speranze umane.
… La Chiesa ha sempre camminato nella storia amando la compagnia degli uomini, intercettando le
loro profonde esigenze e mostrando quanto sia ricca di frutti la scelta di libertà dell’uomo che si apre a
Dio. La nostra Chiesa è ‘cattolica’: è mandata ad evangelizzare il mondo intero. Ma è ‘cattolica’ anche
in altro senso: è aperta alla storia umana perché sia storia di vita e di salvezza. La Chiesa cattolica ha
sempre rifiutato ogni drastica divisione tra la salvezza donata in Cristo Gesù e la storia umana. Anzi è
sempre stimolata a riconoscere che, in Gesù Cristo, la storia umana – così volubile, così incerta, così
problematica – è collegata al regno di Dio, dono gratuito e incomparabile, aperto a tutti, già presente
ed inaugurato nella storia come un seme che germoglierà nel futuro.
Il cristiano è chiamato a rendere ragione della propria speranza attraverso una permanente azione di
discernimento sulla realtà. Ci sono nelle comunità cristiane esperienze che aiutano i credenti
all’esercizio del discernimento spirituale? I cristiani sono aiutati a valutare criticamente i
comportamenti e la mentalità correnti? Vengono offerte occasioni di riflessione sui meccanismi
sociali ed economici, sui modelli culturali, sul funzionamento delle comunicazioni di massa, per
aiutare a valutare possibilità e rischi in rapporto all’annuncio e alla testimonianza cristiana?
Il credente deve essere in grado di percepire e valutare le sfide che le attuali trasformazioni sociali e
culturali pongono al suo impegno di testimone che intende contribuire al rinnovamento della società
e della cultura. Con quale consapevolezza e con quali atteggiamenti è vissuto il confronto culturale e
religioso? Quale apporto può dare il credente per una visione dell’uomo e per valori etici condivisi?
Che cosa apporta la speranza cristiana all’impegno di cittadinanza? Come l’impegno civile, nel
rispetto della sua specificità sociale e politica, può essere un modo della testimonianza cristiana?
Come evitare che l’interesse per le grandi questioni della cittadinanza del nostro tempo si riduca a
una questione di schieramento ideologico, stimolando invece forme di impegno significativo? Come
la Dottrina sociale della Chiesa può diventare un riferimento fecondo?
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LA RELAZIONE CONIUGALE
Secondo giorno, gruppo 3
dalla relazione di Rosanna Virgili all’incontro delle famiglie a Lucca nel marzo del 2007
L'essere umano secondo la Bibbia non è l'individuo
L'essere umano è la coppia sessuata che si pone di fronte a Dio. L'essere umano, potremmo dire,
sono tre persone: è una trinità. L'amore è sempre trinitario. La lingua perciò è, prima di tutto,
espressione del corpo dei due. Non ci vorrebbero le parole se non ci fosse una differenza tra maschio e
femmina: non ci sarebbe bisogno di creare quel canale di comunicazione.
Il corpo come comunicazione. La coppia ha un luogo ed un mezzo privilegiato per parlarsi, per
raggiungere l'intimità, per farsi visibilità dell'amore: il corpo. Il cantico è il vocabolario del corpo.
E nello stesso tempo è il vocabolario della storia della salvezza: se andaste a fare una ricerca
testuale, potreste ritrovare nel cantico tutte le parole dell'amore di Dio per il suo popolo.
La metafora più usata dai profeti per parlare della relazione di Dio con l'umanità, della alleanza
fra Dio e il suo popolo, è la relazione fra uomo e donna, fra sposo e sposa.
II coraggio dell'abbandono fiducioso all'altro
E' nel letto del nostro incontro il luogo dell' "io" che si fa "noi" per sempre. L'io del corpo non è
"single", non basta a sé stesso, ma è il sogno, è rincorsa di un altro, è sussurrare "aprimi", è togliersi la
veste, lavarsi i piedi con i riccioli bagnati di gocce di rugiada, è fame e sazietà, è digiuno e cibo
insieme: sempre. L'incontro non sarà mai solo sazietà: sarà anche e sempre digiuno. E' esporsi, è
rischio, inermità: il rapporto sessuale è il momento più inerme che noi viviamo. Allorquando il corpo,
il tuo corpo, il nostro corpo rivela il suo bisogno profondo e tenero di amore, mostra "l'infanzia" di se
stesso come il corpo del neonato e del morente.
Gioia dei sensi
Nel incontro, nell'estasi, c'è gioia assoluta dei sensi: dell'udito per la voce ("Una voce, il mio
diletto... "), della vista dell'amata per la bellezza , dell'odorato per gli aromi, del gusto (ci sta una festa
"a luci rosse": "le tue labbra stillano mele vergini, c'è miele e latte sotto la tua lingua" (Ct. 4,11) dice il
cantico "mangio il mio favo, il mio miele, bevo il mio vino, il mio latte " (Ct. 5,1). Quattro ne ho citati
dì sensi: paradossalmente il senso meno coinvolto è il tatto. Dico paradossalmente perché i nostri
ragazzi sembra che cerchino solo di toccare! In un eros così forte, in un amore così vero e profondo, si
ha poco bisogno di tatto. Il coinvolgimento totale dei sensi produce un autentico stato di ebbrezza fino
a stordirci, un irrinunciabile, ineffabile piacere, una inquietudine quasi divina.
Nudità e Pudore
La nudità nell'amplesso del cantico porta sempre il velo del pudore: è talmente pura che non può
non portare il vero del pudore. E' talmente assoluta, è talmente forte.
E' un momento sacro: pensate a Gesù sulla Croce perché non c'è novità che non porti con sé una
distanza: "Come spicchio di melagrana la tua gota attraverso il tuo velo " (Ct. 6,7).
C'è una novità che è solitudine e violenza: è quando il corpo è esposto come una mera carcassa,
magari esteticamente perfetta secondo certi canoni del tutto discutibili, ma morta, privata della dignità
di uno sguardo, di una vergine comunione, della corrispondenza dell'anima.
Come possiamo lasciare i nostri corpi senza l'anima, e c'è la nudità di un corpo che è sempre di
corrispondenza assoluta, che è purezza di attesa intensa, fortissima dell'altro, dove non ci si accorge
neppure di essere in due, tanto trasparenti e leggere ha reso l'ardore le membra dei due amanti.
Dal possesso all'incontro
Pur presentando il corpo come luogo dell'incarnazione amorosa, pertanto culla e custode della
vita, il Cantico è un complesso di stilizzazioni. L'incontro amoroso rimane infatti sempre anche attesa,
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fino a ottant'anni, sempre: primavera di promesse, rito preparatorio, tensione, rincorsa. Nella vita
dell'autentíca sessualità c'è una verginità strutturale perché, diceva Olivier Clement "non si possiedono
che cadaveri ": l'amore mio non ha possesso. L'amore dell'incontro'' dice Guido Ceronetti, un autore
che ha tradotto il Cantico molto bene - "è vuoto come il Santo dei Santi, il tabernacolo degli Ebrei,
dove dentro non c'è niente perché se si facessero un'idea di Dio o se chiunque di noi si facesse un'idea
di Dio, si sarebbe creato un idolo e l'uomo potrebbe manipolarlo. Ma l'amore, come Dio, non si può
manipolare. "
Questa è la castità della vita sponsale: tu ti accosti all'altro ed il suo incontro con lui è sublime,
ma mai l'altro è tuo. Rimane sempre questa promessa: la presenza di lui e di lei si introduce sin dalla
prima pagina con l'avvento della voce. L'altro per te sarà sempre una voce che risveglia tutto il tuo
corpo, che ti chiama ad alzarti, a camminare, a correre; ma il tocco dell'altro dura un secondo: "Ha
messo la mano nello spiraglio, sono quasi svenuta.... mi sono voltata non c'era più" (Ct. 5,4). L'amore
è questo, il corpo è questo. Ma proprio per questo è la finestra sull'infinito, è la finestra su Dio, sui
mistero.
L’amore biblico è relazione
"Senza il mantenimento di una distanza" - dice Emanuel Levinas -"l'amore sarebbe muto, il
linguaggio si estinguerebbe". L'amore biblico è relazione, dunque l'esperienza di una distanza
irriducibile perché per poter essere in relazione bisogna essere due: se noi diventiamo uno, se ci
spengiamo l'uno nell'altro, non ci sarà più amore, non ci sarà più incontro, non ci saranno più parole,
non ci sarà più relazione. Bisogna avere il coraggio di sostenere una "solitudine": l'amore di coppia
non esclude la solitudine, anzi c'è bisogno di saper reggere la solitudine, altrimenti non si può
diventare coppia, non si può mai essere coppia. Tutto ciò poi è vero anche nelle cose più semplici
della vita, più quotidiane. Continua Levinas, "è poi proprio grazie a questo scarto che può dispiegarsi
la parola che esprime la meraviglia ed il giubilo." Così all'interno del più grande fervore amoroso
l'altro sussiste come altro, non è mai una cosa mia. Altrimenti io oggi sento per lui chissà quale ardore,
lo sfrutto e domani, che non mi serve più, lo butto.
Qui c'è moltissimo da riflettere: la relazione non neutralizza l'alterità. La relazione è la gioia di
stare con l'altro, sapendo che egli rimane altro, diverso da me, diverso da come io lo vorrei. E' questa
tensione fra diversi, che mantiene vivo e fecondo l'amore. Solo con la fatica della ricerca si trova (e si
ripete, rinnovandosi' la gioia dell'incontro con l'altro.
Oltre il corpo
Il cristiano, qui nella storia e nella vita, è chiamato ad anticipare, quello che con una parola un
po' difficile è detta "eskaton", ad uscire cioè fuori dalla storia: il corpo chiede qualcosa che da solo
non può raggiungere. La persona amata non la conosco mai fino in fondo: essa non è una pietra
immobile, ma è continuamente plasmata dall'azione della grazia e della sua libertà. Non posso sapere
ciò che questa persona sta diventando, quale volto avrà al termine dei suoi giorni, quando essa
finalmente si presenterà davanti allo Sposo. Quale sarà la persona della fine, quella persona che
ascolterà la voce benedetta dell'amato e che al rumore del moto del suo passo si fonderà nel gusto
istintivo di dire "Eccomi"? Eccomi è la parola che cela il mistero dell'eros e dell'amore e insieme della
creatura che è lo stesso mistero: è la parola di Maria alla visita di Dio, atto sponsale perché nascerà
Gesù restando incinta.
"L'amore vero, tu lo sai, è volere la gioia di chi non ci appartiene: è questo uscire, traboccare
da sé stessi, come il sangue dalle vene per un taglio: è l'irrinunciabile, eterno bene ".
Alcuni spunti per la riflessione personale
• L'essere umano, secondo la Bibbia, non è l'individuo; l'essere umano è la coppia sessuata che
poi si trova di fronte a Dio: l'essere umano è trinitario.
• La sessualità è un modo di vivere che ci pone in relazione con noi stessi, con Dio, con l'altro,
coi mondo: rivendicare a noi stessi il diritto di essere esseri umani, non macchine.
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• Ci si deve preparare non solo per accogliere l'altro nel miglior modo possibile, ma anche per
curare il meglio di se. Prepararsi verso l'incontro con l'altro vuol dire essere ostetrici e
ostetriche di se stessi del proprio tesoro, della propria bellezza, di quanto di più prezioso ci sia
dentro di noi, che è il nostro essere per l'altro.
• L'attesa operosa, attiva è una sorta di igiene materiale fisica e spirituale, una disciplina del
corpo e del cuore in cui le persone esprimono il convergere dell'anima in una visione di
bellezza, della bellezza della comunione.
• L'incontro non sarà mai solo sazietà, ma digiuno e cibo insieme. L'incontro è esporsi, è rischio,
in ogni età. Nell'incontro sessuale si è inermi, il corpo rivela il suo bisogno enorme di amore.
Se fatto con piena consapevolezza l'incontro sessuale è un estremo atto di coraggio: potrebbe
farci morire l'altro, come può farci vivere.
INTENDERSI TRA GENERAZIONI, EDUCARE
Secondo giorno, gruppo 4
Dalla lettera di Benedetto XVI alla città di Roma sull’educazione del 21.01.2008
Cari fedeli di Roma,
ho pensato di rivolgermi a voi con questa lettera per parlarvi di un problema che voi stessi
sentite e sul quale le varie componenti della nostra Chiesa si stanno impegnando: il problema
dell'educazione. Abbiamo tutti a cuore il bene delle persone che amiamo, in particolare dei nostri
bambini, adolescenti e giovani. Sappiamo infatti che da loro dipende il futuro di questa nostra città.
Non possiamo dunque non essere solleciti per la formazione delle nuove generazioni, per la loro
capacità di orientarsi nella vita e di discernere il bene dal male, per la loro salute non soltanto fisica
ma anche morale.
Educare però non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno bene
i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla
perciò di una grande "emergenza educativa", confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno
incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso
alla propria vita. Viene spontaneo, allora, incolpare le nuove generazioni, come se i bambini che
nascono oggi fossero diversi da quelli che nascevano nel passato. Si parla inoltre di una "frattura fra le
generazioni", che certamente esiste e pesa, ma che è l'effetto, piuttosto che la causa, della mancata
trasmissione di certezze e di valori.
Dobbiamo dunque dare la colpa agli adulti di oggi, che non sarebbero più capaci di educare? E'
forte certamente, sia tra i genitori che tra gli insegnanti e in genere tra gli educatori, la tentazione di
rinunciare, e ancor prima il rischio di non comprendere nemmeno quale sia il loro ruolo, o meglio la
missione ad essi affidata. In realtà, sono in questione non soltanto le responsabilità personali degli
adulti o dei giovani, che pur esistono e non devono essere nascoste, ma anche un'atmosfera diffusa,
una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del
significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Diventa difficile,
allora, trasmettere da una generazione all'altra qualcosa di valido e di certo, regole di comportamento,
obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita.
Cari fratelli e sorelle di Roma, a questo punto vorrei dirvi una parola molto semplice: Non
temete! Tutte queste difficoltà, infatti, non sono insormontabili. Sono piuttosto, per così dire, il
rovescio della medaglia di quel dono grande e prezioso che è la nostra libertà, con la responsabilità
che giustamente l'accompagna. A differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i
progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell'ambito della formazione e della crescita
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morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell'uomo è
sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio,
le sue decisioni. Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati,
vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale.
Quando però sono scosse le fondamenta e vengono a mancare le certezze essenziali, il bisogno
di quei valori torna a farsi sentire in modo impellente: così, in concreto, aumenta oggi la domanda di
un'educazione che sia davvero tale. La chiedono i genitori, preoccupati e spesso angosciati per il
futuro dei propri figli; la chiedono tanti insegnanti, che vivono la triste esperienza del degrado delle
loro scuole; la chiede la società nel suo complesso, che vede messe in dubbio le basi stesse della
convivenza; la chiedono nel loro intimo gli stessi ragazzi e giovani, che non vogliono essere lasciati
soli di fronte alle sfide della vita. Chi crede in Gesù Cristo ha poi un ulteriore e più forte motivo per
non avere paura: sa infatti che Dio non ci abbandona, che il suo amore ci raggiunge là dove siamo e
così come siamo, con le nostre miserie e debolezze, per offrirci una nuova possibilità di bene.
Cari fratelli e sorelle, per rendere più concrete queste mie riflessioni, può essere utile individuare
alcune esigenze comuni di un'autentica educazione. Essa ha bisogno anzitutto di quella vicinanza e di
quella fiducia che nascono dall'amore: penso a quella prima e fondamentale esperienza dell'amore che
i bambini fanno, o almeno dovrebbero fare, con i loro genitori. Ma ogni vero educatore sa che per
educare deve donare qualcosa di se stesso e che soltanto così può aiutare i suoi allievi a superare gli
egoismi e a diventare a loro volta capaci di autentico amore.
….. Vorrei infine proporvi un pensiero che ho sviluppato nella recente Lettera enciclica Spe
salvi sulla speranza cristiana: anima dell'educazione, come dell'intera vita, può essere solo una
speranza affidabile. Oggi la nostra speranza è insidiata da molte parti e rischiamo di ridiventare anche
noi, come gli antichi pagani, uomini "senza speranza e senza Dio in questo mondo", come scriveva
l'apostolo Paolo ai cristiani di Efeso (Ef 2,12). Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per
una vera opera educativa: alla radice della crisi dell'educazione c'è infatti una crisi di fiducia nella vita.
Non posso dunque terminare questa lettera senza un caldo invito a porre in Dio la nostra
speranza. Solo Lui è la speranza che resiste a tutte le delusioni; solo il suo amore non può essere
distrutto dalla morte; solo la sua giustizia e la sua misericordia possono risanare le ingiustizie e
ricompensare le sofferenze subite. La speranza che si rivolge a Dio non è mai speranza solo per me, è
sempre anche speranza per gli altri: non ci isola, ma ci rende solidali nel bene, ci stimola ad educarci
reciprocamente alla verità e all'amore.
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