l`umanesimo latino in ungheria

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l`umanesimo latino in ungheria
FONDAZIONE CASSAMARCA
Convegno Internazionale di Studi
Piazza S. Leonardo, 1 - 31100 Treviso
e-mail: [email protected]
L’UMANESIMO LATINO IN UNGHERIA
L’UMANESIMO LATINO
IN UNGHERIA
Istituto Italiano di Cultura, Budapest
18 aprile 2005
Convegno Internazionale di Studi
L’UMANESIMO LATINO
IN UNGHERIA
Budapest, Istituto Italiano di Cultura
18 aprile 2005
Atti del Convegno Internazionale di Studi
“L’Umanesimo Latino in Ungheria”
Budapest, 18 aprile 2005
a cura di
Adriano Papo e Gizella Nemeth Papo
Il Convegno è stato organizzato da
Fondazione Cassamarca di Treviso
Istituto Italiano di Cultura di Budapest
Associazione Culturale Italoungherese
del Friuli Venezia Giulia
“Pier Paolo Vergerio”
EFASCE, Ente Friulano Assistenza Sociale e Culturale
Emigrati, Pordenone
con la collaborazione di
Istituto di Studi Letterari dell’Accademia Ungherese delle
Scienze, Sezione di Studi del Rinascimento, Budapest
“Hungaria Latina”, Societas Neolatina Hungariae, Debrecen
Indice
Pag.
7
Pag.
13
Presentazione
Indirizzo di saluto
PROF. ARNALDO DANTE MARIANACCI
Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Budapest
Pag.
15
Discorso di apertura
AVV. ON. DINO DE POLI
Presidente della Fondazione Cassamarca di Treviso
Pag.
17
Indirizzo di saluto
S.E. DOTT. PAOLO GUIDO SPINELLI
Ambasciatore della Repubblica Italiana a Budapest
Pag.
19
Prolusione
PROF. JÓZSEF JANKOVICS
Vicedirettore della Sezione di Studi del Rinascimento
dell’Istituto di Studi Letterari dell’Accademia
Ungherese delle Scienze
Pag.
21
L’Umanesimo in Ungheria: il periodo degli esordi
ADRIANO PAPO
Associazione Culturale “Pier Paolo Vergerio”
(Duino Aurisina, Trieste)
Pag.
45
Alcuni rapporti personali di Pier Paolo Vergerio
in Ungheria
KLÁRA PAJORIN
Istituto di Studi Letterari dell’Accademia Ungherese
delle Scienze (Budapest)
Pag.
53
Janus Pannonius e papa Paolo II
ÁGNES RITOÓK SZALAY
Istituto di Studi Letterari dell’Accademia Ungherese
delle Scienze (Budapest)
Pag.
61
Letture e biblioteche nel Quattrocento in Ungheria
GYÖRGY DOMOKOS
Università Cattolica “Pázmány Péter” (Piliscsaba)
Pag.
77
La metafora ‘medicus-Medici’
nel De doctrina promiscua di Galeotto Marzio
ENIKő BÉKÉS
Istituto di Studi Letterari dell’Accademia Ungherese
delle Scienze (Budapest)
5
Pag.
89
Plauto in Ungheria. La commedia latina e
la corte principesca magiara
ISTVÁN PUSKÁS
Università di Debrecen
Pag.
99
Antropomorfismo nel De Architectura
di Filarete-Bonfini
ISTVÁN DÁVID LÁZÁR
Università di Szeged
Pag. 105
La Historia Annae Kendi: poesia e didassi
AMEDEO DI FRANCESCO
Università di Napoli “L’Orientale”
Pag. 121
Antonio Veranzio e le sue opere storiografiche
JÓZSEF BESSENYEI
Università di Miskolc
Pag. 129
Il Florus Hungaricus. La posizione dell’Ungheria
in Europa e la coscienza nazionale protestante
nel secolo XVII
LÁSZLÓ HAVAS
Università di Debrecen
Pag. 149
Fasti Hungarie, il poema elegiaco di Ferenc Kazy ossia un’eccellente opera neolatina
della poesia ungherese del XVIII secolo
LÁSZLÓ SZÖRÉNYI
Istituto di Studi Letterari dell’Accademia Ungherese
delle Scienze (Budapest)
Pag. 163
La vita religiosa nelle Confessioni
di Francesco II Rákóczi
BÉLA KÖPECZI
Accademia Ungherese delle Scienze (Budapest)
6
I CURATORI
Presentazione
Il volume raccoglie gli atti del Convegno Internazionale di
Studi L’Umanesimo Latino in Ungheria, che l’Istituto Italiano
di Cultura di Budapest ha ospitato il 18 aprile 2005. Il
Convegno, promosso dalla Fondazione Cassamarca di
Treviso, è stato organizzato dall’Associazione Culturale
Italoungherese del Friuli Venezia Giulia “Pier Paolo Vergerio”
in collaborazione con l’EFASCE di Pordenone, con l’Istituto
Italiano di Cultura di Budapest, con l’Istituto di Studi Letterari
dell’Accademia Ungherese delle Scienze (Sezione di Studi
del Rinascimento) e con la Società Neolatina d’Ungheria,
Societas “Hungaria Latina”.
Il Convegno è il XXXV di una serie d’iniziative promosse
dalla Fondazione Cassamarca al fine di valutare l’influenza
esercitata dall’umanesimo sulle culture di vari paesi del
mondo. Esso è stato preceduto da convegni, incentrati sullo
stesso tema, che si sono svolti in quest’ultimi anni in altri paesi
del Centroeuropa: Polonia, Ucraina e Romania, e sarà seguito
da iniziative analoghe che saranno prossimamente ospitate
dalla Repubblica di Moldavia, dall’Austria e dalla Slovacchia.
Nel corso d’una intensa giornata di studi sono stati trattati temi molteplici e interessanti, che hanno spaziato dai primordi dell’umanesimo in Ungheria al XVIII secolo avanzato.
Negli interventi d’apertura, insieme con gli indirizzi di saluto
al vasto e competente pubblico presente in sala, il Direttore
dell’Istituto Italiano, prof. Arnaldo Dante Marianacci, ha ribadito l’importanza della storia e della cultura per la “costruzione” dell’Europa, il Presidente della Fondazione Cassamarca,
on. avv. Dino De Poli, ha sottolineato come con l’allargamento dell’Europa ad est si assista a un “reincontro” della
cultura latina e di quella greco-ortodossa, mentre
l’Ambasciatore d’Italia in Ungheria, S.E. dott. Paolo Guido
Spinelli, si è compiaciuto che questo convegno sia stato realizzato proprio a Budapest, crocevia di culture di primo piano
nella storia della nuova Europa e capitale di un’Ungheria che
proprio grazie all’umanesimo ha consolidato il suo amore
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verso l’Italia. Infine, il Direttore della Sezione di Studi del
Rinascimento dell’Istituto di Studi Letterari dell’Accademia
Ungherese delle Scienze, prof. József Jankovics, ha auspicato, nella sua prolusione, che l’antica strata Hungarorum
del Friuli, un tempo percorsa dagli eserciti, sia oggi luogo di
scambi culturali.
I lavori del Convegno sono iniziati, sotto la presidenza del
prof. László Szörényi, con la relazione di Adriano Papo
(L’umanesimo in Ungheria: il periodo degli esordi), che ha
tracciato un profilo storico introduttivo del primo umanesimo
magiaro, soffermandosi su alcune figure di umanisti
(Giovanni Conversino da Ravenna e Lorenzo de Monacis)
che hanno contribuito all’avviamento dell’umanesimo in
Ungheria e sui fitti rapporti e intensi scambi culturali tra Italia
e Ungheria che hanno invece contrassegnato il regno di
Sigismondo di Lussemburgo, allorché insigni eruditi e umanisti italiani, come a esempio Pier Paolo Vergerio, soggiornarono o addirittura si trasferirono a vivere nel paese carpatodanubiano.
E di Pier Paolo Vergerio si è occupata Klára Pajorin nel
suo intervento su Alcuni rapporti personali di Pier Paolo
Vergerio in Ungheria. La relatrice ha posto l’accento sulla vita
notoriamente solitaria del Vergerio in terra magiara, messa in
luce dalla scarsità delle sue lettere del periodo budense,
anche se le numerose persone convenute nella casa del
Vergerio la notte della deposizione del suo testamento, persone assai diverse per nazione, lingua materna, professione
e posizione sociale, lasciano intendere che l’umanista capodistriano doveva possedere un’ampia cerchia di amici: intellettuali, artisti, ma anche semplici cittadini di Buda, anziché
condurre una vita ritirata da eremita.
Ágnes Ritoók Szalay ha ricordato nella sua comunicazione, Janus Pannonius e papa Paolo II, l’incontro avvenuto tra
Giano Pannonio e il papa Paolo II nel maggio del 1465 e gli
epigrammi dell’ecclesiastico e umanista ungherese che si
riferiscono al suo soggiorno romano e ad alcune ‘curiose’
abitudini del papa. In uno di questi epigrammi Giano
Pannonio fa riferimento a una nuova bolla che Paolo II aveva
fatto coniare facendo incidere sulle sue facce scene e figure
diverse da quelle tradizionalmente rappresentate.
Nel Quattrocento – veniamo informati dall’interessante
relazione di György Domokos, Letture e biblioteche nel
Quattrocento in Ungheria – sorsero nel paese carpaticodanubiano le prime vere e proprie biblioteche (capitolari,
parrocchiali e conventuali), che erano per lo più legate a isti8
tuzioni e personaggi ecclesiastici e che contenevano soprattutto libri di liturgia e opere canoniche, meno frequentemente opere di tematica teologica. Domokos ha messo altresì in
evidenza la svolta impressa alla diffusione del libro in
Ungheria dall’umanesimo, che favorì la nascita, sul modello
di quelle italiane, delle prime biblioteche laiche e principesche, come la prestigiosa Biblioteca Corviniana, costituita da
2000-2500 volumi rappresentanti il fior fiore della scienza
dell’epoca.
L’intervento di Enikő Békés ha illustrato la storia della
metafora ‘medicus-Medici’ e ha studiato la collocazione dell’opera di Galeotto Marzio De doctrina promiscua, dedicata
a Lorenzo il Magnifico, nello specifico contesto che all’epoca s’era creato intorno a questo motivo. Il De doctrina promiscua è un trattato di stampo enciclopedico, nel quale l’autore illustra in trentanove capitoli le sue idee sulla medicina,
sulla farmacologia e sull’astrologia. La presunta parentela –
ha fatto notare la ricercatrice ungherese – tra la parola medicus e il nome della famosa casata fiorentina è uno dei motivi più frequenti nell’autorappresentazione dei Medici, i quali
hanno sempre ‘medicato’ con i rimedi più appropriati i problemi dei singoli cittadini e dell’intera società.
István Puskás si è occupato nella sua relazione, Plauto in
Ungheria, delle origini della cultura cortese in Ungheria e
della riscoperta del teatro, che va ascritta a grande merito
delle corti principesche italiane. Alla rinascita del teatro nel
Quattrocento si può altresì associare la fortuna di Plauto in
Ungheria, anche se il commediografo latino, approdato in
questo paese negli anni Sessanta del XV secolo, rimase a
lungo confinato nelle biblioteche prima di riacquistare l’onore del palcoscenico e della rappresentazione teatrale.
István Dávid Lázár ha trattato il tema dell’Antropomorfismo nel De architectura di Filarete-Bonfini, l’opera che, scritta da Filarete in volgare, fu tradotta da Bonfini in latino. La
versione originale in volgare, anziché diffondersi anche tra gli
strati meno colti della popolazione com’era nelle intenzioni
dell’autore, attirò l’ira e le critiche dei contemporanei, tra cui
quella del Vasari che la definì «il libro più ridicolo e stupido
che sia stato mai scritto». La traduzione del Bonfini fu invece oggetto di ammirazione e fu letta in varie parti d’Europa.
Prendendo come modello Vitruvio, Filarete andò oltre il suo
maestro analizzando le somiglianze tra l’uomo e gli edifici
non solo in conformità alle misure e alle proporzioni ma
anche alle funzioni e ai momenti dell’esistenza dell’organismo umano.
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Con la comunicazione La Historia Annae Kendi: poesia e
didassi, Amedeo Di Francesco ci ha introdotti nel mondo
poetico dell’interpolazione narrativa collocata nel VI libro
della Ruina Pannonica (1562-1584) – il poema epico di
Christianus Schesaeus (1535-1585) che in dodici libri narra
le convulse vicende politiche successive alla disfatta di
Mohács. La Historia Annae Kendi è il primo esempio nella
letteratura ungherese di una tendenza narrativa strettamente
connessa con l’intento didascalico e rappresenta un modello narrativo che si diffonderà ampiamente nel mondo delle
successive széphistóriák (belle istorie) in lingua ungherese.
Nel pomeriggio i lavori sono proseguiti sotto la presidenza del prof. Amedeo Di Francesco. József Bessenyei si è soffermato su alcuni frammenti pervenutici di una grande opera
storiografica progettata dall’umanista di Sebenico Antonio
Veranzio, che a causa della sua militanza nel partito del re
d’Ungheria Giovanni Zápolya, antagonista di Ferdinando
d’Asburgo, fu per molti secoli relegato tra le quinte e mai
considerato tra i grandi storiografi della sua epoca.
Quest’importante opera storiografica del Veranzio, per la
quale era stata raccolta dall’autore una gran quantità di
materiale documentario, sarebbe dovuta essere la continuazione della storia del Bonfini. Dall’esegesi dei frammenti
rimastici si evince la concezione che l’umanista dalmata
aveva della storia, intesa come strumento per risolvere i problemi contemporanei mediante l’esame dei fatti accaduti nel
passato.
Sándor Bene ha analizzato nel suo intervento sui Miti
nazionali e modelli internazionali: la storiografia rinascimentale in Ungheria la ricezione in Ungheria e in Transilvania del
dibattito storiografico cinque-seicentesco sui rapporti tra
storia e poesia, tra storia e filosofia morale, sul problema
dello stile, ecc. e ha tracciato un quadro esauriente di quelle opere storiografiche nelle quali è possibile rintracciare
alcune riflessioni teoriche di natura storiografica. Ci si rammarica che questo volume non abbia potuto ospitare il testo
di questa interessante relazione.
László Havas ha illustrato il Florus Hungaricus di János
Nadányi, uscito ad Amsterdam nel 1663 sulla scia della pubblicazione d’una serie di epitomi sulla storia dei vari popoli
d’Europa, prendendo lo spunto dalla traduzione francese di
Floro cui era stata aggiunta la storia di Roma da Augusto a
Costantino. Questa tendenza comprova la riscoperta nell’epoca del Rinascimento e del Barocco del modello storiografico romano e la nascita delle storiografie nazionali, di cui fu
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portavoce in Ungheria l’italiano Antonio Bonfini. Il Florus
Hungaricus è anche una dimostrazione del nuovo interesse
sorto in tutta Europa nei confronti dell’Ungheria nella seconda metà del XVII secolo.
Presentando la comunicazione dal titolo “Fasti
Hungarie”, il poema elegiaco di Ferenc Kazy – ossia un’eccellente opera neolatina della poesia ungherese del XVIII
secolo, László Szörényi ci ha condotti fino al Settecento inoltrato. L’autore dei Fasti, lo storico e poeta Ferenc Kazy, ha
applicato il titolo, mutuato da Ovidio, all’intera storia
dell’Ungheria, facendo corrispondere i diciassette canti di
cui si compone il carme al numero dei secoli che intercorrono dalla nascita di Cristo alla sua epoca.
Questa ampia ma puntuale panoramica sull’umanesimo
latino si è conclusa con un contributo dell’accademico
d’Ungheria Béla Köpeczi sulle Confessioni, che il principe
Francesco Rákóczi II scrisse dal 1716 al 1720 a Grosbois,
presso Parigi, e durante il suo esilio in Turchia. Béla Köpeczi
ha individuato tre tappe fondamentali nella vita religiosa del
grande protagonista della guerra d’indipendenza ungherese
del 1703-1711: 1) l’influsso dei francescani e dei gesuiti, 2)
quello del neostoicismo, 3) l’influenza del giansenismo. Il
relatore ha approfondito la biografia del principe Rákóczi in
questi tre distinti periodi della sua vita e in particolare nel
terzo periodo, da lui vissuto sotto l’influenza dei Camaldolesi
di Grosbois.
Alla fine di questa giornata di studio, intensa e proficua,
che ha messo in luce altri importanti e fascinosi aspetti dell’umanesimo latino in Ungheria, i quali ci hanno anche offerto un’ulteriore occasione per valorizzare e rafforzare i legami
storici e culturali tra i nostri due Paesi, un concerto di musica antica, eseguito dal gruppo “Concentus Consort” di
Budapest, ha riportato virtualmente indietro nel tempo il
numeroso pubblico presente in sala, allietandolo con la suggestione di delicate melodie rinascimentali.
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PROF. ARNALDO DANTE MARIANACCI
Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura
di Budapest
Sono particolarmente lieto che il nostro Istituto possa
ospitare questo importante convegno su “L’Umanesimo
Latino in Ungheria”, in modo particolare oggi che l’Ungheria
è appena entrata nell’Unione Europea. Come ha detto il
grande storico francese Jacques Le Goff «L’Europa si
costruisce», e per costruirla è necessario che se ne conoscano la storia e la cultura: “l’Europa senza storia e senza
cultura non è un’Europa forte”. Consapevoli di ciò, noi rivolgiamo i nostri sforzi maggiori verso una direzione fondamentale: quella appunto di ricostruire la storia dei rapporti culturali tra i Paesi europei e in particolare, nel nostro caso specifico, la storia dei rapporti culturali tra Italia e Ungheria. E
quale momento migliore di questi rapporti se non l’umanesimo latino, l’umanesimo che tra i Paesi europei è giunto per
primo in Ungheria. Esso rappresenta dunque un aspetto
focale di grande interesse e attualità per meglio conoscere la
storia dei rapporti culturali tra i nostri due Paesi. In tale ottica si inquadra anche il convegno che noi oggi ospitiamo.
Ringrazio vivamente l’on. avv. Dino De Poli, la Fondazione
Cassamarca e tutte le Associazioni che hanno collaborato
alla sua organizzazione. Siamo grati a coloro che hanno lavorato per la riuscita di questa iniziativa, di cui rimarranno gli
atti che ci aiuteranno a meglio meditare sulla nostra storia.
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AVV. ON. DINO DE POLI
Presidente della Fondazione Cassamarca
Treviso
Sono onorato della presenza del Signor Ambasciatore,
segno concreto della presenza italiana, e sono grato a quanti tra voi hanno collaborato alla nascita di questo convegno.
Stiamo intensificando, come Fondazione Cassamarca, i
nostri convegni in Europa per un motivo storico: l’Europa
non è solo l’Europa latina, l’Europa cattolica, ma in essa va
indicata anche la presenza greco-ortodossa; assistiamo
quindi a un reincontro tra l’Impero Romano d’Occidente e
l’Impero Romano d’Oriente.
Oggi, dopo l’ingresso nell’Unione Europea dell’Ungheria
e degli altri Paesi dell’Europa Centrale, si segnala anche l’avvicinarsi della presenza turca. La Turchia aspira non più a
conquistare l’Europa, ma a farvi parte. Noi sentiamo, oggi,
quanti motivi storici e culturali si intrecciano in questo ‘reincontro’. Ecco il motivo che ci ha spinti a questa iniziativa.
Stiamo preparando un analogo convegno anche a Vienna e
in seguito a Praga e in Slovacchia. Neanche un mese fa
abbiamo concluso un convegno a Macao, per testimoniare
l’attenzione della Cina verso questi fenomeni culturali. A
Macao, ex colonia portoghese, abbiamo riscontrato un interesse straordinario verso il mondo latino. Un altro convegno
lo abbiamo fatto a Leopoli, dove mi hanno consegnato in
omaggio un vocabolario ucraino-latino.
Ecco, il latino non è solo una lingua – ma diventa anche
una forma di pensiero valida anche oggi: quando si va alla
ricerca di qualche sintesi storica efficace si trova la frase latina che la esprime con l’essenzialità di questa lingua. È molto
importante quindi essere qui, a Budapest, crocevia di primo
piano della nuova storia d’Europa, nella quale l’Ungheria
svolgerà senz’altro un ruolo significativo. Questo convegno
deve insegnare che l’Europa non va alla ricerca dell’egemonia, non va alla ricerca di chi comanda, ma di chi convive, di
chi si incontra con gli altri.
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S.E. DOTT. PAOLO GUIDO SPINELLI
Ambasciatore della Repubblica Italiana
a Budapest
Vorrei esprimere tutta la gioia e la soddisfazione di vedere questo convegno realizzato qui, a Budapest, nell’Istituto di
Cultura.
Come ha detto l’on. De Poli, Budapest è crocevia di cultura e l’Istituto di Cultura vuole avere un ruolo sempre più
centrale in questo tipo di studi, di riflessioni, di incontri. Io
non voglio dilungarmi molto perché insigni studiosi parleranno con maggiore competenza di me sull’umanesimo latino in
Ungheria, ma vorrei dire una cosa sostanzialmente: l’eredità
dell’umanesimo latino è importante, perché si registra quest’aspirazione ungherese a identificarsi sempre di più con
l’Europa, forse potremo dire con l’Occidente. L’Ungheria è
un Paese che, come tutti sappiamo, partecipa a più esperienze storiche; è un Paese che è stato traghetto tra il mondo
occidentale e quello orientale. L’umanesmo latino, con le sue
eredità, ha senza dubbio contribuito ad ancorare sempre di
più l’Ungheria all’Europa, l’Europa nella quale il 1° maggio
2004 è rientrata per farvi parte, l’Europa politica ovviamente,
perché dell’Europa culturale ha sempre fatto parte.
La seconda riflessione che vorrei fare è che, attraverso
l’umanesimo latino, si è cementato l’amore dell’Ungheria
verso l’Italia, verso il Paese che più di tutti ha impersonato
l’eredità culturale latina, quella del mondo classico. L’amore
per l’Italia – inutile che lo dica – è una delle costanti della cultura ungherese, l’amore che si è sempre di più rafforzato
proprio a contatto con gli studi umanistici e con l’impiego del
latino. Ecco, come ultima riflessione mi unisco a quanto
detto dall’on. De Poli: il latino, questa lingua così bella, che
racchiude formule così efficaci e di una tale ricchezza di pensiero, è anche uno dei punti di riferimento della cultura
ungherese. Io rimango ammirato dall’interesse dell’Ungheria
per questa lingua, quando purtroppo in Italia questo interesse si va perdendo per vari motivi, che ritengo deprecabili.
Trovo, in Ungheria, tantissime persone che sono capaci di
parlare il latino, che è per loro una lingua ancora viva. E attraverso il latino si passa all’italiano. Un motivo in più perché
una giornata di studio come questa ci ricordi quanto siano
forti i legami dell’Ungheria col mondo classico, dell’Ungheria
con l’Occidente europeo, e quanto forti siano i legami
dell’Ungheria con l’Italia.
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PROF. DOTT. JÓZSEF JANKOVICS
Vicedirettore dell’Istituto di Studi Letterari
dell’Accademia Ungherese delle Scienze (Budapest)
Vi porgo il cordiale saluto a nome dell’Istituto di Studi
Letterari dell’Accademia Ungherese delle Scienze. Il nostro
Istituto ha, tradizionalmente, ottimi rapporti col mondo
scientifico italiano, soprattutto nel campo delle ricerche sul
Rinascimento e sugli studi neolatini. Potrei ricordare come
uno dei nostri partner più importanti in Italia sia la città di
Napoli e naturalmente l’Istituto Orientale di Napoli, oramai
assurto a rango di università, qui rappresentato dal professor
Amedeo Di Francesco. L’altra istituzione è la Fondazione Cini
di Venezia, con la quale ormai da decenni organizziamo convegni i cui atti vengono regolarmente pubblicati. Si vede
quindi quanto debba ai colleghi italiani la ricerca ungherese
sul Rinascimento. Oggi come oggi, stiamo forse assistendo
alla nascita di una nuova tradizione, visto che l’Istituto di
Cultura di Budapest offre la sua ospitalità al convegno organizzato dalla Fondazione Cassamarca di Treviso e
dall’Associazione Culturale Italoungherese del Friuli Venezia
Giulia “Pier Paolo Vergerio”, supportato dall’Istituto Italiano
di Cultura. A questa rete di rapporti scientifici ora si aggiunge una nuova associazione, l’Associazione Neolatina, che
potremmo chiamare anche romanza ungherese; così possiamo affermare tranquillamente che da parte ungherese abbiamo qui presente l’avanguardia dei nostri ricercatori. E noto
con la massima soddisfazione, guardando il programma dei
contributi, che tra gli oratori saranno presenti non solo i
grandi ‘vecchi’ ma anche la nuova generazione.
Il Friuli Venezia Giulia e l’Ungheria hanno delle tradizioni
storiche molto rilevanti: basta ricordare l’attività svolta in
Ungheria da Pier Paolo Vergerio, l’influenza che la sua personalità ebbe sul modo di pensare di János Vitéz. E devo
ricordare ancora il ruolo di Pier Paolo Vergerio nello sviluppo
dell’umanesimo ungherese. Per noi è ugualmente di alto
valore simbolico un altro fatto, e cioè che in compagnia di
László Pirker è venuto in Ungheria uno scultore importante:
Marco Casagrande, che, accanto alle statue della cattedrale
di Eger, ha creato anche uno dei più importanti monumenti
19
alla guerra d’indipendenza ungherese, un gruppo di statue
simboleggianti i dodici punti della rivoluzione ungherese del
1848. Purtroppo, questo monumento non è mai stato realizzato, ne conosciamo soltanto il progetto. Ma occasioni come
questa contribuiscono veramente all’intenzione di realizzare
anche questi desideri nobilissimi.
So da László Szörényi che in Friuli esisteva una strata
Hungarorum. Una strada percorsa, nei tempi remoti, da
armate, da mercanti, da pellegrini. Io propongo di tornare su
questa strata Hungarorum nel senso delle relazioni culturali,
dimenticando le vicende belliche. E penso che l’occasione
odierna, questo piccolo convegno umanista, possa veramente significare un avvio ideale per intraprendere questo
cammino.
Auguro buon lavoro e ringrazio i nostri sponsor per l’appoggio offerto, ringrazio l’Istituto Italiano di Cultura e infine,
ma non per ultimo, ringrazio i coniugi Papo per aver creato
questo convegno, e a nome dell’Istituto degli Studi Letterari
dell’Accademia Ungherese delle Scienze prometto che cercheremo di contribuire al successo di questo convegno con
un contributo spirituale.
(Traduzione di Győ ző Szabó)
20
ADRIANO PAPO
Associazione Culturale Italoungherese del Friuli Venezia
Giulia «Pier Paolo Vergerio», Duino Aurisina (Trieste)
L’Umanesimo in Ungheria:
il periodo degli esordi
Il rinnovamento della vita in Ungheria tra Tre e
Cinquecento fu in stretto rapporto con l’umanesimo e col
Rinascimento italiano: gli ungheresi si ispirarono alla civiltà e
alla cultura latina fondendola con la loro cultura nazionale; la
lingua latina si diffuse ampiamente e la letteratura degli scrittori antichi servì da modello alla letteratura ungherese sia in
latino che in volgare.
L’umanesimo esordì in Ungheria ai tempi della dinastia
angioina, anche se Tibor Kardos ne rintraccia i primi germi
nella letteratura ungherese in lingua latina dei secoli XI e XII.1
Infatti, già il primo re della dinastia angioina ungherese, Carlo
Roberto d’Angiò (1301-42), contribuì a dare un notevole
apporto culturale al suo nuovo paese d’adozione portando
con sé a Buda numerosi eruditi della corte napoletana. Tra gli
studiosi che accompagnarono il re Carlo Roberto in terra
d’Ungheria, emerge la figura di Giacomo da Piacenza, già
professore di medicina a Napoli negli anni 1307-1309 e successivamente medico a Gemona, in Friuli. Assunto come
medico di corte da Carlo Roberto, Giacomo da Piacenza si
trasferì in Ungheria, dove divenne prima preposto di Pozsony
(oggi Bratislava), poi vescovo di Csanád (1333) e di Zagabria
(1343), sbrigando diversi incarichi diplomatici: fu lui a convincere a stabilirsi in Ungheria nel 1343 Conversino da
Frignano, originario del Modenese, che lo sostituì come
medico di corte presso Luigi I il Grande. Giacomo da
Piacenza morì a Buda il 16 ottobre 1348. Conversino da
Frignano era il padre dell’umanista Giovanni da Ravenna,
che, nato a Buda nel 1343, fu dapprima affidato alle cure del
canonico Michele di Zagabria e, successivamente, dopo la
morte prematura della madre, condotto ancor bambino a
Ravenna e affidato alla tutela dello zio paterno, Tommaso,
futuro generale dell’Ordine dei francescani e cardinale.
Ravenna divenne la sua città adottiva.2
Il Conversino, che doveva senz’altra possedere una cul21
tura molto superiore a quella d’un semplice medico di corte,
ricevette in dono da Luigi I la biblioteca ch’era appartenuta
al re di Sicilia, Roberto I d’Angiò, e di cui il re magiaro s’era
impossessato durante la conquista di Napoli del 1348. Il
medico di Frignano, che aveva accompagnato il re angioino
durante la sua discesa in Italia, ne portò una parte in
Ungheria, un’altra diede ordine che lo seguisse durante il
viaggio di ritorno da Napoli (ma andò perduta in un naufragio durante il tragitto dall’Italia all’Ungheria), la terza, con i
codici più pregiati, affidò in custodia al fratello Tommaso,
che nel 1375 ne consegnò al nipote in tre cofanetti la parte
rimasta.3 È probabile che i libri arrivati a Buda siano confluiti
nella Biblioteca Corviniana, cui Beatrice d’Aragona aggiunse
anche un fondo aragonese. Forse si possono assegnare al
fondo angioino i seguenti codici: Antiquitates Iudaicae di
Giuseppe Flavio, l’Encyclopaedia medica e il Commentarius
Ptolemaei. Si tratta di opere di carattere filosofico, religioso
e medico, che costituivano la base della cultura angioina dell’epoca del re Roberto I, di cui Giovanni da Ravenna era un
convinto estimatore.4
Giovanni Conversino crebbe nel convento ravennate
delle suore di S. Paolo.5 Studiò retorica e grammatica prima
a Ravenna, presso Donato Albanzani, grande amico del
Petrarca, del Boccaccio e del Salutati, poi a Bologna, dal
1349 al 1353 sotto la guida del maestro Alessandro del
Casentino, nel 1359 sotto Pietro da Forlì, e infine sotto Dino
della Valle da Reggio, di cui seguì le lezioni sulla Rhetorica
ad Herennium con tale successo che poco dopo tenne cattedra lui stesso in concorrenza col suo maestro. Concluse gli
studi a Ferrara sotto la guida del francescano Giacomo
Cortesi (1356) e a Padova sotto Pietro da Moglio (1363-64).
A Bologna era solito frequentare la casa del Boccaccio, che
accoglieva benevolmente il ‘kis’ Giovanni colmandolo di
regali e attenzioni.6 Conclusi gli studi di dialettica, frequentò
per qualche tempo quelli notarili, conseguendo in un paio
d’anni (1360-62) il diploma di notaio.
Dopo un’infelice esperienza matrimoniale con una ragazza di Ravenna, Margherita Furlan, che aveva sposato a soli
dodici anni e dalla quale ebbe un figlio, Conversino, si trasferì a Firenze, dove lavorò come domestico e impiegato
presso Michele di Lapo de’ Medici. Nel 1364 iniziò a Bologna
la carriera d’insegnante come lettore dei Memorabilia di
Valerio Massimo, staccandosi in tal modo dagli studi giuridici e avvicinandosi sempre di più a quelli umanistici, di cui
s’era già occupato durante il soggiorno patavino. Dopo un
22
breve periodo d’insegnamento privato a Ferrara, si trasferì
momentaneamente a Treviso (1366), dove ricoprì una cattedra di grammatica latina. Nominato dal Senato ravennate
notaio presso l’ufficio di Firenze, accettò malvolentieri l’incarico stabilendosi nella città toscana presso il podestà Guido
di Oddo Fortebracci. Rimase a Firenze dal 1368 al 1369. Un
sollievo alla sua avversione alle pratiche giuridiche fu la cattedra che ottenne il 17 novembre nello Studio pubblico
senza con ciò contravvenire all’incompatibilità con la sua
professione di notaio. Giovanni commentò nelle sue lezioni
la Georgica di Virgilio e la Rhetorica ad Herennium con tale
successo che la scolaresca ne riconfermò l’elezione. Dopo
un breve soggiorno a Ravenna nei primi mesi del 1369, tornò
a Treviso, dove trascorse tre mesi nella meditazione e nello
studio, dividendo il suo tempo tra scuola e casa. Tornò però
ben presto a condurre, come in passato, una vita movimentata e irrequieta, che segnò gran parte della sua giovinezza e
da cui uscì momentaneamente grazie all’interessamento dell’amico Paolo Rugolo, che gli procurò una condotta a
Conegliano nel 1371.
Scampato alla morte in seguito a un tentativo di avvelenamento attuato da un parente della moglie, si trasferì a
Venezia, dove conobbe il Petrarca, e all’inizio del 1374 a
Belluno, dove si risposò. A Belluno Giovanni cominciò a
comporre quegli opuscoli di filosofia pratica stoico-cristiana
che costituiscono una parte considerevole della sua produzione. In uno di essi, il De fato (Cod. IX 11 Veneto/in seguito:
V), dedicato a Paolo Rugulo, confuta ampiamente la credenza nella fortuna; i temi della scuola e del principe sono invece trattati in un altro opuscolo, il De miseria humane vite (V),
nel quale mette crudamente in luce l’origine sozza dell’uomo, che nonostante ciò ostenta in ogni occasione superbia
e arroganza. Forse risale al periodo bellunese un altro opuscolo, Ad Augustinum philosophum de Christi conceptu, pur
esso appartenente allo stesso Codice Veneto. In occasione
della nomina cardinalizia dello zio Tommaso scrisse nel 1378
un Dialogus inter Iohannem et Literam, sulla vita cristiana e
sulla vocazione religiosa.
Dopo un breve soggiorno a Roma nel 1379 «tum venerari sacra limina tum visere Thomam urbemque tanto vatum
preconio claram»,7 fu assunto a Padova come cancelliere al
servizio di Francesco I da Carrara. A Padova compose in
onore del principe la Familie Carrariensis natio, che fu pubblicata nel 14048; l’opuscolo riporta in forma romanzata l’origine della dinastia dei Carraresi.9 Costretto però a lasciare il
23
servizio del principe Francesco per l’invidia dei suoi colleghi,
all’inizio del 1383 si trasferì a Venezia, per passare a Ragusa
nella seconda metà dello stesso anno, si suppone invitato
dalla regina madre Elisabetta, la vedova di Luigi I d’Angiò.
Giovanni rimase affezionato alla buona memoria della regina
restando colpito dall’orrore della sua tragica fine avvenuta
nel 1386: «Nuper regina Helizabet – scrive il ravennate nei
primi mesi del 1387 –, orbi toto adoranda atque tremenda,
turpiter a solio deiecta, miserabiliter captivata miserabilius in
carcere sevo defuncta ac minus quam privato funere tumulata quodque miserias illi cumulavit tam dire calamitatis,
natam vidit et dimisit heredem: quam beata si adhuc fetanda
regi quam hosti fecunda excessisset vita […]».10 A Ragusa
Giovanni ricoprì per tre anni l’ufficio di notarius, ma, nonostante i vantaggi economici, non ne accettò la riconferma e,
scaduto nel 1387 il suo mandato, fece ritorno in Italia. A
Ragusa scrisse una Historia Ragusii, in cui ne descrive la
geografia e l’ordinamento statuale, nonché i costumi dei cittadini e delle tribù barbare che vivevano ai confini della
repubblica di san Biagio. Durante il soggiorno nella città dalmata compose anche il De primo eius introitu ad aulam (V;
Cod. 288, Collegio Balliol, Oxford/d’ora in avanti: O) ripercorrendo le sue esperienze alla corte patavina.
Rientrato a Venezia, aprì una scuola di grammatica, prima
di accettare una condotta offertagli dal Consiglio di Udine,
che avrebbe però abbandonato, abbastanza inspiegabilmente, dopo soli tre anni per far ritorno nella città di Padova. Dai
suoi corsi di lettura pubblica di poesia latina e di retorica allo
Studio patavino (1392-93) uscirono allievi famosi come
Secco Polenton, Pier Paolo Vergerio, Ognibene della Scola
e Guarino da Verona; Vittorino da Feltre fu probabilmente un
suo alunno privato. Tornato poi al servizio del Carrarese,
entrò in corrispondenza epistolare con alcuni famosi cancellieri italiani dell’epoca, come Desiderato Lucio a Venezia e
Coluccio Salutati a Firenze.
Verso il 1396 scrisse l’opuscolo De fortuna aulica (O)
sulla vita di corte e sui vizi dei cortigiani: l’avarizia, l’invidia, la
superbia, la maldicenza, l’adulazione. Un altro opuscolo d’argomento affine è il De dilectione regnatium (O), del 5 settembre 1399, in cui l’autore si pone questa volta il problema
dell’amore dei sudditi verso i propri signori.
Nel 1399 anche Padova ebbe la visita delle turbe dei
Bianchi, e Giovanni ne stese l’anno dopo un’ampia narrazione dedicata a Paolo Rugolo col titolo De lustro Alborum in
urbe Padua, in cui si intrattiene a lungo sui nove giorni di
24
durata delle processioni e sul significato simbolico del
numero nove.11 Si presume che appartenga invece al 1396
una narrazione prettamente storica, la Dolosi astus narratio
(O),12 mentre un altro suo componimento di genere novellistico è il Violate pudicicie narratio, che fa pure parte del
codice di Oxford.13
Nel settembre del 1401 il ravennate sfogò il suo cordoglio per la morte del figlio Israele, nato dal suo secondo
matrimonio, nel componimento De consolatione in obitu filii
(O; Cod. Marciano lat. XIV 224/in seguito: M). L’opera ha la
forma d’un lunghissimo dialogo tra il ‘Mestus’, che esprime
il proprio dolore, e il ‘Solator’, che lo conforta adducendo
ragionamenti e fatti tratti dai filosofi e dagli storici, da testi
pagani e cristiani. È il primo esempio di una consolatoria
umanistica in cui l’autore non consola gli altri ma se stesso.
Il 15 maggio 1401 compose l’Apologia (O), in cui si difende
dalle accuse mossegli dai colleghi, che invidiosi lo accusavano d’inefficienza perché viveva ritirato e preferiva applicarsi allo studio anziché al lavoro. Infine, sempre nel 1401 scrisse un breve inno saffico a san Giovanni Evangelista (Himnus
s. Jo. Evvangeliste editus a Johanne de Ravenna, M), che è
l’unico componimento poetico del ravennate a noi giunto
integralmente. Nel 1404, caduta definitivamente la signoria
carrarese, Giovanni ritornò a Venezia, dove tenne scuola tra
il 1405 e il 1406 ed ebbe come discepoli i patrizi Marco e
Leonardo Giustiniani, allora accompagnati da un fanciullo
ancora decenne, il futuro umanista Francesco Barbaro.14
In questo periodo, Sigismondo di Lussemburgo, memore delle sue origini budensi, cercò di trarlo alla propria corte,
ma il ravennate rifiutò, giustificandosi per la tarda età, in una
lettera scritta da Muggia nel 1406:
Domino Paulo Papiensi apocrisario regis Sigismundi.
Oblaciones michi regias amplas quidem ac liberales, honorande
amice karissime, tuis nuper litteris insinuare dignatus, commones
quantam rex ille tanti consilii gestet de tue virtutis integritate fiduciam, ut sibi adeo facile de ignoto ac prorsus inaudito homine persuadere valueris […]. Ipse nempe quanta virtute feratur ad gloriam
ostendit honestissimo huiuscemodi desiderio victoriosi nominis
extendendi eternitate litterarum […]. Pleraque senectutis incommoda, que illamentata usque nunc pertuli, presenti occasione lamentor
et increpo quibus, quod foret tam carum animo quam nomini clarum, inhibeor assequi. Quid namque Deo largiente potuisset contigisse felicius, quam ibi quoque regio ministerio innotescere, ubi
summa virtute doctissimus genitor meus sanctissimi atque maximi
regum Ludovici primam dilectionem inter mortales cunctos ac fidei
laudem promeruerit?15
25
A Venezia Giovanni scrisse la Dragmalogia de eligibili vite
genere). L’opera, pubblicata a Leiwsburg nel 1980 a cura di
H. Lanneau Eaker, presenta la struttura d’un dialogo tra un
padovano e un veneziano, che prende le mosse da un’invettiva contro la guerra che allora infuriava tra Padova e
Venezia; l’autore si sofferma di nuovo sull’adulazione, sull’ambizione e sulle cattive arti delle corti e conclude disquisendo sulle forme di governo e sulla differenza tra vita di
campagna e vita di città.
Nel 1406 Giovanni fu a Muggia, dove all’inizio dell’anno
seguente compose la Conventio inter podagram et araneam
(V; Codice della Biblioteca Nazionale di Parigi, in seguito: P),
un ragionamento sulla superiorità della vita di campagna
rispetto a quella di città, ispirato dalla favola della gotta e del
ragno che si può leggere nella Familiare III/13 del Petrarca. Il
ravennate annunciò l’opuscolo anche al Vergerio, cui confessò d’aver preso spunto dalla gotta di cui allora soffriva il
vescovo di Trieste.16 A Muggia, su richiesta del papa
Innocenzo VII, Giovanni raccolse in un Epistolario le sue 84
lettere, alcune delle quali furono però per l’occasione modificate, aggiungendo in appendice il Residium epistolarum
Johannis de Ravenna, che però rimase tronco dopo alcuni
fogli. Le sue epistole sono in gran parte dissertazioni sulla
filosofia stoica: tutte riportano caustici giudizi sugli avvenimenti politici del suo tempo, sulle condizioni sociali, sulle
guerre, sulle compagnie di ventura, sulle lotte religiose e
sulla corruzione del clero e dei frati. Giovanni – commenta il
Sabbadini – domina il lessico con neologismi e arcaismi; la
sintassi è però un po’ insicura; talvolta eccede nella concisione, talvolta nell’esuberanza. Ma tutta la vivacità del suo
animo viene trasfusa nello stile. In genere le opere dell’umanista ravennate sono di difficile lettura; anche Tibor Kardos
considera lo stile di Giovanni disadorno e il suo vocabolario
raccogliticcio.
Dopo tre anni di permanenza a Muggia (1406-1408), il
ravennate fece ritorno a Venezia, dove iniziò l’ultima sua
opera, il Memorandarum rerum liber (V; P), una collezione di
aneddoti storici forgiata sul modello di Valerio Massimo.17 Il
Memorandarum rerum liber contiene anche sette aneddoti
d’argomento magiaro, le cui fonti sono probabilmente notizie raccolte dall’autore presso amici italiani e ungheresi.18
Spesso protagonista degli aneddoti ungheresi è la figura di
Luigi I il Grande, che Giovanni da Ravenna aveva incontrato,
ancor bambino, durante la sua discesa in Italia nel corso
della campagna napoletana del 1347-48.19 Il 13 dicembre
26
1347 il sovrano angioino, accompagnato dal padre di
Giovanni, era stato a Forlì, il 16 a Rimini; e proprio in una di
queste città è plausibile che sia avvenuto l’incontro con
Giovanni: il padre lo presentò al re durante il pranzo; il re gli
fece qualche carezza e gli diede uno spicchio di mela:
[…] quem insuper infantem maximus regum Ludovicus
in Apulos transiens, cum parentis iussu coram perlatus essem,
et blande suscepisset et pomi frastulo, prandebat enim, demulsisset […].20
Si può supporre che il ravennate abbia avuto relazioni
personali anche con due vescovi ungheresi, mandati in missione diplomatica a Venezia: Giovanni de Surdis di Piacenza
(1373) e Bálint Alsáni (1378-82)21. Inoltre, frequentò a Venezia
Lorenzo de Monacis, allora notaio ducale, che già era stato
in missione alla corte di Buda.
La morte, sopraggiunta il 27 settembre 1408, gli impedì
di portare a compimento la sua ultima opera.
I contatti umanistici tra Italia e Ungheria proseguirono
anche sotto il brevissimo regno di Carlo d’Angiò-Durazzo
(1385-86), meglio noto come Carlo il Piccolo. Carlo il
Piccolo, nato nel 1354, era stato educato negli anni 1357-71
alla corte di Buda da Guglielmo vescovo di Comacchio, che
gli trasmise la passione per le lettere. Grazie a Carlo il
Piccolo, gli ungheresi del suo seguito vennero in contatto
con i dotti napoletani, allorché nel 1381 scese a Napoli per
prendere possesso di quel trono. In quell’occasione,
Giovanni Quatrario dedicò al giovane sovrano una poesia,
con cui intravedeva nella sua persona colui che avrebbe
ripristinato l’antico splendore della corte napoletana, già
culla del sapere sotto il re Roberto.
Con la tragica fine di Carlo il Piccolo, caduto vittima d’un
attentato organizzato dai partigiani della regina madre
Elisabetta Kotromanić, la vedova di Luigi I il Grande, si concluse la prima fase dell’umanesimo in Ungheria, ma se ne
aprì subito dopo un’altra, quella ben più importante e feconda sorta presso la cancelleria imperiale e regia di
Sigismondo di Lussemburgo, la cui corte fu frequentata da
numerosi umanisti ed eruditi italiani, tra cui, in primis, il già
menzionato Lorenzo de Monacis.
Lorenzo de Monacis era nato a Venezia nel 1351. Dopo
aver appreso l’arte notarile alla scuola del padre, nel 1371 fu
accolto tra i notarii auditorum sententiarum. Sposò una de
27
Trentis, sorella del notaio Simone, che fu con lui in Ungheria
nel 1388; da lei ebbe un figlio, di nome Monaco, che in
seguito divenne canonico della chiesa cretese di Hyronoi. Al
compimento del venticinquesimo anno d’età, il de Monacis
ottenne il titolo di notarius Venetiarum. Dopo la guerra di
Chioggia del 1378-81, durante la quale s’erano perse le sue
tracce, compare citato in due testamenti datati 1383 e 1384.
Il 26 aprile 1386 entrò a far parte dei notai della curia maggiore, di cui erano membri gli impiegati del doge e i suoi consiglieri. Quindi, dopo il 16 dicembre 1386 si recò in Ungheria
in missione presso Sigismondo di Lussemburgo al seguito di
Pantaleone Barbo il Giovane. Sigismondo si servì del Barbo
per chiedere a Venezia l’aiuto navale con cui liberare la
moglie prigioniera del bano di Croazia János Horváth.
Conclusa la missione alla corte di Buda, verso l’aprile del
1387 il de Monacis raggiunse il Barbo a Zagabria e, insieme
con lui, incontrò la regina Maria d’Angiò il 4 luglio 1387, da
poco liberata dalla prigionia. Il de Monacis riporta nella relazione letta alla Signoria avvenimenti e colloqui di cui era stato
testimone.22 Fu nuovamente in Ungheria il 14 giugno 1388
insieme col notaio e suocero Simone de Trentis, per consegnare al re Sigismondo i doni offerti da Pantaleone Barbo.
Rientrato a Venezia, si fece iscrivere tra gli aspiranti alla carica di cancelliere di Creta, e la spuntò nella nomina in una
rosa ristretta di soli sette candidati. Probabilmente il 10 febbraio 1389 venne nuovamente inviato in Ungheria in un’altra
missione diplomatica presso il re Sigismondo e la regina
Maria, di cui redasse un dettagliato resoconto al suo ritorno
a Venezia. Il 18 giugno 1388 fu solennemente nominato cancelliere di Creta. Ma il 3 febbraio del 1390 fu incaricato d’una
nuova missione alla corte di Buda. Nel marzo dello stesso
anno, il Maggior Consiglio gli accreditò la somma di 60
ducati d’oro come rimborso per le spese sostenute nei suoi
viaggi in Ungheria; si legge nella relativa ‘grazia’ che il de
Monacis s’era recato «saepius» in Ungheria, Slavonia e
Germania per compiere impegnative missioni, forse in
numero maggiore di quanto ne sappiamo noi in base ai
documenti pervenutici. La sua frequentazione della corte
budense spiega la fiducia e la confidenza di cui godeva da
parte della regina Maria.
Lorenzo de Monacis tenne il cancellierato di Creta per
tutto il resto della vita, allontanandosi dall’isola soltanto per
qualche saltuario rientro a Venezia e per qualche altra missione (tra cui una compiuta in Francia nel 1395). Dopo la
morte della prima moglie, si risposò con la sorella del notaio
28
cretese Giorgio Paradiso, dalla quale ebbe il secondo figlio,
Giacomo. Morì a Creta nella primavera del 1428.
Lorenzo de Monacis fu storico, oratore e poeta; non
seguì corsi di studi superiori, forse conosceva il greco, anche
se affermò di non averlo mai studiato; ebbe però una notevole cultura con una vasta conoscenza di opere classiche e
medievali. Frequentò letterati e umanisti come Francesco
Barbaro, Leonardo Bruni, il medico Guglielmo da Ravenna,
l’ammiraglio Carlo Zeno, il già menzionato Giovanni da
Ravenna e forse conobbe anche il Petrarca. Sappiamo che
possedeva dei codici, alcuni ricevuti in prestito proprio dal
Conversino, come un Terenzio, oggi alla Bodleiana di Oxford,
un’Iliade e forse anche un’Odissea, ora alla Marciana.
Antonio Loschi lo ricorda verso il 1390 come poeta in volgare e autore d’un poemetto sulla guerra di Chioggia, di cui
però non ci è rimasta traccia. Verso il 1388 il de Monacis
scrisse un carme in esametri sulle vicende ungheresi dal
1382 al 1386: lo scopo era quello di allontanare dalle regine
Elisabetta Kotromanić e Maria d’Angiò il sospetto d’aver
ordito l’assassinio di Carlo di Durazzo. Il carme, dedicato al
duca di Creta Pietro Emo e introdotto da una lettera dello
stesso autore a Maria d’Angiò, è conosciuto sotto tre diversi titoli: Carmen metricum de Caroli Parvi lugubri exitio,
Historia de Carolo II cognomento Parvolo rege Hungariae e
Pia descriptio miserabilis casus illustrium reginarum
Hungariae. Lorenzo de Monacis compose anche vari
Sermones e Orationes, alcune lettere, un’orazione funebre e
un’orazione per il millenario di Venezia, prima di produrre la
sua opera principale, il Chronicon de rebus Venetis ab urbe
condita ad annum MCCCLIV…, noto anche come De gestis,
moribus et nobilitate civitatis Venetiarum e ancora come De
origine Venetiarum o De vita, moribus et nobilitate
Venetorum. Si tratta di una cronaca in sedici libri, basata su
cospicue fonti bizantine, dalle origini di Venezia al 1354; l’opera non è stata però composta secondo la tradizione annalistica. Il Chronicon fu pubblicato nel 1758 da F. Corner insieme con la Historia de Carolo II.23
L’età di Sigismondo di Lussemburgo contribuì in maniera
determinante allo sviluppo dell’umanesimo in terra magiara.
Sigismondo fu un uomo colto, conoscitore del latino, mecenate; si presume abbia avuto come precettore a Praga alla
corte del padre, l’imperatore Carlo IV, l’eccellente umanista
e poeta Niccolò Beccari, amico e seguace di Petrarca.
29
Rimatore, uomo di corte e d’armi, colto, amante delle arti
e della poesia, amico di poeti e poeta egli stesso, Niccolò
Beccari era nato a Ferrara nella prima metà del Trecento,
probabilmente intorno al 1330. Suo padre Tura esercitava il
mestiere di beccaio, mestiere forse tradizionale nella sua
famiglia, come si deduce appunto dal suo cognome. Spesso
il fratello Antonio, pure lui poeta, ricorda nei suoi versi le loro
umili origini e i sacrifici fatti dal padre per avviare entrambi i
figli agli studi umanistici. Niccolò era stato infatti avviato agli
studi di diritto a Bologna, cui però si dedicò senza grande
profitto e interesse come egli stesso ebbe a confessare. Fino
al 1348 non si sa nulla di lui. Nel 1348, al servizio di Malatesta
Ungaro, visitò la Francia, le Fiandre e l’Inghilterra. Soggiornò
quindi per un breve periodo a Ferrara sotto la protezione
degli Estensi, prima di conoscere nel 1368 l’imperatore Carlo
IV di Lussemburgo, il quale lo condusse con sè a Praga. Nel
1370 lo ritroviamo però di nuovo in Italia, a Padova, come
precettore di Francesco Novello. Due anni dopo si arruolò
nell’esercito del Carrarese, dopo esser stato nominato dal
principe Francesco I ‘marescalco di campo’; fatto prigioniero dai veneziani, fu liberato l’8 luglio. A guerra conclusa,
tornò a Praga presso la corte imperiale in qualità di armiger,
familiaris, domesticus, commensalis. Fu senz’altro a Ferrara
nel 1375 come ambasciatore del re boemo, dopo di che,
venuto a diverbio con un suo conterraneo, Niccolò da
Polafrisana, che pure viveva alla corte praghese, fu costretto
a trasferirsi a quella imperiale di Tangermünde, sulla riva
dell’Elba. Qui compose quattro lettere, intitolate Regulae
singulares: due lettere erano dirette allo stesso Carlo IV (una
con un lungo trattato sulla Chiesa romana in difesa dell’autorità laica, l’altra con una risposta all’imperatore sull’autenticità di una moneta di Cesare Augusto, che gli era stata
donata dal Petrarca), la terza era indirizzata all’amico di
Petrarca, l’umanista veronese Gasparo Broaspini (sul suo
non buono stato di salute), e l’ultima al cancelliere imperiale
Nicola di Riesemburg (con un tractatulus redatto con lo
scopo di fornire all’imperatore tutti gli argomenti necessari
per difendersi nel caso d’una controversia con la curia romana). Non si sa quale ufficio il Beccari abbia ricoperto alla
corte imperiale di Tangermünde; certo è che godeva della
stima di Carlo IV, che ebbe per lui parole di profondo affetto.
Sembra molto probabile che gli sia stata affidata l’educazione del giovane Sigismondo (lo si arguisce dal fatto che il
Broaspini in una lettera al Beccari saluta lui, l’imperatore e un
giovinetto, camillus, che doveva essere proprio il futuro
30
imperatore Sigismondo, in quanto che l’altro figlio del re
boemo, Venceslao, era adulto e già re dei Romani. A causa
d’un certo disagio psicologico patito alla corte imperiale
(aveva vicino persone alquanto insensibili ai valori culturali) e
di un’infermità alla vista, fece ritorno a Padova nel 1379,
dove però ritrovò il suo calunniatore praghese, cui intentò un
processo per diffamazione. Concluso questo processo, si
perdono le sue tracce. Morì a Ferrara prima del 1382.24
Quando arrivò in Ungheria, Sigismondo di Lussemburgo
trovò poche tracce della cultura umanistica; in effetti, suo
suocero, Luigi il Grande, aveva pensato più alle guerre che
alla cultura; anzi, aveva speso più denaro per i cani da caccia
che per gli scrittori e i letterati, se dobbiamo credere a quanto disse di lui il Petrarca, forse su suggerimento di Giovanni
da Ravenna, che senz’altro influì sensibilmente sull’opinione
che il poeta aretino s’era fatta del grande re magiaro.
Sigismondo si accollò quindi il gravoso compito di acculturare la sua nuova patria, e in questo progetto una decisiva
influenza fu esercitata dalla cultura umanistica italiana.25
Per le relazioni umanistiche tra Italia e Ungheria grande
importanza ebbero anzitutto i due viaggi di Sigismondo nella
Penisola: il primo compiuto nel novembre del 1413 (alla fine
della guerra ungaro-veneta scoppiata nel 1411), allorché
s’incontrò col papa Giovanni XXIII a Lodi, dove fu promulgata la bolla di convocazione del concilio di Costanza,26 il
secondo realizzato negli anni 1430-33 ai fini dell’incoronazione imperiale. Molti furono gli umanisti che il re d’Ungheria
e dei Romani incontrò nel corso di questi viaggi e soprattutto durante i lavori del concilio di Costanza, di cui egli fu il
caput et dispositor: Leonardo Bruni, in primis, che fu ospite
a Piacenza della corte del re nel febbraio del 1414,
Alamanno Adimari27, Bartolomeo Aragazzi28, Poggio
Bracciolini, Bartolomeo della Capra, Branda Castiglione,
Francesco Filelfo29, Alessandro Loschi, Cencio Rustici,30
Ambrogio Traversari, Francesco Zabarella,31 ecc. A Costanza
gli umanisti italiani ebbero la possibilità di far la conoscenza
della folta schiera di signori ungheresi che parteciparono al
concilio; tra i 18.000 partecipanti va infatti annoverata una
delegazione magiara costituita da ben 2000 persone:32 furono presenti il palatino Miklós Garai, il primate János Kanizsai
e tutte le gerarchie ecclesiastiche, i rappresentanti dei capitoli, degli ordini religiosi, delle famiglie nobiliari, delle otto
città regie e dello Studio di Óbuda. Vi parteciparono anche
molti italiani già residenti in Ungheria: Andrea de Benzi, l’abate di Garamszentmiklós Niccolò da Bologna, Andrea
31
Scolari, Filippo Scolari, il professore di Óbuda Taddeo di
Vicomercato. Dopo il concilio di Costanza numerosi dotti italiani si stabilirono alla corte di Buda: tra questi, lo stesso cardinale Castiglione, il Filelfo, Ognibene della Scola, Giovanni
dei Milanesi da Prato; quest’ultimo parteciperà come dottore in diritto a molte delle assise di Sigismondo insieme con
Ognibene della Scola e con il notaio pisano Antonio
Bartolomeo de’ Franchi, oltreché a varie missioni diplomatiche per poi concludere la sua brillante carriera nel 1426
come vescovo di Várad.33 E frequentarono la corte di
Sigismondo anche Antonio Minucci da Pratovecchio, professore di diritto presso lo Studio di Bologna, che fu incaricato da Sigismondo di riordinare i Libri Feudali, e, successivamente, nel 1426 Antonio Loschi34 e ancora, a cavallo tra il
1435 e il 1436, Ambrogio Traversari, il camaldolese grecista
che scrisse sette lettere sul paese danubiano e pronunciò
due orazioni a Székesfehérvár.35 Nel 1424, durante il viaggio
in Italia per l’incoronazione imperiale, ricevette infine l’ambasceria del fiorentino Biagio Guasconi.36 Alcuni dei personaggi sopra citati meritano qualche ragguaglio biografico più diffuso.
Bartolomeo della Capra37 fu una personalità di primissimo
ordine, con una preparazione completa in ogni campo: abile
statista, esperto diplomatico, letterato e poeta. Originario di
Cremona, dov’era nato tra il 1360 e il 1370, lavorò presso la
cancelleria dei Gonzaga prima di entrare al servizio di papa
Bonifacio IX e, successivamente, a quello del suo protettore
Innocenzo VII, che lo nominò vescovo di Cremona (1405) e
lo elevò alla carica di segretario pontificio e di cubiculario.
Bartolomeo della Capra diede un sensibile contributo all’apertura della curia romana all’umanesimo: negli ambienti
curiali, fu a stretto contatto con grandi umanisti, quali
Jacopo Angeli, Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni,
Francesco da Fiano, Antonio Loschi, Pier Paolo Vergerio e il
bresciano Baigerra. Fu in rapporto epistolare anche con
Gasparino Barzizza, col Guarini, col Panormita, col vescovo
di Genova Pileo de Marini e con altri esponenti del movimento umanistico. A dimostrazione del clima che s’era
instaurato a Roma al tempo di Innocenzo VII si veda il componimento in esametri del Vergerio Poetica narratio, con cui
il capodistriano celebra una gara di poesia tra Leonardo
Bruni e Francesco da Fiano, alla quale prese parte anche
Antonio Loschi, arrivato a Roma nel 1406 come ambasciatore di Venezia.38 Il della Capra rimase segretario pontificio
anche durante il papato di Gregorio XII. Fu invece nominato
32
referendario pontificio dal papa «pisano» Alessandro V.
Deposto come vescovo di Cremona dal papa Giovanni XXIII,
passò al servizio dei Visconti, che gli procurarono l’importante arcivescovado di Milano, che tenne fino al 1433. Poco
tempo dopo la sua nomina si recò al concilio di Costanza,
dove fu il principale accusatore di Giovanni XXIII. L’attività
politica e diplomatica da lui svolta anche prima del concilio
gli fecero guadagnare i favori di Sigismondo, che aveva già
incontrato il 23 ottobre 1413 come ambasciatore dei
Visconti: Sigismondo lo nominò suo consigliere e lo tenne al
proprio servizio anche dopo la conclusione dei lavori conciliari. In questi anni consolidò la sua fama europea di valente
diplomatico grazie anche agli stretti rapporti che teneva col
re dei Romani, col papa Martino V e col duca di Milano
Filippo Maria Visconti. Come umanista svolse principalmente un ruolo di mecenate, anche se si interessò personalmente alla ricerca dei codici antichi. Molto colto, scrisse qualche
poesia, ma si distinse soprattutto per lo stile epistolare.
Tornato nel 1423 al servizio dei Visconti, fu nominato governatore di Genova (1428). Dopo aver incoronato personalmente Sigismondo di Lussemburgo in Sant’Ambrogio con la
corona ferrea (25 novembre 1431), accompagnò il re nel
Römerzug intrattenendosi con lui fino al 1432. Tornò a occuparsi degli interessi di Sigismondo, con serietà e capacità, al
concilio di Basilea, presso il quale svolse pure dei compiti
speciali in svariate commissioni. Morì proprio a Basilea il 1°
ottobre 1433.
Ognibene della Scola (Ognibene di Boniacopo di
Ognibene della Scola),39 padovano, fu per un decennio al
servizio di Sigismondo di Lussemburgo. Laureatosi a Padova
dottore di diritto e delle arti (come detto sopra era stato allievo di Giovanni da Ravenna), fu professore nello Studio patavino fino al 1396. Qui conobbe due personaggi politicamente molto importanti: il futuro cardinale Francesco Zabarella e
l’allora consigliere e ambasciatore di Filippo Maria Visconti,
Taddeo di Vicomercato, entrambi docenti presso la stessa
università.40 Sempre a Padova fece amicizia anche con Pier
Paolo Vergerio. Si trasferì quindi a Firenze (1398/1399), dove
conobbe Manuele Crisolora. Tornato a Padova, fu incaricato
di alcune missioni diplomatiche da parte del principe
Francesco Novello da Carrara, di cui sposò la figlia naturale
Agnese. Per conto del Carrarese, nel 1401 fu inviato insieme
con Francesco Buzzacarini in missione diplomatica dal re dei
Romani, Ruperto del Palatinato, quindi, l’anno dopo, diresse
i negoziati di pace con la vedova di Gian Galeazzo Visconti.
33
Rotti i rapporti col Carrarese, patì il carcere a Padova, prima
di essere liberato dai veneziani; fece quindi parte con lo
Zabarella della commissione diplomatica che il 3 gennaio
1406 si occupò del trasferimento della città patavina sotto il
dominio della Serenissima. Grazie all’amicizia col Vergerio
entrò nei circoli letterari, anche se invero non fu un autentico letterato. Tenne corrispondenza epistolare con Leonardo
Bruni, Francesco Zabarella, Poggio Bracciolini, Pietro
Donato, Francesco Barbaro e il veronese Ludovico
Cattaneo, un altro italiano che sarebbe entrato al servizio di
Sigismondo. Ognibene della Scola continuò quindi la carriera politica in altre città del Norditalia (Mantova, Verona,
Milano, Cremona) prima di essere consegnato nelle mani dei
suoi antichi protettori, i veneziani, di cui era nel frattempo
diventato ‘persona non gradita’. Dopo il concilio di Costanza
passò anche lui al servizio di Sigismondo, che probabilmente aveva conosciuto a Cremona nel 1414 e col quale era già
venuto in contatto durante il suo soggiorno veronese del
1412. Come consigliere di Sigismondo partecipò a diverse
assise (anche con Filippo Scolari, il Cattaneo, il Vergerio e il
Milanesi),41 fu in missione diplomatica presso la curia romana nel 1420 e come consigliere legale di Brunoro della Scala
e di Guglielmo da Prata concluse trattative con Firenze e
Genova (1421). Nel 1426, chiusa la sua carriera politica, fece
ritorno in Italia per morire a Pinerolo nel giugno del 1429.
Andrea de Benzi(s) o Brentiis o Brunsei (Andrea di Pietro
di Gionta o Giunta dei Benzi),42 nato verso la metà del XIV
secolo nei pressi di Perugia (molto probabilmente a Gualdo
Tadino), fu cappellano oltreché uno dei consiglieri più fidati
di Sigismondo di Lussemburgo. È accettato che studiò a
Perugia e a Roma e che si laureò in entrambi i diritti civile e
canonico. Fu nominato nel 1388 arcivescovo di Spalato; ma,
dopo il passaggio della città dalmata dalla parte di Ladislao
di Napoli, abbandonò la sua sede arcivescovile per recarsi in
Ungheria, dove nel 1403 Sigismondo lo nominò vicario di
Eger,43 incarico che conservò fino al 1411. Il 30 luglio 1410 il
papa Gregorio XII lo esonerò dalla carica di arcivescovo di
Spalato,44 anche se continuò a fregiarsi di questo titolo.45
Non essendo riuscito a riconquistare il suo arcivescovado a
causa dell’avversione dei cittadini della sua diocesi,46 venne
ricompensato da Sigismondo con la commenda dell’abbazia
di S. Maurizio di Bakonybél47 e nel 1413 da Giovanni XXIII
con l’arcivescovado di Kalocsa e Bács, unitamente alla
nomina di collettore delle tasse per tutta l’Ungheria per
conto della curia romana.48 Partecipò fin dal 1414 al concilio
34
di Costanza e accompagnò Sigismondo nei suoi viaggi in
Spagna, Francia e Inghilterra, di cui relazionò al ritornò nella
città del concilio. Per i meriti acquisiti a vantaggio della
ricomposizione dello scisma, fu ricompensato dal papa
Martino V col vescovado di Sion in Svizzera, per il quale
rinunciò a tornare in Ungheria, anche se continuò a possedere l’arcivescovado di Kalocsa fino al 1420, anno in cui la
diocesi passò a un altro italiano, Giovanni Buondelmonti, un
lontano parente di Filippo Scolari. Morì in Svizzera il 17 aprile 1437.
Sennonché, molti italiani avevano già raggiunto
l’Ungheria e vi erano colà rimasti, alcuni anche per sempre,
attratti dal fascino della vita che si conduceva nel paese carpatodanubiano: Filippo Scolari (1369-1426), alias Pippo
Spano, alias Ozorai Pipo, che, trasferitosi in Ungheria ancor
adolescente al seguito d’un mercante fiorentino, fece una
brillante e rapida carriera politica e militare al servizio del re
Sigismondo, che ne aveva notato e apprezzato l’intelligenza
e l’abilità nel far di conto. Filippo Scolari non fu soltanto un
abile amministratore, un accorto politico e diplomatico e un
valoroso condottiero, lo spauracchio dei turchi che sconfisse in numerose battaglie, ma fu anche un instancabile mecenate e patrono delle arti, un «antesignano del Rinascimento»,
come è stato definito dall’italianista ungherese Florio Banfi.
Collaborò col cardinale Branda Castiglione nella promozione
della cultura in Ungheria; fondò chiese, cappelle, un monastero per i francescani a Ozora, un ospedale a Lippa (oggi
Lipova in Romania); finanziò la costruzione a Firenze
dell’Oratorio degli Scolari agli Angeli, meglio noto come la
Rotonda, il cui progetto era stato affidato al grande Filippo
Brunelleschi, «una delle più rare cose d’Italia, – afferma il
Vasari - perciocché quello che se ne vede, non si può lodar
abbastanza»;49 invitò alla sua corte lo scultore-intagliatorearchitetto Manetto Ammannatini, il protagonista della
Leggenda del Grasso Legnaiuolo, vissuto in Ungheria dal
1410 fino alla morte sopraggiunta nel 1450,50 e il pittore
Masolino da Panicale, che gli affrescò il castello di Ozora,
che s’era fatto costruire probabilmente su progetto
dell’Ammannatini.51 Filippo Scolari invitò in Ungheria il cugino, Andrea di Filippo di Renzo degli Scolari, che, già vescovo di Zagabria dal 1407 al 1409, diresse dal 1409 al 1426 il
ben più importante vescovado di Várad. Similmente a
Filippo, Andrea Scolari fu un insigne mecenate che continuò
a Várad l’attività culturale dei suoi predecessori del XIV secolo: fece costruire una cappella di famiglia, ne arricchì un’altra
35
vicino a Várad per i frati paolini, ai quali donò anche un arazzo su cui è dipinta la storia di Sant’Apollonia, lasciò una
cospicua somma di denaro per l’altare della chiesa paolina di
Sant’Apollonia, nonché 400 fiorini per la ricostruzione della
chiesa di S. Michele; infine fece costruire un nuovo altare per
la cattedrale di Várad. Tutto è andato perduto, tranne la lapide sulla sua tomba che esiste ancora.52
Non solo gli eruditi, ma anche i politici influirono sulla
mentalità di Sigismondo favorendone l’apertura agli umanisti
italiani: citiamo tra questi Brunoro della Scala e Marsilio da
Carrara, che, perdute nel 1405 le loro signorie, rispettivamente di Verona e Padova, a vantaggio della Repubblica di
Venezia, s’erano trasferiti alla corte di Buda diventando consiglieri del re.
È doveroso spendere qualche parola anche per il cardinale Branda Castiglione: nato nel borgo omonimo, studiò
prima a Milano, poi a Pavia diritto canonico e civile; entrato
nell’ordine degli agostiniani si presentò a Roma alla corte
papale di Bonifacio IX, il quale ne apprezzò il talento nominandolo cappellano, protonotaro e infine vescovo di
Piacenza. Nel periodo dello scisma e del concilio di Pisa, fu
prima partigiano di Gregorio XII, quindi appoggiò l’elezione
di Alessandro V, infine si schierò dalla parte di Giovanni XXIII.
Nel luglio del 1410 conobbe a Bologna Filippo Scolari, con
cui, dato anche il suo carattere affabile, non tardò a entrare
in amicizia. Nominato nunzio pontificio nei paesi dell’Europa
Centrale, fu incaricato d’un mandato che prevedeva la
costruzione di nuove chiese nei territori di confine con l’impero ottomano e alla fondazione a Óbuda d’uno Studium
generale in funzione antiussita. Ma fin dai suoi primi anni
passati nella Curia romana il cardinale Branda s’era dedicato alle questioni magiare intervenendo nelle cause ecclesiastiche che coinvolgevano il Regno d’Ungheria, che visitò la
prima volta nel 1403 come inviato e collettore papale, accattivandosi i favori della corte di Buda. Durante il suo soggiorno in Ungheria il cardinale Branda entrò anche nelle grazie
del re Sigismondo, che lo nominò prima amministratore dei
vescovadi di Kalocsa e Sirmio, poi addirittura ispán, cioè
governatore del comitato ecclesiastico di Veszprém, che
resse ininterrottamente dal 1412 al 1424. Concluse la carriera in Ungheria come preposto della Collegiata di S. Pietro a
Óbuda, dove si fece costruire uno splendido palazzo. Al servizio del re magiaro lo troviamo pure come diplomatico in
diverse importanti ambascerie: in Polonia per negoziare la
pace tra il re Vladislao II e Sigismondo, in Friuli per organiz36
zare la tregua quinquennale tra l’Ungheria e la Repubblica di
Venezia, infine a Milano per concludere un trattato d’amicizia
tra Sigismondo e il duca lombardo. Quando fece rientro in
Italia, chiamò Masolino da Panicale, pure lui appena ritornato dall’Ungheria, ad affrescargli il palazzo e il battistero di
Castiglione Olona: ne nacque un capolavoro della pittura del
Quattrocento: il Banchetto di Erode.53
Il cardinale Branda Castiglione – scrive Vespasiano da
Bisticci – era amante della cultura, pronto a «prestare favore
agli uomini dotti». Nella breve biografia del cardinale,
Vespasiano da Bisticci ne mette in risalto il carattere forte, la
semplicità e la notevole influenza che esercitava alla corte
pontificia.54 «Fu uomo pratichissimo nelle cose appartenenti
al governo della corte di Roma – scrive ancora Vespasiano
da Bisticci – e poche cose passavano d’importanza, che non
volessino il parere e giudicio suo […]. Era di tanta autorità in
corte di Roma, e per tutta la Chiesa di Dio, e appresso del
pontefice e di tutti i cardinali, che a suo giudizio o determinazioni che facesse, non era ignuno che non l’approvasse,
come uomo di grandissima autorità e riverenza come era
lui».
Il personaggio raffigurato nel Banchetto di Erode alla
destra del vecchio con la barba bianca che impersona la
figura di Erode o addirittura lo stesso Sigismondo di
Lussemburgo o ancora Filippo Scolari, secondo le interpretazioni formulate dai diversi storici dell’arte che hanno studiato questo affresco, e alla sinistra d’un altro personaggio
che potrebbe impersonare o il principe Filippo Maria Visconti
o lo stesso cardinale Branda55 è stato identificato da Florio
Banfi col domenicano e cardinale Giovanni Dominici, anche
se evidentemente l’abito del personaggio non è quello classico d’un domenicano. Il cardinale Dominici aveva raggiunto
il re Sigismondo a Costanza in qualità di nunzio del papa
Gregorio XII. Il Dominici,56 fiorentino, grande ammiratore di
Santa Caterina da Siena, aveva abbracciato l’ordine domenicano ancora diciassettenne stabilendosi nel convento fiorentino di S. Maria Novella. Compiuti gli studi a Parigi, iniziò la
carriera ecclesiastica nel 1381, poco dopo lo scoppio del
grande scisma. Fu un veemente e austero predicatore, insegnò teologia a Venezia e si dedicò con gran fervore alla riforma dell’ordine domenicano. Fu acerrimo avversario dell’umanesimo, ostile allo studio dei classici pagani come si evince in modo particolare dalla sua opera Locula noctis.
Nominato dal papa Gregorio XII arcivescovo di Ragusa e
cardinale della Chiesa col titolo di S. Sisto, fu inviato prima
37
in Ungheria nel 1409, poi a Costanza verso la fine di febbraio
del 1415. A Costanza il Dominici s’incontrò con Filippo
Scolari, col cardinale Branda Castiglione e con János
Hunyadi, il padre di Mattia Corvino. Sigismondo venne così
a trovarsi tra due fuochi: da una parte c’era il cardinale
Dominici, che doveva guadagnarlo alla causa di Gregorio XII,
dall’altra il cardinale Branda, che doveva invece convincerlo
all’obbedienza verso Giovanni XXIII. Alla fine, il Dominici
abbandonò la causa di Gregorio XII e il Branda quella di
Giovanni XXIII, ed entrambi concorsero col re dei Romani
all’elezione del nuovo papa Martino V. Concluso il concilio, il
Dominici fu nominato dal nuovo pontefice nunzio in Boemia
e in Ungheria: doveva vigilare sulla sollevazione ussita e
punire gli eretici anche con la pena di morte. Ma poiché,
come ebbe modo di scrivere Enea Silvio Piccolomini nella
sua Historia Bohemica, il re Sigismondo distolto dalla crociata antiturca «perdette la Boemia, e non potè difendere
l’Ungheria»,57 il cardinale Dominici si ritirò deluso a Buda,
dove morì il 10 giugno 1419.
A questo punto entra in scena Pier Paolo Vergerio, unanimamente definito il promotore dell’umanesimo in
Ungheria. «Senza Pier Paolo Vergerio – sostiene József
Huszti – non si può spiegare l’esistenza come umanista di
János Vitéz e senza Vitéz non c’è Giano Pannonio; senza
Vitéz e Pannonio non esisterebbe neanche la corte di Mattia
Corvino, né esisterebbe il glorioso Quattrocento ungherese,
oppure esisterebbe ma in altra maniera».58 Insomma, Pier
Paolo Vergerio fu il primo apostolo dell’umanesimo in
Ungheria e il suo ispiratore attraverso l’opera del suo discepolo János Vitéz.
38
Note
(1) T. Kardos, Olasz humanizmus-magyar humanizmus [Umanesimo italiano-umanesimo ungherese], «Olasz Szemle», n. 8, 1943.
(2) Su Giovanni da Ravenna cfr. la monografia di R. Sabbadini, Giovanni
da Ravenna, insigne figura d’umanista (1343-1408), Como, 1924, che riporta
in appendice numerosi brani estratti dalle principali opere dell’umanista ravennate; nonché quella di M. Lehnerd, Zur Biographie des Giovanni di
Conversino da Ravenna, Königsberg, 1893. Una breve nota sul ravennate
scritta da R. Sabbadini si può leggere in Briciole umanistiche, n. XII, «Giornale
storico della letteratura italiana», XLIII, 1904, p. 244. Su Giovanni da Ravenna
si rimanda anche all’articolo di M. Solymosi, Note su Giovanni Conversini da
Ravenna, sui suoi rapporti con l’Ungheria e sul suo epistolario inedito, in A
pie’ del vero. Studi in onore di Géza Sallay, a cura di G. Salvi e J. Takács,
Budapest, 2001, pp. 264-273; e infine si rinvia alla voce: Conversini
(Conversano, Conversino), a cura di B.G. Kohl, in Dizionario biografico degli
Italiani, XXXVIII, Roma, 1983, pp. 574-578.
(3) Cfr. Giovanni di Conversino, Rationarium vite, in Sabbadini, Giovanni
da Ravenna cit., n. 30, pp. 157-158.
(4) Scrive di lui il ravennate nella Dragmalogia de eligibili vite genere:
«Nostram prope etatem rex Robertus physicos theologos poetas oratores
accumulatissimo honore litteris effusaque largicione confovit. Quisquis in orbe
terrarum litteris fructum expetisset ad eius regiam minime frustra confluebat;
erat enim tamquam sacrum studiosorum domicilium patens» [Sabbadini,
Giovanni da Ravenna cit., n. 53, pp. 190-192]. Sulle vicissitudini dei codici
della biblioteca del re Roberto: ivi, pp. 9-10.
(5) Le principali notizie sulla vita di Giovanni da Ravenna sono desumibili
dalla sua autobiografia, Rationarium vite, già citata sopra, composta a Padova
nel 1400 e pubblicata a Firenze nel 1986 a cura di V. Nason, nonché dal suo
Epistolario [Codice dell’Accademia di Zagabria], di cui alcune lettere sono
state pubblicate in L. Gargan, Giovanni Conversini da Ravenna e la cultura letteraria a Treviso nella seconda metà del ’300, «Italia Medioevale ed
Umanistica», VIII, 1965, pp. 130-147.
(6) ‘Kis’ [= piccolo] veniva chiamato dal suo primo precettore ungherese
Michele da Zagabria.
(7) Rationarium vite, in Sabbadini, Giovanni da Ravenna cit., n. 31, pp.
158-159.
(8) Cfr. Giovanni Conversini, L’origine della famiglia di Carrara e il racconto del suo impiego, a cura di L. Cortese e D. Cortese, Padova, 1984.
(9) In breve la trama: Elisabetta, figlia d’un imperatore, si innamora di
Landolfo di Narbona; i due scappano a Monselice, dove generano tre figli: una
femmina e due maschi, Milone e Rodolfo. Durante la visita a Padova dell’imperatore, il suo maggiordomo Corrado scopre i bambini e i genitori, e li presenta all’imperatore implorandone il perdono. L’imperatore si commuove e li
perdona e concede a Landolfo alcune terre nel Padovano.
(10) Epistolario, in Sabbadini, Giovanni da Ravenna cit., n. 67, pp. 214215.
(11) L’opera è stata pubblicata a Padova nel 1978 col titolo: La processione dei Bianchi nella città di Padova. Cfr. A.F. Marcianò, La processione dei
Bianchi nella testimonianza di Giovanni di Conversino, Padova, 1980.
(12) L’opera è in forma di dialogo tra due antichi romani, Galba e Catone;
il primo racconta gli avvenimenti (il tentativo di Azzo d’Este di riconquistare la
sua città, Ferrara), il secondo li commenta. L’opera fu richiesta a Giovanni probabilmente dal principe di Padova, Francesco II, che desiderava impossessarsi del dominio di Ferrara, dopo che aveva fatto sposare nel 1397 sua figlia
Gigliola con Niccolò III.
39
(13) Si tratta d’un dialogo tra Damone e Pizia; l’uno racconta, l’altro commenta: un cavaliere francese, Enrico, prima di partire per la Terra Santa aveva
affidato la moglie Elisa alla custodia di Arnaldo, il suo migliore amico. Ma questi tradì l’amico costringendo, armato d’un pugnale, Elisa alle sue voglie.
Tornato il marito dopo sette mesi d’assenza, la moglie gli rivelò l’infamia e
chiese vendetta. Arnaldo respinse l’accusa e ricorse al giudizio di Dio. Nel
duello Enrico soccombette, ma Arnaldo cadendo da cavallo si ferì il capo con
la propria arma e morì. Chiuso alfine questo turbolento capitolo della loro vita,
Enrico ed Elisa rinnovarono la cerimonia nuziale in presenza del re. La prima
parte è una variazione della leggenda di Lucrezia, la seconda ha qualche somiglianza con la scena finale della Teseide del Boccaccio.
(14) In un codice era riportata la seguente annotazione: «Iste liber est
Francisci Barbari q. d. Candiani, quem emit a commissaria doctissimi viri
Iohannis de Ravenna preceptoris sui». La parola ‘commissaria’ significa che il
Barbaro acquistò il libro dagli esecutori testamentari di Giovanni, ma il testamento del ravennate non è mai stato ritrovato. Cfr. Sabbadini, Giovanni da
Ravenna cit., p. 99, nota 1.
(15) Epistolario, in Sabbadini, Giovanni da Ravenna cit., n. 76, p. 227.
(16) La gotta, partendo dalla spiaggia del golfo di Trieste, si era insinuata
nel pollice del piede sinistro dell’autore. «Qui non ci sono mollezze, io sono un
contadino», le disse. La gotta non ci credette, perché non era verosimile che
un contadino maneggiasse i codici e scrivesse opere letterarie. Perciò essa
fece un patto col ragno: la gotta sarebbe rimasta in campagna e il ragno in
città. Sennonché, in città il ragno non ebbe fortuna: venne cacciato da tutti i
potenti. Tornò quindi dalla gotta, pure essa cacciata dai contadini robusti e
sani. Entrambi delusi dell’insuccesso del loro esperimento, decisero alfine di
invertire i ruoli. Così in campagna il ragno non venne più disturbato da nessuno, e poteva tendere le sue reti dove voleva. Anche per la gotta tutto andava
a gonfie vele, grazie alla dissolutezza cittadina, all’intemperanza dei cibi, alle
cattive abitudini di vita. Perciò essa cominciò a sparlare dei medici, che non
riuscivano a curarla. Cfr. Sabbadini, Giovanni da Ravenna cit., n. 56, pp. 196197.
(17) Anche il Petrarca aveva scritto un’opera analoga, il Rerum memorandarum libri, in cui s’era però rifatto a esempi dell’antichità, a differenza del
Nostro che si riferì a storie a lui contemporanee. Non è da escludere però che
Giovanni conoscesse anche il De casibus virorum illustrium del Boccaccio,
(18) Nell’aneddoto De sapienter et graviter dictis aut factis Francesco
Petrarca rimprovera Luigi I di non curare lo stile delle lettere, o meglio lo stile
del suo «dettatore». Nel De pudicitia et castitate si racconta la morte d’una
ragazza ungherese avvenuta per opera dei turchi in occasione d’una loro irruzione nell’Ungheria meridionale nel 1396. Nel De liberalitate et clementia
Giovanni mette a fuoco la generosità di Luigi I verso il re di Bulgaria Stracimiro
(che fu da lui battuto nel 1365 e poi lasciato libero) e verso un suo favorito,
Saraceno Cugania da Padova, accusato d’aver danneggiato l’erario dello stato
(Saraceno da Padova era a capo della Camera regia di Pécs e di Szerém). Nel
De superbia Giovanni racconta l’incontro poco fortunato del presuntuoso
imperatore greco Costantino Paleologo col «cavalleresco» re d’Ungheria Luigi
I, le cui conseguenze, secondo Giovanni, furono tristissime (Costantino era
andato a chiedere aiuto al re d’Ungheria nel 1365, ma aveva tenuto un comportamento irriverente nei confronti del re magiaro: non si denudò il capo al
suo cospetto, rimase in sella al cavallo, mentre Luigi ne era disceso e gli era
andato incontro a capo scoperto. Luigi indignato non gli diede l’aiuto richiesto). Nel De ingratis rubrica l’autore stigmatizza l’ingratitudine di Carlo d’Angiò
e della città di Zara verso gli Angioini ungheresi. Sul Rerum memorandarum
liber cfr. anche T. Kardos, Magyar tárgyú fejezetek Giovanni da Ravenna
emlékiratában [Note d’argomento ungherese nel memoriale di Giovanni da
Ravenna], «Archivium Philologicum» (Egyetemes Philologiai Közlöny), nn. 712, 1936.
40
(19) Sulla discesa in Italia di Luigi I cfr. Chronicon Estense, in Rerum
Italicarum Scriptores, a cura di L.A. Muratori, t. XV, Mediolani, 1729, coll. 295548: 444; nonché Matthei de Griffonibus memoriale historicum de Rebus
Bononiensium, ivi, t. XVIII, Mediolani 1731, coll. 105-234: 167 e Chronica di
Bologna, ivi, coll. 241-792: 409.
(20) Sabbadini, Giovanni da Ravenna cit., pp. 9-10 e n. 12, p. 136.
(21) Cfr. L. Pór, Nagy Lajos [Luigi il Grande], Budapest, 1892.
(22) Cfr. Relatio Laurentii de Monacis Notarii Curie pro parte nobilis viri
ser Pantaleonis Barbo Ambaxiatoris ad partes Hungarie, in quantum tangit et
spectat ad facta unionis et subsidii postulati, in G. Wenzel (a cura di),
Monumenta Hungariae Historica, Acta Extera, vol. III, Budapest, 1876, n. 357,
pp. 623-625; e anche in Monumenta spectantia historiam Slavorum meridionalium, Listine, vol. IV, a cura di S. Ljubić, Zagrabiae, 1874, n. 340, pp. 237238, e, tradotta in italiano da S. Romanin, in Storia documentata di Venezia, t.
III, Venezia, 1855, pp. 312-14. Cito da Wenzel la richiesta di Sigismondo
all’ambasciatore Barbo: «Dominus Rex […] traxit in partem dominum
Ambaxiatorem et dominum Stephanum Voyvodam Magnum Comitem, et
dixit: “Comes Johannes de Vegla scripsit nobis, quod per ea, que senserat,
sperabat dominam matrem nostram adhuc vivere, sed quod de certo uxor
nostra vivebat; et quod si mitteramus sibi gentem, et haberet subsidium a
mari, recuperaret ipsas”».
(23) Per un quadro completo della bibliografia su Lorenzo de Monacis si
rinvia a M. Poppi, Ricerche sulla vita e cultura del notaio e cronista veneziano
Lorenzo de Monacis, cancelliere cretese (circa 1351-1428), «Studi Veneziani»,
IX, 1967, pp. 153-186. Per una breve biografia del de Monacis si rimanda ad
vocem: De Monacis, Lorenzo, a cura di G. Ravegnani, in Dizionario biografico
degli Italiani, vol. 38, Roma, 1990, pp. 660-662.
(24) Sul Beccari e le sue opere cfr. H. Helbling, Le lettere di Nicolaus de
Beccariis, «Bullettino per l’Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio
Muratoriano», n. 76, 1964, pp. 241-249, che contiene l’edizione critica dell’intero Corpus delle sue lettere; E. Levi, Antonio e Niccolò da Ferrara, poeti e
uomini di corte del Trecento, «Atti e Memorie della Deputazione Ferrarese di
Storia Patria», XIX, n. 2, 1909, pp. 41-45. Una breve biografia del Beccari si
può leggere in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. VII, Roma, 1965, pp.
437-440.
(25) Si contano più di 500 tra consiglieri, eruditi, familiares, ecc. d’origine
italiana che furono al servizio di Sigismondo di Lussemburgo o che ricevettero da lui privilegi e benefici e che sono menzionati nei Regesta Imperii o nei
Reichstagsakten. Sui collaboratori italiani di Sigismondo e sugli umanisti ed
eruditi alla sua corte cfr. G. Beinhoff, Die Italiener am Hof Kaiser Sigismunds
(1410-1437), Frankfurt a. M., 1995.
(26) Sigismondo aveva avuto un incontro preliminare presso Lugano con
gli inviati pontifici Francesco Zabarella e Antonio de Challant, che erano
accompagnati dal greco Manuele Crisolora [cfr. H. Finke, Forschungen und
Quelle zur Geschichte des Konstanzer Konzils, Paderborn, 1887, passim]. Il
Crisolora, a conclusione del lungo viaggio intrapreso in Europa nel 1408 tra
Parigi, Londra e la Spagna, s’era stabilito a Bologna, dove però non fece in
tempo a conoscere il papa Alessandro V, appena deceduto, che lo aveva invitato alla sua corte. Rimase tuttavia al servizio di Giovanni XXIII, che lo incaricò
di accompagnare lo Zabarella e il de Challant a Lugano. Il Crisolora, conosciuto Sigismondo, abbandonò la curia pontificia e passò al suo servizio insieme col nipote Giovanni Crisolora.
(27) Alamanno Adimari (1362-1422), fiorentino, dottore utriusque iuris,
canonico, protonotario apostolico, nominato vescovo di Firenze dovette invece accettare il trasferimento a Taranto perché inviso ai fiorentini. Fu molto attivo al concilio di Costanza, che aveva raggiunto dopo una lunga missione compiuta in Spagna e in Francia per conto di Giovanni XXIII. A Costanza divenne
uno dei collaboratoi più stretti del nuovo papa Martino V. Fu in relazione con
41
esponenti dell’umanesimo fiorentino, tra cui Leonardo Bruni. Cfr. la voce:
Adimari, Alamanno, a cura di E. Pasztor, in Dizionario biografico degli italiani,
vol. I, Roma, 1960, pp. 276-277.
(28) Era nato a Montepulciano nella seconda metà del XIV sec. Fu segretario apostolico di Giovanni XXIII. Apprese i primi rudimenti di greco insieme
con Cencio Rustici da Manuele Crisolora e fu in amicizia con Francesco
Barbaro, Poggio Bracciolini, Andrea Giuliani e col Guarino. Seguì il pontefice
a Costanza, dove svolse l’attività di estensore dei documenti ufficiali. Era studioso e appassionato di codici antichi: in un’escursione a S. Gallo insieme col
Bracciolini e con Cencio Rustici, scoprì gli Argonautica di Valerio Flacco, il
commento di Asconio Pedianio a cinque orazioni di Cicerone e un’opera di
Quintiliano. Visionò altre biblioteche della zona con l’amico Bracciolini scoprendo altri autori (tra cui un Vegezio e un Pompeo Festo). A Costanza fu
anche lui uno dei collaboratori del nuovo papa Martino V, che accompagnò nel
viaggio di ritorno a Roma e del quale divenne in seguito protonotario, referendario e segretario apostolico. Nella curia romana fu incaricato, assieme al
Loschi, di redarre importanti documenti pontifici tra cui le lettere da inviare in
Boemia, in Germania e in Ungheria per combattere i seguaci di John Wycliffe.
A Roma partecipò attivamente anche ai simposi organizzati dai suoi amici letterati, di cui il Bracciolini ci ha lasciato testimonianza in una lettera al Bruni e
nel suo dialogo sull’avarizia, e a diversi viaggi di ricerca di codici e visita a
monumenti antichi. Il 9 luglio 1429 risulta già deceduto. Sull’Aragazzi si rimanda alla voce Aragazzi, Bartolomeo, in Dizionario biografico degli italiani, vol.
III, Roma, 1961, pp. 686-688.
(29) Sul Filelfo cfr. C. de Rosmini, Vita di Francesco Filelfo da Tolentino,
Milano, 1808.
(30) Di origine romana, era nato attorno al 1390. Ebbe come maestro di
latino Francesco da Fiano e come insegnante di greco Manuele Crisolora.
Lavorò nella cancelleria romana dal 1411 al 1445, accompagnando la curia in
tutti i suoi viaggi. Tradusse Aristide, Plutarco, le epistole di Eschine. Degne di
menzione sono le sue 25 lettere sulle condizioni religiose e letterarie del suo
tempo.
(31) Dottore in entrambi i diritti, fu professore a Bologna, Firenze e
Padova e uno dei maggiori eruditi della sua epoca. Vescovo di Firenze dal
1410, ricoprì anche incarichi politici: fu al servizio di Francesco I da Carrara
fino al 1406. Morì nel 1417 proprio durante i lavori del concilio di Costanza.
Cfr. Beinhoff, Die Italiener cit., p. 298.
(32) Cfr. K. Harmath, Egy hazánkat érdeklő német ősnyomtatvány a pozsonyi ág. év. Lyceum könyvtárában [Un documento tedesco di stampa antica
che riguarda il nostro paese nella Biblioteca del Liceo di Pozsony], «Magyar
Könyvszemle» (Budapest), 1879, pp. 103-106.
(33) Cfr. V. Bunyitay, A váradi püspökség története [Storia dell’episcopato di Várad], vol. I, Nagyvárad, 1883, pp. 244-248. Sul notaio Antonio de
Franchi: Beinhoff, Die Italiener cit., pp. 192-193.
(34) Cfr. Giovanni da Schio, Sulla vita e sugli scritti di Antonio Loschi
vicentino uomo di lettere e di stato, Padova, 1858, p. 111. Antonio Loschi,
giurista, umanista, poeta e diplomatico è mezionato nella seconda metà del
1426 alla corte di Sigismondo a Buda come conte palatino; verosimilmente fu
anche incoronato poeta laureatus [cfr. Beinhoff, Die Italiener cit., pp. 294-295].
(35) A. Dini-Traversari, Ambrogio Traversari e i suoi tempi, Firenze, 1912.
Il Traversari giunse in Ungheria insieme con l’amico Giovanni De Dominis, allora vescovo di Segna e futuro vescovo di Várad (oggi Oradea in Romania). Cfr.
anche I. Apró, Ambrogio Traversari Magyarországon, 1435–1436 [Ambrogio
Traversari in Ungheria], Szeged, 1935.
(36) Biagio Guasconi nacque a Firenze il 7 giugno 1385. Ricoprì diversi
incarichi politici nella vita pubblica della sua città e compì varie ambascerie,
tra cui quella presso Sigismondo di Lussemburgo nel maggio del 1424 per sollecitarlo a convocare il concilio che negli anni seguenti si sarebbe tenuto a
42
Basilea. L’ambasceria è menzionata da Rinaldo degli Albizzi in un lettera del 5
maggio 1424 scritta da Bologna alla Signoria fiorentina, in un’altra lettera dello
stesso a Vieri Guadagni (Roma, 9 ottobre 1424) e infine in una missiva di Vieri
Guadagni all’Albizzi, datata Firenze, 28 ottobre 1424, che annuncia il ritorno del
Guasconi in patria. E ancora, il 30 ottobre dello stesso anno la Signoria annunciò in una lettera al re dei Romani il ritorno del suo ambasciatore a Firenze. Nel
1432 fu incaricato d’una nuova missione presso Sigismondo, che però non
andò in porto. Morì nel 1449 ad Ancona, dove era stato esiliato dopo la caduta del governo degli Albizzi e il ritorno di Cosimo de’ Medici. Ebbe un’impostazione culturale classica e fu in contatto con l’ambiente del primo umanesimo
fiorentino e soprattutto fu in intima amicizia con Cencio Rustici. In campo letterario il Guasconi è legato alla prima redazione dell’invettiva contro Niccolò
Niccoli del 1413, di cui si parla nell’Epistolario del Guarino e in una lettera di
Francesco Barbaro. Cfr. la voce Guasconi, Biagio, a cura di R. Zaccaria, in
Dizionario biografico degli italiani, vol. LX, Roma, 2003, pp. 465-468.
(37) Per una biografia di Bartolomeo della Capra si rimanda alla voce
omonima a cura di D. Girgensohn, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma,
1976, pp. 108-113; nonché a Beinhoff, Die Italiener cit., pp. 118-119.
(38) Cfr. L. Smith, Note cronologiche vergeriane, «Archivio Veneto», serie
V, vol. IV, 1928, pp. 92-141: 134-137; L. Smith, Epistolario di Pier Paolo
Vergerio, Roma, 1934, pp. 453-458.
(39) Per qualche cenno su Ognibene della Scola: Beinhoff, Die Italiener
cit., pp. 225-228.
(40) Florio Banfi [Pier Paolo Vergerio il Vecchio in Ungheria, «Archivio di
Scienze, Lettere ed Arti della Società italo-ungherese Mattia Corvino», I, 1939,
n. 2, pp. 17-29: 26, nota 18] cita i nomi di alcuni scolari ungheresi che seguirono le lezioni dello Zabarella tra il 1399 e il 1403: Dominicus quondam Gali
[Gál] de Bodon de Ungaria, Armanus Lumeniz [Lomnic] de Ungaria, Matheus
quondam Petri de Catholicis de Valvasone canonicus Vaciensis in Ungaria,
Dominicus dictus Ungarinus, Johannes Jacobi de Lale praepositus ecclesiae
Transilvaniensis, Johannes Johannis de Zamse canonicus Varadiensis et
Bosniensis, Johannes de Scepus archidiaconus de Doboka, Magister
Benedictus de Ungaria artium doctor, Laurentius Nicolaus filius Johannis
Czeiselmaist de Praga e Gasparo Schilikio, consigliere di Sigismondo di
Lussemburgo.
(41) Cito qui l’assise di Visegrád del 21 luglio 1424, in cui era all’ordine del
giorno una causa presentata dall’arcivescovo Günther di Magdeburgo. Cfr. W.
Altmann (a cura di), Die Urkunden Kaiser Sigmunds [Regesta Imperii],
Innsbruck, 1896-97, n. 5911, p. 419.
(42) Cfr. Beinhoff, Die Italiener cit., pp. 256-258.
(43) Il de Benzi stesso si definisce in un documento del 1405
«Archiepiscopus Spalatensis, et Legum Doctor, Vicariusque in spiritualibus ac
pontificalibus, diocesis Agriensis specialiter deputatus». Cfr. Gy. Fejér, Codex
Diplomaticus Hungariae Ecclesiasticus ac Civilis, t. X, vol. IV: 1400-1409,
Budae, 1841, n. 198, pp. 428-434.
(44) Cfr. D. Farlatus, Illyrici sacri tomi VIII, Venezia, 1751-1819, t. III,
p. 361.
(45) Cfr. Fejér, Codex Diplomaticus cit., t. X, vol. V: 1410-1417, Budae
1842, n. 62, pp. 148-149 (anno 1411) e n. 139, pp. 313-318 (anno 1412).
(46) Cfr. Farlatus, Illyrici sacri tomi VIII cit., t. III, p. 363.
(47) Cfr. Codex diplomaticus patrius [Hazai Okmánytár], t. II, Győ r, 1865,
p. 194 (Buda, 12 gennaio 1412).
(48) Cfr. S. Katona, Historia metropolitanae Colocensis ecclesiae,
Colocae, 1800, trad. ungherese di J. Takács, A kalocsai érseki egyház története, vol. I, Budapest, 2001, pp. 223-227.
(49) C. Vasari, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri, Firenze, 1550, t. II, p. 372.
(50) La Leggenda del Grasso Legnaiuolo si può leggere in A. Manetti,
43
Operette istoriche edite e inedite, a cura di G. Milanesi, Firenze, 1887, pp. 3-67.
(51) Su Filippo Scolari si rimanda a G. Nemeth e A. Papo, Ozorai Pipo.
Mercante, condottiero e mecenate agli albori del Rinascimento, «Ambra.
Percorsi di italianistica» (Szombathely), III, 2002, pp. 237-249; G. Nemeth,
Filippo Scolari. Un esempio di condottiero e mecenate alla corte di
Sigismondo di Lussemburgo, in Hungarica Varietas. Mediatori culturali tra
Italia e Ungheria, a cura di A. Papo e G. Nemeth, Mariano del Friuli, 2003,
pp. 87-92.
(52) Su Andrea Scolari vescovo di Várad cfr. Bunyitay, A váradi püspökség története cit., pp. 232-243. Sul suo mecenatismo si veda il saggio di J.
Balogh, Andrea Scolari váradi püspök mecénási tevékenysége [L’attività
mecenatica del vescovo di Várad Andrea Scolari], «Archeológiai Értesítő»
(Budapest), XXXVIII, 1918-19, pp. 173-188.
(53) Sul cardinale Branda si legga il saggio di T. Foffano, Rapporti tra Italia
e Ungheria in occasione delle legazioni del cardinale Branda Castiglioni
(1350-1443), in Venezia e Ungheria nel Rinascimento, a cura di V. Branca,
Firenze, 1973, pp. 67-78. Sulla sua attività ecclesiastica in Ungheria qualche
notizia si può reperire nel libro di V. Fraknói, Magyarország egyházi és politikai
összeköttetései a Római Szent-székkel [Contatti religiosi e politici
dell’Ungheria con la Santa Sede di Roma], vol. I, Budapest, 1901, passim.
(54) Cfr. Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, a cura
di L. Frati, vol. I, Bologna, 1892, pp. 98-101.
(55) Sull’affresco di Castiglione Olona e sulle sue interpretazioni si rimanda al saggio di G. Nemeth e A. Papo, Filippo Scolari nell’iconografia ritrattistica, «Transylvanian Review» (Cluj-Napoca), XIII, Winter 2004, pp. 96-108.
(56) Sul cardinale Dominici si veda la ricca bibliografia riprodotta nel saggio di F. Banfi (Holik Barabás Flóris), Una scena del rinascimento ungherese in
un affresco del battistero di Castiglione Olona, «Corvina» (Budapest), XV, vol.
XXIX-XXX, 1936, pp. 61-99.
(57) E.S. Piccolomini, Historia Bohemica, Vinegia, 1545, cap. XXXVIII,
c. 46v.
(58) J. Huszti, Pier Paolo Vergerio s a magyar humanizmus kezdete [Pier
Paolo Vergerio e l’inizio dell’umanesimo ungherese], «Filológiai Közlöny»,
estratto Budapest, 1955, pp. 521-533.
44
KLÁRA PAJORIN
Istituto di Studi Letterari dell’Accademia Ungherese
delle Scienze (Budapest)
Alcuni rapporti personali
di Pier Paolo Vergerio in Ungheria
Pier Paolo Vergerio andò al servizio del re Sigismondo
dopo la chiusura del Concilio di Costanza (1418), a quarantotto anni, quindi visse in Ungheria per ventisei anni e morì
nel 1444 a Buda.1 Per quanto riguarda i suoi rapporti umani
personali in Ungheria, pareva vivesse in modo assai solitario.
Le sue relazioni con gli amici umanisti d’Italia, con i quali era
in corrispondenza, si interruppero: non ci è pervenuta neanche una sua lettera mandata dall’Ungheria in Italia. Dall’Italia
gli arrivò una sola lettera con cui lo contattò, dopo un lungo
periodo di silenzio, Nicolò dei Leonardi, suo amico da
tempo, con il quale in precedenza aveva corrispondenza,2
ma pare che il Vergerio lo lasciò senza risposta. Neanche
Guarino Veronese ebbe lettere da lui, almeno non ce n’è pervenuta nessuna, nonostante prima fossero amici stretti e si
scambiassero frequentemente delle lettere. Secondo
Guarino, Vergerio viveva in Ungheria come un eremita («tanquam in eremo»).3 Anche la sua corrispondenza pare inaridita. Mentre del periodo precedente della sua vita ci sono pervenute quasi 150 lettere, del periodo del soggiorno in
Ungheria se ne sono conservate solo tre. Possiamo supporre che numerose lettere siano andate perdute, o magari si
trovino ancora nascoste in qualche biblioteca. Tra le tre lettere scritte in Europa Centrale, e da noi conosciute. Una è la
lettera dedicata all’opera di Arriano su Alessandro Magno,
che Vergerio tradusse dal greco in latino su richiesta di
Sigismondo.4 Il destinatario della seconda lettera5 non lo
conosciamo, mentre la terza è indirizzata a Ioannes De
Dominis, vescovo di Segna (Senj, Zengg).6 Esaminando i
rapporti del Vergerio in Ungheria, tratterò prima di tutto questa terza lettera e il suo destinatario, e quindi di quelle persone che conosciamo dal testamento dell’umanista.
Finora al vescovo di Segna, non è stata dedicata particolare attenzione, nonostante De Dominis abbia avuto un ruolo
importante nella formazione della cultura umanistica in
45
Ungheria. Ioannes De Dominis (Arbe, inizio del XV secolo –
Varna, 10 novembre 1444)7 ricevette il titolo di nobile dal re
Sigismondo. Fu consigliere del re, e ottenne il vescovato di
Segna nel 1432. Partecipò, come ambasciatore di
Sigismondo, al Concilio di Basilea-Ferrara-Firenze. Nel 1435
Ambrogio Traversari, famoso grecista e traduttore fiorentino,
arrivò con lui da Basilea in Ungheria come legato papale.8
Nel 1437-1439 De Dominis fu nunzio del papa Eugenio IV in
Germania e Ungheria, e poi nel 1440 condusse l’ambasciata
che offrì il trono d’Ungheria al re polacco Uladislao I.
Dell’ambasciata faceva parte anche János Vitéz, allora canonico custode di Zagabria e protonotario della cancelleria
reale. Ferenc Szakály riteneva che il testo della lettera di fede
di Uladislao fosse stato ovviamente scritto da Vitéz;9 András
Kubinyi, invece, ha dimostrato che il testo è stato redatto dal
De Dominis.10 Nel febbraio del 1440 il papa nominò il De
Dominis vescovo di Veszprém, ma il partito del re Ladislao V,
minorenne, non accettò la nomina. Ritornato dall’ambasciata in Polonia, De Dominis ottenne, al posto del vescovato di
Veszprém, quello di Várad (oggi Oradea in Romania), e János
Vitéz divenne prevosto di Várad nel 1442 accanto a lui.
Ioannes De Dominis morì nella battaglia di Varna nel 1444 e
Vitéz ereditò la sua sede vescovile a Várad.11
De Dominis fu un diplomatico eccellente, che con la sua
attività nei vari concili e le sue ambascerie, acquisì fama
internazionale. Al Concilio di Basilea-Ferrara-Firenze ebbe
rapporti con i migliori umanisti della sua epoca. Accanto ad
Ambrogio Traversari e al Vergerio, era suo amico anche
Giuliano Cesarini.12 Ebbe anche la stima di Geórgios
Trapezuntius, che in una lunga lettera gli fece un resoconto
degli avvenimenti finali del concilio di Firenze, ai quali De
Dominis non poté assistere.13 Possiamo considerare significativo il fatto che Vergerio lo onorò con una sua opera letteraria. Ciò vuol dire che l’umanista ebbe un rapporto stretto
con lui, e lo considerava partner intellettuale. Sulla base di
queste informazioni, in un mio studio che è in stampa, riesamino il testo, ben conosciuto e spesso citato del libro di
Callimachus Experiens, intitolato Vita et mores Gregorii
Sanocei, e provo a dimostrare che, dovette essere proprio il
De Dominis, e non János Vitéz, come fino adesso si riteneva, il vescovo di Várad che partecipò come giudice ai certami letterari, a Buda, tra il Vergerio, il greco Filippo
Podocatero e il polacco Gregorž z Sanoka.
46
L’epistola a Ioannes De Dominis fu scritta dal Vergerio
intorno al 1435-1436, probabilmente nel periodo in cui
Traversari soggiornò in Ungheria, e De Dominis, stava insieme a lui dopo esser tornato da Basilea. La lettera fu divulgata in Italia pare da Ambrogio Traversari, che lasciò l’Ungheria
all’inizio del 1436.14 Nicolò dei Leonardi, medico veneziano,
nella sua lettera, datata 27 maggio 1437, e lasciata senza
risposta dal Vergerio, scrive al Vergerio di aver letto con
grande piacere la lettera indirizzata a De Dominis.15 È noto
che Nicolò dei Leonardi fu amico e corrispondente di
Ambrogio Traversari,16 perciò è probabile che sia venuto a
conoscenza della lettera del Vergerio tramite il Traversari.
L’analisi dell’epistola – insieme all’altra, scritta in Europa
Centrale per una persona sconosciuta – meriterebbe studi
approfonditi. Prescindendo dalla salutatio e dalle formule
d’inizio, il Vergerio racconta nella lettera due lunghe storie,
che finiscono con un colpo di scena, quindi, prendendole
per exemplum e spiegandole, riassume il loro insegnamento
filosofico e morale. Una delle storie figura nel libro di Poggio
Bracciolini pubblicato successivamente e intitolato Facetiae,
mentre l’altra è conosciuta dal Talmud. Poggio e Vergerio
hanno probabilmente conosciuto la storia da una fonte
comune. Precedentemente, avevano lavorato insieme alla
Curia Papale e al Concilio di Costanza. Anche l’altra lettera,
scritta in Europa Centrale, è di carattere e struttura simili,
con la differenza che in quest’ultima, come punto di partenza della spiegazione morale, Vergerio racconta una sola
lunga storia, che finisce ugualmente con un colpo di scena
spiritoso.17
Per le relazioni del Vergerio è una fonte importante di
informazioni il suo testamento. Esso fu scritto il 3 maggio del
1444, nella sua casa di Buda, «circha primam horam noctis».18 Venne redatto da Petrus Paulus de Buionis, canonico
di Albenga, notaio imperiale, il quale, nove giorni dopo la
morte del Vergerio avvenuta il 17 luglio del 1444, per richiesta di Nicolaus Tragurinus, procuratore dell’erede Ursula,
moglie di Domenico Vergerio, lo modificò e ne fece un
estratto. A noi è pervenuta questa seconda stesura del testamento, l’autenticità del quale fu testimoniata dal cardinale
Giuliano Cesarini, indicato dal Vergerio, come esecutore plenipotenziario del testamento, insieme con Manetto
Ammannatini.19 La nomina degli esecutori fa supporre che
fossero due persone cui Vergerio riconosceva la massima
fiducia. Il Cesarini (1398–1444),20 che morì sei mesi dopo la
47
data del testamento nella battaglia di Varna, rimase una figura sciagurata nella coscienza storica ungherese. È noto che
fu lui a proporre, nell’estate del 1444, di violare l’accordo di
pace concluso con i turchi a Szeged, adducendo che il giuramento fatto ai pagani non fosse valido. Più tardi, in
Ungheria, molti gli attribuirono la colpa della catastrofe di
Varna. È stato Tibor Klaniczay il primo a giudicarlo oggettivamente, riconoscendo anche i valori del Cesarini e dimostrando che i suoi contemporanei ungheresi, János Hunyadi,
János Vitéz, Pál Ivanich, non lo ritennero capro espiatorio e
non lo accusarono di essere stato responsabile della tragedia di Varna: ciò successe più tardi. János Vitéz, per esempio, nelle sue lettere parla di lui con rispetto e compassione.21 All’epoca dell’organizzazione della campagna del 1444
contro i turchi, il Cesarini era all’apice della sua popolarità e
del suo potere. Sappiamo che era uno dei prelati più stimati
dell’epoca per la sua cultura umanistica; conosceva molto
bene le fonti latine e greche, era un bravissimo scrittore ed
oratore, ed era ritenuto moralmente impeccabile. A ventisei
anni era già cardinale e, lavorando instancabilmente come
presidente del Concilio di Basilea, si guadagnò una reputazione straordinaria. I contemporanei lo consideravano la personificazione degli ideali umani dell’epoca: aveva quasi fama
di santo.22 La sua conoscenza del Vergerio risaliva a vecchia
data. Arrivò la prima volta alla corte di Sigismondo nel 1422,
insieme al cardinale Branda da Castiglione, legato papale, di
cui era al servizio. Nel febbraio del 1424 partecipò, a
Cracovia, al matrimonio del re polacco Uladislao, celebrato
in presenza di tre re (Sigismondo, il re danese e l’imperatore
bizantino Manuele Paleologo).23 Il Cesarini vi tenne un’orazione e, finiti i festeggiamenti, probabilmente accompagnò
Branda da Castiglione a Buda.24 Al matrimonio di Cracovia fu
invitato anche Francesco Filelfo, che era arrivato da Bisanzio
a Buda presso Sigismondo come ambasciatore del
Paleologo.25 Alla festa di nozze tenne un’orazione anche lui.
Tornato a Buda, il Filelfo ebbe un rapporto strettissimo con il
Cesarini che più tardi, come presidente del Concilio di
Basilea, rievocando i tempi passati insieme a Buda, lo
chiamò al Concilio, ma Filelfo rifiutò l’invito.26 A Buda
entrambi ebbero l’occasione di incontrare Vergerio, che
lavorava accanto a Sigismondo come referendarius.
L’altro esecutore del testamento, il fiorentino Manetto
Ammannatini (1348-1449), detto «il grasso legnaiuolo», fu
allievo di Brunelleschi a Firenze. Nel 1409 Filippo Scolari lo
invitò in Ungheria dove, come familiare di Sigismondo, diven48
ne uno dei più influenti personaggi della corte di Buda.27 Visse
e lavorò in Ungheria per incarico del re e di vari ecclesiastici.
La sorte di Ammannatini – per il fatto che si stabilì definitivamente in Ungheria – assomigliava assai a quella del Vergerio.
Il Vergerio, quando fece il testamento, era un cittadino
benestante di Buda. Lui stesso esonerò l’amministratore dei
suoi beni a Capodistria di nome Vergerio di Vergerio da tutti
i suoi debiti e gli lasciò i beni che possedeva lì. Espresse la
sua volontà di lasciare in eredità tutti gli altri suoi beni mobili ed immobili (quindi anche la sua casa di Buda) al parente
più prossimo in linea paterna, o, in mancanza, in linea materna. Delegò pieni poteri agli esecutori del testamento che,
oltre a pagare le spese dei funerali, pagarono i suoi debiti, e
fecero altre elargizioni di beneficenza. Ordinò di essere seppellito nella chiesa di San Nicolò dei domenicani di Buda.28
«Reliquit multos libros graecos et latinos» – scrisse il suo
primo biografo anonimo, che ebbe quest’informazione da
Petrus Paulus de Buionis, notaio imperiale, quando quest’ultimo, arrivato dall’Ungheria e passato per Bologna, si dirigeva verso Roma, portando con sé un enorme cammello, regalo di Cesarini al papa.29 Il testamento, purtroppo, non dice
niente in particolare dei libri30 e nulla sappiamo della loro
sorte.
Tra i testimoni del testamento vi erano sei familiari del
cardinale Cesarini. La lettura dei loro nomi – come osserva
Smith, editore del testamento31 – non è del tutto certa. Per
primo testimone figura Nicolaus Tragurinus «miles», omonimo del procuratore dell’erede (Ursula, moglie di Domenico
Vergerio). Nicolaus Tragurinus arrivò alla casa del Vergerio
insieme a suo figlio, Georgius. Inoltre, fecero da testimoni
anche un italiano di Firenze (Obertus Zasius) e un ungherese
di Buda (Petrus Hungarus); di quest’ultimo notarono che
sapeva l’italiano. Entrambi erano familiari del Cesarini. Altri
due erano clerici, uno («Martinus q. Ioannis»), clerico della
diocesi di Bács, l’altro («Ioannes Andree»), canonico della
chiesa di Csázma nella diocesi di Zagabria. Oltre ai familiari
del Cesarini figuravano i nomi di altri due testimoni, familiari
di Nicolao Tragurinus: Cristoforo de Palma e «Varsar Helie»
[Vásárhelyi?] di Buda, che conosceva l’italiano. Erano presenti anche molti abitanti di Buda («multis habitantibus
Bude»), invitati appositamente per fungere da testimoni.32
Questi ultimi – folla anonima – si suppone fossero familiari,
vicini di casa e conoscenti del Vergerio.
49
Nella notte della stesura del testamento, presso la casa
del Vergerio si raccolse una moltitudine variopinta di ospiti,
costituita da persone assai diverse per nazione, lingua, professione e posizione sociale. In base a queste notizie, alla lettera scritta a De Dominis e al racconto di Callimachus
Experiens, si può supporre che il Nostro ebbe molti conoscenti e amici e che conducesse una vita con molte relazioni sociali. I suoi amici intimi e i suoi ospiti erano intellettuali e
artisti italiani eccellenti, ma teneva le porte aperte anche ai
loro familiari; anzi, in qualche caso anche ai semplici abitanti di Buda. I suoi vecchi amici italiani, con i quali interruppe i
rapporti, potevano credere che vivesse in Ungheria in ritiro,
quasi come un eremita, ma i pochi documenti redatti in
Europa Centrale sembrano provare il contrario.
50
Note
(1) Sulla sua vita in Ungheria: P.P. Vergerio, Epistolario, a cura di L. Smith,
Roma, Tipografia del Senato, 1934, pp. XI-XXX («Fonti per la storia d’Italia,
Epistolario, secolo XIV-XV»); F. Banfi, Pier Paolo Vergerio il Vecchio in
Ungheria, «Archivio di scienze, lettere ed arti della Società Italo-Ungherese
Mattia Corvino, Supplemento a Corvina Rassegna Italo-Ungherese», I, 1939,
settembre, fasc. I, pp. 1-3; I, 1939, novembre, fasc. II, pp. 17-29; II, 1940, gennaio, fasc. I, 1-30; J. Huszti, Pier Paolo Vergerio s a magyar humanizmus kezdetei [P.P.V. e gli inizi dell’Umanesimo ungherese], «Filológiai Közlöny», 1,
1955, pp. 521-533; K. Pajorin, A magyar humanizmus Zsigmond-kori alapjai
[Fondamenti dell’Umanesimo in Ungheria nell’età di re Sigismondo], in
Művészet Zsigmond király korában. Tanulmányok [L’arte nell’età di re
Sigismondo. Studi], a cura di L. Beke, E. Marosi, T. Wehli, Budapest,
Mű vészettörténeti Kutató Csoport, 1987, pp. 193-211; G. Beinhoff, Die
Italiener am Hof Kaiser Sigismunds (1410-1437), Frankfurt am Main, Peter
Lang, 1995, pp. 229-233.
(2) Vergerio, Epistolario cit., pp. 395-398.
(3) Ivi, p. 477.
(4) Ivi, pp. 379-384.
(5) Ivi, pp. 384-387.
(6) Ivi, pp. 388-395.
(7) V. Bunyitay, A váradi püspökség története [La storia del vescovato di
Nagyvárad], vol. 1, Nagyvárad, 1883, pp. 262-268; Vergerio, Epistolario cit.,
pp. 388-390; Florio Banfi, Salve, Varadino, felice!… La città di S. Ladislao nei
rapporti italo–ungheresi, «Corvina. Rassegna italo-ungherese», III, 1940, pp.
829-830; Hrvatski biografsi Leksikon, a cura di T. Macan, vol. 3, Zagreb,
«Leksigrafski Zavod Miroslav Krleža», 1993, pp. 492-493.
(8) I. Apró, Ambrogio Traversari Magyarországon, 1435–1436 [A.T. in
Ungheria], Szeged, 1935, pp. 38-42 («A szegedi M. Kir. Ferencz József
Tudományegyetem Közép- és Újkori Történeti Intézete», 3).
(9) F. Szakály, Vitéz János, a politikus és államférfi (Pályavázlat – kérd jelekkel) [János Vitéz il politico e l’uomo di stato. Disegno di carriera – con punti
interrogativi], in Vitéz János Emlékkönyv [In memoria di János Vitéz],
Esztergom, Balassa Bálint Társaság, 1990, p. 12 («Esztergom évlapjai. Annales
Strigonienses», 1990).
(10) A. Kubinyi, Vitéz János a jó humanista és a rossz politikus [János
Vitéz il bravo umanista e il cattivo politico], in A magyar történelem vitatott
személyiségei [Personaggi discussi della storia ungherese], ed. Magyar
Történelmi Társulat, Budapest, Kossuth Kiadó, 2003, p. 11.
(11) Vergerio, Epistolario cit., p. 388, nota 1.
(12) F. Banfi, Salve, Varadino felice! cit., p. 829.
(13) Collectanea Trapezuntiana. Texts, Documents and Bibliographies of
Georg of Trebizond, ed. J. Monfasani, Binghamton-New York, 1984, pp. 261268 («Medieval and Renaissance texts and studies», 25).
(14) Apró, Ambrogio Traversari cit., p. 59.
(15) Vergerio, Epistolario cit., pp. 395-396.
(16) Ivi, p. 87 (nota); L. Bertalot, Zwölf Briefe des Ambrogio Traversari,
«Römische Quartalschrift», 1910, p. 90 sgg.
(17) Vergerio, Epistolario cit., p. 390 (nota).
(18) Ivi, p. 463.
(19) Ivi, pp. 469-470.
(20) Vespasiano da Bisticci, Le vite, vol. 1, ed. A. Greco, Firenze, 1970, pp.
137-158; A.A. Strnad e K. Walsh, Cesarini, Giuliano, in Dizionario Biografico
degli Italiani, vol. 24, Roma, Enciclopedia Italiana, 1980, pp. 137-158.
51
(21) T. Klaniczay, A magyarországi akadémiai mozgalom előtörténete [I
precedenti del movimento accademico in Ungheria], Budapest, Balassi Kiadó,
1993, p. 37.
(22) Vespasiano da Bisticci, Le vite cit., pp. 138 (nota) e 141.
(23) Apostolo Zeno, Dissertazioni Vossiane, vol. 1, Venezia, 1752, p. 278.
(24) Strnad-Walsh, Cesarini cit., p. 189.
(25) H. Horváth, Zsigmond király és kora [Il re Sigismondo e la sua età],
Budapest, 1937, p. 78; C. de Rosmini, Vita di Francesco Filelfo da Tolentino,
vol. 1, Milano, 1808, pp. 9-12.
(26) La lettera di Cesarini è pubblicata in Rosmini, Vita di Francesco
Filelfo cit., pp. 146-147.
(27) Allgemeines Lexikon der bildenden Künstler, a cura di U. Thieme e F.
Becher, vol. 1, Leipzig, Engelmann, 1907, p. 416; Allgemeines KünstlerLexikon, vol. 3, München–Leipzig, 1992, p. 258; L. A. Maggiorotti e F. Banfi,
Le fortificazioni di Buda e di Pest e gli architetti militari italiani, Roma, Istituto
di Architettura Militare Museo del Genio, s. d. (1934?), pp. 46-48; Beinhoff, Die
Italiener am Hof Kaiser Sigismunds cit., pp. 178-180; G. Nemeth, Filippo
Scolari. Un esempio di condottiero e mecenate alla corte di Sigismondo di
Lussemburgo, in Hungarica Varietas. Mediatori culturali tra Italia e Ungheria,
a cura di A. Papo e G. Nemeth, Mariano del Friuli (Gorizia), Edizioni della
Laguna, 2002, pp. 88, 91 (nota).
(28) Vergerio, Epistolario cit., p. 465.
(29) Ivi, pp. 474-475.
(30) Ivi, p. 470 (nota).
(31) Ivi, p. 468, (nota).
(32) Ivi, p. 468, righe 15-23.
52
ÁGNES RITOÓK SZALAY
Istituto di Studi Letterari dell’Accademia Ungherese
delle Scienze (Budapest)
Janus Pannonius e papa Paolo II
Sono ben note le circostanze del primo incontro ufficiale
tra Janus Pannonius e papa Paolo II. Il veneziano Pietro
Barbo occupò il trono di San Pietro nell’estate del 1464 col
nome di Paolo II. Nella primavera dell’anno seguente, il re
Mattia Corvino mandò a Roma proprio Janus Pannonius,
allora vescovo di Pécs, affidandogli il compito di fare gli
auguri al nuovo papa. La delegazione presentò anche la
richiesta di aiuto per la guerra contro i turchi e qualche altra
domanda di carattere privato o pubblico. L’incontro personale tra i due ecclesiastici avvenne nel maggio 1465.1
In quel periodo si parlava già in pubblico delle strane
condizioni delle udienze perché il papa dormiva di giorno e
solo di notte riceveva gli attendenti nell’anticamera. Questa
vita di ordine capovolto viene notata e descritta da tutti i
contemporanei. Avendo in possesso diverse fonti che raccontano il periodo del papato di Paolo II (1464-1471), si ha
la possibilità di scegliere. Uno dei suoi contemporanei ritiene che egli rimanesse sveglio di notte per via del catarro che
lo tormentava di notte nel sonno.2 Un altro invece scrive che
egli doveva dormire fino a tardi per via delle udienze che
duravano fino a notte tarda.3 Secondo Callimachus
Experiens gli dava fastidio la luce di giorno, motivo per cui
egli lo chiamava ‘cicindela’, cioè lucciola.4 Giacomo
Piccolomini, il cardinale che teneva rapporti anche con i prelati ungheresi, era meno comprensivo, e si arrabbiava per la
curiosa abitudine del papa.5 Tra i contemporanei, era ancora
meno tollerante e paziente Platyna, che, infatti, lo chiamava
praeposterus.6 Ciò divenne anche il titolo di un epigramma di
Janus Pannonius:
De homine praepostero
Quem tenebris vigilare iuvat, dormire diebus,
cur non et versis vestibus ire iuvat?
[Ep. I. 223]
53
La poesia passava da mano in mano dei membri della
Curia, ma sicuramente non venne consegnata al papa.
Mentre un’altra poesia di Janus – il poeta era allora già noto
in Italia – con molta probabilità giunse nelle mani anche del
papa.
De Paulo pontifice summo
Qui modo Petrus eras, Paulus nunc diceris idem,
ac Petri et Pauli culmina summa tenes.
Clave potens meritis reserat caelestia Petrus
at Paulus gladio noxia cuncta secat.
Sic et tu amborum fungens vice, maxime praesul,
percute sacrilegos, sidera pande piis.
[Ep. I. 264]
Il messaggio di estrema attualità della poesia allora era
ovvio a tutti. Il papa, che collezionava medaglie e gemme
antiche, già nel primo mese del suo servizio fece coniare
dagli orafi una nuova bolla. La rappresentazione sul sigillo
pendente papale era stabile fin dal secolo XI: su una faccia
si vedevano la testa di Paolo e quella di Pietro in due riquadri separati e con un’iscrizione, sull’altra si vedeva il nome
del papa in carica. Papa Paolo II, rinunciando a questa tradizione plurisecolare, fece mettere sul verso della bolla l’udienza papale invece della semplice iscrizione abituale:
accanto al papa si vedevano cardinali, davanti al papa invece i richiedenti, tutti in ginocchio. C’era anche il nome del
papa. Sul retro, invece, era rappresentato San Paolo sul
trono, che teneva in mano un libro e una spada. Anche San
Pietro era seduto sul trono, in mano teneva un libro e la chiave.7 Janus, sfruttando la possibilità dello scambio di nome
(da Pietro Barbo a papa Paolo II) fa riferimento ai due apostoli principali, poi sottolinea gli attributi rappresentati sulla
nuova bolla:
Clave potens meritis reserat caelestia Petrus
at Paulus gladio noxia cuncta secat.
Si conosce abbastanza l’epoca e anche i personaggi per
essere sicuri che Janus abbia sfruttato le possibilità della sua
posizione. Il papa Paolo II lesse la poesia nata come laudazio dell’opera d’arte ideata da lui stesso. Tutti i biografi del
papa parlarono della modifica nella rappresentazione della
bolla che suscitò grande stupore, e non solo in senso positivo. Infatti, il papa seguente, Sisto IV, ritornò subito alla forma
tradizionale.
54
Anche un’altra poesia è rapportabile al soggiorno di
Janus nella città di Roma. Già i contemporanei informarono
che il papa aveva grande paura dei sintomi negativi riguardo
il futuro.8 Allude proprio a questo la poesia di Janus:
Quem meus aligera venator cuspide cervum
perculerat, ravi diripuere lupi.
Omine perturbor, ne forsitan improbus hostis,
Petre, tibi sacras depopuletur oves.
Astra minantur idem, sed tu, sanctissime mundi
ianitor, in melius tristia monstra refer.
Summa tibi terrae, caeli est tibi summa potestas,
solvere sive aliquid, sive ligare velis.
Quodsi non aptas haec ad tutamina claves
causaris, gladium te prope Paulus habet.
Armato manda collegae proelia inermis:
ille tuum stricto proteget ense gregem.
[Ep. I. 29]
Le prime righe annunciano il cattivo auspicio. Il cervo,
disturbato dal cacciatore, viene dilaniato da lupi feroci.
Anche la posizione degli astri è minacciosa. Il gregge è in
pericolo. Devono venire ad aiutare il pastore della chiesa
Pietro, il custode della chiave, e Paolo con la sua spada. Il
proposito della poesia sono le dicerie sul papa, tanto ossessionato dai prodigi. Infatti, egli chiede aiuto ai santi apostoli,
Pietro e Paolo di cui porta il nome e che sono raffigurati, con
la chiave e con la spada, anche sulla sua bolla. Sembra sicuro che, anche questa poesia, sia giunta nelle mani del destinatario.
Bisogna spendere qualche parola anche sull’ultimo (?)
incontro tra il vescovo e il papa. Janus Pannonius morì il 27
marzo nel Castello di Medve, sopra Zagabria, mentre fuggiva dall’ira del re a causa di un complotto contro Mattia
Corvino. Allora non era possibile seppellirlo nella sua sede
vescovile e nemmeno in condizioni degne del suo rango. La
tomba provvisoria gli venne assegnata nella chiesa del
monastero dei paolini, a Remete presso Zagabria. Non ci
sono pervenute descrizioni dei funerali di allora, ma vi sono i
ricordi dei contemporanei. Bonfini, storico di corte, coltivò
grande stima nei confronti del giovane Giovanni Vitéz.
Sembra inimmaginabile che, nella corte del re, non avessero
parlato di questo strano evento. Il prelato, parente di Janus,
serviva a Bonfini come fonte principale. Secondo Bonfini, la
salma di Janus, venne messa in una bara di legno coperto di
pece.9 Non si poteva fare altrimenti vista la provvisorietà della
55
sepoltura. Sicuramente, questa doveva essere la procedura
in caso di eventuale futura sepoltura definitiva. Gli ecclesiastici del duomo di Pécs, fedeli a Janus in grande segreto,
trasportarono la bara impeciata e la tennero nascosta ancora per molto tempo in una delle cappelle del duomo. Più
tardi, in occasione di una visita a Pécs di re Mattia, vennero
concessi a Janus anche i funerali solenni. Si hanno testimonianze anche del monumento sepolcrale realizzato per quell’evento. Secondo il documento capitolare, la salma del
vescovo venne posta in un sarcofago di pietra, decorato con
un’iscrizione. Un certificato dell’ultimo quarto del secolo XV
lo menziona come un monumento esistente e visibile.10
Nel 1991, fu aperto il pavimento della chiesa inferiore per
sistemare l’impianto di riscaldamento. Sotto lo strato nuovo
vennero trovati altri strati, fino ad allora intatti, che nascondevano una lapide sepolcrale del secolo XV e cripte sotterranee. In una di queste, secondo l’archeologo Gábor
Kárpáti, «intorno allo scheletro si vedevano le tracce della
bara. Sotto lo scheletro, il fondo della bara presentava uno
spesso strato di pece nera. Lo scheletro in buono stato del
giovane uomo era in posizione diritta, leggermente rivolto a
destra. Il teschio pendeva verso destra. Gli avambracci erano
incrociati sopra il bacino. Le ossa delle mani erano poste
sulle cosce opposte. Sulla coscia destra (sotto le ossa della
mano sinistra) c’era la bolla di piombo del papa Paolo II con
il verso in su».11
Questo reperto merita grande attenzione, ma esige delle
spiegazioni. L’usanza in Ungheria, nei secoli XIV e XV, di seppellire con la bolla papale è testimoniata da diversi altri
reperti archeologici. Quello più importante, perché collegabile con sicurezza a una persona, è la tomba di un prelato ad
Eger. Nel centro dell’atrio delle doppie torri, ad ovest della
cattedrale di una volta, è stata ritrovata la tomba del vescovo Miklós (1432-1461), identificabile proprio con l’aiuto delle
bolle pervenute. Il prelato, ottenuto il permesso della Curia,
fu sepolto insieme con i suoi clenodi e con tre bolle ricevute
da tre papi diversi. Anche nel cimitero accanto della basilica
reale di Székesfehérvár sono state trovate una bolla del
secolo XIV e una del secolo XV.12
Riguardo al reperto archeologico di Pécs, bisogna dare
molta importanza al luogo di sepoltura, alla bolla capace di
indicare l’epoca e alla relativamente giovane età del cadavere. Veniva seppellito nella chiesa inferiore della cattedrale
solo chi ne era degno per il suo titolo ecclesiastico. Oggi chi
vi giace è una persona che ricevette la bolla del papa Paolo
56
II e morì giovane.13 L’unico con tali caratteristiche è Janus
Pannonius.14 Egli tornò dalla sua ambasciata a Roma con
diverse licenze convalidate con la bolla in piombo del papa.15
Si può pensare con ragione che si trattasse di documenti di
garanzia legale, destinati a far valere la legge. È diverso invece se il documento fosse stato indirizzato esclusivamente
alla persona che otteneva un permesso. Tali dovevano essere le bolle del vescovo Miklós, per il permesso dell’ampliamento della chiesa di Eger. Nel caso di Janus si conosce un
permesso di carattere personale: gli veniva concesso di
«mantenere certi beni del vescovato di Zagabria passatigli
per i suoi grandi sforzi e per le sue grandi spese investite per
recuperare le tenute del vescovato dagli usurpatori».16 Tale
licenza spettava solamente a Janus. Il vescovo o vescovato
di Zagabria non desiderava che i beni, una volta tolti dalla
chiesa e con la morte gli Janus ritornati nella sua proprietà,
venissero di nuovo richiesti e ripresi da qualcun altro. Ciò
spiega perché hanno posto nelle mani del vescovo morto il
diploma con la bolla. Non è da escludere che il documento
timbrato servisse per identificare la persona seppellita nel
convento di Remete nei pressi di Zagabria per un periodo
incerto e non definitivamente. Ma, vista l’usanza di porre
nelle tombe anche le bolle, non c’è molto bisogno di dare
spiegazioni al riguardo.
Gábor Kárpáti, con molta probabilità, ha ragione quando
afferma che la bara veniva lasciata «provvisoriamente» in
questo posto e non veniva collocata in un bel monumento
funebre dotato di un’iscrizione. Anche le osservazioni di Ede
Petrovich, grande conoscitore del posto, possono essere
interpretate in questo modo.17 Siamo del parere che la tomba
definitiva del vescovo di Pécs venisse indicata proprio da
questa bella bolla coniata di cui solamente Janus, l’unico tra
gli umanisti nella corte papale, fece elogio nella sua poesia
degna dell’attenzione del papa Paolo II, ideatore del suo
nuovo programma iconografico.
(Traduzione di Zsuzsa Ordasi)
57
Note
(1) J. Huszti, Janus Pannonius, Pécs, 1931, pp. 221-241.
(2) «Somni vero paucissimi fuit […] nam dormitione nocturna gravius
catharro vexebatur». Michaelis Canensi De vita et pontificatu Pauli Secundi p.
m. opus = Le vite di Paolo II, a cura di G. Zippel, Città di Castello, 1904 (RIS
III/16), p. 172.
(3) «Cum vero nocte quoque pervigilet nunc hos nunc illos exaudiens,
peropus est mane quiescere et naturae debitum soporem capere: hoc enim
pacto incolumitatem servat atque tuetur». Gasparis Veronensis De gestis Pauli
Secundi = Le vite cit., p. 54.
(4) «Paulus Secundus ob id est ‘cicindela’ a Callimaco poeta dictus, propterea quod lucem reformidans noctu quam interdiu splendore malle videretur». P. Cortese, De cardinalatu libri tres, in Castro Cortesio, 1510, c. LXXXVIIII. Ci è pervenuta anche una poesia sulle abitudini assai strane del papa:
Pontificis vigilanda fuit vigilantia Pauli
non illum somnum nocte tenebat iners.
Nil sine sideribus nocturnis Paulus agebat,
pharmacopole dole, cera minoris erit.
[Modena, Est. Lat. 1080, f. 218 v.]
(5) «Ad pontificem [...] admitti non possum. Iubeor quotidie ad quartam et
quintam noctis horam sedere ad fores et tandem inauditus remittor». G.
Piccolomini, Epistolae et commentarii, Mediolani, 1506, Ep. LXXVII e CLVII.
(6) «Adire hominem die dormientem ac noctu vigilantem attrectantemque
gemmas et margaritas difficile erat, nec nisi post multas vigilias [...] quod si tibi
patuissent fores audire hominem, non audiri ab homine necesse erat adeo
copiosus in dicendo habebatur». Platynae Liber de vita Christi ac omnium pontificum, a cura di G. Gaida, Città di Castello, 1932 (RIS III/1), pp. 494, 396-397.
(7) Paolo II venne eletto il 30 agosto 1464. L’oratore della corte di
Mantova, allora presente a Roma, già il 3 ottobre mandò la notizia dell’evento. Egli dà anche la descrizione della bolla: «Questo papa ha mutato la stampa del piombo de le bolle; da un canto fa s. Paulo e s. Petro che sedono; da
l’altro lui è in cattedra e doi cardinali presso cum alcune persone devanti in
ginochione». L. Pastor, Geschichte der Päpste im Zeitalter der Renaissance,
vol. II, Freiburg im Breisgau, 1928, p. 757. «In obsignandis autem litteris quas
bullas trito sermone nuncupamus, novo ac magnificentiori plumbationis genere usus est, et quidem non dispari magnitudine a priori bullatione, sed fuit
multo artificioris digniorisque generis operis ac sculpturae». Michael Canensii
De vita et pontificatu Pauli Secundi cit. p. 112. C. Serafini, Le monete e le
bolle plumbee pontificie del medagliere Vaticano, vol. I, Milano, 1910, p. 138.
Gli artisti erano: Emiliano Orfini da Foligno e Andrea di Nicolò da Viterbo. G.
Fancis Hill, A Corpus of Italian Medals of the Renaissance before Cellini,
London, British Museum, 1930, I, n. 777.
(8) «Verebatur tum credo uterque [Paolo II e Ferdinando] ne solis ac lunae
eclypses, quae tum fuere cum maxima hominum admiratione, regnorum
mutationem portendebant. Moritur tamen (ne corpora caelestia frustra pati
existimes) sequenti anno Franciscus Sfortia Insubriae et Lyguriae dux». (=† 11
marzo 1466), Platyna, Liber de vita Christi cit. p. 376.
(9) «Cum ob regis iracundiam is quasi hostis reipublicae haberetur et sollemnia viro iusta nemo persolvere auderet sacerdotes clam eius corpus in
sacellum Quinqueecclesiense retulere idque picato scrinio diu reconditum
habuere. Cum multo post tempore Mathias forte urbem illam et basilicam inviseret, sacerdotum regi collegium supplicavit, ut Ioannis poetae corpus, quod
diu insepultum asservarant pre metu iracundie eius, debito sepulture honore
iam honestare peteretur. Indoluit rex tanti viri casum […] honestissimas mox
58
exequias edixit». Antonio de Bonfinis Rerum Ungaricarum decades, IV, a cura
di I. Fogel, B. Iványi, L. Juhász, Lipsiae, Teuner, 1941, p. 48.
(10) «Johannes episcopus [...] in arce Medve dicioni huius regni subiecta,
diem clausit extermum, cuius tandem corpus ad nos usque delatum sarcophago lapideo honorifice est reconditum, in cuius laudem et futuram memoriam
tumulus suus, certis epigrammatum versibus locum diem et annum transitus
sui modo pretenso continendo, mirifice cernitur adornatus». Documento da un
formulario del capitolo di Pécs, «Történelmi Tár», 1904, p. 529.
(11) G. Kárpáti, Janus Pannonius feltételezett sírhelye?, in Janus
Pannonius és a humanista irodalmi hagyomány, a cura di L. Jankovits, G.
Kecskeméti, Pécs, Janus Pannonius Tudományegyetem, 1998, pp. 41-49.
(12) Ad Eger nella tomba c’erano le bolle di Giovanni XXII (1316-1334) e
di Clemente VI (1352-1362). K. Kozák, Eger. Püspöki vár, s.l., s.d. A
Székesfehérvár sono pervenute le bolle di Gregorio XI (1370-1378) e di
Martino V (1417-1431). Ringrazio l’archeologa Piroska Biczó per le informazioni riguardo i seppellimenti con bolle papali finora conosciuti.
(13) Altri prelati di Pécs che ricevettero la bolla papale di Paolo II furono
Vitus Hündler, coadiutore di Janus, e anche il preposto György Handó. Ma
essi morirono in tarda età (!) e altrove.
(14) La dott.ssa Zsuzsanna Zoffmann conferma che i risultati degli esami
antropologici non contraddicono l’identificazione della salma con quella di
Janus. È in preparazione una sua pubblicazione al riguardo.
(15) V. Fraknói, Mátyás király magyar diplomatái, «Századok», 1899, pp.
777-778.
(16) Ibid.
(17) G. Kárpáti, Janus Pannonius cit., p. 41.
59
GYÖRGY DOMOKOS
Università Cattolica “Pázmány Péter”
(Piliscsaba)
Letture e biblioteche
nel Quattrocento in Ungheria
Prenderò spunto dal saggio fondamentale di Csaba
Csapodi che riassume i fatti conosciuti sulle biblioteche e, in
senso lato, sulla cultura libraria in Ungheria,1 fornendo qualche dato sui legami diretti tra l’Italia, centro propulsore della
cultura umanistica, e il nostro paese che, nel periodo di
Mattia Corvino, è il primo centro umanistico vero e proprio a
Nord delle Alpi.
Ho potuto ricavare ulteriori particolari e dati dagli scritti di
Gedeon Borsa, che si è occupato degli inizi della stampa in
Ungheria,2 e ha riassunto gli studi precedenti di Vilmos
Fraknói, József Fitz ed altri studiosi.3
Csapodi identifica il Quattrocento come l’epoca della massima fioritura della cultura libraria ungherese: praticamente
l’arco di tempo che, in Ungheria, va da Sigismondo di
Lussemburgo a Mattia Corvino. Mentre nel Duecento e nel
Trecento i contatti culturali si limitano ad alcuni ungheresi
che studiano nelle università italiane, al Concilio di Costanza
(5 novembre 1414 - 22 aprile 1418), convocato proprio da
Sigismondo, nell’ozio involontario che intercorre tra le sedute,
avviene il grande incontro tra la realtà culturale cisalpina e
transalpina. Sappiamo che è proprio in questa occasione che
Giovanni da Serravalle ottiene l’incarico di tradurre e commentare la Divina Commedia in lingua latina. Uno dei tre
esemplari di quest’opera si conserva nella Biblioteca
Arcivescovile di Eger e nella dedica rivolta all’imperatore e re
ungherese Sigismondo di Lussemburgo, è espresso l’intento
del traduttore che è quello di offrire la possibilità di leggere la
Commedia a coloro che «norunt vulgare ydioma ytalicum,
cuiusmodi sunt alamanni, gallici, anglici, bohemi, ungari, sclavi, polloni, hispani, portugallenses, castellani et consimiles».4
Il Quattrocento coincide con un salto qualitativo e quantitativo dei libri nelle biblioteche ungheresi: mentre prima
pochi potevano permettersi e avevano l’esigenza di tenere
alcuni libri, ora si formano vere e proprie biblioteche.
61
Certamente, le guerre che hanno coinvolto l’Ungheria non
hanno risparmiato nemmeno queste biblioteche, ma il numero relativamente alto dei volumi superstiti testimonia quanto
fossero già allora diffuse. Per le caratteristiche del paese,
dove la cultura laica si farà sentire solo a partire dalla seconda metà del Quattrocento, queste biblioteche sono per lo più
legate ad istituzioni e personaggi ecclesiastici.
Le biblioteche delle cattedrali,
delle parrocchie e dei monasteri
Per quanto riguarda le biblioteche capitolari, si conoscono due inventari di libri di quella di Veszprém, risalenti alla
prima metà del secolo. S tratta di inventari completi, che forniscono dati dettagliati circa i libri elencati: donatore, scrittura, ornamenti, rilegatura, stato, età. Non contengono però
dati relativi al numero di opere contenute in questi volumi.
Nell’inventario che viene collocato tra il 1427 e il 1436 si parla
di 171 volumi, ma il quaranta per cento di essi sono libri usati
per scopi liturgici, che non erano nemmeno conservati nella
biblioteca, ma nella sagrestia o sugli altari. Per quanto riguarda la composizione tematica del resto dei volumi, balza
all’occhio l’alta percentuale delle opere canoniche, ma da
tempo si è detto che la formazione del clero ungherese nel
Medioevo era più di tipo canonistico che di tipo teologico.
Ciò è dovuto al fatto che le istituzioni ecclesiastiche erano
contemporaneamente anche tribunali e centri notarili presso
i quali i documenti dovevano essere autenticati, mentre mancava totalmente nel paese un centro di formazione teologica.
L’Ungheria del Quattrocento – escludendo in questa sede
episodi limitati – era un paese senza un’università stabile.
Tra i libri di teologia prevalgono i Padri della Chiesa, San
Gregorio Magno e Girolamo, mentre Agostino ed altri grandi
autori sono praticamente assenti. Troviamo poche opere di
teologia: Beda il Venerabile e la Summa di San Tommaso.
Per quanto concerne la letteratura non ecclesiastica, la scelta è assai povera: un’opera di Boezio, una di Josephus
Flavius e una di Cicerone. Per le altre scienze possiamo elencare solo la Fisica di Aristotele, un’opera anonima di astronomia e l’enciclopedia De proprietatibus rerum di Glanville
(Bartholomew de Glanville o Bartholomaeus Anglicus, monaco inglese del Duecento).
62
Tale composizione della biblioteca capitolare sembra
rappresentare lo stato generale. Quasi contemporaneo a
questo elenco è quello di Presburgo (l’unica biblioteca capitolare quattrocentesca dell’Ungheria che tuttora conserva
una parte notevole dei volumi di allora – la città oggi è la
capitale della Repubblica Slovacca col nome di Bratislava),
che risale al 1425. Anche se il numero dei volumi è in questo
caso inferiore (82), la composizione coincide con quella della
biblioteca di Veszprém: la metà dei codici sono volumi liturgici, poi segue un gruppo di 14 opere di diritto canonico e il
resto è di tematica teologica (Agostino, Gregorio, San
Tommaso, Pietro Lombardo, ecc.) eccezion fatta per due
libri: il Mammotrectus super Bibliam di Marchesino, che tratta la retta pronuncia delle parole latine, e il De proprietatibus
rerum di Glanville, presente pure a Presburgo. Questo tipo di
biblioteca, con la quasi assoluta mancanza di opere riferite
alle sette arti liberali, ci fa pensare alle difficoltà a cui dovette far fronte la scuola capitolare, qualora fosse esistita.
L’elenco dei libri della Cattedrale di Zagabria (oggi Zagreb,
Croazia, ma all’epoca città del Regno d’Ungheria) testimonia
di una biblioteca ordinata e ricca per l’epoca. Tra i 225 volumi
prevalgono, anche in questo caso, quelli liturgici e teologici (è
altissimo il numero delle opere di diritto canonico). È presente
anche una sezione «Artes» per l’attività scolastica, ed è alto il
numero di libri di medicina.
Poco si sa sul contenuto della biblioteca della cattedrale
di Varadino (la città oggi si chiama Oradea, si trova in
Romania ed è un’antica sede vescovile) che dovrebbe esser
stata tra le più ricche per la prosperità del vescovado, anche
se, alla fine del Trecento, rimase vittima, assieme alla stessa
cattedrale, di un incendio. Abbiamo, però, un dato relativamente interessante del 1419: il vescovo Andrea Scolari, proveniente dall’Italia, diede a un chierico l’incarico di curare i
libri (letteralmente: Rectoria armarii librorum). Costui, Antal,
figlio di Miklós Nagymihályi, che più tardi sarebbe diventato
canonico, è forse da considerarsi il primo bibliotecario
ungherese conosciuto per nome.
Ancora poco influenzate dal nascente Umanesimo, vi
sono le biblioteche delle parrocchie, laddove le esigenze del
lavoro missionario permettevano solo la presenza di opere di
teologia, o al massimo qualche riassunto di storia (p.es. i
Gesta Romanorum), letteratura o scienza, segno della formazione del clero ungherese nel Quattrocento. Csapodi esamina nel suo scritto il caso di Nagyszeben, città della
Transilvania (oggi Romania) e di Körmöcbánya, nell’Alta
63
Ungheria (oggi Slovacchia), e deduce che il livello culturale
dei preti ungheresi era simile a quello dei loro colleghi occidentali. I sacerdoti – che studiavano prevalentemente nelle
università di Praga, Vienna, Cracovia o Presburgo – a volte
mettevano i libri in comune, e vi sono dati relativi all’uso di
questi libri da parte di esterni, come per esempio studenti o
notai.
Biblioteche laiche preumanistiche
nell’Ungheria del Quattrocento
Passando ora all’ambiente laico, il primo caso che analizziamo è quello di un notaio cittadino, Liebhart Egkenfelder
di Presburgo, che nel suo testamento dispone di 49 volumi,
di cui 21 da lui stesso copiati. A dire il vero, il contenuto
farebbe pensare più ad un ecclesiastico e non sembra ancora essere arrivato sulle sponde del Danubio un interesse particolare per le opere dell’antichità.
La stampa e gli stampatori
nell’Ungheria quattrocentesca
L’invenzione della stampa non generò un effetto istantaneo sulle biblioteche ungheresi. Gli incunaboli all’inizio erano
piuttosto semplici e non potevano soppiantare i prestigiosi
codici. Lo stesso Mattia Corvino, come anche il suo contemporaneo Federigo da Montefeltro, preferiva i manoscritti
ai libri stampati, anche se questi non mancavano del tutto
alla Biblioteca Corviniana. Sappiamo dell’opera di Marsilio
Ficino in due volumi, uscita a Basilea nel 1461, che lo stesso autore invia al re ungherese, e conosciamo anche la lettera di Taddeo Ugoleto, in cui il bibliotecario di Mattia promette al sovrano di portargli da Roma alcuni volumi appena
stampati in questa città. Dall’Epistolario di Mattia citiamo una
lettera indirizzata a Pomponio Leto, che gli aveva inviato con
Blandius l’appena stampato Silius Italicus da lui edito. Mattia
lo ringrazia dicendo (è in mezzo alle guerre contro la
Boemia): «[…] non è vero che inter arma silent Musae – io ho
sfogliato subito il tuo libro, appena ricevuto […]». Comunque
sia, Mattia preferiva i codici manoscritti fino al punto da far
copiare incunaboli per la sua biblioteca. Eppure diversi umanisti venuti in contatto con lui ebbero rapporti col mondo
delle tipografie. Lo stesso Taddeo Ugoleto, dopo il suo ritor64
no a Parma, diventò correttore di bozze presso la tipografia
del fratello. Regiomontanus, grande astronomo, aprì una
tipografia in proprio a Norimberga e la stessa seconda
moglie di Mattia Corvino, Beatrice d’Aragona, veniva da
Napoli, dove la tipografia era già attiva in quegli anni.
L’Ungheria, e più precisamente Buda sua capitale, nel
Quattrocento ebbe due tipografie, vale a dire molto prima di
alcune grandi capitali europee. Ciò, come si evince dalla
posizione di Mattia Corvino, non avvenne per iniziativa del
sovrano, bensì con l’aiuto di un personaggio ecclesiastico,
László Kárai, prevosto di Buda. Kárai venne incaricato da
Mattia di un’ambasceria delicata nell’anno 1470: dovette
recarsi a Roma, presso il Pontefice Paolo II, per chiedergli
aiuto per conto di Mattia Corvino, che intendeva attaccare
Jiri Podjebrad, re di Boemia. Il prelato trascorse due-tre mesi
a Roma, dove da tre anni lavoravano Sweynheym e
Pannartz, tipografi tedeschi che avevano abbandonato
Subiaco. Ma c’erano già a Roma in quell’anno altre tre tipografie; in una di queste Kárai conobbe un altro tipografo
tedesco, Andreas Hess. Secondo Andor Tevan l’incontro
avvenne proprio presso Sweynheym e Pannartz,5 secondo
invece József Fitz, presso Lauer. Kárai portò alla corte
ungherese, oltre alla promessa del papa, anche Hess, che
impiantò il suo torchio a Buda, in un edificio sulla piazza che
oggi da lui prende il nome. Il primo libro stampato in
Ungheria fu la Chronica Hungarorum6 (opera discussa dello
storico János Thuróczy) nel 1473 e vi uscì anche Magni
Basilii De Legendis Poeticis.7 Dalla prefazione degli incunaboli si capisce che Hess non poteva contare sulla committenza della corte: ringraziamenti ed elogi vanno tutti a Kárai.
Dopo i due libri stampati a Buda non abbiamo più notizie del
primo tipografo in terra magiara. Alcuni sospettano che proprio la preferenza data da Mattia ai libri manoscritti fosse la
causa del fallimento di questa coraggiosa iniziativa.
Abbiamo comunque notizie sull’esistenza di un’altra tipografia anonima attiva a Buda nel ’400, dove uscì tra l’altro un
Confessionale di Antonius Florentinus,8 un libro che ebbe
diverse centinaia di edizioni. Si tratta di un manuale pratico
di confessione; di questa edizione del 1477 la maggioranza
degli esemplari sopravvivono proprio in Ungheria e anche la
carta usata è di Buda. Nel 1477 si stampò, probabilmente
presso la stessa tipografia, anche un manifesto che venne
attaccato sui muri di Vienna per ordine di Mattia, contenente la sua dichiarazione di guerra all’imperatore.9 Della stessa
tipografia (del 1478/79) pure una vita di San Girolamo ad
65
opera di Landivius,10 cavaliere ospedaliere e poeta, e le lettere di indulgenza per il finanziamento delle guerre contro i
Turchi, fatte stampare da Johannes Han, parroco di Pozsony
(oggi Bratislava, Slovacchia).11
Eppure i tipografi ungheresi erano già attivi negli anni del
periodo corviniano in varie zone d’Ungheria. Dal territorio del
Regno d’Ungheria proveniva Thomas Cibinum, che nel 1472
era attivo a Modena e Mantova (era originario di
Nagyszeben, oggi Sibiu, Romania). Andreas de Corona si
trovava nel 1476 a Venezia (un tipografo di Brassó ovvero
Kronstadt, oggi Braș ov, Romania). Si sa anche di un certo
Bernhardus Transsilvanus, che lavorava a Padova e Venezia
nel 1478, e di Martinus Zeiden di Feketehalom, che pure era
attivo a Venezia nel 1484. A Lione, nel 1482 svolgeva invece
la sua attività il tipografo Petrus Hungarus. Dobbiamo pure
accennare al fatto che nel territorio del Regno d’Ungheria,
ingrandito da Mattia, si trovavano altre due tipografie: quella
di Brno e quella di Vienna.
Le biblioteche umanistiche
Il grande cambiamento nella cultura libraria ungherese è
legato al contatto con la cultura umanistica. Si tratta infatti di
una svolta nella vita culturale in tutta Europa. Mai prima e mai
dopo il libro e la biblioteca ebbero un rapporto così intimo
con la letteratura, con l’insieme della vita culturale. Il libro
diventa oggetto di un interessamento appassionato, diventa
una questione centrale. Non è più un oggetto di lusso per
singoli scienziati o principi, isolati nello spazio e nel tempo.
Non è più solo un mezzo pratico per lo studio, per l’insegnamento, per l’attività della Chiesa. È considerato il sommo
tesoro della vita spirituale, il luogo dove si è conservata la
civiltà letteraria e scientifica dell’antichità. Lo scopo diventa
allora quello di raccogliere quanto più possibile i libri superstiti ai secoli ‘della barbarie oscura’. La biblioteca diventa
ambiente privilegiato delle persone colte, dimora del lavoro
spirituale, delle dispute, dei simposi. Tale nuovo mondo dei
libri nel Quattrocento è ancora un fenomeno tipicamente italiano. Nel resto dell’Europa il nuovo modo di trattare i libri, il
collezionismo di tipo umanistico e le nuove biblioteche, troveranno la loro strada in linea con la tradizione, come è vero
anche per gli altri campi della civiltà rinascimentale. Laddove
la cultura libraria si era consolidata già prima e aveva una tradizione profonda, come in Francia e Inghilterra, la nuova
66
civiltà attecchiva molto difficilmente. Era lento il processo
anche nei paesi che nutrivano un’ostilità nei confronti
dell’Italia. Solo da questi fatti possiamo capire perché proprio in Ungheria è nata la prima biblioteca principesca di tipo
italiano a Nord delle Alpi. L’Ungheria, infatti, mantenne sin
dall’XI secolo strettissimi rapporti politici, dinastici, culturali
ed economici con l’Italia, e questi nel Trecento, con la salita
al trono ungherese degli Angioini di Napoli, non fecero che
intensificarsi. Altrettanto importante fu la presenza degli
impiegati ungheresi della cancelleria di Sigismondo di
Lussemburgo al concilio già menzionato di Costanza, che
segnò il primo impatto con lo spirito dell’Umanesimo. Gli
umanisti italiani, in questo periodo, svolgevano già la loro
azione di ricerca e collezione di libri antichi. La conseguenza
di questi rapporti fu certamente l’invito di Pier Paolo Vergerio
il Vecchio alla corte di Sigismondo. Si suppone che János
Vitéz ebbe come modello della sua biblioteca quella di
Vergerio, anzi che gli stessi libri di Vergerio siano entrati in
possesso del prelato ungherese dopo la morte del primo.
Presso la Biblioteca Universitaria di Budapest il Codice
Latino n. 23, una piccola grammatica latina con glosse altoitaliane, sembra essere una traccia dell’attività di insegnamento del Vergerio in Ungheria. Csapodiné Gárdonyi Klára
ha affermato che una delle note manoscritte sull’ultimo
foglio, «A. d. MCCCCXL fui infirmus ad mortem, quod nunquam autem talem infirmitatum fui passus» fu scritta da lui.
Allo scopo, la studiosa ha confrontato la scrittura con l’unica
nota autografa di Vergerio e ha sottolineato anche la cronologia: muore a Buda nel 1444 e la sua malattia nel 1440 non
è quindi da escludere. Allo stesso modo ha identificato le
emendazioni di due codici (uno di Oxford, l’altro di Trento)
contenenti le opere di Seneca con la scrittura del Vergerio.
In questo caso avremmo quindi tracce fisiche della presenza
di Pier Paolo Vergerio, arrivato in Ungheria nel 1418, dove fu
tra degli artefici del nascente umanesimo in terra magiara.
Conobbe János Vitéz e Giano Pannonio, che era ancora
bambino, e che, a sua volta, lo ricorda in un suo panegirico.
János Vitéz spicca tra le personalità ecclesiastiche della
sua epoca, non solo per le sue conoscenze teologiche
profonde, ma anche per la conoscenza degli autori classici e
dell’astronomia. Fu sicuramente il primo, in Ungheria, ad
immedesimarsi coscientemente con la nuova civiltà umanistica italiana, diventando così il fondatore e iniziatore della
cultura rinascimentale in Ungheria. Era attivo nella cancelleria reale sin dai tempi di Sigismondo, ed era amico del con67
dottiero e governatore d’Ungheria János Hunyadi, che gli
affidò l’educazione dei figli László e Mátyás, cioè il futuro
Mattia Corvino. Prima come vescovo di Nagyvárad, poi
come arcivescovo primate di Esztergom, ebbe un ruolo fondamentale nella politica del paese, ma fu anche il mecenate
degli studi di tanti giovani di talento in Italia, gettando le basi
dell’umanesimo in Ungheria. Non bisogna dimenticare che
fu anche organizzatore e primo cancelliere dell’Accademia
Istropolitana, vale a dire l’università di Posonio, voluta da
Mattia. Gedeon Borsa collega anche l’iniziativa della tipografia alla persona di Vitéz e, indirettamente a Regiomontanus.
Alla base della sua ipotesi sta il fatto che in verità Kárai era
incaricato nel 1471 di una doppia ambasceria: doveva chiedere, per conto di Vitéz, l’ammissione al corpo dei cardinali
(la qual cosa gli sarà promessa da Paolo II in una lettera) e
non è da escludere anche un altro incarico affidato a Kárai
da parte di Vitéz. Tanto più che il progetto della fondazione
dell’Accademia Istropolitana richedeva un’innovazione del
genere e solo la partecipazione di Vitéz alla congiura contro
Mattia (si voleva mettere sul trono ungherese il re Casimiro
di Polonia) troncò l’impresa.
Nella sua corte di Nagyvárad aveva realizzato un ambiente umanistico di tipo italiano: la sua biblioteca, che sarebbe
diventata il modello di quella di Mattia, si suppone ammontasse a 500 volumi. I contemporanei la descrivono entusiasti,
basti citarne alcuni: Giano Pannonio, che nel suo commiato
da Várad esprime il suo addio commosso anche alla biblioteca, e il vescovo Nicola di Modrus, legato pontificio che
aveva passato a Várad un periodo piuttosto lungo e che
ricorda con gioia «l’inverno indimenticabile in cui a Várad,
nella compagnia di diversi uomini di grande cultura, nella tua
biblioteca, tra le opere degli eccellenti scrittori passavo il
tempo in maniera così serena e gradevole». Anche
Regiomontanus la ricorda: «tutti lo sanno quanto hai speso e
quanto hai faticato per raccogliere da diversi paesi questi
libri che tramanderanno la fama del tuo spirito generoso alle
generazioni future». Il testimone più autentico è forse il fiorentino Vespasiano da Bisticci, che racconta: «la sua più
grande preoccupazione era comporre una biblioteca bella, in
cui fossero rappresentati tutti i rami della scienza. Faceva
cercare dei libri in Italia ed in altri paesi, e quelli che non trovava pronti, li fece copiare a Firenze non badando alle spese
ma solo alla bellezza e alla qualità. Pochi volumi latini mancavano alla sua biblioteca». Possiamo aggiungere che possedeva anche libri in greco.
68
Attualmente si conoscono 36 unità della sua biblioteca e
si sa il titolo di altre 28 opere, che sono andate però perdute. Dobbiamo dare ragione a Vespasiano da Bisticci quando
afferma che si tratta davvero di codici belli e con un testo
impeccabile. Il suo Livio in tre volumi (che ora si trova a
Monaco di Baviera) gareggia per bellezza con i pezzi della
Biblioteca Corviniana. Vitéz era un umanista fino in fondo. Se
ne conoscono le abitudini di lettura: emendava tutti i suoi
libri, confrontandoli con altri esemplari o con le regole della
grammatica. Faceva ciò con tutti i libri che gli passavano per
la mano: si conoscono 37 Corvine che recano le sue caratteristiche emendazioni; spesso metteva in rilievo anche la
data in cui aveva letto il pezzo in questione. Si possono elencare numerosi esempi anche dalla sola Biblioteca
Universitaria. Il Cod. Lat. 3, Sancti Clementis Libri X reca lo
scritto: «textus a Joanne de Zredna correctus est», il Tacito
catalogato col numero Cod. Lat. 9 reca: «Jo. Ar. legi transcurrendo 1467 sed mansit inemendatus» e il Tertulliano
(Cod. Lat. 10.) mostra questa nota: «Finivi transcurrendo
Nitrie die ii junii 1468. Emendare bene non potui propter inemendatum exemplar». Per dare un’idea del tipo di correzioni che faceva, basti dire che vi sono correzioni di tipo grammaticale (rebus ipsis invece di rebus ipsius), cancellazioni (p.
es. di enim che gli pare superfluo o di ripetizioni erronee dell’amanuense), e inserimenti di segni di interpunzione.
La composizione, in base ai libri che conosciamo, era più
laica rispetto a quella della Biblioteca Corviniana: era composta per più dell’80 per cento da opere laiche (storia, scienze, letteratura) e più del 50 per cento da autori classici greci
e latini: Aristotele, Cicerone, Curzio, Giustino, Lattanzio,
Livio, Lucano, Ovidio, Plauto, Plinio, Plutarco, Seneca,
Stazio, Svetonio, Senofonte, ecc. Non c’è da meravigliarsi se
la fama della sua biblioteca giunse lontano e, se personaggi
come il vescovo polacco Olesnicki o Enea Silvio Piccolomini
gli chiedevano volumi in prestito per copiarli.12 Anche per
questo è un peccato che la biblioteca di János Vitéz non si
sia conservata: il suo successore nella sede primaziale, l’arcivescovo Beckensloer, che nel 1476 con il pretesto di un
pellegrinaggio lasciò il paese per aggregarsi ai sostenitori del
nemico di Mattia, l’imperatore Federico III, portò con sé i più
bei codici di Vitéz fino a Salisburgo, da dove essi sono poi
giunti alle biblioteche che oggi li conservano: Vienna e
Monaco di Baviera. Solo qualche esemplare è stato inglobato nella Biblioteca Corviniana a Buda.
69
La seconda biblioteca umanistica in Ungheria, in ordine
cronologico e di importanza, fu quella di Pécs, di Giano
Pannonio. Il noto poeta, era nipote di Vitéz, era stato mandato a studiare prima a Ferrara da Guarino Veronese, poi a
Padova. Già in questo periodo procurava e inviava libri a suo
zio. Giano Pannonio stesso era più interessato al contenuto
che all’aspetto esteriore dei libri e non aveva l’abitudine di
emendare i volumi, che perciò sono più difficilmente identificabili. Testimone della sua passione per i libri è lo stesso
Vespasiano da Bisticci, che lo descrive, nel 1465, intento a
procurarsi tutti gli autori greci e latini a Roma, Ferrara e
Venezia, senza badare a spese. La congiura contro Mattia
Corvino coinvolse anche Giano Pannonio, che fu costretto a
fuggire e morì durante la fuga. La sua biblioteca, caratterizzata sicuramente dalla massiccia presenza di opere in lingua
greca, con ogni probabilità era stata quindi inglobata nella
nascente Biblioteca Corviniana, e proprio per questo a Pécs,
sede vescovile di Giano Pannonio, il prevosto György Handó
dovette rifondare la biblioteca a proprie spese. A proposito
di Giano Pannonio è bene menzionare l’ipotesi che a lui e a
suo zio, János Vitéz, sarebbe legata pure la realizzazione dei
primi convivi (symposii) nel senso umanistico del termine.
Già negli anni 1468-1472 si sarebbe svolta, nel palazzo di
Esztergom di Vitéz, una discussione teologica con la partecipazione di Giano Pannonio, János Vitéz, Mattia Corvino,
János Thuróczy, Galeotto Marzio e Giovanni Gatti, teologo e
inquisitore domenicano. Secondo il racconto di Galeotto
Marzio in questa occasione – come più tardi in altre sedute
organizzate a corte, o presso prelati umanisti – avevano una
parte fondamentale le citazioni dai libri fatti pervenire dalla
biblioteca e lette ad alta voce per confutare le tesi dell’avversario.13
Tutti questi antefatti sono certamente necessari, ma non
sufficienti, per spiegare il grande salto qualitativo che avvenne con Mattia Corvino al Palazzo reale di Buda. Al suo arrivo, Mattia Corvino poté trovare probabilmente pochi libri,
certamente non una biblioteca ordinata. Sigismondo di
Lussemburgo, all’inizio del Quattrocento, era ancora un re
cavaliere con poca inclinazione al nascente umanesimo. Le
opere a lui dedicate da Poggio Bracciolini, Antonio
Beccadelli, Maffeo Veggio, Francesco Barbaro, Ciriaco da
Ancona, Pier Paolo Vergerio sono casi isolati, e dei suoi
codici solo tre (quelli ereditati da suo fratello Venceslao, il re
boemo) passarono sicuramente alla Biblioteca Corviniana. Il
re ungherese Ladislao V nel 1455, in una lettera rivolta all’im70
peratore Federico III, richiese un insieme di 110 libri che da
Venceslao sarebbero passati a Sigismondo, e da lui al re
Alberto, e che si trovano al momento a Vienna. Non possiamo essere sicuri che questa nobile biblioteca sia mai arrivata a Buda. Ladislao V era interessato anche ad ampliare la
sua raccolta di libri: in una sua lettera scritta nel 1454 ad
Alfonso re di Napoli e in un’altra dello stesso anno, scritta a
Borso, duca di Mantova, chiese loro alcuni volumi sulle gesta
dei sovrani romani. Forse l’opera di Senofonte, la
Kyropaideia, tradotta dal greco al latino da Poggio
Bracciolini, arrivò così alla corte di Buda. La richiesta del re
ungherese rispecchia già l’influenza del suo educatore, il
vescovo János Vitéz, e potrebbe essere interpretata come il
primo segno dell’interesse umanistico alla corte ungherese.
Non si riesce tuttavia a stabilire una data di nascita della
Biblioteca Corviniana.14 Dai fatti citati segue logicamente che
dall’influsso di Vitéz e Giano Pannonio seguiva naturalmente
l’interesse di Mattia per i libri. Come base vi erano i pochi
libri lasciati dai suoi predecessori e i suoi libri della giovinezza, ma nel 1464 e soprattutto dal 1467, era assai nota in Italia
la passione del re ungherese. Un impulso notevole ebbero
l’inglobazione della raccolta di Giano Pannonio e, infine, le
seconde nozze, con Beatrice d’Aragona (1476), che trasformò completamente la corte ungherese secondo il
modello delle corti rinascimentali italiane.
Le biblioteche legate alla corte di Buda:
la Biblioteca Corviniana, quella della Cappella Reale
e quella dell’Accademia Istropolitana
Sulla Biblioteca Corviniana basta accennare a qualche
caratteristica particolare. Innanzitutto, il legame con Firenze,
il circolo neoplatonico di Marsilio Ficino e il personaggio di
Taddeo Ugoleto, bibliotecario, umanista fiorentino. Dagli
antefatti si capisce che la duplicità greco-latina della biblioteca ha una radice negli interessi di Giano Pannonio, ma
anche Ugoleto era un personaggio con buona conoscenza
del greco, che procurava molti volumi dalla Grecia. Se possiamo credere al fiorentino Bartolomeo Fonzio, Lorenzo de’
Medici aveva preso come modello della Biblioteca
Laurenziana proprio questa duplicità.
Come ben si sa, anche la Biblioteca Corviniana andò
dispersa, ma dai volumi superstiti possiamo dedurre che i
suoi 2000-2500 volumi rappresentavano veramente il fior
71
fiore della scienza dell’epoca. Normalmente si parla dell’aspetto esteriore di questi libri, che erano degni di un sovrano, ma anche la composizione tematica era mirabile: filosofia, storia, filologia, retorica, poesia, astronomia, medicina,
teologia, arti belliche, architettura, geografia erano tutte rappresentate. Il sessanta per cento dei volumi della Biblioteca
Corviniana non è apparso in stampa fino alla morte di Mattia
(1490) e vi sono codici corviniani che hanno conservato l’unico esemplare di opere classiche. Csapodi rileva un ulteriore elemento legato alla dispersione della biblioteca: molte
opere, specie di autori antichi greci e latini, hanno cominciato a circolare negli ambienti umanistici dell’Europa proprio in
seguito allo sparpagliamento dei prestigiosi codici di Mattia.
Dopo il massimo splendore, comincia la lenta decadenza
della biblioteca. I successori di Mattia offrivano i prestigiosi
volumi in regalo, salvandone comunque, così facendo, almeno una percentuale dalla distruzione sicura che sarebbe avvenuta col sacco di Buda ad opera dei Turchi. Al momento della
riconquista della capitale, nel 1686, le truppe cristiane trovarono in verità un alto numero di libri antichi, e nella convinzione di aver ritrovato i volumi della Biblioteca Corviniana, in fretta e furia li trasportarono a Vienna (dove tuttora si trovano alla
Österreichische Nationalbibliothek, l’ex Biblioteca di Corte).
Si trattava però di un fraintendimento: la composizione tematica, come anche l’aspetto esteriore dei volumi, testimoniano
che si trattava della biblioteca della Cappella Reale di Buda,
anch’essa ricca, ma lontana da poter essere chiamata biblioteca umanistica.
L’intenzione di fondare un’università nella città di
Pozsony partì quasi sicuramente da János Vitéz, e il primo
anno della sua attività fu il 1467, dopo che Giano Pannonio
aveva ottenuto a Roma la bolla di fondazione due anni prima.
Naturalmente, un ateneo non avrebbe potuto funzionare
senza una biblioteca ben fornita e vi sono testimonanze
dirette a riguardo, di Taddeo Ugoleto, bibliotecario di Mattia.
Le biblioteche umanistiche in ambito ecclesiale
Purtroppo le sedi vescovili medievali furono tutte saccheggiate durante le guerre con i Turchi, e solo sporadicamente sono sopravvissuti volumi appartenuti ai prelati umanisti dell’epoca. Possiamo solo confrontare degli elenchi di
libri, che rispecchiano il grande cambiamento avvenuto nelle
letture e nelle biblioteche anche in ambito ecclesiale. Nel
72
1466 un prelato ungherese, Tamás Debrenthei, secondo un
inventario, possedeva in tutto tredici libri, di cui sette erano
opere di padri della Chiesa e sei libri di pietà, diritto canonico, sacramenti ed altri argomenti utili all’attività sacerdotale
nel senso stretto del termine. La generazione seguente dei
prelati fu in parte diversa, mentre certamente molte biblioteche di personaggi ecclesiastici assomigliano anche in questo
periodo alla concezione preumanistica.
Per portare qualche esempio di biblioteche ecclesiastiche umanistiche, vorrei accennare a Galeotto Marzio, che
descrive la passione per i libri e per la lettura del vescovo
umanista Miklós Báthori (1475-1506), di cui rimangono
anche alcuni volumi tra cui un Cicerone e un libro sulle eresie di Hilarius Pictaviensis. Sappiamo che il grande Ficino gli
aveva dedicato un’opera filosofica. Ippolito d’Este, il cognato cardinale di Mattia, era ancora bambino durante il suo
soggiorno in Ungheria: l’elenco dei suoi libri rispecchia chiaramente la formazione umanistica del ragazzo, che aveva
solo 11 anni nel 1491: Prisciano, Esopo, Cicerone, Curzio
Rufo, Dionigi di Alicarnasso, Giovenale, Lucano, Svetonio e
altri autori classici, ma nessun libro di teologia. Anche il
canonico di Esztergom, Péter Garázda, che aveva studiato a
Ferrara ed era amico di Giano Pannonio, possedeva libri di
Macrobio, Lattanzio, Giustino che ora si trovano a Monaco,
Vienna e Praga. Orbán Nagylucsei, vescovo prima di Győ r,
poi di Eger ed infine di Vienna, leggeva Ficino e Plinio; anche
questi libri sono ora a Vienna. I libri perduti del vescovo di
Várad, Ferenc Perényi, rispecchiano l’interesse umanistico:
leggeva Virgilio, Seneca, Sinesio, Diodoro Siculo e Erasmo.
Citiamo anche il vescovo della Transilvania (più tardi di
Várad), Zsigmond Thurzó, che era in corrispondenza con
Aldo Manuzio. Sembra che le lettere di Cicerone siano state
pubblicate nel formato consueto su sua richiesta e dedicate
a lui. Infine, vorrei menzionare l’unico cardinale ungherese
che più di ogni altro era vicino a diventare papa, cioè Tamás
Bakócz. Egli lasciò una nota autografa in un codice greco e
sembra che leggesse in originale Esiodo, Sofocle ed
Euripide.
Occorre aggiungere che certi autori venivano letti secondo una chiave di lettura riduttiva. Ho avuto occasione di studiare il caso di Marsilio Ficino, le cui opere sono presenti
nelle biblioteche ungheresi. Fino al Seicento l’autore viene
considerato un medico poeta, e come tale è schedato negli
inventari librari.15 Similmente, Petrarca interessava i lettori
ungheresi contemporanei solo come poeta modello.16
73
Biblioteche di umanisti laici
I tempi non favorivano certo la nascita di grandi biblioteche in Ungheria nel periodo della minaccia turca. Tuttavia, la
diffusione dell’erudizione umanistica si fa lentamente sentire
anche nelle opere di laici. Csapodi cita come esempio il
palatino István Werbő czy, che parlava, secondo i contemporanei, eleganter non solo in ungherese e tedesco, ma anche
in greco e latino e che, nello scrivere il suo Tripartitum, cita
autori classici di ogni tipo: Cicerone, Aristotele, Virgilio,
Erodoto, Platone, Plotino, Lattanzio, Agostino, Cipriano,
Gregorio, Epicuro.
Un alto ufficiale di corte, Tamás Drágfi era probabilmente più interessato alle opere storiche: a lui era dedicata la
Chronica Hungarorum di János Thuróczy e, inoltre, possedeva una Cronaca mondiale di Leonardo Utino, che ora si
trova presso la Biblioteca Vaticana.17
Conclusione
Dai dati di questa breve esposizione risulta chiaro il ruolo
centrale che spetta alla figura di János Vitéz, il primo vero
umanista regista del cambiamento fondamentale delle
biblioteche e delle letture del Quattrocento in Ungheria. Con
lui, e attraverso di lui, la cultura umanistica comincia a penetrare la sensibilità degli intellettuali ungheresi. Vitéz è anche
una figura chiave, che congiunge il lungo dominio di
Sigismondo con quello di Mattia. Abbiamo inoltre visto, nei
tre settori delle biblioteche ecclesiastiche, laiche e legate alla
corte reale, come cambia la quantità e la composizione
tematica dei libri, segnando così il passaggio definitivo dalla
cultura medievale a quella umanistica.
74
Note
(1) Cs. Csapodi, András Tóth, Miklós Vértesy, Magyar könyvtártörténet,
Budapest, 1987; Cs. Csapodi, A reneszánsz könyvkultúra (Humanista
könyvtárak), in E. Madas e I. Monok, A könyvkultúra Magyarországon,
Budapest, 2003.
(2) G. Borsa, A budai Hess-nyomda más megvilágításban, «Magyar
Könyvszemle», 1973, pp. 139–149; Id., Könyvtörténeti írások, vol. I, A hazai
nyomdászat a 15-17. században, Budapest, 1998.
(3) J. Fitz, A magyar nyomdászat, könyvkiadás és könyvkereskedelem
története, vol. I. Budapest 1959; Id., Hess András, a budai “snyomdász,
Budapest, 1932; V. Fraknói, Karai László budai prépost, a könyvnyomtatás
meghonosítója Magyarországon, Budapest, 1898.
(4) Citazione da N. Mátyus, Sul commento di Giovanni da Serravalle alla
Commedia, «Verbum», IV/1, 2002, pp. 23-42.
(5) A. Tevan, A könyv évezredes útja, Budapest, 1973, p. 115.
(6) Régi magyarországi nyomtatványok. Res litteraria Hungariae vetus
operum impressorum, a cura di G. Borsa, F. Hervay et al.), vol. I: 1473-1600,
Budapest, 1971-2000 (in seguito: RMNy), n. 2.
(7) RMNy, n. 1.
(8) RMNy, n. 3.
(9) RMNy, n. 4.
(10) RMNy, n. 5.
(11) RMNy, n. 6.
(12) Csapodi, Tóth, Vértesy, Magyar könyvtártörténet cit., p. 6.
(13) K. Pajorin, A humanista symposionrendezvények, in Uralkodók és
corvinák: Az Országos Széchényi Könyvtár jubileumi kiállítása alapításának
200. évfordulójára, Budapest, 2002. pp. 111-115.
(14) Csapodi, Tóth, Vértesy, Magyar könyvtártörténet cit., p. 9.
(15) Gy. Domokos, Gli incunaboli di Marsilio Ficino in Ungheria.
«Verbum», 1999/1, pp. 30-35.
(16) Gy. Domokos, Incunaboli e cinquecentine petrarcheschi nelle biblioteche ungheresi, «Ambra», in corso di stampa.
(17) Ottob. Lat. 479.
75
ENIKŐ BÉKÉS
Istituto di Studi Letterari dell’Accademia Ungherese
delle Scienze (Budapest)
La metafora ‘medicus-Medici’ nel
De doctrina promiscua di Galeotto Marzio*
L’associazione medico-principe è uno degli elementi piú
ricorrenti nel culto sviluppatosi intorno alle figure dei due
sovrani rinascimentali, Cosimo il Vecchio e Lorenzo il
Magnifico. L’ipotetica parentela tra il termine latino medicus
e il nome dei principi di Firenze è uno dei motivi piú frequenti
nella autorappresentazione dei Medici: questo parallelo è
onnipresente anche nel De doctrina promiscua, opera che
Galeotto Marzio dedicò a Lorenzo il Magnifico. Il nostro
intervento mira ad illustrare brevemente la storia della
metafora e a studiare la collocazione di quest’opera di
Galeotto nello specifico contesto che all’epoca si era creato
intorno a questo motivo.
La critica letteraria colloca la data di nascita del De doctrina promiscua intorno agli anni 1489-90; Galeotto Marzio
quindi avrebbe terminato quest’opera appena tornato in
Italia da Buda.1 La dedica non a caso è rivolta a Lorenzo de’
Medici: l’autore voleva esprimere la sua gratitudine al
Magnifico, che insieme al re Mattia Corvino nel 1478 lo aveva
liberato dalle prigioni dell’inquisizione veneziana.2 Il De doctrina promiscua è un trattato di stampo enciclopedico, nel
quale Galeotto illustra in trentanove capitoli le sue idee
soprattutto riguardo ad argomenti di medicina, farmacologia
e astrologia. In tal modo il parallelo medico-sovrano, piuttosto ricorrente negli scritti di politica teorica, entra a far parte
dell’argomentazione di un trattato di scienze naturali.
Galeotto Marzio colloca l’elogio del Magnifico tra consigli di
ordine medico e farmacologico, offrendo ai lettori come una
sorta di rimedio l’aiuto del principe fiorentino: «Ad hunc igitur omnes qui male habetis confugite et remedia aegritudinibus postulate […]». Le righe successive naturalmente ci rivelano che il consiglio mediciano, nonostante sia espresso con
termini propri delle scienze mediche, in realtà è di natura
politica: «[…] ut sordes inimicitiarum, ut pus discordiarum
eluantur».3
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La metafora ‘medicus-Medici’ viene esposta per la prima
volta nel testo nella Praefatio, che allo stesso tempo è anche
una Dedicatio a Lorenzo de’ Medici.4 Servendosi dei topos
dei panegirici umanistici Galeotto elogia le virtù e la ricchezza della stirpe dei Medici, la liberalitas e la cultura di Lorenzo
il Magnifico, i palazzi e le chiese nuove innalzati a Firenze ed
infine la fioritura delle scienze letterarie ed in generale il clima
di pace instaurato da Lorenzo il Magnifico. Come scrive
Galeotto, una prova ulteriore di quanto elencato nell’elogio è
la stima nei confronti di Lorenzo il Magnifico testimoniata
dagli altri regnanti, altrimenti invidiosi l’un dell’altro. Galeotto
Marzio aggiunge che lo stesso papa Innocenzo VIII aveva
prescelto come futura sposa di suo figlio Maddalena, la figlia
di Lorenzo de’ Medici.5
L’enkomion è caratterizzato da un linguaggio medico e
dalla vena astrologica che caratterizza maggiormente il sistema filosofico di Galeotto Marzio.6 Le sette palle dello stemma della famiglia ad esempio vengono paragonate ai sette
pianeti del nostro universo.7 L’impresa dei Medici rispecchia
in modo analogo l’ordine cosmico. Anzi, secondo il nostro
autore lo stesso nome dei Medici è di origine celestiale
(«nomen hoc coelitus delapsum»), siccome i nomi degli
esseri umani sarebbero determinati dalle stelle.8 La famiglia
Medici porterebbe a giusto titolo il proprio nome, avendo
sempre ‘medicato’ con i rimedi più appropriati i problemi dei
singoli cittadini e dell’intera società. Galeotto Marzio in tal
modo introduce anche l’argomento del primo capitolo, nel
quale tratta l’origine celestiale dei nomi propri. Nel caso di
Lorenzo il Magnifico perfino il nome di battesimo ha un significato determinante: secondo le credenze riportate da Plinio
il Vecchio i fulmini non danneggiano il lauro, pianta associata sia ai condottieri che ai poeti.9 Secondo l’autore quindi
Lorenzo merita doppiamente la corona di lauro. Il Marzio
aggiunge che il suo encomiato ha sempre adoperato rimedi
‘personalizzati’, ovvero che prendessero in considerazione le
abitudini delle singole persone: «[…] varietate medicamenti
utens pro hominum habitudine».10 Questa osservazione
rispecchia chiaramente l’intento umanistico di prestare
anche nella medicina la dovuta attenzione all’importanza dell’individuo.11
Il motivo ‘Lorenzo-medicus’ emerge non solo nel primo
capitolo sulle origini ‘cosmiche’ dei nomi, ma anche nel
secondo, che tratta delle medicine e dei veleni. Come rimedi riconducibili alla tipica metafora medico-sovrano della
politica teorica Galeotto elenca le tre terapie applicate più
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frequentemente dalla medicina dell’epoca collegandole al
modo in cui queste venivano adoperate anche dal Magnifico.
Lorenzo infatti oltre alle pozioni applicava anche la purgatio
(ad esempio quando liberò la città dai ribelli) e in alcuni casi
estremi l’intervento chirurgico: «Cuncta prius tentanda sunt,
sed immedicabile vulnus ense recindendum est».12 Tra le
osservazioni del Marzio non è difficile scorgere allusioni ad
eventi storici realmente accaduti come la congiura dei Pazzi.
L’autore con l’illustrazione di un caso concreto di politica
contemporanea contribuisce alla divulgazione dell’importanza dell’operato del Magnifico.
Nel sesto capitolo, che parla della bellezza e dell’utilità
della lingua araba e di alcune specifiche questioni linguistiche legate al latino e al greco, riguardo allo stato cagionevole della latinitas Galeotto elenca gli effetti benevoli del regno
del Magnifico, provati ad esempio dall’eterna gratitudine che
la città di Bologna dimostra nei confronti di Firenze per aver
liberato Giovanni Bentivoglio dalla prigionia faentina.13
Galeotto non a caso riporta questi eventi: senza dubbio
anche questa è un’allusione al ruolo di mediatore che
Lorenzo ebbe nella sua liberazione. Un’altra possibile ragione di questo riferimento concreto è che Galeotto era molto
legato alla città di Bologna, non solo per l’influenza che
l’Umanesimo bolognese ebbe su di lui, ma anche perché vi
aveva insegnato letteratura per diversi anni.14 Un’altra associazione interessante in questo capitolo è legata all’utilizzo
fatto da Lorenzo di un medicamento contro la pazzia, l’helleborus. Sempre in questo passo troviamo una metafora ‘anatomica’, legata strettamente all’associazione medico-sovrano: «statim Medicae familiae medicina paratur, quae male
haerentia membra divellit, et tyranni minantes medicamine
hellebori repurgati furorem ponunt».15
Come vedremo più avanti, la metafora medico – sovrano
dà per scontato un approccio organico alla società. Un buon
sovrano infatti cura le malattie sociali. Il parallelo ‘medicus –
Medici’ appare anche nel capitolo sui veleni che agiscono
lentamente mostrando il loro effetto solo quando è trascorso un po’ di tempo, così come ‘l’antidoto’ mediciano.16
Riaffiora poi nel capitolo sull’effetto salutare delle costellazioni dove l’autore a causa dell’importanza dell’argomento
trattato si appella a Lorenzo il Magnifico, per apparire infine
nell’ultimo capitolo sugli emendatori, la cui attività viene
ugualmente comparata a quella guaritiva dei medici.17
Lo stesso Galeotto riporta le origini antiche della metafora, soprattutto Cicerone, ma la storia di questa associazione
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ha radici molto più antiche. Già nelle prime opere letterarie
greche il disordine sociale viene spesso paragonato allo
stato di malattia. Anche Platone riteneva che i malori di
carattere sociale potessero essere ricondotti alla perdita dell’equilibrio politico.18 Un bravo statista deve pertanto trovare
il rimedio adatto per ristabilire l’equilibrio. Questa concezione organica dello stato è presente anche nel pensiero di
Aristotele.19 Tuttavia la forma letteraria finora più conosciuta
di questa tesi forse è la storia di Menenius Agrippa così
come viene narrata da Livio.20 Per quanto riguarda invece la
concezione ‘anatomica’ dello Stato, il testo antico più importante è lo speculum dal titolo De clementia dedicato all’imperatore Nerone da Seneca il Giovane, secondo il quale il
sovrano in realtà è l’organo che tiene in vita il corpo dello
Stato, ovvero l’anima dello Stato.21
Nei secoli successivi il posto dell’anima (ovvero del princeps) nel corpo virtuale della società, la sua collocazione nella
testa o nel cuore, dipendeva dall’appartenenza degli autori ad
una corrente storico-filosofica o all’altra.22 Essendo Galeotto
aristotelico, per lui l’anima era situata nel cuore, come ci spiega nella sua opera sul corpo umano intitolata De homine.23 Di
conseguenza il posto del principe de’ Medici all’interno del
corpo della città di Firenze secondo lui sarebbe stato sicuramente quello del cuore. Ma proseguiamo esaminando la storia medievale dell’associazione medico–anatomica. Il motivo
medicus rei publicae riaffiora per la prima volta nell’opera di
Wipo, un borgognone al servizio di Corrado II nel secolo XI.24
In seguito appare nel Policraticus di John of Salisbury, la cui
descrizione personificata del corpo della società continuerà
ad influenzare per secoli i mezzi di rappresentazione allegorica utilizzati negli scritti di teoria politica.25
Il successo del Policraticus nei territori di lingua italiana è
di estrema importanza per il nostro studio, poiché i legisti
napoletani e bolognesi del Trecento e del Quattrocento nell’argomentazione in favore della concezione organica dello
Stato si basavano proprio su quest’opera.26 È come se anche
lo stesso John of Salisbury volesse alludere alla congiura dei
Pazzi quando – similmente al Marzio – consiglia un intervento chirurgico laddove un membro della società voglia regnare senza autorizzazione sugli altri cittadini sovrapponendosi a
questi.27 Ciò infatti porterebbe ad una condizione di malattia
ed in tal caso il sovrano ha l’onere di punire, così come il dottore ha quello di guarire. Le forme di punizione e di intervento medico a loro volta dipendono dalla gravità della situazione: in casi estremi bisogna amputare la parte malata.
80
A partire dal secolo XIII la metafora medicus rei publicae
e la concezione organica dello Stato appaiono negli specula
di autori appartenenti alla scuola di pensiero aristotelica
come Tolomeo da Lucca, Aegidius Romanus o negli scritti di
Engelbert von Admont.28 È sempre in questo secolo che –
grazie all’influenza dell’opera aristotelica – si delinea un processo che darà sempre più importanza alla conoscenza della
philosophia naturalis negli scritti sull’arte del buon governo.
Questo fenomeno dal punto di vista del nostro argomento è
estremamente importante, siccome la possibilità di un’interpretazione politica degli scritti di scienza naturale rafforza la
nostra ipotesi, secondo la quale anche il De doctrina promiscua di Galeotto possa ricevere una lettura metaforica.
Poiché il tempo a nostra disposizione è limitato, in questa occasione per confermare quanto soprascritto illustreremo solo qualche caso. Il concetto che i periodi di buon e
sereno governo terreno fossero in stretto rapporto con l’ordine cosmico si affermò soprattutto alla corte di Federico II,
negli scritti di scienze naturali dedicati alla sua figura.29 Un
sovrano quindi deve conoscere l’astrologia e le nozioni legate ai quattro elementi che tengono in equilibrio il mondo, siccome egli deve a sua volta riprodurre nel campo della vita
terrena la sinergia tra questi. Solo il sovrano che conosce le
leggi del macrocosmo e domina la natura potrà regnare
bene sulla Terra, facendo sì che le leggi vengano rispettate e
si affermi la iustitia, poiché è la mancanza di queste due condizioni a generare le disfunzioni sociali. Proprio grazie a queste tesi all’epoca ci fu un forte incremento dell’interesse nei
confronti degli scritti di scienze naturali e di medicina.
Sempre più scienziati esperti in queste dottrine venivano
consultati nella vita politica. Un esempio eccellente di questa mentalità potrebbe essere quello del dottore in medicina
Bartolomeo Salernitano, che nei suoi scritti istituiva un paragone tra la medicina e l’attività legislativa, basandosi sul concetto che anche il medicus si pone come obiettivo la tutela
della medietas, e i legislatori rispondono del benessere dei
cittadini così come l’anima assicura l’armonia del corpo.30
Con questa tesi ci ricolleghiamo all’associazione sovrano
-medico, che ebbe una funzione molto importante nell’attività di propaganda di Federico II, il quale in qualità di guaritore del mondo si sentiva obbligato ad eliminare l’ ‘incurata
ulcera’ dovuta agli Angiò.31 A mio parere queste tesi riconducibili al Medioevo ci offrono una chiave alla lettura del
significato allegorico celato dall’opera di Galeotto Marzio,
poiché anche il De doctrina promiscua tratta soprattutto di
81
nozioni di carattere medico e astrologico indispensabili per i
sovrani dell’epoca. Quando Galeotto scrisse il De Doctrina
era ancora in atto la lotta dei medici per la legittimazione
della loro scienza attraverso l’affermazione dell’importanza
nella formazione dei futuri sovrani degli studi di medicina, da
affiancare agli studia humanitatis.32
A questo punto dobbiamo menzionare un’altra tradizione
legata al potere guaritivo dei sovrani. Questa credenza veniva interpretata letteralmente: i re francesi si rivendicavano il
diritto di poter curare la scrofula con il tatto.33 Persino nel
Quattrocento alcuni membri della dinastia angioina di Napoli
si vantavano della stessa capacità.34 Questi fenomeni dal
nostro punto di vista sono importanti soltanto perché le
diverse leggende sul potere taumaturgico dei sovrani col
tempo sono state riportate finanche negli scritti di medicina,
come nel caso del capitolo dedicato alla scrofula del
Compendium medicinae practicae di Arnoldo da Villanova,
che oltre a questa malattia ne studia diverse altre.35 Ben consapevoli del fatto che Galeotto utilizzasse l’immagine del
sovrano guaritore nel senso simbolico dobbiamo ipotizzare
che il nostro autore tramite il Compendium conoscesse
anche questa seconda credenza.
Adesso vorremmo esaminare come l’associazione ‘medicus-Medici’ esposta dal Marzio si inserisce nel contesto dell’autorappresentazione medicea dell’epoca. La metafora legata al nome della famiglia fu documentata già ai tempi di
Cosimo il Vecchio. Nonostante Cosimo de’ Medici fosse nato
il 10 o l’11 aprile, il suo compleanno veniva celebrato il giorno
della festa dei Santi Cosma e Damiano, anche perché Cosma
e Damiano furono santi medici.36 Ficino in una sua epistola del
1480 racconta del Saturnale che ebbe luogo nel 1480 in Villa
Careggi, in occasione della festa dei Santi Cosma e
Damiano.37 Queste feste vennero successivamente istituzionalizzate da Leone X, che le nominò ‘Cosmalia’.38 Nonostante i
festeggiamenti fossero più legati alla figura di Cosimo de’
Medici che a quella del santo martire, fu lo stesso Cosimo ad
adottare come santi protettori della famiglia Medici i due santi
che secondo la leggenda guarivano gratuitamente i malati,
non solo per la somiglianza del suo nome a quello di uno dei
due santi, ma anche per lo stretto legame tra il nome della propria famiglia e il mestiere dei santi medici.39
Cosimo de’ Medici consacrò a Cosma e Damiano la chiesa del Chiostro di San Marco, il cui altare è decorato da
un’opera di Fra Angelico, una Sacra Conversazione intitolata
Madonna con i Santi. In primo piano vediamo i due santi
82
medici inginocchiati. Secondo alcuni studiosi il ritratto di San
Cosma celerebbe i tratti di Cosimo il Vecchio.40 Le otto predelle dell’altare raffigurano scene prese dalla vita dei due
santi. Nel 1470 Botticelli dipinse una Sacra Conversazione
ispirata a quella di Fra Angelico: anche in questo caso alcuni sostengono che il Cosma che ci guarda dall’altare sia
Lorenzo il Magnifico, Damiano invece il fratello di Lorenzo,
Giuliano.41 La metafora ‘medicus-Medici’ riaffiora anche in
opere d’arte preparate su commessa di Leone X, dove l’associazione ‘Leo-medicus’ e talvolta quella ‘Christus--medicus’ rafforzano il mito dell’epoca d’oro che il regno dei
Medici era atto a restaurare.42
Oltre al culto dei santi medici anche l’interpretazione in
senso umanistico dell’impresa dei Medici allude al significato simbolico del nome della famiglia: le sette palle rossastre
che Galeotto ha paragonato ai sette pianeti dell’universo da
un osservatore dell’epoca potevano essere lette come le
arance amarognole e rosse che in Toscana chiamavano mala
medica, ovvero ‘mela medica’.43 Ma fa parte del culto del
potere guaritivo anche la già menzionata etimologia del
nome Lorenzo. Il lauro infatti era considerato la pianta sacra
di Apollo e vi attribuivano poteri miracolosi. Anche questi
esempi provano che la laudatio di Galeotto si inseriva organicamente nel culto creatosi intorno alla figura dei Medici.
La metafora ‘medicus-Medici’ è diventata un motivo
ricorrente anche delle opere letterarie. Ficino nell’introduzione al De vita si riferisce a Cosimo de’ Medici come ad un
guaritore delle anime.44 Naldo Naldi invece in una sua elegia
dedicata a Lorenzo dice che l’operato della famiglia è degno
del loro nome: «Hinc bene, cum Medices medicas exerceat
artes, conveniunt generis nomina prisca sibi».45 Tuttavia il
parallelo letterario più importante con l’opera di Galeotto
forse è il dialogo dedicato a Lorenzo de’ Medici nel 1469 dal
medico Giovanni d’Arezzo, che nel suo De medicinae et
legum praestantia spiega che la medicina è una scienza di
rango più alto rispetto al diritto proprio perché il nome della
famiglia Medici è legato alla parola medicus.46
L’argomento del dialogo di Giovanni d’Arezzo può essere collegato all’ultima questione che tratterò nel corso del
presente intervento: fino a che punto l’associazione alla figura del medico poteva veramente essere considerata una
lusinga nella Firenze del secolo XV. Con il presente intervento non possiamo soffermarci alla descrizione della competizione tra medici e giuristi fiorentini e all’illustrazione delle
tanto citate polemiche del Petrarca e di Coluccio Salutati nei
83
confronti dei medici (oramai analizzati molto meglio, in tutte
le loro sfumature).47 Dobbiamo tuttavia menzionare che intorno alla fine del secolo l’attività degli umanisti si avvicinò
molto a quella dei medici, in quanto i medici dimostravano
sempre maggior interesse per gli studia humanitatis e anche
gli umanisti iniziarono ad interessarsi agli scritti di medicina e
di scienze naturali, grazie anche ad una migliore conoscenza
del greco antico, senza la quale non sarebbe stato possibile
approfondire lo studio degli scritti di medicina e di filosofia
naturale, all’epoca consultati sempre più frequentemente.
Secondo Katharine Park una delle figure più emblematiche di questo processo fu Paolo Toscanelli.48 A nostro avviso Galeotto Marzio è un esempio altrettanto tipico di questa
categoria di intellettuali con una cultura a duplice matrice,
siccome a Padova insegnava contemporaneamente letteratura e studiava scienze mediche.49 Il fatto che emendò insieme a Johannes de Zredna l’Astronomicon di Manilius è l’ulteriore prova del suo approccio umanistico, mentre il suo
pensiero filosofico fu influenzato dall’astrologia medica.50
Verso la fine del Quattrocento molti medici venivano a
Firenze per trovare un patrono: lo stesso Ficino aveva studiato medicina.51 Forse anche l’umanista vagabondo
Galeotto Marzio aveva dedicato la sua opera ai Medici perché sperava di trovare in loro un mecenate. Il Marzio non fu
l’unico a dedicare uno scritto di medicina a Lorenzo il
Magnifico: anche Antonio Benivieni, il medico delle più
influenti famiglie fiorentine dedicò il suo Regimen sanitatis52
al Magnifico, che da parte sua soffriva di diversi malanni e di
conseguenza era interessato ad ascoltare i consigli dei medici, sia riguardo alla cura del proprio corpo che a quella dello
Stato. È risaputo che soffriva di gotta, un male piuttosto frequente tra i vari membri della famiglia e che a causa di malattie cutanee fosse un assiduo frequentatore delle terme.53
Galeotto Marzio ad ogni modo a causa delle sue frequenti e infuocate polemiche contro il neoplatonismo non
potè entrare nella cerchia degli umanisti che circondavano
Lorenzo il Magnifico. Tuttavia riteniamo che proprio grazie al
De doctrina promiscua si possa riconsiderare l’idea che la
contraddizione tra il neoplatonico Ficino e l’aristotelico
Galeotto fosse inconciliabile. Ambedue credevano nell’unità
del corpo e dell’anima e anche Ficino approvava la tesi dell’influenza praticata dai corpi celestiali sulla vita umana.54
Nella prossima fase della nostra ricerca intendiamo esaminare se è possibile ipotizzare dei legami più stretti tra il
pensiero filosofico del Marzio e l’attività politica vera e pro84
pria di Lorenzo de’ Medici e in che misura questi punti di
incontro possano essere messi in relazione con le teorie aristoteliche e platoniche relative allo Stato. Possiamo affermare senza alcun dubbio che la metafora medico – sovrano rielaborata da Galeotto e le relative associazioni allo Stato organico sono adattabili soprattutto ai governi di tipo monarchico, dove l’individuo non ha molto accesso al potere. L’unica
cosa sicura è che l’opera del Marzio pubblicata anche in
forma stampata nel 1548 contribuì enormemente alla nascita e al rafforzamento del culto creatosi intorno alla figura di
Lorenzo il Magnifico.55
* Un ringraziamento va alla traduttrice del presente studio, Tiziana del Viscio.
Note
(1) G. Miggiano, Galeotto Marzio da Narni. Profilo biobibliografico, «Il
Bibliotecario», XXXVI-XXXVII, 1993, p. 95; Varia dottrina, a cura di M. Frezza,
Napoli, Pironti, 1949, p. XXI.
(2) J. Ábel, Galeotto Marzio, in Adalékok a humanizmus történetéhez
Magyarországon, Budapest, Academia Hungarica - Leipzig, Brockhaus, 1880,
p. 264.
(3) Galeotto Marzio, De doctrina promiscua, Firenze, Torrentinum, 1548,
p. 67.
(4) Ivi, pp. 1-8.
(5) Ivi, pp. 1-2.
(6) A. d’Alessandro, Astrologia, religione e scienza nella cultura medica e
filosofica di Galeotto Marzio, in Italia e Ungheria all’epoca del’Umanesimo
corviniano, a cura di S. Graciotti e C. Vasoli, Firenze, Leo S. Olschki, 1994, pp.
133-179; C. Vasoli, Note su Galeotto Marzio, «Acta Litteraria», XIX, 1977, pp.
51-69; Id., L’immagine dell’uomo e del mondo nel De doctrina promiscua di
Galeotto Marzio, in L’eredità classica in Italia e Ungheria fra tardo Medioevo
e primo Rinascimento, a cura di S. Graciotti e A. di Francesco, Roma, Il
Calamo, 2001, pp. 185-205.
(7) Marzio, De doctrina cit., p. 3.
(8) Ivi, pp. 4-5.
(9) Plinio Il Vecchio, Naturalis Historia, XV, 40, pp. 134-136; Marzio, De
doctrina cit., pp. 5-6.
(10) Marzio, De doctrina cit., p.5.
(11) Umanesimo e Medicina: Il problema dell’individuale, a cura di R.
Cardini e M. Regoliosi, Roma, Bulzoni, 1996.
(12) Marzio, De doctrina cit., p. 31.
(13) Ivi, p. 64 sgg; vedi anche Miggiano, Galeotto Marzio da Narni cit., p.
157 sgg.
(14) Per il rapporto tra il Marzio e l’Umanesimo bolognese vedi: G. M.
85
Anselmi e E. Boldrini, Galeotto Marzio ed il De homine fra Umanesimo bolognese ed europeo, «Quaderno degli Annali dell’Istituto Gramsci», III, 1995-96,
pp. 3-83; per il soggiorno bolognese del Marzio: J. Ábel, Galeotto Marzio cit.,
p. 260.
(15) Marzio, De doctrina cit., p. 68.
(16) Cap. 12.
(17) Capp. 24 e 39.
(18) Platone, Leg., 1, 628d.
(19) Aristotele, Pol., 2,2; 2,5.
(20) Tito Livio, Ab urbe condita, 2, 32-33.
(21) Nella presentazione della concezione organica dello stato e del motivo del medicus rei publicae mi sono basata sul libro di T. Struve, Die
Entwicklung der Organologischen Staatsauffassung im Mittelalter. Stuttgart,
A. Hiersemann, 1978; vedi anche: R. Guldin, Körpermetaphern. Zum
Verhältnis von Politik und Medizin, Würzburg, Königshausen-Neumann, 2000;
D. Peil, Untersuchungen zur Staats- und Herrschaftsmetaphorik in literarischen Zeugnissen von der antike bis zur Gegenwart, München, Fink, 1983,
pp. 302-488; P. Archambault, The Analogy of the “Body” in Renaissance
Political Literature, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», XXIX, 1967,
pp. 21-53. Per Seneca vedi: T. Struve, Die Entwicklung cit., pp. 36-43.
(22) J. Le Goff, Head or Heart? The Political Use of Bodily Metaphors in the
Middle Ages, in Fragments for a History of the Human Body, a cura di M. Feher,
R. Nadaff e N. Tazi, New York, Zone Books, 1990 [1989], vol. 3, pp. 12-27.
(23) G. Marzio, De homine libri duo, Bologna, del Barbatia, 1475, cc.
57r-58r.
(24) Struve, Die Entwicklung cit., p. 133.
(25) T. Struve, The importance of the Organism in the Political Theory of
John of Salisbury, in The World of John of Salisbury, («Studies in Church
History», 3), a cura di M. Wilks, Oxford, 1984, pp. 303-317.
(26) Struve, The importance cit., p. 306.
(27) John of Salisbury, Policraticus, 2, 1.
(28) Struve, Die Entwicklung cit., pp. 175-195.
(29) Su questo argomento più dettagliatamente vedi: P. Morpurgo,
L’armonia della natura e l’ordine dei governi (secoli XII-XIV), Sismel, Edizioni
del Galluzzo, 2000.
(30) Bartolomeo Salernitano, Glossule in Tegni Galieni, Roma, Biblioteca
Apostolica Vaticana, ms. Vat. Reg. lat. 1809, c. 143rb, cita Morpurgo,
L’armonia cit., p. 43. Vedi anche: P.O. Kristeller, Studi sulla scuola medica
salernitana, Napoli, 1986.
(31) Morpurgo, L’armonia cit., p. 49.
(32) Vedi: C. Brink, Arte et Marte. Kriegskunst und Kunstliebe im
Herrscherbild des 15. und 16. Jahrhunderts in Italien, München-Berlin,
Deutscher Kunstverlag, 2000, pp. 22-27.
(33) M. Bloch, The Royal Touch. Monarchy and Miracles in France and
England, New York, Dorset Press, 1961.
(34) S. Bertelli, The King’s Body: Sacred Rituals of Power in Medieval
and Early Modern Europe, The Pennsylvania State University Press, 2001,
p. 26 sgg.
(35) M. Bloch, The Royal Touch cit., pp. 67-69.
(36) D. Kent, Cosimo de’ Medici and the Florentine Renaissance, New
Haven-London, Yale University Press, 2000, p. 142, n. 89.
(37) M. Ficino, Opera omnia, Basel, 1576, ed. a cura di P.O. Kristeller,
Torino, 1962, vol. II, pp. 843-844. Cita J. Cox-Rearick, Dinasty and Destiny in
Medici Art: Pontormo, Leo X and the Two Cosimos, Princeton, Princeton
University Press, 1984, cap. 9, nota 43; vedi anche: A. Chastel, Art et
Humanisme a Florence au temps de Laurent le Magnifique, Paris, Presses
Universitaires de France, 1959, pp. 226-228.
(38) J. Cox-Rearick, Dinasty and Destiny cit., pp. 32-34.
86
(39) Per i Santi Cosma e Damiano vedi: Il Grande Libro dei Santi.
Dizionario Enciclopedico, a cura di E. Guerriero e D. Tuniz, Cinisello Balsamo
(MI), Edizioni San Paolo, 1998, pp. 491-492; per la loro iconografia: Lexikon
der Christliche Ikonographie, a cura di W. Braunfels, Freiburg im Breisgau,
1974, vol. VII, coll. 344-351.
(40) Firenze, Museo di San Marco. J. Cox-Rearick, Dinasty and Destiny
cit., p. 48; D. Kent, Cosimo de’ Medici cit., pp. 144-149; vedi anche: S. R.
McKillop, Fra Angelico’s San Marco Altarpiece - The First Medici Political
Painting?, relazione letta presso The College Art Association, New Orleans,
1980.
(41) Firenze, Galleria degli Uffizi, 8657. J. Cox-Rearick, Dinasty and
Destiny cit., p. 248; R. Lightbown, Sandro Botticelli, London, 1978, vol. II, cat.
B13, non accetta l’ipotesi. Vedi anche: Lorenzo dopo Lorenzo. La fortuna storica di Lorenzo il Magnifico, a cura di P. Pirolo (catalogo della mostra), Firenze,
Silvana Editoriale, cat. 1.3, pp. 26-27.
(42) J. Cox-Rearick, Dinasty and Destiny cit., pp. 32-34 e 39-40; per l’iconografia di ‘Christus - medicus’ vedi anche: D. Knipp, ‘Christus Medicus’ in
der frühchristlichen Sarkophagskultur. Ikonographische Studien der
Sepulkralkunst des späten vierten Jahrhunderts, Leiden, Brill, 1998.
(43) J. Cox-Rearick, Dinasty and Destiny cit. p. 48.
(44) Cita: A. d’Alessandro, Astrologia, religione cit., p. 154.
(45) N. Naldi, Elegiarum libri III ad Laurentium Medicen, a cura di L.
Juhász, Leipzig, Teubner, 1934, vol. III, 8, p. 80. Per altri esempi letterari vedi
anche: D. Kent, Cosimo de’ Medici cit., pp. 118-119.
(46) C. Brink, Arte et Marte cit., p. 24; La disputa delle arti nel
Quattrocento, a cura di E. Garin, Roma, 19822, pp. 29-83.
(47) C. Brink, Arte et Marte cit., pp. 23-24; K. Park, Doctors and Medicine
in Early Renaissance Florence, Princeton, Princeton University Press, 1985,
pp. 220-226; vedi anche: V. Nutton, The Rise of Medical Humanism: Ferrara,
1464-1555, «Renaissance Studies», XI, n. 1, 1997, pp. 2-19.
(48) K. Park, Doctors and Medicine cit., pp. 226-233.
(49) J. Ábel, Galeotto Marzio cit., p. 237.
(50) Per l’attività umanistica di Galeotto vedi: M. Pastore Stocchi, Profilo di
Galeotto Marzio umanista eretico, in Galeotto Marzio e l’Umanesimo italiano
ed europeo, Atti del convegno di Studio, Narni, 8-11 novembre, 1975, Narni,
Centro di Studi Storici di Narni, 1983, pp. 15-50; e per le sue conoscenze
mediche: L. Premuda, Contributo alla conoscenza di Galeotto Marzio medico,
in Galeotto Marzio e L’Umanesimo italiano ed europeo cit., pp. 51-67.
(51) K. Park, Doctors and Medicine cit., pp. 235-236.
(52) Lorenzo dopo Lorenzo cit., cat. 2.15, pp. 94-96.
(53) E. Panconesi, Lorenzo Marri Malacrida, Lorenzo il Magnifico in salute e in malattia, introduzione di E. Garin. Firenze, Alberto Bruschi, 1992.
(54) Per il rapporto tra Ficino e la medicina astrologica vedi: G. Zanier, La
medicina astrologica e la sua teoria: Marsilio Ficino e i suoi contemporanei,
Roma, Edizioni dell’Ateneo e Bizzari, 1977; A. Tarabochia Canavero, I volti del
cielo e gli affetti degli uomini, in Il volto e gli affetti. Fisiognomica ed espressione nelle arti del Rinascimento, Atti del convegno di studi, Torino, 28-29
novembre 2001, a cura di A. Pontremoli. Firenze, Leo S. Olschki, 2003,
pp. 15-37.
(55) Dalla vasta bibliografia del culto di Lorenzo de’ Medici possiamo citare solo alcuni riferimenti: Lorenzo dopo Lorenzo cit.; L. Perini, Lorenzo politico. Dal Pulci al Burckhardt, Roma, Bulzoni, 1992; P. Viti, “Superat Laurentius
omnes”: Motivi e forme del consenso letterario, in La Toscana al tempo di
Lorenzo il Magnifico: politica, economia, cultura, arte, Convegno di studi, a
cura di Luigi Beschi. Pisa, Pacini, 1996, vol. II, pp. 437-448; Lorenzo il
Magnifico e il suo mondo, Convegno internazionale di studi, a cura di G.C.
Garfagnini, Firenze, 1994; Lorenzo The Magnificent. Culture and Politics, a
cura di M. Mallet e N. Mann, London, 1996 («Warburg Institute Colloquia», 3).
87
ISTVÁN PUSKÁS
Università di Debrecen
Plauto in Ungheria. La commedia latina e
la corte principesca magiara
Lo studioso – se vuole arrivare alla meta indicata nel titolo, insomma se vuole svelare il rapporto tra i testi plautini e la
corte di Buda – deve prima di tutto affrontare un problema:
nella storiografia ungherese una delle questioni più interessanti ed anche più discusse è l’esistenza o assenza della cultura cortese, insomma della corte in Ungheria.1 Senza dubbio esistevano delle comunità che si riunivano attorno al
capo dello stato sin dal Medioevo, dall’epoca cioè della cultura cavalleresca. Queste comunità esercitavano funzioni
amministrative, rappresentative e culturali, ma si differenziavano in parte dai modelli europei per la formazione culturale
segnatamente magiara. Pur assumendo durante il Medioevo
molti elementi dei modelli occidentali, le radici culturali della
corte magiara non furono, nell’epoca del Rinascimento, larghe e profonde. I re ungheresi di orientamento occidentale,
come gli Angiò, Sigismondo o Mattia, provarono ad adattare certi elementi stranieri alla cultura magiara, circondandosi
di persone di cultura estranea a quella ungherese, il che
suscitò non poca resistenza nell’élite dirigente locale. Ma il
motivo vero di tale resistenza fu il tentativo di Mattia di provare a formare un centro di potere di tipo assolutistico, superando cioè la struttura tradizionale preferita dalla nobiltà
ungherese. Gli elementi fondamentali della formazione
‘corte’ esistevano sì anche tra le mure dei palazzi reali, ma
avevano scarsa influenza sulla vita fuori di esse.
Lo scopo dei tentativi di adattare modelli stranieri è per
noi evidente: i sovrani volevano utilizzare le tecniche del
potere che avevano successo all’estero, che rendevano cioè
i capi dello stato più potenti, gli stati più forti, più importanti
e di maggior prestigio, e nello stesso tempo creavano e
mantenevano stabilità interna, prosperità e sicurezza (per il re
che continuamente doveva difendere la sua posizione non
solamente contro i sovrani rivali ma anche contro l’opposizione interna).
Nella seconda metà del Quattrocento il modello che
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ebbe il successo maggiore si trovava in Italia. È notissimo
che una sua caratteristica fondamentale fu l’utilizzo di una
cultura finora sconosciuta all’élite politico-dirigente, tradizionalmente di formazione cavalleresca: la cultura delle humanae litterae. Certo, questa cultura non rimase la cultura degli
umanisti, nel senso che ebbe interpretazioni, funzioni e usi
ben diversi, siccome la corte la utilizzò anche per motivi politici. Ne aveva bisogno nell’amministrazione, ma anche nelle
relazioni pubbliche, insomma nel contatto con i diversi gruppi della società, ed inoltre fu un mezzo utilissimo ed efficacissimo nel manipolare (educare, dirigere) questi gruppi,
dalle persone piú vicine al sovrano alle masse dei borghi e
delle campagne.
Dai documenti pervenutici dalla corte di re Mattia risulta
un tentativo di adattamento di modelli stranieri anche all’ambiente magiaro. In quel periodo la corte regia ungherese si
mostrava molto simile a quelle italiane, ancora nel periodo
della formazione, quando non esistevano ancora le norme
rigide che sarebbero state stabilizzate dal potere della corte
cinque-secentesca. Un momento di grazia, si potrebbe dire,
quando convissero diverse teorie, idee, possibilità, una pluralità culturale, che si uniformò nei decenni successivi.
(Notiamo: pluralità sì, ma non libertà – secondo i termini
nostri. Ogni elemento, ogni tentativo fu sottoposto al valore
principale: il potere del sovrano.)
Una delle innovazioni più importanti delle corti italiane fu
la riscoperta del teatro.2 Forme di rappresentazioni drammatiche esistevano nel medioevo e nell’ambiente cavalleresco;
nelle corti italiane invece quest’attività venne basata su una
cultura diversa: essa ricevette nuove funzioni e vennero elaborate nuove forme e tecniche. Anche la parola ‘teatro’ era
conosciuta prima, ma aveva un significato ben diverso. Gli
umanisti, che conoscevano Vitruvio, erano al corrente dell’esistenza nella città di uno spazio denominato theatrum, ma lo
consideravano un luogo della vita pubblica, un luogo delle
discussioni delle res publicae, e non un luogo di recita, di
rappresentazione, di giuoco, di divertimento. Durante i secoli bui anche i testi drammatici latini erano rimasti conosciuti,
ma venivano utilizzati solo per motivi pedagogici nell’insegnamento del latino anziché nelle rappresentazioni drammatiche. Se sono sorti testi che li imitavano, essi venivano usati
come punto di riferimento, come i notisssimi testi drammatici della suora Hroswita, per i quali Terenzio servì come esempio negativo. Insomma i testi del teatro classico rimasero
dentro l’universo testuale, non salirono sul palcoscenico.
90
Anche Plauto sopravvisse in un modo simile.3 Dal IV
secolo il commediografo latino, con la decadenza del teatro,
insomma con la scomparsa del gioco teatrale, con la scomparsa della formazione culturale che ebbe il nome theatrum
diventò un autore letto ed imitato sì, ma non più un autore da
palcoscenico; Plauto si ritirò nell’universo testuale e per
secoli non si fece piú vedere sul palcoscenico (siccome non
esisteva più neanche esso). I suoi testi divennero testi classici, cioè elementi del canone della letteratura latina, ma
ormai lontani dal latino parlato, quotidiano; il lettore di allora
già necessitava di commenti e interpretazioni per leggerli.
Con la sempre maggiore distanza tra il linguaggio delle commedie e quello dei lettori, incominciò anche la corruzione dei
testi tramandati di copia in copia. Senza la funzione drammatica, i testi – grazie ai copiatori che poco se ne intendevano – conservarono gli elementi del testo recitato, come
segni distintivi di questo particolare genere letterario.
Dalla tarda antichità le ventuno commedie che dalla tradizione vennero considerate opere di Plauto, sopravvissero
in due famiglie di codici. L’antologia dei ventun testi ebbe il
nome di Varronianae. Una commedia della famiglia è nota
agli studiosi solamente a partire dall’Ottocento: la Vidularia
fu ritrovata come palinsesto in una copia del codice del V
secolo, che venne soprascritta nel VII secolo, quando i
monaci di Bobbio, possessori del codice, vi copiarono sopra
il testo dell’Antico Testamento. In questa maniera non vollero distruggere un testo pagano, ma ebbero bisogno dei fogli
per un testo molto più importante. Dal monastero il codice
venne trasferito con tutta la biblioteca nell’Ambrosiana di
Milano, dove il palinsesto venne ritrovato dagli studiosi quasi
trecento anni dopo. L’altra famiglia testuale ebbe maggior
fortuna: questo corpo, risalente alla seconda metà del IV
secolo, contiene venti commedie delle Varronianae (la
Vidularia è nota solamente dal palinsesto di cui si è già detto
sopra); probabilmente venne riscoperto durante il rinascimento carolingo, e da allora venne copiato continuamente
formando la famiglia dei codici Palatini. Gli esemplari più
famosi pervenutici sono il codice Palatino Lat. 1615, il
Vaticano Lat. 3870 (ambedue nella Biblioteca Vaticana) e il
Palatino Heidelberg Lat. 1613 (nella Biblioteca dell’Università
di Heidelberg) – tutti e tre i codici vennero preparati in territorio tedesco nel secolo X-XI. Tuttavia, nonostante fossero
noti e disponibili, i testi plautini non ebbero un’importanza
simile a quelli di Terenzio, di cui il linguaggio fu più adattabile nell’insegnamento del latino.
91
Nel Trecento, però, con l’attenzione rinvigorita per i testi
latini classici, anche Plauto venne letto di più. Già nel 1390
Pier Paolo Vergerio scrisse un’opera di imitazione plautina
con il titolo: Paulus. Comoedia ad juvenum mores corrigendos. Dal titolo è evidente la funzione educativa del testo:
anche l’opera di Vergerio rimase dentro l’universo testuale:
non intendeva diventare testo drammatico, testo recitato sul
pacoscenico; al limite, veniva letta in modo dialogato. La
funzione educativa significa educazione linguistica ed educazione morale; per il medioevo infatti ogni storia è interessante se ha il valore di esempio. I primi umanisti conoscevano solamente otto testi plautini, ma sapevano che gli antenati ne avevano conosciuti degli altri.
Fu Niccolò Cusano a scoprire a Colonia nel 1429 una
copia della famiglia Palatina (con le dodici opere finora sconosciute agli umanisti), la quale finì presto nella biblioteca
romana del cardinale Giordano Orsini.4 Iniziò subito il lavoro
di copiatura di queste opere, che ben presto si misero a circolare nell’ambiente umanista. Il corpus plautino ebbe subito le sue imitazioni dando origine a testi latini che seguivano
come modelli le commedie di Plauto, ma senza l’intenzione
di metterle in scena, come la Chrysis di Enea Silvio
Piccolomini o la Philodoxios di Leon Battista Alberti. Le
diverse copie, naturalmente partendo da Roma, hanno prima
raggiunto i centri culturali italiani, come Ferrara al tempo di
Lionello d’Este, che ne fece fare un’altra copia. La prima edizione stampata è del 1471, opera dell’officina veneziana di
Giorgio Merula.
In Ungheria Plauto arrivò negli anni Sessanta, sicuramente almeno in due copie: un codice, preparato a Firenze nella
seconda metà degli anni Cinquanta, capitò alla Biblioteca
Corviniana, un altro volume invece si trovava nella biblioteca
di János Vitéz: si trattava di una copia redatta nell’Italia settentrionale attorno al 1465.5 Insomma Plauto prese subito
posto nell’universo testuale degli umanisti, entrando nella
comunità dei grandi antenati, dei padri, oggetto d’imitazione.
Dunque, alla corte di Buda Plauto era presente fin dagli anni
Sessanta, ma probabilmente confinato dentro i muri delle
biblioteche: veniva letto, ma non abbiamo notizie sulla messinscena di nessuna sua opera.
In Italia le prime rappresentazioni e recite delle commedie e tragedie classiche iniziarono negli anni Settanta, quando, a Roma, la riorganizzata Accademia Pomponiana6 si mise
a ricostruire le rappresentazioni teatrali antiche, nel segno di
risuscitare lo splendore dell’Urbs. La compagnia di
92
Pomponio Leto recitò in latino, il che ci indica chiaramente
che lo scopo non era anzitutto quello di divertire con le storie comiche o tragiche: le recite dei pomponiani avevano
maggiormente una funzione di rappresentazione del potere,
che aiutò la formazione dell’immagine di quello papale.
Inoltre gli attori non erano ancora professionisti, ma membri
e studenti dell’accademia, per i quali la recita serviva come
esercitazione linguistica e retorica. Le prime rappresentazioni si svolgevano in cerchie molto ristrette, nelle case dei
pomponiani o nei palazzi dei potentissimi protettori dell’accademia. Lo spettacolo, però, venne presto rappresentato
per un pubblico più vasto: nel 1486 la tragedia di Seneca,
intitolata Ippolito, fu recitata in Campidoglio.
Nello stesso anno a Ferrara venne messa in scena per la
prima volta la volgarizzazione di un testo classico latino: fu
recitata la Menechmi, durante le feste di carnevale.7 Si trattava ormai di una vera e propria rappresentazione drammatica teatrale: insomma furono usate le forme e le strategie del
teatro. Nelle corti padane, come a Ferrara e a Mantova, ma
anche a Milano, già negli anni precedenti era stato creato
uno spazio separato per l’azione. Questa evoluzione fu opera
degli umanisti che dirigevano le rappresentazioni festive,
usando frequentemente nel loro lavoro i frutti delle ricerche
condotte nell’ambiente della cultura antica. La scena della
commedia plautina – e, in seguito, ogniqualvolta si portava
sul palcoscenico una commedia – rappresentava una città
reale (Ferrara) e gli attori portavano dei costumi preparati per
l’occasione. La recita rimase ancora una parte del programma della festa composta da diversi divertimenti, ma si differenziò nettamente dalle altre parti del programma – non
come avveniva con lo spettacolo del Ruzzante che divertiva
gli ospiti durante il banchetto.
Da allora non passò anno a Ferrara senza teatro – sottolineo: sempre nell’occasione di una festa di carnevale o
nozze; si trattava sempre delle feste statali, che erano manifestazioni del potere principesco. Le funzioni delle recite
sono chiare: oltre a divertire (ma questo scopo non fu generalmente ottenuto, dato che il pubblico, anche se si parlava
l’italiano, trovava abbastanza noiosi i programmi troppo lunghi) le recite avevano anche la funzione educativa (docere et
delectare), sia linguistica e comunicativa che morale. La differenza rispetto alle recite pomponiane fu che questo pubblico non parlava il latino, oppure non lo riteneva così utile e
importante come a Roma. Il pubblico e la corte di Ferrara
avevano bisogno di un modello linguistico pratico, utilizzabi93
le nella comunicazione quotidiana, come pure di modelli di
comportamento e di regole che organizzassero e ordinassero la vita quotidiana civile. E naturalmente anche il principe
aveva bisogno del teatro: per comunicare con i suoi cittadini, per educarli (manipolarli se vogliamo dire così) a seconda
degli scopi dello stato e del principe stesso.
Nella complessità del fenomeno della corte i diversi elementi e funzioni non furono separabili: le funzioni del governare, rappresentare, educare o influenzare si intrecciavano.
Se un sovrano scelse il metodo di governare che si manifestò nella formazione chiamata ‘corte’, adottava l’intero sistema – ovviamente con le modifiche apportate a seconda delle
tradizioni ed esigenze locali. La corte poteva funzionare ed
avere successo solo se riusciva ad adattarsi alla particolare
situazione locale, come fecero gli Este quando adottarono le
nuove tecniche e strategie romane e fiorentine, trasformandole e mescolandole con la cultura ferrarese.
Sicuramente anche re Mattia adottò l’intero modello
‘corte’, la cui funzione primaria come abbiamo già detto
furono la rappresentazione e la simbolizzazione del potere.
Tuttavia, pur conoscendo il sistema amministrativo burocratico del centro di potere magiaro, abbiamo pochissime informazioni riguardanti la rappresentazione del potere; i pochi
esempi disponibili (come l’entrata del re a Vienna) dimostrano che esisteva e veniva usato il linguaggio della festa come
manifestazione del potere. E, se esisteva la ‘festa statale’,
doveva esistere anche la rappresentazione drammatica. Il
cosiddetto ‘gioco d’Otranto’ ne è dal 1501 l’unica testimonianza, ma possiamo supporre che seguiva una tradizione
della corte di Mattia. Esso è un segno, una traccia, che indica la presenza molto probabile di altre manifestazioni simili.
È poco probabile che questo modo di comunicare il successo politico non sia stato utilizzato anche in altri casi, per
esempio per celebrare le vittorie ungheresi sia contro i turchi
che in altri conflitti militari del Corvino.8
La domanda è se la corte di Buda, dal momento in cui
mostra le caratteristiche della concezione di rappresentazione drammatica medievale della cultura cavalleresca, passò
nella fase seguente, adattando dall’Italia – con la cultura
umanista – anche il teatro. Secondo Tibor Kardos9 il teatro
arrivò a Buda con la rappresentazione plautina. La sua teoria
è che una persona della corte ferrarese, Pandolfo
Collenuccio, che ebbe un ruolo fondamentale nella formazione del teatro estense, sarebbe venuto in Ungheria con la
compagnia del cardinale Ippolito d’Este, e sarebbe stato lui
94
a portarci la nuova moda. Il problema è che non ne troviamo
la conferma nella biografia di Collenuccio: non siamo in
grado di evidenziare il suo soggiorno pannonico. Kardos
trova invece il collegamento nel primo testo drammatico di
imitazione plautina nato in terra magiara, un breve testo di
Bartholomeus Francofordinus Pannonius, intitolato
Comoedia Gryllus.10 Quest’opera segue senza dubbio
modelli plautini, ma non la commedia tradotta sicuramente
da Collenuccio, che è l’Amphitrion. Il maestro tedesco imita
la famosissima e popolarissima Menechmi, il bestseller del
teatro ferrarese.
La moda di Plauto poteva certamente arrivare con
Ippolito da Ferrara, ma anche, come abbiamo visto, attraverso altri canali. Prima di tutto va detto che i testi plautini erano
già presenti e noti a Buda, e inoltre potevano essere conosciute le recite latine di Roma; tuttavia, con Bartholomeus la
commedia plautina poteva arrivare anche dal territorio tedesco. La datazione del testo del Francofordinus la posiziona a
cavallo dei secoli XV e XVI (il testo venne stampato per la
prima volta a Vienna nel 1519); non possiamo parlare di un
contatto personale diretto, e se esisteva una tradizione di
rappresentazione plautina a Buda negli anni ’80-90, noi non
ne intravediamo le tracce. Ci è pervenuto il testo, ma nessun
riferimento alla sua rappresentazione o recita. C’è anche
un’altra possibilità: che lo spettacolo all’antica sia arrivato a
Buda proprio in questi anni. Abbiamo un dato che potrebbe
appoggiare questa teoria: nel 1501 venne a Buda un allievo
dell’accademia pomponiana, Girolamo Balbi, che ivi lavorò
come segretario reale.
Il testo stesso porta naturalmente i segni e gli elementi di
una costruzione retorica da recitare, mancano però le attualizzazioni ad un evento o ad una situazione concreta della
manifestazione che caratterizzava sempre o quasi sempre
queste opere, perché le commedie da palcoscenico non
venivano considerate opere letterarie. Esse non si preparavano per la lettura, l’analisi e l’interpretazione umanista, ma
venivano scritte (se lo venivano) dopo le recite, e prima di
tutto per essere conservate per le recite ulteriori, più come
note o bozze che non come testi letterari. Abbiamo infatti
molte testimonianze che i testi recitati non venivano scritti e
quindi conservati: l’universo del palcoscenico e l’universo
testuale rimasero separati e ben distinti.
Nel caso del Gryllus esiste invece un testo in latino; il
fatto ci offre due spiegazioni: se accettiamo che abbia avuto
luogo la rappresentazione con un’eventuale recita, la scelta
95
della lingua significherebbe che l’autore seguiva il modello
pomponiano, romano, e non quello ferrarese (ricordiamoci
Balbi!). Ma ovviamente la lingua latina a Buda assume un’altra funzione: a Roma l’uso del latino è l’atto di ricreazione del
passato: in questo spazio linguistico, uno spazio virtuale
dove il passato ed il presente si incontrano e si uniscono,
rinasce la Roma antica, nasce il modello imitato. A Buda
invece il latino rappresentò sempre una possibilità di unirsi al
mondo del modello, un territorio dove si incontra direttamente e personalmente la cultura imitata, ma senza la ricreazione di una situazione passata. In ambedue i casi, cioè sia a
Roma che a Buda, il latino poteva avere però una funzione
piú pratica: poteva avere il ruolo di koinè in un ambiente plurilinguistico. In questo caso il motivo della scelta è simile a
quella ferrarese: la scelta di una lingua comune che rende
possibile la comunicazione dei membri di varia origine, naturalmente con l’adattarsi alla situazione ed esigenza concreta.
Se invece non troviamo evidenziata la recita della commedia, dobbiamo posizionarla dentro l’universo testuale
umanista, dove con il metodo dell’imitazione Bartholomeus
intende far parte del colloquio culturale che ebbe il nome di
humanae litterae; segue la tradizione medievale e umanista,
ed ignora l’innovazione della corte nel campo del dramma. Il
testo stesso non ci offre informazioni da cui si potrebbe ricavare la soluzione, e mancano anche i dati esteriori, cioè notizie e cronache su una sua eventuale rappresentazione.
La funzione del Gryllus è evidente: l’educazione.
Educazione linguistica, retorica. La brevità del testo è sicuramente l’eredità del gusto medievale, caratteristica dell’exemplum, della storia a scopo d’educazione morale, dove
viene trascurato ogni dettaglio irrilevante dal punto di vista
del messaggio da trasmettere. Abbiamo un testo molto simile al modello medievale, che proprio in questo punto si
mostra molto diverso dal modello plautino, dove tutte le
commedie sono piene di episodi a scopo di divertimento.
Bartholomeus fu il maestro della scuola di Buda. Non funzionario di corte come tutti gli autori, collaboratori del teatro
ferrarese, ma insegnante – come letterato poteva avere
anche incarichi per organizzare e realizzare feste, manifestazioni, ma non ne abbiamo testimonianze. È molto più probabile che doveva istruire i giovani, e come mezzo molto efficace per l’educazione scelse anche il testo comico, con cui
gli alunni ebbero l’occasione di esercitarsi nella lingua. Non
possiamo negare l’eventuale rappresentazione del testo, ma
quasi sicuramente fuori dello spazio cortese, meglio nello
96
spazio scolastico (com’era consuetudine a Padova), il che ci
conduce però al campo del dramma scolastico. Ma con questo passo siamo anche usciti dal territorio di competenza
della presente relazione.
Note
(1) Mi limito a citare due studi recenti: Magyar reneszánsz udvari kultúra,
a cura di R. Várkonyi Ágnes, Budapest, 1987 e F. Zemplényi, Az európai udvari kultúra és a magyar irodalom, Budapest, 1998.
(2) Dalla vasta letteratura sul tema: F. Cuciani, Teatro nel Rinascimento.
Roma 1450-1550, Roma, 1983 ed i saggi del volume intitolato Il teatro italiano nel Rinascimento, Bologna, 1987.
(3) Sulla fortuna dei testi plautini: C. Questa, Introduzione, in Plauto,
Anfitrione, Milano, 1997.
(4) Questo volume fu studiato da Poggio Bracciolini, come testimoniano
le sue note autografe.
(5) Sui codici con testi plautini: Cs. Csapodi - K. Gárdonyi Csapodiné,
Bibliotheca Corviniana, Budapest, 1976 e K. Gárdonyi Csapodiné, Die
Bibliothek des Johannes Vitéz, Budapest, 1984.
(6) Sull’attività dell’Accademia Pomponiana vedi il volume sopraccitato
del Cruciani.
(7) Sulle rappresentazioni ferraresi vedi le cronache del Diario ferrarese, in
Rerum italicarum scriptores, a cura di L.A. Muratori, t. XXIV, Mediolani, 1738.
(8) Conosciamo altri dati, come a esempio l’arrivo nel 1482 da Ferrara di
56 maschere, che sostengono la teoria di una vita di feste a Buda secondo la
nuova moda.
(9) T. Kardos, Régi magyar drámai emlékek, vol I, Budapest, 1960, pp.
138-139. Ho preso da questo studio i dati riguardanti le rappresentazioni
drammatiche teatrali ungheresi.
(10) Il testo si legge in Kardos, Régi magyar drámai emlékek cit., vol. I,
pp. 541-549.
97
ISTVÁN DÁVID LÁZÁR
Università di Szeged
Antropomorfismo nel De archictectura
di Filarete-Bonfini
Per prima cosa vorrei spiegare perché nel titolo del mio
intervento figurino insieme Filarete (Antonio Averulino) e
Antonio Bonfini, tanto più che, come è noto, Filarete scrisse
in lingua volgare il suo Trattato di architettura, tradotto poi in
latino dal Bonfini su commissione di re Mattia. A prima vista,
quindi, autore e traduttore, oltre a questo fatto, non hanno
niente in comune: considerando invece la fortuna e l’influenza dell’opera, tale approccio è ovvio. Prima di tutto bisogna
prendere in considerazione alcuni riferimenti, da parte dell’autore e anche del traduttore, che si riferiscono ai destinatari del De architectura. Filarete, spiegando la scelta del volgare, dichiara:
[…] essa opera, che meriterebbe essere in latino e non in volgare; ma stimando io da’ piú essere intesa, e ancora perché in latino
se ne truova da degnissimi uomini essere fatte […].1
Egli pensa, quindi, che con l’uso del volgare la sua opera
avrà una maggiore diffusione anche fra gli uomini meno colti.
Bonfini, invece, parla in questi termini:
In qua quidem traductione, ne opus evilescat, si latinis aliquantulum vocabulis inhaesero, patiatur quaeso aequo animo Vestra
Serenitas, me non minus doctorum, quam imperitorum et vestrae
dignitatis ac mei nominis habere rationem. Ego autem in traducendo hoc utar temperamento, quo diluciditati simul et latinitati satisfacere studebo.2
L’opera in latino e quella in volgare in tal modo mirano a
diversi lettori, anche se l’opinione dei letterati coevi e il giudizio della posterità dimostrano divergenze. Filarete si è guadagnato l’ira dei suoi contemporanei (ad esempio anche la
posizione del Vasari è schiacciante: «Benché ci siano alcune
belle cose, ad ogni modo è il libro più ridicolo e stupido che
sia stato mai scritto», e inoltre: «Non possiamo dire che sia
ragionevole quando uno si impegna in ciò di cui non se ne
intende per niente».) La traduzione del Bonfini, invece, era
99
oggetto di lodi, cosa che viene confermata anche dal fatto
che ne conosciamo diverse copie e che i codici sono reperibili in tante parti d’Europa, da San Pietroburgo a Venezia,
da Roma a Bruxelles. Possiamo dire che l’opera di Filarete è
stata resa nota e conosciuta tramite la traduzione del Bonfini.
Sembra assai problematico codificare il genere letterario
del Trattato di Filarete. La letteratura specialistica offre varie
qualifiche al riguardo: alcuni lo indicano come uno scritto di
stampo propagandistico collocato in una cornice romanzesca con pretese letterarie; altri lo ritengono un’utopia sottolineandone gli elementi sociali, altri ancora vi hanno cercato
e trovato pure momenti neoplatonico-alchimistici; inoltre è
stato ritenuto anche un romanzo.3 Dal punto di vista del
genere, il Trattato può essere giustamente considerato eclettico, visto che ci si trovano tutti i caratteri succitati: si leggono spesso dialoghi, descrizioni, aneddoti, allegorie che lo
allontanano dal genere del trattato strettamente inteso.
Prendendo in considerazione i rapporti fra la versione originale e la traduzione, gran parte della letteratura specialistica si occupa dei problemi cronologici della datazione dell’opera, e, inoltre, analizza i metodi del Bonfini traduttore, ossia
i cambiamenti (precisazioni, aggiunte) realizzati da lui stesso
nel testo latino appoggiandosi, in primo luogo, al De architectura di Vitruvio.4
Il modello del Trattato – come generalmente di tutti i trattati di architettura scritti allora – era naturalmente Vitruvio,
menzionato spesso con termini elogiativi da Filarete, che, a
sua volta, ne segue la tematica e ne cita brani pur ribadendo, qua e là, la propria opinione personale a volte anche
divergente dal gran predecessore. Eccone un esempio:
[…] non ut a Vetruvio, neque a caeteris eruditissimis architectis,
sed ut tuo philareto architecto Antonio Averulino cive florentino […]
hoc opus accipies.5
La sua posizione ambigua si nota chiaramente anche nel
brano che segue:
Vetruvius autem umbilicum in medio corpore non aliter ac punctum in circulo esse contendit eumque centrum hominis asserit,
quod etsi mihi nequaquam esse videatur. Viri tamen sententiam ut
omnes architecturae dimensiones ab homine profluxisse videantur
vehementer approbo.6
E con questa citazione siamo arrivati all’antropomorfismo
riportato anche nel titolo. È ben noto il fatto che, negli scritti di architettura, le misure e le proporzioni degli edifici pro100
vengono da quelli degli uomini. Questo è il metodo anche di
Vitruvio e, seguendolo, Filarete utilizza alcune frasi quasi
prese letteralmente dal suo predecessore:
Vitruvio: “Ipsius autem oris altitudinis tertia est pars ab imo
mento ad imas nares, nasum ab imis naribus ad finem medium
superciliorum tantundem, ab ea fine ad imas radices capilli frons
efficitur item tertiae partis”.7 Filarete: “[…] capitis altitudo trium est
nasorum. A naribus ad mentum usque nasus unus est, et a naribus
ad frontem alter nasus, a supercilio ad initium capillorum extremamque frontem tertius nasus est”.8
Filarete, invece, non si ferma qui, l’idea lo affascina talmente che analizza le somiglianze fra uomo ed edificio anche
da altri punti di vista applicando l’analogia in modo coerente. Se le proporzioni degli edifici devono seguire quelle del
corpo umano, l’insieme delle singole parti degli edifici si
deve riferire all’insieme del corpo umano:
Caput enim faciesque hominis, cui caetera membra consentire
debent, sicut humanam speciem pulchritudinemque praefert, ita
operis aspectus talis esse debet, ut partium iocunditate spectatorem oblectet […].9
Quest’affermazione ha importanti conseguenze: se, infatti,
non esistono due persone del tutto identiche, non ci sono
neppure due edifici del tutto uguali, quindi anche gli edifici
hanno una loro ‘personalità’. Per obiezione, naturalmente possono emergere alcuni edifici ‘senza carattere’ (come ad esempio i locali per i negozi, casucce, ecc.), però questi tipi di edificio, secondo Filarete, sono da interpretare come le mosche,
le rane e altri animali del genere confrontati con l’uomo.
L’edificio invece non soltanto nel suo insieme, ma anche
nei suoi particolari e nella sua finzione è simile all’uomo.
Oportet aedificium humano more in membra et meatus, in interiores et exteriores partes, item in aditus et exitus caeteraque
necessaria esse divisum […].10
Se gli edifici vengono costruiti in conformità alle proporzioni degli uomini e hanno, quindi, il loro carattere, e se il loro
aspetto rispecchia l’armonia esteriore dell’uomo e le loro
funzioni derivano da quelle del corpo umano, possiamo
naturalmente dedurre che essi possono essere considerati
un organismo vivo. Il nostro autore pure arriva a questa conclusione con tutte le sue conseguenze: se un edificio viene
ritenuto un organismo vivente, bisogna nutrirlo, se si ammala, bisogna curarlo, e poi è necessario che esso perisca. Nel
101
caso degli edifici, è l’architetto ad assumersi il compito del
medico e di infermiere: «Collabantibus […] aedificiis medicorum more architecti remedia succurrunt […]».11
E se l’edificio viene costruito con materiali di pessima
qualità e durante una costellazione negativa delle stelle, lo
stesso discorso vale anche per una persona malaticcia: la
sua sorte sarà una morte precoce.
Per completare l’analogia fra l’uomo e l’edificio, manca
solo un unico momento: l’identificazione della loro esistenza.
Nunc autem quomodo humani corporis generationi opus quodque comparari potest continuo videamus.12
Potremmo pensare che, siccome la vita umana non inizia
con la nascita, nel portare conseguentemente a termine l’analogia, il processo può provocare qualche difficoltà. Il
nostro autore, invece, risolve facilmente il compito: il committente è il padre, il costruttore è la madre, e l’idea dell’edificio viene «concepita» dal loro sposalizio.
[…] pater familias locatorve operis cum architecto coit, more
subinde matris architectus concipit, conceptum mente opus aliquamdiu agitat, ne edat immaturum […].13
Il parto, in questo caso, è la nascita dei progetti, mentre il
processo dell’educazione del bambino può essere paragonato a quello dei lavori: e similmente ai genitori che vogliono
dare al loro figlio la migliore formazione possibile, la coppia
«committente-architetto», a sua volta, deve scegliere con
cura i materiali e i maestri per la costruzione dell’edificio. Il
compimento dell’edificio significa il farsi adulto del bambino.
Questo compimento dell’analogia, per gli architetti, porta con
sé una conseguenza favorevole. Oltre alla presumibile riconoscenza del loro lavoro, grazie al «ruolo di madre», devono
avere un posto speciale nei confronti del committente:
[…] a domino haud aliter ac uxor et amari et observari debet
architectus, sine quo nullum opus aedi potest: illa liberorum. Hic
aedificiorum gratia amari solent.14
Prima ho avuto già occasione di menzionare che il
Trattato di Filarete è invero speciale per vari motivi. Uno di
essi è appunto l’antropomorfismo da me analizzato. Quasi
tutti gli scritti di architettura riportano l’analogia fra il corpo
umano e le proporzioni degli edifici, però, a quanto io sappia, nessun altro autore l’ha portata a termine e l’ha resa così
completa in modo coerente.
102
Note
(1) Filarete (Antonio Averlino detto il Filarete), Trattato di architettura, a
cura di A.M. Finoli e L. Grassi, Milano, 1972, p. 4.
(2) Per la dedica della traduzione di Filarete in ungherese si veda: Janus
Pannonius, magyarországi humanisták, Budapest, Szépirodalmi Könyvkiadó,
1982, p. 634. (Traduz. di J. Koltay-Kastner e L. Merényi)
(3) La questione del genere del trattato è stata studiata da J. KoltayKastner, Filarete, «Filológiai Közlöny», XX, 1974, nn. 1-2, pp. 17-37.
(4) Il testo del De architectura è stato pubblicato a cura e con ampio studio da Maria Beltramini. L’autrice tratta dettagliatamente delle circostanze
della traduzione latina e le differenze fra il testo latino e italiano. - Antonio
Bonfini, La latinizzazione del trattato d’architettura di Filarete, a cura di M.
Beltramini, Pisa, 2000. (In seguito per quest’opera uso l’abbreviazione:
Beltramini. I brani in latino sono riportati da quest’edizione).
(5) Beltramini, p. 8.
(6) Ivi, p. 12.
(7) Vitruvius, De architectura, III. 1. 2.
(8) Beltramini, p. 11.
(9) Ivi, p. 13.
(10) Ivi, p. 14.
(11) Ivi, pp. 14-15.
(12) Ivi, p. 16.
(13) Ibid.
(14) Ivi, p. 17.
103
AMEDEO DI FRANCESCO
Università di Napoli “L’Orientale”
La Historia Annae Kendi: poesia e didassi
Quella che noi per convenzione chiamiamo Historia
Annae Kendi (1557)1 è una sorta di interpolazione narrativa
collocata nel VI libro del poema epico di Christianus
Schesaeus (1535-1585)2 intitolato Ruina Pannonica (15621584).3 Una grande capacità innovativa deve essere quindi
vista nei dodici libri di questo epos, poiché sostanzialmente
esso arricchisce la letteratura ungherese di due generi letterari: la poesia epica e la poesia narrativa. All’interno del più
vasto disegno di strutturazione epica dell’ampio materiale
proveniente dalla lotta contro i Turchi, infatti, si fa spazio un
momento narrativo che predispone la letteratura ungherese
alla ricezione di una tematica in cui amore e morte dettano le
leggi di un comportamento umano e morale che si invera
nelle pieghe di un destino atroce e irreversibile. La Historia
Annae Kendi, come recita il sottotitolo, è allora il resoconto
puntuale di un adulterio che trova nella morte della moglie
fedifraga il punto focale di un riscatto morale visto come
necessario. E l’alta ma non eccezionale esemplarità di questa vicenda, pur incredibile per la stranezza e l’assurda consuetudine dell’accaduto, viene percepita non da lontano ma
da vicino, poiché il compito e la volontà dell’autore son quelli di riferire coraggiosamente una vicenda realmente accaduta, che anzi apparteneva alla contemporaneità.4
Pertanto, nel VI canto della Ruina Pannonica la staticità
dell’epos eroico perde di compattezza, s’incrina come per
un brusco sussulto. Irrompe la materia amorosa e il canto
storico sembra evolvere, allora, e per contaminazione, in
romanzo cortese. Schesaeus non indugia. Tematiche diverse, già rigidamente distinte, confluiscono in una proposta
inedita di strutture narrative che esaltano in forma drammatica la diade di amore e morte. Una pausa di riflessiva solitudine viene concessa alla stessa visione eroica, un freno si
pone al ritmo concitato impresso alla ricostruzione epica
105
delle vicende storiche d’Ungheria. Dalla cronaca si recupera
un episodio non ancora archiviato dalla sensibilità collettiva
e ci si affida al magistero della classicità per esprimere un
universo sentimentale che sino ad allora in Ungheria non era
stato frequentato per iscritto con sì partecipata tensione. Un
misto di sdegno e di stupore per la sorte funesta di due
amanti irretiti da insaziato desiderio si coglie nell’impegno di
voler rinvenire le tracce di un itinerario ‘galeotto’ in cui la
figura femminile viene delineata in funzione di nuove istanze
estetiche. Sono allora di maniera la malinconia e il dolore che
vogliono accompagnare queste riflessioni iniziali di
Schesaeus? Non possiamo escluderlo, e del resto il tema
della pulsione d’amore è quanto mai adatto a rivelare, nella
seconda metà del Cinquecento letterario ungherese, questo
cambiamento di sensibilità estetica sollecitato dai modelli
classici e occidentali. È questo il motivo che spinge a citare
l’incipit della Historia Annae Kendi accanto al ben più famoso inizio della Eurialus és Lucretia históriája (1577, Storia di
Eurialo e Lucrezia), cioè dell’anonima riscrittura ungherese
della Historia de duobus amantibus di Enea Silvio
Piccolomini:
Schesaeus
Ethnica testantur monumenta sacrique libelli
Atroces poenas impia facta sequi.
Idoli cultus, scortatio, crimina magna
Urbibus et populis ultima fata ferunt.
Exitium primo Venus attulit improba mundo
Foedaque sulphurea luce Gomorrha perit,
Attulit et fatum Troiae Priamoque superbum
Illicitus Paridis Tyndaridisque furor;
Longius ut prudens exempla petita relinquam
Haec eadem nosmet tempora nostra docent.
Scilicet infelix quam sit vagus ardor amantum
Quos lex nec ratio sanior ulla regit.
Historiam idcirco veram et novitate placentem
Accidit in nostra quae regione, canam.5
[vv. 1-14]
Anonimo
Sok erős vitézek, bölcsek és királyok szerelem
miatt vesztek,
Ifjak, szép leányok sok mérges nyilai miatt
megemésztettek,
Országok pusztultak, városok és várak mind földre
letörettek.
106
Párisnak öröme Priamus királynak birodalmát
elveszté,
Troiát eltöreté, Hectort levágatá, királyt is
megöleté,
Ilion országának minden tartományit ellenség
kézben ejté.
Egy pogány asszony is Sámsonnak elméjét oly igen
megvakítá,
Az ő mondhatatlan erejét elvévé s szemét
kitolattatá,
Ő magát is végre pogányokkal össze az föld alá
borítá.
Szent Dávidnak fia, bölcs Salamon király Istennél
kedves vala,
De Fáraó király leánya szerelme miatt bálványt
imáda,
Mindenféle renden az vak szerelemnek vagyon
ilyen hatalma.
Sokakról szólhatnék, kiknek példájokról lehetne
több beszédem,
De most kiváltképpen két ifjú személynek
szerencséjét éneklem,
Kikben mérges voltát igen megmutatá az kegyetlen
Szerelem6.
[vv. 1-15]
Quale rapporto lega i due testi? Quale esperienza letteraria ed emotiva suscitano le due scritture? A quale figura di
intellettuale e a quale statuto letterario rimanda la parola che
vuole trasformare la cronaca in esemplarità atemporale, anzi
sovratemporale? Chi conosce la letteratura ungherese del
Cinquecento sa bene che i due autori si collocano in situazioni culturali diverse, se non altro dal punto di vista del sistema committenza-creazione-ricezione. Eppure si avverte una
convergenza d’interessi artistici che si risolve nella capacità
di donare all’esercizio letterario un nuovo intento programmatico. I due brani evocano una non superficiale frequentazione di modelli sostanzialmente ben codificati e conosciuti,
letti avidamente ed elegantemente riproposti. Si avverte l’organico collegamento voluto da una linea intertestuale predominante che solo per accidente necessario produce per
rifrazione la nascita di segmenti linguistici differenziati. La
dimensione intertestuale anche qui sembra che si realizzi
«procedendo per accumulo, senza niente rinnegare, inglobando, radicandosi, correggendosi; la visione della poesia
107
occidentale come una catena di testi collegati senza soluzione di continuità […] giustifica ed esalta la stessa poesia umanistica, ultima della serie, nana sulle spalle della gigantesca
poesia classica».7 Né meno utile alla comprensione del procedimento compositivo adottato da Schesaeus in questo
suo particolare esercizio narrativo appare l’osservazione
secondo la quale «la pratica dell’intertestualità implica frequentemente la selezione di un elemento particolare che
viene prescelto ed eletto a dominante (ÙÓo˙). Si tratta naturalmente di una vasta operazione qualitativa che concerne
l’intera struttura drammatica ed incide sulla complessità
semantica del messaggio e che solitamente comporta
un’amplificazione dell’elemento prescelto cui si accompagna un’operazione di soppressione».8 Proviamo, allora, a
seguire queste indicazioni che possono essere anche di
metodo.
Da Virgilio, da Ovidio, da Enea Silvio Piccolomini la narrativa ungherese attinge per maturare e affinare la capacità
di ben rappresentare azioni e pensieri, passioni e personaggi. Le cronache sono meno irrigidite nel freddo paludamento dello stile formulare9 e la rappresentazione è meno impietosa, mentre le morti s’arricchiscono di pateticità:
Nobilium id facinus quia stemmate contigit amplo
Ad persuadendum non leve robur habet.
Non furiosorum vitiis delector amantum
Demulsisse animum supplicioque meum
Quin doleo tristem vicem casumque superbae
Stirpis quis dives clara vetustaque fuit.
Una mihi, Satanae, cura est, pinxisse furores,
Qualiter in vitium pectora prona trahat
Dum carnis stimulos spreta ratione sequantur
Poenarum rident horribilesque minas.10
[vv. 15-24]
L’inizio di questa bella istoria ci presenta in chiave cortese
e nobilitante il tema dell’amore e la lode della donna: ma l’amore non è nobilitante e il personaggio della donna non si trasfigura nella dimensione della bellezza onesta. L’amore è passione che non si risolve in termini elevati e cortesi, ma conduce alla sfera concupiscente degli istinti e degli impulsi della
carne. Siamo quindi nel mondo della lascivia che il poeta ci
presenta come avventura erotica che sfocia in gelosia vendicativa. La greve concupiscenza che viene presentata nel racconto sfocia in un appagamento carnale presto interrotto
dalla ingenua stoltezza dei protagonisti. L’autore qui rivela una
sua propria momentanea estraneità all’antichità classica e la
108
propria adesione ad un mondo neolatino in cui prende il
sopravvento il realismo della orrida sensualità.
Ma non è solo di amore peccaminoso che si vuole
discettare. E si rivolge l’attenzione e l’interesse, allora, alla
storia d’Ungheria, con l’evocazione solenne e partecipata del
mito di Mattia Corvino. Insomma, quasi un sussulto nella
progressione narrativa, come per letture appassionate che
tornano ad ispirare l’innegabile dimensione epica di luoghi e
nomi che furono e sono mitologia ungherese. L’exemplum
s’incardina in un forte senso del luogo, la scrittura diviene
rappresentazione: il riferimento alla natura loci vuole essere
funzionale anche e soprattutto alla evocazione del campo
semantico della immaginazione (ri)creativa. Il castello di
Vajdahunyad entra nel sistema di corrispondenze formato
dal richiamo a luoghi sin troppo noti del mito greco (Troia)
affiancato dalla lezione biblica (Gomorra), ma integra il parallelismo stereotipo11 con suggestioni che provengono non
dall’erudizione ma dall’emozione. I dieci versi che andiamo
citando formano infatti uno dei punti più vivi della istoria, toccando essi un nervo scoperto del dolente organismo della
turbata sensibilità ungherese. L’indicazione geografica e la
struttura retorica del passo si riversano pesantemente su
questi versi che diventano allora anche una nostalgica indicazione temporale di un disegno storico e politico spentosi e
conclusosi in un passato irripetibile:
Hunyad Hatzogiis arx est habitata colonis
Hac vetus Huniades nomen ab arce tulit.
Sic natura loci bene communivit et arte est
Structa, nec hostilis iam timet illa manus
Primitus Huniades, tenuitque deinde Matthias
Rex, qui Pannoniae gloria gentis erat.
Promptus ab hoc aevo vir consilioque manuque
Imperium Ioannes Törökius tenuit.
Qui rabidos longa prostravit cuspide Turcas
Tinxit et hostili sanguine saepe manus.12
[vv. 25-34]
L’insistenza non casuale su nomi così importanti e l’uso
così disinvolto dell’enjambement servono ad evocare
momenti alti della storia d’Ungheria. E non ha importanza se
l’accorato ricordo del passato fa rivivere quei momenti come
istanti dolorosi alla memoria: il passato e il presente si contagiano a vicenda in una lussureggiante narrazione che vuole
essere evocazione di un mondo primordiale in cui i sentimenti si evidenziano nella loro estrema purezza e nudità. Vi è
un’attitudine scenografica che non può non discendere da
109
letture antiche e attentamente studiate; qui si sente la mano
di chi, pur non avendo abiurato la pratica tradizionale, si
diletta nell’accostarsi ad una esperienza narrativa che sembra provenire anche da un prepotente bisogno di raffigurazione pittorica. L’atto del novellare offre la possibilità di un
viaggio nella memoria, evento prezioso perché i temi ungheresi possano allora usufruire di veicoli espressivi che possano far meglio comprendere come la mancata continuità nella
storia del regno di Ungheria non abbia comportato necessariamente un’interruzione nel processo evolutivo della storia
culturale. Anzi, con un uso quanto mai abile della interdiscorsività Schesaeus vuole dimostrare una concezione
moderna della letteratura, in ogni caso la possibilità di una
fattiva interazione di tradizione ungherese e di eredità classica: di qui soluzioni narrative e strutturali che rendono meno
impersonale il pur necessario impianto cronachistico, di qui
il recupero di una pruderie che possa elevarsi al contempo
ad exemplum edificante e a modello narrativo.
La prospettiva poetica di Schesaeus è in rapporti molto
stretti con quella della varia narrativa ungherese contemporanea. Alludo naturalmente alla narrativa ungherese in versi,
cioè alle széphistóriák (belle istorie) che sono in qualche
modo anticipate dalla esemplarità della Historia Annae
Kendi. Questa vicenda di amore e morte mostra infatti un
meccanismo narrativo tradizionalmente impiegato nella
novellistica occidentale e poi ripreso nel dominio magiaro:
ma questo non impedisce che una sostanziale autonomia
compositiva e un differenziato dispositivo artistico caratterizzino di volta in volta i percorsi lirico-epici dei versi latini di
Schesaeus e quelli dei versi ungheresi, scritti per lo più in
stile tradizionale, del repertorio narrativo popolare e colto.13
Ma v’è di più. Di Schesaeus è infatti il discorso icastico
che introduce – quasi in un brivido di paura – il personaggio
di János Török: storia e geografia s’incontrano in un paesaggio dove forte è il sentore di sanguinose gesta antiturche –
quelle appunto attribuite a János Török – che fanno eco ad
una eredità storica consegnata al luogo ed al suo nome. Ma
il tutto viene vissuto sotto il segno della illusione, dal
momento che all’orrida menzione delle gesta militari si sostituisce ben presto l’evocazione dell’errore morale, dell’amore
concepito come lussuria: è insomma l’eterna dialettica di
illusione e disinganno a segnare e travolgere il destino degli
umani. Cosa mancava alla splendida figlia del nobile Kendi?
Nulla, si dirà, dal momento che tutti gli elementi costitutivi
del topos della bellezza muliebre concorrono a dipingere il
110
ritratto della nostra Anna: ella si distingue per decoro dalle
compagne allo stesso modo in cui – poco più tardi, di lì a
qualche anno, nel 1577 – farà la Lucrezia della bella istoria
dell’Anonimo di Patak. In ambedue i testi si fa riferimento ad
una esemplificazione che rimanda ad un amore implacabile
ed impietoso che tutto e tutti attrae a sé ed involve: in
Schesaeus si tratta di vagus ardor amantum, nella ungherese Storia di Eurialo e Lucrezia si evoca un kegyetlen szerelem (amore crudele) che con delicatezza illude l’anima e la fa
perdere nei meandri di maligni incantesimi che si risolvono in
perdizione. Schesaeus si mostra poeta fecondo in queste
felici anticipazioni della varia novellistica amorosa ungherese: l’esemplarità della vicenda narrata si può estendere infatti finanche alla Historia elegantissima regis Tancredi filiae
(1574) di György Enyedi, cioè della riscrittura ungherese
della novella boccaccesca di Guiscardo e Ghismonda
(Decameron, IV, 1). Sennonché l’intervento di Schesaeus è
diverso, più appassionato, più partecipe della cruda vicenda
che si appresta a narrare. Vi è una empatia che amorevolmente segue il dipanarsi degli eventi, vi è una discreta enfasi apologetica che si discosta dal facile atteggiamento diffamatorio, vi è una compenetrazione nella sorte dei due sfortunati protagonisti che muove a pietà: come a dire che la liricità e la esemplarità della vicenda non si limitano alla materia del novellare, laddove richiedono l’adesione partecipe del
poeta che deve limitarsi a cantare ed a piangere, senza
cedere all’istinto del facile (pre)giudizio.
La poesia della Historia Annae Kendi, vera e propria bella
istoria di un viaggio fascinoso nelle tenebrose psicologie dell’umano sentire, sgorga dalla volontà di riferire sulla dolorosa
vicenda di un amore che è visto sempre come sentimento
peccaminoso, che conduce a scelte errate e a decisioni sempre discutibili. La figura della protagonista ci viene presentata dall’autore con una tecnica cinematografica che esalta la
plasticità della rappresentazione e della raffigurazione. Non
dispiace il ricorso alla mitologia quando si vuole descrivere la
bellezza femminile; gli endecasillabi scorrono veloci sotto la
spinta di una ispirazione che accarezza con garbo i lineamenti gentili di un viso che rispecchia la traccia d’amore:
Nec forma virgo, generis nec stimmate maior
Foeminea Kendii prole reperta fiut.
Non sic aethereas nitet inter Cynthia stellas
Dum pleno rutilans orbe serena micat
[vv. 39-42]
111
La stereotipia della idealizzazione della bellezza femminile non disturba un andamento idealizzante che ritrae la
donna con un realismo espressivo che ne disegna con ordine i contorni. Il realismo non può mancare da un assunto
poetico che vuole ripercorrere il sentiero scosceso di un
innamoramento fedifrago. Il topos dello scambio epistolare
acquista vivacità rappresentativa nei sapori e negli odori
della natura che l’autore riesce ad effondere nei suoi versi.
Questa vena realistica viene accentuata nella scena boccaccesca della perfida interruzione dello scambio epistolare per
mezzo dell’intervento del marito tradito che assaggia la gioia
della vendetta. Il testo scorre veloce sul tema dell’amore
impudico che apparentemente non conosce ostacoli e si
sofferma con ampia descrizione di particolari su questa vendetta che si abbatte inesorabile sulla ingenuità di un amore
violento che porta alla perdizione morale e alla distruzione
fisica. Il monologo lamentoso della protagonista è una autocommiserazione che rimpiange la situazione precedente il
perfido innamoramento. L’impeto della narrazione si ferma
dinanzi al dialogo che oppone la donna fedifraga a suo marito, quest’ultimo giudice inesorabile e incorruttibile
Per il resto, la nostra istoria è un efficace esercizio compositivo, tappa importante di avvicinamento alla raffinatezza
della poesia ungherese di fine secolo. L’anonimo traduttore
della novella del Piccolomini viene ancora una volta anticipato nell’uso di una timida cornice epistolare che però fa precipitare la vicenda in una situazione che non sarebbe dispiaciuta alla penna del Boccaccio:
Tradidit his verbis stolido diploma colono:
“Hera haec non alius nunc mea scripta legat.
Nulli responde quamvis ad multa rogatus
Cautius ut pergas, credita iussa vide”.
Post ubi iussa dedit, notam defertur ad arcem
Rusticus ut chartam porrigat asper herae.
Tunc sese infundit magna comitante caterva
Törökius lusu tempora grata terens
Pons erat abiectus, quo se venientibus offert
Rusticus in curvo vomere rura terens
Territus aspectu pulchro multoque virorum
Haesit et attonitus device tecta petit.
Quaeritur a domino, quo pergat, quidve novarum
Adportet rerum, quid velit, aut quid agat?
Protinus extensis pandit secreta lacertis
Haec, dicit, dominae scripta legenda fero
Haud mora dissolvit compacta ligamina chartae
Atque avido citius pectore scripta legit.14
[vv. 99-116]
112
La vicenda evolve in esiti facilmente prevedibili ed è la
parte che forse meno interessa. Ci resta comunque un biografismo dall’efficace carattere documentario affidato ad una
lezione di forte intrapresa erudita e poetica. Schesaeus si
mostra doctus poeta, fine imitatore della classicità, abile
innovatore della tradizione ungherese. Sono i tratti più veri
della vita quotidiana ungherese ad emergere, con l’aiuto
della imitatio, dalle strettoie compositive di una concezione
arcaica della letteratura. Una umanità stilizzata ed assente
finalmente si desta ed acquista le movenze plastiche dell’animazione erotica, della scelta morale, del rischio esistenziale. Si affina la retorica, s’incrementa l’esercizio stilistico, si
delinea un progetto culturale che coinvolge il bello, il vero, il
giusto. Il diletto comincia a prevalere sul didattismo, il canto
storico si trasforma in epos, la storia edificante in exemplum
narrativo, l’istoria tragica in dramma moderno, il romance in
novel. La letteratura ungherese si arricchisce della nozione e
della funzione del personaggio, il cantore evoca non solo le
tracce del passato e fa rinascere non solo la realtà del paese
ufficiale: la materia storica si fa pretestuosa e nella pausa
narrativa si può cogliere una nuova prospettiva umana. La
figura del letterato, in Ungheria, si fa più complessa, si arricchisce di nuove conoscenze, si arrischia ad entrare negli
spazi sconosciuti di una scrittura profondamente diversa,
attratta da nuovi valori e da nuove modalità espressive. Il
verso del canto storico e della bella istoria sempre meno
ricorre alla zeppa, sempre più accoglie simmetrie ritmiche
che danno maggior risalto alla istoria particolare ed ai suoi
singoli segmenti rappresentativi. La narrazione, insomma, si
fa poetica, mentre cresce il gusto della parola e si percepisce il senso del particolare. Ed allora forse non è azzardato
affermare che a Schesaeus va ascritto anche il merito di aver
avviato, nella letteratura ungherese, il lento ma costante processo di caratterizzazione del personaggio affidato all’unicità
e all’imprevedibilità dell’esperienza.
La Historia Annae Kendi è una storia di grandi sensazioni narrata sul filo dell’emozione. Il poeta epico si concede un
momento lirico e riflessivo e riferisce qui il caso estremo di
una umanità terrificata dal mistero del delitto e del castigo.
Si tratta infatti di un mistero che deriva dalle insondabili strade del destino, un destino che si compie in fasi serrate e
concatenate. I recitativi dei protagonisti non sono stanchi
artifici oratori: vi è sempre una nota realistica che rimanda la
narrazione ad una contemporaneità violenta e sofferta e,
così, il pur chiaro espediente retorico serve soprattutto a
113
sorreggere l’impianto del recitativo. Il senso del peccato ed
il senso della punizione non appartengono ad un’oratoria
topica e canonica ma suggellano una casistica amorosa che
potrebbe risalire sino al Boccaccio. I protagonisti della storia, anche se sono rappresentati soprattutto nella finzione
oratoria dei propri recitativi, danno la giusta impressione di
rappresentare l’umanità viva e presente di persone realmente vissute. Questi personaggi assumono una vivida coloritura proprio perché essi sono ridisegnati secondo la fantasia
che proviene dalla contemporaneità degli avvenimenti narrati. Lo sguardo malizioso si rivolge ad una nobiltà che non ha
nulla di aristocratico e raffinato, laddove conosce soltanto lo
sfondo fascinoso della suggestione storica: e così l’astratta
casistica amorosa e i consueti schemi mitologici si inverano
in un linguaggio appassionato e generoso che ci restituisce
l’affresco di una società viva e dolente, peccaminosa e tragica, al contempo magnifica e spettrale.
La forza di questo racconto sta proprio nei riferimenti a
persone reali e note per la loro fama, a fatti e ambienti bene
identificabili. Ma possiamo anche dire che la forza espressiva e rappresentativa di questo racconto consista anche nel
disegnare un affresco di vita vissuta secondo sequenze di
avvenimenti concepiti come tipologie stilizzate di eventi cronachistici e leggendari. Poesia ed exemplum possono coesistere in una dimensione figurativa che rappresenta ogni
cosa secondo il valore esemplare dell’eternità; ed il pregio di
questa cronaca consiste proprio nel riferire gli eventi e la
simbologia che da essi emana attraverso l’ottica particolare
di una storicizzazione che vede il simbolo e l’episodio in un
continuo ricambio dialettico.
Il livello stilistico del racconto è cosa diversa dallo stile
dell’opera storica e però si avverte l’adesione alla storia contemporanea nella mescolanza di realismo e di stereotipia che
poi si trasforma in una deformazione sanguigna e violenta
della realtà nitidamente fotografata. Dobbiamo prestare
attenzione al tema dell’eros, cioè ad una concupiscenza che
non è priva della riflessione della intimità umana. Il realismo
si allea qui con la retorica per accentuare la riflessione e
quindi la didassi su un’avventura che non ha nulla di fiabesco ma presenta una morale dell’amore che si percepisce in
modo estremamente sentimentale. Anche qui, come «nelle
storie amorose che il Boccaccio vuol condurre tragicamente
o nobilmente […], prevale l’avventuroso e il sentimentale»;15
anche qui la prova dell’epica cortese è sostituita dal caso
fortuito. Si può notare anche un eccesso di retorica nel
114
discorso che Anna Kendi pronuncia a sua difesa, ma questa
retorica non è mai priva di rimandi ad un mondo sensibile e
sensitivo che innalza il livello del realismo. Auerbach16 definirebbe patetica una novella come questa di Anna Kendi ed in
effetti notevole è la somiglianza con la prima novella della
quarta giornata del Decameron. E tuttavia sentiamo un qualcosa di profondamente diverso in questa novella ungherese.
E cioè sentiamo soprattutto uno spostamento nel cosiddetto orizzonte di attesa; vale a dire che il lettore è qui chiamato a coadiuvare con l’autore in un’opera di (ri)creazione di un
mondo sentimentale in cui convivono il livello della stereotipia tragica con quello del giudizio morale.
La Historia Annae Kendi è una sorta di favola o parabola
in cui agisce la multiforme commedia dell’uomo. La novella
è divisa sostanzialmente in due parti: la prima contiene l’azione, la seconda contiene i recitativi lungo i quali si snoda e
termina l’elemento tragico della vicenda. L’autore è totalmente assorto nell’azione esemplificatrice. La sua novella
infatti vuole essere un exemplum, un repertorio di immagini
moraleggianti da cui attingere per creare una sorta di filosofia naturale cui affidare la visione e l’esaltazione della funzione etica. Il registro stilistico-retorico che costituisce e
costruisce il lungo discorso autodifensivo della protagonista
femminile è infatti un continuo riferimento a stilemi desunti
da fonti classiche e bibliche, tesi alla disposizione esemplare dell’umana commedia. La fraseologia biblica qui si
mescola a riferimenti mitologici classici per una sorta di sincretismo che non conosce limiti e regole. Né meno significativo appare l’ingegnoso riferimento di Anna Kendi al futuro cantore della propria disgrazia: e qui forse è da notare uno
dei più alti momenti di esemplarità della vicenda narrata:
De me cantores dicent, scribentque poetae
Rusticus ad stivam post mea furta canet
Pensa trahent quando sera sub nocte puellae
Murmura de nostro crimine semper erunt.
[vv. 201-204]
Esemplare è anche il riferimento alla inevitabilità dell’errore umano e a sostegno di questa osservazione si attinge
pienamente dalla mitologia classica. Ma l’eterea stereotipia
dell’argomentazione della donna conosce una brusca interruzione quando il discorso si fa realistico con quel suo vertere insistente sui figli e sulla maternità di lei e sul concetto
di famiglia. E un ulteriore riferimento realistico è l’invocazione all’immagine salvifica del Dio cristiano, di quel Cristo invo115
cato a testimoniare l’eterna speranza di salvezza di una umanità pur dolente e intrisa di peccato. Questa invocazione al
Cristo salvifico si arricchisce di una corposità allegorica che
si fa carne e sangue in una fraseologia solenne e sostenuta,
ma la corposità di cui si parla si trasforma in sensualità sanguigna nel pensiero soave ed estremo di una madre che ha
concepito tre figli in virtù di un unico amore, quello matrimoniale, che si vuole salvare e preservare ad ogni costo anche
dinanzi alla inequivocabile nefandezza dell’adulterio e della
colpa. Gli endecasillabi latini di Schesaeus conoscono qui un
inusitato accento di modernità espressiva e rappresentativa:
come a dire che una cornice classica racchiude un contenuto fortemente moderno, fortemente allusivo di una modernità problematica e tragicamente sentita. Anna Kendi si erge
a figura statuaria poiché all’amante fedifraga si sostituisce
qui la madre dolente che piange sui propri figli. Ella, consapevole del peccato che contaminerà anche la sua prole,
chiede solo di essere compresa nella sua problematica
esemplarità:
Quandoquidem cogor praesentis comoda vitae
Linquere, et infami morte perempta mori,
Ista meo, cupio referatis verba marito
Christo, ea nequaquam frivola teste loquor
Quae praegnatis aegro produxi pignora partu,
Nequaquam alterius, sed sua dona sciat.
[vv. 279-284]
L’autore sfrutta qui con grande consapevolezza il procedimento retorico del discorso autodifensivo, anzi sfrutta al
meglio anche le pause che dividono questo discorso: altamente lirico è anche l’estremo ricorso all’antica legge degli
Unni che in un misto di gloria e di costumanze ataviche preserva il peccatore dall’ignominia e dalla vergogna:
Quem cum conspexit deiecto pallida vultu
Anna, ait effusis fletibus ora rigans,
Supplicium infandum merui si crimine mortis
Quae venit, ex aequo poena feranda venit:
Pars mihi laudis erit dextra cecidisse mariti;
Hunnorum fieri lex et avita iubet,
Aut aliquis saltem cognata ex gente corrusco
Vitam adimat lictor pallidus ense mihi
Vah pudor! o facinus! […]
[vv. 295-303]
Come a dire che significativamente la figura della donna
peccatrice racchiude in sé una umana limitatezza e il feroce
destino, racchiude in sé la dimensione dell’umanità sofferen116
te e la necessità della legge fatale. La malinconica liricità dell’io dolente di Anna Kendi si unisce alla esemplarità di una
morte necessitata che lascia indifferente solo il marito tradito. È una scena, questa, costruita sulla superba regalità di
una donna la cui statura morale emerge tutta dal confronto
di delitto e castigo, di una donna il cui sdegnoso orgoglio è
suggellato con parole che firmano vigorosamente la presa di
coscienza di responsabilità mai negate. Le parole di Anna
Kendi sono cariche di echi di disperata e feroce angoscia
dalle quali però sgorga anche una nota di commovente delicatezza che avvolge la sua condanna a morte. La sua figura
si staglia nella sua indifesa solitudine e questa solitudine
dinanzi al proprio destino rimane una nota costante di questa novella.
La scena narrativa della istoria, con le sue battute e con i
suoi recitativi che la animano, riflette colori e immagini di una
contemporaneità vissuta con dolorosa partecipazione e quindi si pone come autorevole esemplare di una costumanza e
di abitudini che dovranno necessariamente operare nella
memoria dei lettori. Schesaeus muove alternativamente lo
sguardo da Anna Kendi agli altri personaggi della storia: Anna
è un personaggio vinto dall’amore e l’attenzione che si concentra su di essa è mossa da una modernissima e pungente
curiosità per la follia degli innamorati, per le conseguenze
della passione insana avvertita, quest’ultima, non più nei tragici tormenti, ma sentita nei suoi riflessi esterni all’interno di
un ambiente sociale dove i sentimenti individuali si stemperano in una risonanza inattesa. L’amore è passione che viene
presentata esemplarmente come potere irresistibile.
Lo scopo di dare una dimensione di esemplarità alla istoria che si vuole narrare è perentorio, incisivo, icastico e –
come si è visto – si invera nella disponibilità ad un sincretismo culturale e religioso che unisce storia ungherese, classicismo pagano e Sacra scrittura. Vajdahunyad, Troia e
Gomorra sono accomunate in un’enfasi apocalittica che
tutto racchiude e tutto involve; le divinità pagane della mitologia classica sono deputate a testimoniare una esemplarità
negativa che quasi stabilisce i limiti tragici della condizione
umana che è chiamata a ripetersi nella sua dannazione e
disperazione. L’esempio è legge che regola una umanità
legata al proprio destino, l’esempio è indicazione di una
libertà umana che non esiste, l’esempio è ripetizione di una
vicenda umana che si riproduce violenta e ineluttabile.
La storia degli uomini, in tutte le sue fasi, fra splendori e
miserie, è segnata dal peccato: questo sostanzialmente e
117
soprattutto ci vuole dire Schesaeus. Infinita è la serie delle
azioni peccaminose dell’uomo, intrisa di peccato e di rifiuto
della virtù è la sua stessa natura. Come a dire che la storia
degli uomini è una continua variazione sullo stesso tema, è
ripetitività di un copione consunto e frequentato, è riproposizione instancabile di un déjà-vu che non cessa mai di stupire.
Note
(1) Questo il titolo per esteso, comprensivo del sottotitolo, almeno secondo la ricostruzione filologica e la tradizione testuale che ci hanno tramandato
il componimento: Historia Annae Hendi coniugis magnifici Ioannis Török,
capitis damnatae ob adulterium, commissum cum Ioanne Szalanczio iuniore,
provisore arcis Hunyad in Transilvania. Anno D. 1557.
(2) Nato a Medgyes intorno al 1535, studiò a Brassó e a Wittenberg. Dal
1569 al 1585, anno della sua morte, fu pastore luterano nella città natale.
Autore soprattutto di letteratura devozionale, compose tuttavia a più riprese,
dal 1562 al 1584, i dodici libri della Ruina Pannonica, un poema in esametri
che narra le vicende storiche d’Ungheria dalla morte del re Giovanni alla caduta di Szigetvár.
(3) Per il testo si veda Christianus Schesaeus, Opera quae super sunt
omnia, a cura di Ferenc Csonka, Budapest, 1979. Va doverosamente riferito
che quest’edizione critica non poteva contenere, perché ancora non recuperato, il testo originale della Historia Annae Kendi. Per tale lacuna, colmata solo
di recente, si veda Christian Schesäus, Historia Annæ Kendi, a cura di J.
Wittstock e G. Nussbächer, Cluj-Napoca, 1996 (si tratta di una edizione che
propone il testo latino anche in traduzione romena, tedesca e ungherese), che
si può leggere anche in Régi magyar irodalmi szöveggyűjtemény. I.
Humanizmus [Antologia della letteratura ungherese antica. I. Umanesimo], a
cura di P. Ács, J. Jankovics, P. Kőszeghy, Budapest, 1998, pp. 615-634.
Questa la scarsa letteratura critica relativa al poema epico in questione: I.
Hegedüs, Schesaeus Keresztély latin költeménye “De capto Zigetho” [Il componimento latino “De capto Zigetho” di Keresztély Schesaeus], «A Kisfaludy
Társaság Évlapjai», 1906; Id., Schesaeus Ruinae Pannonicae című epikus költeménye [Il poema epico Ruinae Pannonicae di Schesaeus], Budapest, 1916;
H. Schuller, Die handschriftlich erhaltenen Gesänge aus Schesäus Ruina
Pannonica, Medgyes, 1923; L. Geréb, Erdélyi humánisták a törökülte Budáról
[Umanisti transilvani sulla Buda occupata dai turchi], «Vigilia», 1941, pp. 349355; A. Di Francesco, Fra eredità classica e stile tradizionale: la Ruina
Pannonica di Christianus Schesaeus, in L’eredità classica in Italia e Ungheria
fra tardo Medioevo e primo Rinascimento, a cura di S. Graciotti e A. Di
Francesco, Roma, 2001, pp. 325-343.
118
(4) Questa la letteratura critica relativa alla nostra istoria: I. Hegedüs,
Schesaeus Keresztély: Kendi Anna históriája [Keresztély Schesaeus: la storia
di Anna Kendi], «Irodalomtörténet» 1916, pp. 1-15; I. Bitay, Christian
Schesaeus irodalmi munkásságának magyar vonatkozásai [I riferimenti
ungheresi dell’attività letteraria di Christian Schesaeus], in Művelődéstörténeti Tanulmányok [Saggi di storia culturale], a cura di E. Csetri, Zs. Jakó, S. Tonk,
Bucarest, 1979, pp. 70-77, 221-222; G. Togan, Christian Schäsaeus: Ének
Kendi Annáról [Christian Schäsaeus: la canzone di Anna Kendi], «Utunk»,
21.6.1985, p. 4; J. Wittstock, Die Geschichte der Anna Kendi. Eine Dichtung
des Siebenbürger Humanisten Christian Schesäus, «Neue Literatur», 1985, 9,
pp. 17-24; J. Wittstock-G. Nussbächer, Introduzione a Christian Schesäus,
Historia Annæ Kendi cit., pp. 32-43.
(5) Qui e in seguito cito da Régi magyar irodalmi szöveggyűjtemény. I.
Humanizmus cit., p. 616. I corsivi sono miei.
(6) Cito e traduco da Anonimo, Eurialus és Lucretia históriája [Istoria di
Eurialo e Lucrezia], in Régi Magyar Költők Tára [Collezione di Poeti Ungheresi
Antichi], vol. IX, a cura di I. Horváth, E. Lévay, G. Orlovszky, B. Stoll, G. Szabó,
B. Varjas, Budapest, 1990, p. 405: «Forti eroi, filosofi e monarchi si persero per
amore, / Garzoni, donzelle per i dardi suoi avvelenati si consumarono, /
Rovinarono imperi, città e castelli caddero in terra. // Il diletto di Paride mandò
in rovina il regno di Priamo, / Troia distrusse, uccise Ettore, anche il re fece
morire, / Del paese di Ilio ogni regione gettò in mano al nemico. // Una donna
pagana accecò la mente di Sansone, / La sua indicibile forza gli prese e il lume
della vista. / E lui stesso infine, insieme ai pagani, mandò sotterra. // Il saggio
re Salomone, figlio di Davide il santo, era caro a Dio, / Ma per amore della figlia
del Faraone si fece adorator di idoli, / Su tutte le genti l’amor cieco ha un tale
potere. // Di molti potrei dir, e sui loro esempi molti discorsi aver potrei, / Ma
ora specialmente di due giovani la sorte io canto, / Ove il crudele amor bene
ha mostrato il suo veleno tutto». L’apparato critico è alle pp. 580-593. I corsivi sono miei.
(7) D. Coppini, Poesia umanistica e codice classico: adesione, deviazione, infrazione, in AA.VV., Saeculum tamquam aureum, a cura di U. Ecker e
C. Zintzen, Mainz, 1997, p. 116.
(8) E. Rossi, Percorsi dell’intertestualità fra classico e moderno: dieci
categorie di trasformazione testuale, «Strumenti critici», 94, settembre 2000,
p. 315.
(9) Una ricerca applicata sullo stile formulare della narrativa ungherese del
Cinquecento si trova in B. Varjas, A magyar reneszánsz irodalom társadalmi
gyökerei [Le radici sociali della letteratura rinascimentale ungherese],
Budapest, 1982, pp. 201-208, 349-353; A. Di Francesco, La Griselda ungherese e lo stile formulare delle prime széphistóriák, «Annali del Dipartimento di
Studi dell’Europa Orientale», Sez. Letterario-Artistica, Nuova Serie 2, XXIII,
1984, pp. 121-141; Id., A históriás ének mint formulaköltészet [Il canto storico come poesia formulare], «Irodalomtörténeti Közlemények», 1989, pp. 446457; Id., Osservazioni sullo stile formulare delle traduzioni ungheresi di tre
novelle del Boccaccio, «Giano Pannonio», 4, 1989, pp. 233-248; Id., Toposz
és formula a magyar históriás énekekben [Tòpoi e formule nei canti storici
ungheresi], «Studia letteraria», XXXII, 1994, pp. 63-71.
(10) Régi magyar irodalmi szöveggyűjtemény. I. Humanizmus cit., p. 616.
(11) Cfr. E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, a cura di
R. Antonelli, Scandicci, 1992, p. 245.
(12) Régi magyar irodalmi szöveggyűjtemény. I. Humanizmus cit., p. 616.
(13) Per la nozione di stile tradizionale si veda L. Renzi, Canti narrativi tradizionali romeni, Firenze, 1969.
(14) Ivi, p. 620.
(15) E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, I-II,
vol. I, Torino, 19819, p. 250.
(16) Ivi, p. 251.
119
JÓZSEF BESSENYEI
Università di Miskolc
Antonio Veranzio e le sue opere storiografiche
Antonio Veranzio (Verancsics Antal in ungherese) è uno
dei maggiori umanisti del XVI secolo: fu storiografo, poeta,
diplomatico e prelato. Fa parte di quei pochi personaggi le
cui opere vengono pubblicate già nel XIX secolo, tra il 1857
e il 1875, in dodici volumi curati con criteri critici da László
Szalay e Gusztáv Wenzel,1 grazie ai è stata data agli storiografi la possibilità di consultarli. Ciononostante, ci rendiamo
conto che finora le sue opere storiografiche non hanno trovato il posto che meritano nella storiografia magiara.
Pertanto, illustrerò alla fine della mia relazione, dopo aver
cioè fatto conoscere le sue opere principali, le ragioni per cui
Veranzio è stato trascurato dalla storiografia. Farò, invece,
soltanto un cenno della sua vita, ricca di avvenimenti, per
quel che sarà attinente alla presentazione delle sue opere.2
La famiglia Veranzio era originaria della Bosnia; il padre di
Antonio si chiamava Giovanni. I Veranzio, scappando ai
Turchi, si erano rifugiati a Sebenico, dove cambiarono il loro
nome originario da Wranchyht in quello italianizzato di
Veranchyth.3 Il padre amava la lingua italiana a tal punto da
usarla nella corrispondenza col figlio Antonio. Giovanni
Veranzio aveva sposato la figlia di Michele Statileo,
Margherita, il cui fratello era nientemeno che l’eccellente latinista Giovanni Statileo, futuro vescovo di Transilvania.
Antonio, nato nel 1504, visse da bambino a Traù (oggi Trogir)
col nonno materno Michele Statileo, dove ottenne la protezione dello zio Giovanni e, grazie all’insegnamento dell’insigne umanista e poeta Elia Tolimer, già da giovane fece la
conoscenza dei classici latini.
Giovanni Statileo ben presto si trasferì in Ungheria, dove
lo troviamo, nel 1515, tra i segretari del re.4 Dall’Ungheria
procurò al promettente cugino il posto di canonico di
Scardona, con le cui entrate poté frequentare l’università di
Padova, ottenendo il titolo di magister artium. Dopo la disfatta di Mohács, Antonio accettò l’invito dello zio Giovanni a
trasferirsi in Ungheria, ed entrambi aderirono al partito di
121
Giovanni Zápolya. Antonio Veranzio divenne il segretario
dello Zápolya, per conto del quale svolse alcuni servizi diplomatici. In occasione della sua seconda ambasceria presso la
Santa Sede, nel 1532 scrisse un memoriale, che era identico
nel contenuto al discorso tenuto l’11 febbraio in occasione
dell’udienza papale. In questo memoriale Veranzio riassume
brevemente la storia del paese da Mohács fino alla fine del
1529, enumerando tutte le ragioni che comprovano la validità della politica di Giovanni Zápolya.5 Probabilmente, questa è la sua prima opera storiografica, che fortunatamente si
può datare. Non siamo invece in grado di farlo facilmente
con le altre sue opere.
Nell’interesse della stesura di quest’opera Veranzio iniziò
la raccolta delle fonti contemporanee della storia magiara.
Possiamo però affermare con cognizione di causa che questa raccolta è oggi più conosciuta tramite il lavoro di György
Szerémi che come opera dello stesso Veranzio! Nel 1539
Veranzio tradusse dall’italiano in latino l’opera dello storico
Paolo Giovio Commentarii delle cose de Turchi, la cui prima
edizione era uscita a Venezia nel 1531. Dopo che nel 1549
era passato al servizio degli Asburgo, ebbe maggior tempo
per coltivare le scienze; quindi, tra il 1550 e il 1553, raccolse
materiali per la pubblicazione delle edizioni dell’opera di
Bonfini e dell’Epistola di Brodarics, procurandosi i manoscritti inediti dello storiografo ascolano. Ma nel 1553 il suo
tranquillo lavoro di studioso venne interrotto da una serie di
faticose ambascerie, che durarono fino alla fine della sua
vita. Così la progettata pubblicazione delle opere di Bonfini e
Brodarics non poté essere realizzata. Con la sua nomina ad
arcivescovo di Esztergom (17 ottobre 1569) fu costretto ad
abbandonare definitivamente il suo progetto di redigere una
grande opera;6 dopo la sua morte ne sono rimasti soltanto
alcuni frammenti e una ricca collezione dei manoscritti a essa
inerenti.
Ma quale opera si era sentito in dovere di scrivere raccogliendone con tanto fervore le fonti? Come tutti anche lui
era intenzionato a continuare il lavoro di Bonfini collezionando materiale di cui ci sono rimasti i frammenti.
Il primo frammento che ci è pervenuto – l’inizio della storia del declino dei Magiari – parte dalla morte di Mattia
Corvino; esso s’intitola, come sappiamo: De rebus
Hungarorum ab inclinatione regni historia.7
Questo frammento cerca di rispondere a una domanda
fondamentale della propria epoca: quali problemi e fattori
avevano spinto l’Ungheria alla disfatta del XVI secolo, come
122
poteva succedere che una generazione dopo la morte del re
Mattia la capitale del paese finisse nelle mani dei Turchi?
Purtroppo, di quest’opera sono state scritte soltanto alcune
pagine, o sono rimaste solo queste; tuttavia, in queste poche
pagine Veranzio riuscì lo stesso a dimostrare che lo stimolo
principale e il motivo della storiografia magiara erano quelli di
risolvere i problemi attuali con gli antefatti storici. Questo
concetto è perdurato nella storiografia del XVI secolo anche
quando gli storici si occupavano esclusivamente di storia
contemporanea. Sfortunatamente il frammento rimastoci si è
fermato agli inizi dell’inizio, cioè alla rivelazione delle cause
del declino dopo la morte di Mattia Corvino, che furono
secondo lui l’avidità di potere degli aristocratici, il mancato
rispetto delle leggi, la non osservanza degli obblighi militari,
la faziosità.
Il secondo frammento è la caduta di Belgrado8 (1521),
Casus infelix Belgradi.9 Si tratta di un capitolo della grande
opera programmata, come lo dimostrano le parole iniziali:
«Siamo arrivati all’infelice caduta di Belgrado».10 Dopo la
descrizione della situazione della politica interna del paese
Veranzio illustra la posizione naturale di Belgrado, quindi
mette in luce i fattori che indussero Solimano all’assalto della
fortezza. Il manoscritto s’interrompe all’inizio dell’assalto.
Siccome nel racconto si trovano anche delle frasi che condannano duramente il re Giovanni Zápolya, sicuramente il
manoscritto si può già datare al periodo del servizio di
Veranzio alla corte degli Asburgo, ossia dopo il 1549.
Il terzo frammento è una nota sulla vita e le vicissitudini di
Fráter György Utyeszenics (De Georgii Utissenii Fratris
appellati vita et rebus commentarii).
Quest’opera è in realtà un’efficace apologia di frate
György. Anch’essa è incompiuta: Veranzio infatti arriva soltanto fino a quel punto in cui frate György entra alla corte di
Giovanni Zápolya. La parte introduttiva dell’opera è tuttavia
un compendio in tono solenne dell’ideologia politica di
Veranzio per quanto riguarda la politica dello Zápolya; in
esso l’autore riconosce con grande apprezzamento l’attività
di frate György, la sua eccellente virtù, e il fatto d’aver messo
a repentaglio la sua integrità morale nell’interesse del benessere e della tranquillità di tutti, e s’indigna della malvagità e
dell’ingratitudine generale della stolta generazione e del suo
rancore. Come premesso nella parte introduttiva, Veranzio
descrive l’ascesa del frate all’apice della carriera; è probabile che questo frammento sia stato scritto ancora quando il
Veranzio era partigiano dello Zápolya, in quanto che dopo
123
l’indagine sulla morte di frate György, cioè dopo il 1553,
avrebbe potuto parlarne soltanto male.11
In questo lavoro Veranzio fa esplicitamente presente d’aver scritto una biografia di Giovanni Zápolya: «confidando
nella gratitudine della posterità […] abbiamo anche noi ricordato più volte nei nostri scritti sulla storia del re Giovanni
György Utyeszenics secondo quanto richiesto dalle circostanze».12 E in un altro punto del frammento leggiamo:
«Siccome la sua storia è già stata sfiorata in alcuni passi dell’opera su re Giovanni».13
Da queste due citazioni si può non a torto desumere che
Veranzio scrisse una biografia dello Zápolya che non si trova
tra i suoi lavori che ci sono stati tramandati, ma che faceva
senz’altro parte di una sua grande opera.
Il quarto frammento sulla storia dell’Ungheria del 1536
(Liber de rebus Hungaricis anni 1536), che è esso stesso un
capitolo della grande opera di Veranzio, tratta dei fatti più
significativi di quell’anno, cioè delle trattative tra l’imperatore Carlo V e il re d’Ungheria Giovanni Zápolya, del cambiamento di partito di Bálint Török, dell’astuta occupazione di
Kassa del 4 dicembre da parte dei partigiani dello Zápolya.14
Questo scritto appare fortemente sbilanciato in favore dello
Zápolya, ed è importante anche da quel punto di vista che
mette in stretta relazione gli sviluppi militari e della politica
interna magiara con quelli diplomatici e bellici occidentali –
seguendo l’esempio di altri importanti storici contemporanei
come Ferenc Forgách.
Nel quinto frammento (De apparatu Joannis regis contra
Solimanum caesarem in Transsylvaniam invadentem) descrive i preparativi bellici del re Giovanni contro il sultano
Solimano, il quale aveva sferrato un’offensiva contro la
Transilvania (1536-1538).15 Si tratta della continuazione del
frammento precedente, col rifacimento della parte riguardante l’anno 1536. La prima stesura fu senz’altro redatta
negli anni 1538-1539, in quanto che si conclude con la
seguente frase: «sono successi questi fatti nell’anno corrente 1538 che sta finendo».16 Quando descrive i negoziati di
pace di Várad, l’autore dichiara la sua presenza alle trattative.17 È superfluo dire che anche qui giudica appassionatamente il partito dello Zápolya, per esempio dove lo dissocia
dall’assassinio di Gritti.
Nel sesto frammento, che s’intitola: Antonius Wrancius
Sibenicensis Dalmata de situ Transsylvaniae, Moldaviae et
Transalpinae,18 l’autore ci dà una descrizione della
Transilvania, della Valacchia e della Moldavia, seguendo la
124
consuetudine dell’epoca secondo la quale un lavoro storiografico doveva comprendere anche la descrizione geografica come sfondo per gli avvenimenti storici in esso narrati.
Questo scritto del Veranzio fu redatto intorno al 1540; esso è
importante non soltanto per la descrizione delle relazioni
geografiche, etnografiche, economiche, sociali e costituzionali delle tre regioni considerate, ma anche per le numerose
e interessanti affermazioni riportate nell’introduzione per
quanto riguarda i metodi storiografici.19 L’opera intendeva
richiamare l’attenzione dei principi cristiani sulle ricche regioni descritte dal Veranzio, e segnatamente sulla Transilvania,
affinché non fossero abbandonate nelle mani dei Turchi. Non
è poi di secondaria importanza il fatto che questo scritto sia
il primo in cui la Transilvania non viene considerata come la
quarta provincia dell’Ungheria, a differenza di quanto sostenuto da Miklós Oláh, ma come la «Dacia umanista o
Transilvania».
La settima parte dell’opera comprende invece la lettera
di Antonio Veranzio a Paolo Giovio sul volume XXVIII delle
Historie (Historiarum sui temporis liber XXVIII), pubblicato a
Firenze negli anni 1550-52. Il lavoro di Giovio fu apprezzato
dal Veranzio con lusinghieri e superlativi giudizi, eccetto che
per quanto riguardava le notizie sull’Ungheria, che vennero
da lui criticate, o meglio corrette, perché – come ammesso
dallo stesso Giovio – esse erano frutto di una negligente
copiatura o di non curate informazioni. La lettera è in prevalenza una descrizione attinente l’occupazione di Buda del
1541 e la visita di Bálint Török col neonato Giovanni
Sigismondo all’accampamento turco.20 L’introduzione riporta
la preziosa opinione di Veranzio sulla storiografia:
[…] ex hominum relatu non ita recte scribitur historia, ut vel ex
ipso usu aut visu bellorum, vel ex annalium lectione, ob idque fortasse veteres etiam quidam vere cognitionis rerum inopiam praetextu studii brevitatis excusavere, non ausi parvo lintre altum pervagari. Ubi si et hos, quorum ductu atque auspiciis bella geruntur, considerabimus, quibusnam modis atque artibus rerum potiuntur, facile non paucos cognoscemus, malle in sua esse omnia, dum regnent
et quoquo modo domini vocitentur, quam scriptoribus semet ipsos
perdere ne obscurior de se memoria posteris mandaretur, qui quaeso etiam a vulgaribus hominibus non emendicatis rerum gestarum
narrationibus historiam conscribant, qui scribunt?21
Pure la parzialità degli scrittori ostacola la conoscenza
del passato, anche perché essi o scrivono per denaro o su
ordinazione del principe, per avidità o per paura. Esistono
125
anche scrittori indipendenti, i quali non si erano messi al
soldo di nessuno ma sono diventati di parte a causa della
loro passione: in un modo o nell’altro nessuno di essi descrive obiettivamente quello che è stato, bensì quello che non è
avvenuto, cioè i fatti sono stati rielaborati secondo la sua
immaginazione. Ovviamente nessuno presta credito a questi
scrittori.22
Da questi frammenti si evince che Veranzio era ben preparato, ottimo scrittore, certamente al livello degli umanisti della
sua epoca. Ora possiamo perciò ritornare al quesito posto
all’inizio di questo lavoro: perché non consideriamo Veranzio
tra i migliori scrittori del XVI secolo? Perché lo scrittore non ha
ricevuto un posto degno nel Panteon degli storiografi? Non è
sufficiente la risposta che non ha portato a compimento la sua
grande opera, o meglio che di essa ci sono pervenuti soltanto
dei frammenti, quelli citati sopra, per di più scomparsi per
parecchi decenni dalla vista del lettore. Sappiamo anche che
i suoi contemporanei, tra cui lo stesso Istvánffy, grande divulgatore, non lo consideravano e non hanno fatto nulla perché il
suo nome fosse citato nella letteratura.
Quindi per poter rispondere a questo quesito bisogna
esaminare a fondo le cause, vale a dire l’appartenenza di
Veranzio al partito di Giovanni Zápolya. Siccome la spina
dorsale della sua grande opera fu scritta tra il 1490 e il 1541
(non sono sicuro che abbia oltrepassato quest’ultima data),
cioè nel periodo in cui, essendo ancora partigiano dello
Zápolya, ne sosteneva il punto di vista, nel periodo invece tra
il 1549 e il 1553, quando avrebbe potuto rifare o congegnare meglio questi frammenti, Veranzio questo non lo fece.
Forse perché non riuscì a rinunciare da un giorno all’altro alla
sua vecchia politica filo-Zápolya o forse perché non considerava ancora giunto il momento giusto per rielaborare l’opera nella sua forma definitiva. Raccogliere materiale è sempre più interessante che scrivere la storia: questa è senza
dubbio la peculiarità di una certa tipologia di storici. Per di
più siamo consapevoli che un’opera filo-Zápolya di un autore al servizio di Ferdinando e di Massimiliano d’Asburgo –
dopo che sembrava cosa certa che la Transilvania e il Regno
d’Ungheria non si sarebbero riunificati in tempi brevi – non
poteva contare sul suo successo ma neanche sulla sua pubblicazione. Ciò sembra essere la causa principale per cui
Antonio Veranzio è stato relegato dietro le quinte.
(Traduzione di Gizella Nemeth)
126
Note
(1) Verancsics Antal összes munkái [Opere complete di A.V.], a cura di L.
Szalay e G. Wenzel, in Monumenta Hungariae Historica, II, Scriptores.
(2) Sulla vita di Antal Verancsics: Faustus Verancsics, Vita Antonii
Werantii, in M.G. Kovachich, Scriptores minores, I, pp. 194-198. Biografie
posteriori: Monumenta Hungariae Historica, II, Scriptores, vol. IX, introduzione di László Szalay; P. Sörös, Verancsics Antal élete [La vita di A.V.],
Esztergom, 1898; I. Acsády, Verancsics és Szerémi György [Verancsics e
György Szerémi], «Irodalomtörténeti Közlemények», IV, 1894, pp. 1-57; E.
Bartoniek, Fejezetek a XVI-XVII. század magyarországi történetírás történetéből [Capitoli di storia della storiografia ungherese dei secoli XVI e XVII],
Budapest, 1975, pp. 35-37.
(3) Da cui Veranzio e l’ungherese Verancsics [n.d.c].
(4) J. Fogel, II. Lajos udvartartása. 1516-1526 [La corte di Luigi II. 15161526], Budapest, 1917, p. 41.
(5) Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato, Lettere di Principi, 13,
cc. 55r-57v.
(6) «Es enim me negotia tum publica; tum privata [...] cum hac archiepisopali dignitate exceperunt, quae prorsus mihi omnem scribendi facultatem
ademeunt oblitus iam et quietis et otii et bonorum authorum lectionis, unde
potissimum et scribendi supellex affluit uberior scriptoribus et animus curis
molestioribus minus obnoxius lucubrat facilius». Monumenta Hungariae
Historica, II, Scriptores, vol. XXV, Verancsics iratok [Scritti di Veranzio], vol. X,
pp. 237-238.
(7) Monumenta Hungariae Historica, II, Scriptores, vol. II, pp. 3-7.
(8) Nándorfehérvár in ungherese [n.d.c.].
(9) Ivi, pp. 8-16.
(10) «Sed jam infelicem casum Belgradi pervenimus […]». Ivi, p. 8.
(11) G. Barta, Vajon kié az ország? [Di chi è il paese?], Budapest, 1988,
p. 88.
(12) «quum in descriptione rerum gestarum Joannis regis, Georgii quoque
[…] plerisque locis, ita poscente re, necessario memoravimus […]». Ivi, p. 18.
(13) «res illius (scilicet Georgii) quia in Joanne manipulatim hic illic referuntur, commentarium hunc de industria ei adduximus». Ibid.
(14) Ivi, pp. 37-50.
(15) Ivi, pp. 51-119.
(16) «Haec sunt quae praesens annus 1538 jam exiens in Moldaviam et
Transsylvaniam secum attulerat coeptaque et transacta sunt Julio, Augusto ac
Septembre mensibus. Ineunte vere, quae insequens afferet, puto magna et
multa fore». Ivi, p. 119.
(17) «aderam ego in consilio Varadini». Ivi, p. 55.
(18) Ivi, pp. 119-151.
(19) Ivi, pp. 119-122.
(20) Ivi, pp. 178-226.
(21) Ivi, pp. 180-181.
(22) Ibid.
127
LÁSZLÓ HAVAS
Università di Debrecen
Il Florus Hungaricus
La posizione dell’Ungheria in Europa e la
coscienza nazionale protestante nel secolo XVII
«Habent sua fata libelli» – sono parole di Ovidio, la cui
verità è testimoniata anche dal Florus Hungaricus di János
(Giovanni) Nadányi, edito nel 1663, in Amsterdam. A suo
tempo l’opera ebbe un certo successo: nello stesso anno
vide la luce anche a Londra, grazie all’aumentato interesse
per gli eventi ungheresi, specialmente a causa della morte di
Miklós (Nicola) Zrínyi. Il fatto che più tardi anche Péter
(Pietro) Bod consigliò al giovane Sámuel (Samuele) Teleki di
acquistare il libro, conferma che esso ancora era ritenuto
importante come presentazione della storia del paese. Col
passar del tempo, tuttavia, la sua fortuna diminuisce drasticamente. La fortuna dell’opera è stata oggetto di esame,
prima del presente saggio, solo da parte di Emma Bartoniek.
Ciò è tanto più sorprendente di quanto si possa immaginare,
perché l’opera non è affatto priva di interesse in quanto rappresentante considerevole di un genere molto diffuso del
secolo XVII.
F.N. Coeffeteau, padre domenicano, nel 1621 pubblicò la
traduzione francese di Floro, aggiungendo, sul modello dell’autore latino, la continuazione della storia di Roma da
Augusto fino a Costantino il Grande (Costantino I). Si ritiene
comunemente che con questa traduzione-composizione si
avviò la serie di opere che riassumevano brevemente la storia dei vari popoli d’Europa, come ad esempio il Florus
Anglicus di L. Van den Bos, edito nel 1626 a Parigi, o il Florus
Polonicus del 1651 di J. Pastorius, o il Florus Danicus, pubblicato più tardi anche dalla tipografia di Nagyszombat sotto
il nome di Vitus Petersen Bering.
Questa tendenza fu confermata anche dal passo che si
trova nel Companion to Neo-Latin Sudies II a cura di J.
Ijsewijn e D. Sacré, secondo il quale dopo le cronache e le
storie universali del Medioevo, nel Rinascimento rinasce il
modello storiografico romano, i cui modelli più autorevoli
129
sono Livio, Tacito e Sallustio. A questi nomi poi viene
aggiunto un altro: «in the 17th century even Florus became a
cherished model», nonché l’attenzione si rivolge ai
Commentarii di Cesare. Altri ricordano, inoltre, che nel periodo del Rinascimento e del Barocco si gettano le basi della
storiografia nazionale, prima di tutti da parte degli umanisti
italiani, fondatori della storiografia di orizzonte universale, e
in seguito quasi in tutte le letterature dell’Europa occidentale e centro-orientale. In Ungheria tale merito è di Bonfini.
Allo stesso tempo, per quanto riguarda lo stile, è comunemente riconosciuto che l’ideale ciceroniano dell’eloquenza è presente in quasi tutte le tendenze storiografiche. Floro,
da parte sua, come abbreviator o epitomator, potrebbe
incarnare una tendenza esattamente contraria, diversa da
quella di Livio o di Tacito, considerata ‘grande’ o ‘grandiosa’,
soprattutto se quest’ultimo viene associato agli ideali stilistici e contenutistici ciceroniani. Ciò significherebbe che il
modello di Floro rappresenta il contrappunto antiliviano,
antitacitista o proprio anticiceroniano della storiografia neolatina, similmente alla rinascita del genere cesariano delle
memorie.
In realtà la situazione è assai più complessa, poiché la
scelta di Floro come modello può essere segno di vari orientamenti, come è avvenuto nella realtà. La ricerca, dunque,
deve tener conto del carattere complesso della sua ricezione. Innanzitutto, Floro glossava sopratutto Livio, conservandone la prodigiosità retorica (cfr. lactea ubertas), come la
‘numerosità’, ossia la prosa ritmica di Cicerone, pertanto la
sua tecnica da epitomatore non può essere considerata né
anticiceroniana né antiliviana. D’altra parte, l’inizio ab urbe
condita, applicato sempre sul modello di Livio, offerse la
possibilità di inserire la storia nazionale nel contesto della
storia universale. Inoltre, considerato che l’opera di Floro
appartiene al genere storiografico dei bella, cioè la visione
storica assunta in essa può essere concepita alla maniera
della colonna di Traiano come una serie di guerre, poteva
fungere da modello per la descrizione della storia di qualunque popolo; ed in effetti, ebbe proprio tale influenza sulla
storiografia seicentesca. E ancora: l’originale latino può
essere concepito come opera teleologica nella rappresentazione delle istituzioni di Roma come adempimento dell’evoluzione storica verso la pace ecumenica della monarchia
augustea. L’attività artistica, quindi, è la rappresentazione del
governo ideale, una specie di ‘specchio dell’imperatore’, del
primato di Roma, caput mundi o, in altri termini, la presenta130
zione esemplare della monarchia dei primi re e di Augusto.
Così l’opera di Floro anticipa gli specula di sovrani, come per
Sant’Agostino, nel suo De civitate Dei.
La presenza di Floro nella letteratura europea del
Seicento riconferma tale fortuna varia e plurivalente.
Pertanto la valutazione sopracitata di Ijsewijn e Sacré
dovrebbe essere riformulata in termini assai più differenziati.
Cominciamo con il saggio di F.N. Coeffeteau, apparso nel
1621, il quale già per la sua mole non può essere considerato una sintesi storica.
La sostanza dell’opera di Coeffeteau è una rassegna storica dell’era imperiale romana che non ha niente a che fare
con Floro, se non che si basa sulla traduzione francese della
storia di Floro che arriva soltanto fino all’età di Augusto.
Comunque tutta l’opera potrebbe essere considerata la storia nazionale del popolo romano, come pure la critica lo concepisce, semplicisticamente, in base alle varie trascrizioni
posteriori dell’opera di Floro sulla storia delle diverse nazioni
d’Europa, indipendenti e sovrane; ma non è questo il proposito principale di Coeffeteau. Egli, consigliere personale del
re di Francia, membro del Consiglio di Stato e di quello del
Re, intendeva presentare al suo re, alla maniera di uno specchio, la storia romana, al fine di dargli un valido esempio.
Infatti, nel caso dell’Imperium romanum si tratta, secondo
l’autore, del maggior popolo del mondo che conquistò per il
trono il rispetto dell’intera terra, e in tale sua qualità può
essere assunto da modello dal re di Francia che, egli stesso,
può contare sulla conferma del suo regno da parte della
Giustizia celeste che emanerà la benedizione alla sua sovranità, accrescerà la gloria della monarchia, riconfermando le
sue aspirazioni militari e religiose (a-b/III). In questo senso,
l’opera di Coeffeteau ha qualcosa degli specula dei sovrani,
proponendosi come un insegnamento. Allo stesso tempo,
questa storia romana tiene conto di un pubblico più largo,
fornendo una fonte di piacere con la raccolta e con l’impostazione organica della serie sconnessa delle figure della
storia romana, tenendo presente il fatto che la storia non può
comprendere tutto, ma solo le cose veramente degne di
menzione, le quali vengono elencate dall’autore: «les batailles, les victoires, les sieges (per tutti i brani citati abbiamo
mantenuto l’ortografia del testo originale, spesso diverso
dall’ortografia moderna), les prises des villes, les conseils,
les genereuses et magnifiques actions, des playes honorables, une genereuse mort soufferte pour la deffence du
Prince ou de la Patrie, la liberté ou le repos rendu à un peu131
ple opprimé les sêblables evenemês.» Secondo Coeffeteau
questi «sont les subiets», i quali la storia «embrase» (129),
come sono soggetti da ricordare anche «les belles harangues des grands Princes et des excellens Capitaines». La
lettura della storia romana pertanto è utile sia per il re che per
i suoi sudditi, perché nobilita la morale, accresce il coraggio
e la generosità, e contribuisce a rendere disposti a sacrificarsi per il principe. Il passato di Roma è, quindi, uno speculum dei sovrani, nonché dei sudditi, che insegna il dovere
ad entrambi, mostrando dei tempi passati non solo l’erba
buona, ma anche l’erbaccia, rivelando la vita di un Tiberio, gli
eccessi di un Caligola, gli atti sanguinosi di un Nerone, la lussuria di un Vitellio, ecc. (130). L’autore trova la prospettiva
ideologica sulla cui base è soprattutto il re che può assimilare l’eredità storica di Roma, essendo la sua persona sola che
può vantarsi dell’ascendenza romana, in possesso dello
spettro di quel Carlo Magno che restituì all’Occidente le
aquile romane invidiate e tolte, in tempi precedenti,
dall’Oriente. Tutto ciò evidentemente non è che la formulazione della translatio imperii. In ultima analisi, quindi, lo speculum del sovrano e dei sudditi serve, per mezzo della benedizione di Dio, «pour la gloire de la France» (135), ossia per
la gloria dell’intero paese, che significa tener presente l’idea
della nazione basata sulla fede cristiana universale, nella
quale Costantino I unisce il suo impero (858). Inoltre possiamo constatare che il saggio di Coeffeteau è permeato da
uno spirito cattolico, indirizzato contro gli eretici, similmente
all’attività di Roberto Bellarmino che, come il nostro autore,
si scagliò contro gli ugonotti e contro l’atteggiamento anticattolico di Giacomo I.
Analogamente, rispecchia uno spirito profondamente
cattolico il primo epitome dalla penna di Pierre Berthault, il
Florus Francicus, con il sottotitolo: sive rerum a Francis bello
gestarum epitome, in IV libros distincta, una breve sintesi
della storia della Francia in lingua latina. Quest’opera redatta con molta cura sembra essere molto vicina all’opera di
Floro (o meglio: alla sua versione più diffusa nella Francia del
Seicento) non solo per il suo titolo, ma anche nella sua impostazione e nel suo stile. Infatti, la storia della Francia viene
ricapitolata soprattutto attraverso le sue guerre, come fece
Floro per la storia romana. Il modello è sempre Floro, quando la storia dei Franchi viene divisa in quattro libri, essendo
tale divisione, all’epoca di Berthault, convenzionale, basata
sulla tradizione-c, ossia sulla versione-e. Mostra una forte
influenza diretta di Floro il fatto che i quattro libri corrispon132
dono alle quattro età della Francia, come Floro distingueva
quattuor aetates: del populus Romanus che Roma passò
dall’infanzia all’adulescentia, poi alla iuventus per giungere
infine alla senectus. Anche Berthault afferma che «ut hominum sic imperiorum infantia quaedam est et senectus nimirum quia nihil est tam compositae felicitatis, ut non aliquâ
(sic!) ex parte cum status sui qualitate rixentur [...] imperia [...]
velut senectute exhaustis occulte viribus ruunt [...]».
Analogamente «habuit imperium Francorum [...] ad CCC circiter usque annos infantiam ac pueritiam. Adolevit sub
Carolo Magno [...]». Dopodiché, è vero, per un periodo perdette molto della sua maiestas, la quale però «Capeti viribus
in virile robur ac decus restaurasset [...]». Più tardi, a
causa delle guerre civili «in ultimae senectutis fines pervenerat», ma «ab Henrico Magno coepit revirescere», poi sotto il
regno di Luigi XIII «extinctis factionum taedis, ac recisis
teterrimae Haereseos hydrae capitibus magis magisque
efflorescit» (liber primus, caput secundum). Il legame stretto tra Berthault e Floro è confermato altresì dal fatto che il
gesuita francese compone grandi capitoli sintetici similmente all’autore romano, e conclude il libro II con una anacephaleosis. Alla fine i rappresentanti del Regno di Francia
raggiungono una grandezza tale che «orbi Christiano imperatorem signant» (324).
Mentre, tuttavia, il racconto principale del Florus
Francicus segue, sotto tutti gli aspetti, lo stesso filone del
suo modello romano, mostrando una visione fortemente
organico-biologica che enumera le età di un popolo e di un
regno e, d’altro canto, rappresenta la storia come una serie
di guerre; l’epistola dedicatoria premessa all’opera, e le altre
dediche espongono un’altra concezione, in qualche modo
complementare, che non possiamo sorvolare. Nella lettera
introduttiva scritta al re dei Francesi cioè «FRANCORUM et
NAVARRAE Regi Christianissimo LUDOVICO IUSTO semper
Augusto felici ac victori» viene ribadito che è utile conoscere, soprattutto ai re, ma anche ai loro sudditi, gli atti di guerra degli antichi re e principi, poiché tale conoscenza induce
a compiere atti simili. Ciò permette di supporre che lo stesso Berthault permise la possibilità di interpretare la sua opera
come speculum dei sovrani e dei sudditi, ma piuttosto volle
suggerire tale idea all’inizio dell’opera, sottolineando: «in ea
una (sc. Historia) contineri doctrinam maxime dignam
Regum cognitione ac Principum» (b II). Il campo fertile della
storia, infatti, offre «rerum utilissimarum fruges demetere».
Tali frutti utili vengono in seguito classificati, distinguendo
133
«Illustrium bella Ducum facta fortia» da un lato, e «insignes
populorum victoriae», dall’altro, e infine «praecepta ad
mores praeclara» (ibid.). Tutto ciò è riferito sia allo speculum
per il principe e per i sudditi che alla storia nazionale e universale. Per il gesuita, infatti, lo scopo principale era quello
di offrire insegnamento ed esempio, raccogliendo l’intero
materiale in un solo volume, il che rivela una concezione
simile a quella del Floro romano (cfr. «in unum velut fasciculum componerem» – ibid.). Berthault ritiene tale impostazione assai efficace nel caso che la Francia sia al vertice del suo
potere, dopo aver concluso le guerre civili contro i gruppi di
eretici. Tale idea viene formulata tramite reminiscenze prettamente floriane: «Florentibus praesertim à (sic!) te Galliarum
rebus et exciso eorum bellorum capite, quibus Gallia non
tam ab exteris quàm à suis civibus impiè lacerata convellebatur» (a III). In tale prospettiva il compito della storiografia
non è semplicemente narrare gli atti di guerra dei Franchi,
ma deve aggiungere quanto segue: «praeclara diuturnae
pacis exempla, et instituta felicioris vitae, ab historicis scriptum iri» (ibid.). Quest’idea non è estranea nemmeno a Floro:
anch’egli nella primissima frase della sua opera ha prefisso lo
scopo di scrivere «Populus Romanus [...] tantum operum
pace belloque gessit» (praef. 1). L’altra epistola dedicatoria
di Berthault è indirizzata al cardinale Richelieu, e in questa
lettera riscontriamo un numero particolarmente alto di corrispondenze quasi letterali con Floro le quali l’autore nemmeno tenta di mascherare: «Liceat mihi [...] Flori illius Romani
verbis ac sensu uti». Sembra sostanzialmente che il ruolo
storico costitutivo del populus Romanus (v. il PROLOGUS
del Liber I) è stato assunto dai Franchi, invidiati invano dai
barbari (cfr. «barbarae aliquot gentes Franciae virtutis ac gloriae invidae» – nel testo latino appare erroneamente invidiae
al posto di invidae, essendo la parola che s’inserisce nel
contesto), i franchi «Imperii sui fundamenta iecerant», ossia
come è formulato nel prologo del primo libro: «Regni pulcherrimi fundamenta posuerunt» (2). È questo impero che
Richelieu deve completare, cui contribuisce il Florus
Francicus, poiché «è turbâ acervòque (sic!) incondito, Deus
bone, qualium scriptorum optima quaeque et ultilissima in
qualemcumque, facilem certé, et ut arbitror nostris hominibus novum ordinem composuimus: et si non pauca ad mentem, saltem aliqua ad voluptatem, ad veritatem certé quantum fieri potuit, omnia produximus». Quindi l’obiettivo dell’opera consiste nell’insegnare, attraverso gli esempi di altri
tempi, i principi e i metodi del buon governo e della gestio134
ne dell’impero; e in questo senso essa può essere considerata uno speculum dei sovrani e dei governatori, anche se
contiene idee sotto diversi aspetti differenti rispetto a
Coeffeteau.
Comunque Coeffeteau e Berthault hanno in comune l’intenzione di espandere la storia del regno di Francia, in base
all’idea della translatio imperii. Tale intenzione è sottolineata
nel lavoro successivo di Berthault, il Florus Gallicus, aggiunto ulteriormente al Florus Francicus, che tenta di allargare la
visione storica del primo a epoche ancora più antiche, individuando le radici dell’ impero dei Franchi, quindi del regno
di Francia, al tempo dei Galli. Anche in quest’opera sono
descritte una serie di guerre (come indica il titolo: FLORVS
GALLICVS sive RERVM A VETERIBUS GALLIS BELLO
GESTARVM EPITOME), e anch’essa è divisa in quattro libri
come la versione c dell’opera latina classica e l’edizione del
Florus Francicus. A differenza di quest’ultimo, tuttavia, essa
è dedicata solo a Richelieu, ma non al re. Secondo la dedica, infatti, grazie ai consigli del cardinale si affermò un governo dello Stato dei Gallo-franchi tanto stabile quanto nemmeno il volto del Cielo lo era sulle spalle di Ercole o di Atlante;
e, cosa ancora più sublime, la gestione delle pesanti difficoltà dell’impero è alle cure del cardinale («quodque longè
(sic!) angustius est, curae impositum grave imperij onus
sustentetur» - epist. III b-IV a). Il cardinale, evidentemente,
deve essere leale nei confronti sia del suo re che della sua
patria, ma ciò non lo assolve dal dovere di conoscere la storia, condizione del buon governo, poichè solo così poterono
terminare le guerre condotte dai Galli e dai Franchi nella loro
terra e in paesi stranieri, e così viene completato, con il
sostegno di Richelieu, il Florus gallo-franco, assumendo le
dimensioni di un Livio (epist. B V). Tutto ciò significa che il
Florus Gallicus non può essere considerato uno speculum
nemmeno nella misura in cui lo era il Florus Francicus, ma
possiamo chiamarlo, al massimo, uno ‘speculum del governatore’, categoria assai precisa per caratterizzare l’opera,
sebbene finora non accolta nel canone dei generi letterari.
Allo stesso tempo, il Florus Gallicus, ancora più del Florus
Francicus, è testimonianza di una coscienza nazionale, qualora afferma che non è mai esistito, né esisterà alcun popolo
che possa misurarsi con i Francesi (cfr. «ex omnibus orbis
gentibus, nullam aut fuisse unquam, aut esse nunc, aut ullis
fore aliquando temporibus facile puto, quae cum GalloFrancicâ, aut rerum gestarum praestantia, aut magnitudine
imperij, aut Fortunae varietate, aut Regum deniquae ac
135
Principum suorum factis aut virtutibus comparari queat»).
Berthault attribuisce al popolo gallo-francese il ruolo che
l’autore latino aveva assegnato al populus Romanus, come
princeps populus (Flor. Praef. 3), ossia victor gentium (2.
34/4,12/ 61). Il Florus Gallicus, in realtà, riformula dettagliatamente la sintetica espressione di Floro, come segue:
«Haec (sc. Gallo-Francica) fortissimas gentes, haec ferocissimos populos, haec bellicosissimas nationes vicit, haec
orbem p/a/ene totum victoriis ac triumphis perlustravit»
(Praef. 2). Qui si esprime, senza mezzi termini, la coscienza
di una nazione che tenta di ricondurre i suoi trionfi bellici fino
ai tempi dei Galli o Celti, come dimostra la logica argomentativa dell’intera opera. L’impero Gallo-celtico ipotizzato da
Berthault si estende non solo all’Italia, ma anche alla Grecia
e all’Asia, cioè all’intero mondo allora conosciuto, in modo
che, come un tempo l’Impero romano era identificato con
l’orbis terrarum, l’Imperium Gallo-Francicum sarebbe una
potenza mondiale, anche come erede dell’Impero romano,
agli effetti della translatio imperii. Tale ipotesi fu assunta, tra
l’altro, al fine di diffondere universalmente la fede cristiana,
missione di tutti i re di Francia, e «arma ad propagandam
Christianorum fidem suscepta, quae ante pro gloria, pro finibus sumebantur» (Praef. 5-6). Queste parole tracciano un’analogia con il primo Impero romano descritto da Floro (cfr.
Flor. 1. 3/1, 9/6-7; 1. 5/1, 11/5). Nella concezione di Berthault
così i Franchi ossia i Francesi donarono all’umanità la libertas della cristianità, sottolineando «ab improbissimae ac barbarae immanitatis nec dicam servitutis iugo» (Praef. 6). In
base a ciò, il gesuita francese ritiene legittimo qualificare la
sua patria regina dei popoli, come la chiamò papa Onorio IV,
e pharetra di Cristo, con le parole del papa Gregorio IX. Che
il suo popolo sia veramente «Christianissima gens», è stato
già provato «suis laboribus, suis periculis, suo sudore ac
sanguine». Così arrivò l’Imperium Gallo-Francicum all’avvento di Henricus Magnus, che «inhaerentem et penitus infixam
Galliae visceribus pestem (sc. haeresem) [...] excinderet, et
teterrimam illam hydram foecundam malis ac saevissimis
capitibus repullulantem, ferro flammâque Hercules Gallicus
pessumdaret» (Praef. 8). Tuttavia doveva essere già realizzato che «in fortunarum omnium societatem, Galli Francique
feliciter coîere; quam altè... utriusque se gentis virtus extulit,
profligatis, prostratis, pulsis Gallia tota Romanis, positoque
eius imperij fundamento, quo nullum clarius, potentius,
augustius» (Praef. 9). Alla realizzazione di ciò contribuì,
secondo Berthault, la comune origine dei due popoli («cum
136
una sit omnium origo unusque ortus», Praef. 10); l’autore
dell’opera si attribuisce il solo merito di aver esposto questo
ingente materiale storico (cfr. «rerum gestarum diversitas»;
Praef. 10) in un ordine severo, distribuendo in due libri le
gesta dei Galli, e in altri due quelle dei Franchi, seguendo la
struttura dei quattro libri di Floro, come era concepito in quei
tempi. In tal modo, comunque, l’autore ripercorre consapevolmente, sotto gli occhi del lettore, la preistoria del Regno
di Francia, ricostruita secondo una concezione organica, a
partire «a primis Galliae velut incunabulis», per procedere in
seguito «aetatis gradibus» (Praef. 8). Nel corso dell’esposizione della storia gallo-franca viene prima presentata, nei termini dell’antica chorographia, la genesi e le denominazioni
dei popoli esaminati, e i territori da essi popolati e organizzati istituzionalmente; d’altra parte, tenendo presente Floro,
vengono enumerati i loro atti di guerra. Nell’insieme del
Florus Gallicus e del Florus Francicus si profila la storia della
nazione francese che sulla base dell’etnogenesi e della translatio imperii, esprime la consapevolezza di una grande
potenza europea, che ritenendosi erede dell’Imperium
Romanum, così ha finalmente una storia di dimensione universale, collocata nel contesto di una storia nazionale, e che
intende dare l’esempio del buon governo e della manifestazione delle virtù nazionali, come già il Floro latino sottolineò,
accanto alla Fortuna, la stessa Virtus, nella storia del popolo
romano. Berthault è spinto ad abbozzare una prospettiva
universale anche dalla circostanza che l’autore nel secolo
XVII insiste sulla teoria alto-medievale (senza che la ritenesse fondata), secondo la quale il Regno Francese è erede
diretto di Troia, e non solo tramite Roma, in quanto una parte
dei profughi della guerra troiana si stabilì nella contrada di
Meotide, e da lì, attraverso la Pannonia procedette in direzione occidentale, e gettò le basi del Regno di Francia. Infine
Berthault ritiene che la visione della storia serve simultaneamente per l’educazione della gioventù e per la gloria del
popolo francese («iuventuti nostrae utilitatis et nomini
Francico laudis aliquid attulero», Florus Gallicus, 196), cioè
la sua opera ha un ruolo educativo e, allo stesso tempo,
serve la causa della nazione. Ciò è fondamentalmente diverso da quanto abbiamo constatato a proposito della concezione della storia in Coeffeteau, nonostante che entrambe le
opere attingano alla stessa fonte, l’epitome del Floro latino.
La fortuna europea del Floro latino nel secolo XVII acquista un ulteriore interesse se prendiamo in esame il Florus
Anglicus, del quale ho consultato un esemplare di
137
Wolfenbüttel, dell’edizione del 1651 (Amsterdam). Lo stile
dell’opera è tendenzialmente equilibrato: l’autore olandese,
infatti, ritiene che in tal modo riesce a rimanere fedele al
Floro latino originale. Come lo scrittore, L. Van den Bost, o
secondo la tradizione umanistica: L. Silvius formula per il lettore: «De stylo moderatè sentias, humaniter judices, non in
admirationem rapiet, scolastico nitore fulgurans, non curiosos oculos morabitur verborum lenocinio, et arguto sententiarum delectu superbiens». Lo stile teso alla semplicità del
Florus Anglicus differisce da quello raffinato di Coeffeteau e
di Berthault; similmente, l’autore di Amsterdam interpreta
Floro in una maniera diversa. Mentre nei primi, conformemente a Floro, si pone al centro dell’attenzione una serie di
guerre, quest’ultimo viene sviluppato in un’altra direzione. La
storia degli Inglesi presentata succintamente non deve apparire come una serie di guerre, bensì come l’alternanza di re
che avevano cose da insegnare sul buon governo. Quindi, in
questo Floro ‘nazionale’, in quanto opera letteraria, per la
prima volta si trova in primo piano il carattere di speculum
del sovrano. Nell’opera scritta in un solo libro i capitoli si susseguono come segue: De Primis Britannorum regibus (1
sgg.), De Primo Rege Normanno Gulielmo Conquaestore
Anno 1067 (7 sgg.), Gulielmus Secundus Anglorum Rex
Anno 1088 (13 sgg.), HENRICVS PRIMVS Anglorum Rex
Anno 1101 (21 sgg.), STEPHANVS Rex Anglorum Anno 1136
(21 sgg.), ecc. In alcuni luoghi si riscontrano delle imprecisioni e sviste, come, ad esempio, in questo titolo: Johannes
Primus Angliae rex 1501 (37), dove, evidentemente si deve
intendere 1201, o in quest’altro: HENRICVS TERTIVS
Angliae Rex anno 1517 (44 sgg.), dove va letto 1207. Così si
giunge, attraverso il capitolo EDVARDVS PRIMVS Angliae
Rex Anno 1272 (54 sgg.), a un altro, assai più in là: HENRICVS OCTAVVS Angliae Franciae et Hiberniae Rex Anno
1508 (156 sgg.). In quest’ultimo capitolo abbiamo un ritratto
molto dettagliato del regnante, che «mira ob(o)edientiâ prudentiâ et justitiâ in ipso principio gessit» (156), poiché seguì
il desiderio paterno, e ascoltando i migliori consigli punì i
ministri crudeli del suo predecessore (ibid.). Ciò non è altro
che un topos prevedibile degli specula del sovrano. Si viene
a sapere, inoltre, che l’attività di Enrico fu apprezzata dal
papa Giulio II. Dal momento che Enrico scrisse un libro contro Lutero, da parte del principe ecclesiastico «fidei defensoris titulo donatus est qui ad omnem eius posteritatem
devolvitur» (162). Il re d’Inghilterra grazie ai suoi trionfi militari e diplomatici «Pace foris stabilita, domesticis atque adeo
138
gravioribus dissidiis Anglia detonuit» (165). La svolta, dopo
questo felice periodo del regno, è segnata da un affare di
famiglia: «Henrico enim qui viginti cum uxore Catharina
annis, in pace et quiete vixerat, scrupulus tandem iniectus,
an praeter incestum fratris uxorem (Arthuro enim, ut dictum,
prius nupserat), ducere posset». La negativa conclusione
dell’affare grava innanzi tutto sulla coscienza del cardinale
Woolsey che non rappresentava adeguatamente gli interessi
del suo signore, pertanto egli è «miro humanarum rerum
inconstantiae exemplo» che poco prima guidava il suo re a
seconda della sua volontà, «jam de summo dignitatis culmine devulsus [...]» allorché è chiamato in corte per render
conto dei suoi fatti «in itinere ex animi moerore obiit».
L’errore principale, quindi, secondo quest’opera storiografica di tipo speculum, consiste nell’aver scelto un cattivo consigliere; l’autore, infatti, nota che per il resto Enrico era un
«princeps» che «omnibus naturae dotibus cumulatissimus, et
in quo, si voluptatibus haud nimium indulsisset, nihil meritò
desiderari potuisset» (171), ossia nella persona del sovrano
inglese non sarebbe stato niente di detestabile, se non si
fosse sottomesso ai propri desideri. Qui si tratta di un altro
criterio degli specula, un altro topos, secondo il quale il
potere dei sovrani è influenzato o determinato dalla sua indole personale, oltre che dai suoi consiglieri e dal destino. È
altrettanto positiva l’immagine offerta dal ritratto di un altro
personaggio centrale, abbozzato nello stesso capitolo del
Florus Anglicus: Elisabetha Angliae, Franciae et Hiberniae
Regina Anno 1588 (172 sgg). La somma della descrizione
somiglia assai a quella di Enrico VIII, essendo in alcuni punti
letteralmente identico. Di Elisabetta fra l’altro leggiamo: «pièque decessit [...] Princeps, omnibus naturae et corporis
beneficiis cumulatissima, formâ venusta, spiritu autem venustior, doctrina inter omnes excellens, bonitate et justitia commendabilis». Il seguente passo cerca, in una maniera particolarmente decisa, di rendere simpatica la regina: «Mater
erat cum subditos liberorum loco habebat, subdita cum legibus obtemperabat», cioè «aveva i suoi sudditi come figli, ed
ella stessa obbediva alle leggi come un suddito» (188). Per
quanto riguarda il sovrano del periodo della rivoluzione,
Carlo I, egli viene presentato dettagliatamente, con indulgenza e con spiccata drammaticità, senza parzialità alcuna,
né per aver difeso il regno oltre ogni limite, né per essersi
comportato con eccessiva simpatia nei confronti dei rivoluzionari e della stessa rivoluzione. L’autore olandese è indulgente anche in fatto di religione, con una simpatia particola139
re per i cattolici, come è dimostrato, ad esempio, dalla
scena, piena di commozione drammatica, della partenza
della regina: «Regina interea Doverii classem conscendit, et
non sine veris lachrymis ultimum vale dedit, accepitque,
praesagiente nimirum animo, hunc discessum tristissimi
divortium augurium esse» (213). Al contrario, nel Florus
Anglicus appare piuttosto negativo il comportamento ambiguo degli Ordini: «Ordines ut Regem blandis verbis consopirent omnem lapidem movêre» (214). È incoerente anche il
comportamento dei sudditi i quali accolgono il loro re
«summa benevolentiâ» quando egli riesce a placare «omnem
Papismi invidiam», ma più tardi non resistono agli intrighi
degli Ordini che «omnium animos magis instigarent, et contra Regem exacerbarent, belli apparatum maximum ab eo
(sc. Rege Carolo) contra rem publicam legesque fieri disseminant». Sono piuttosto imprevedibili anche le reazioni degli
aristocratici che o tradiscono il sovrano, o «hac Regis lenitate adducti, ad eum plures defecêre proceres» (219), senza
che questa sia la loro ultima decisione. Tipica è la figura del
gran ciambellano «tot iniuriarum insolens». Leale più degli
altri ceti è la nobiltà, poiché «Nobilitas omnis paene pro Rege
stetit» (223). Il popolo invece risulta un mostro mutevole
come lo descrisse Sallustio: «plebe volubili monstro» (226).
In tali condizioni la Christiana misericordia viene del tutto
deturpata, poiché il subdolo cospiratore Cromelius, ossia
Cromwell devia tutto dal suo corso normale. La logica conseguenza di tutto ciò è che «Rex jam ad tribunal reus agitur»,
fra l’altro con l’accusa che «proditorem, Tyrannum, populique et rei publicae hostem esse» (239). Il re è costante:
«ipseque jure suo fretus constanter responsum negasset»,
che però faceva sempre più efferati i giudici, comportando,
infine, la pena di morte. Ma il re non crolla nemmeno durante l’esecuzione: «ultimâ oratione adstantem populum allocotus est, et cum jam satis superque innocentiam suam contestatus fuisset, morti se accomodat [...]» e, come lo storiografo afferma: «humiliori quam par esset trunco cervice
imposita [...] molestam vitam pacatâ morte commutavit»
(230). Tutto ciò non implica assolutamente la messa in dubbio del regno, ma l’aggiunta della descrizione degli eventi
rivoluzionari al Florus Anglicus mette in risalto il fatto che non
è sufficiente che il sovrano consideri e rispetti i suoi doveri,
perché senza la cooperazione armonica degli organi dello
Stato non è possibile regnare. Si tratta di un’idea sotto molti
aspetti nuova, sia dal punto di vista del genere dello speculum, sia da quello della storiografia moderna; comunque
140
mostra chiaramente che i Flori europei divennero nel corso
del secolo XVII un tipo caratteristico degli specula.
Rappresenta la medesima tendenza il Florus Polonicus
apparso nel 1641, di cui ho consultato la quarta edizione pubblicata ad Amsterdam, del 1664. Quest’ultima edizione, insieme al Florus di Nadányi dimostra chiaramente che in questo
periodo era uso comune pubblicare nella città olandese le
brevi storie, redatte in latino, delle varie nazioni europee.
Questo fatto premette la conclusione che l’opera di Nadányi
intendeva venire incontro a un’esigenza abbastanza comune
della sua epoca. L’autore del Florus polacco, Joachim(us)
Pastorius de Hirtenberg percorse una carriera piuttosto
avventurosa, recandosi in molti luoghi, compiendo studi in
medicina, nonché nelle scienze storiche, giungendo dalle
dottrine sociniane a un cattolicesimo dedito, il cui spirito si
manifesta anche nel Florus Polonicus, come pure si addiceva ad un «Königlich Polnischer Historicus Secretarius und
Comissarius». Come storiografo di corte, anche Pastorius
intende presentare la storia della Polonia attraverso ritratti di
sovrani, seguendo soprattutto la tradizione stabilita dal Florus
Anglicus. Ma, allo stesso tempo, analogamente a Berthault,
tenta di integrare la storia della Polonia in una prospettiva storica universale, in base alle tradizioni umanistiche, supponendo un rapporto genealogico fra i Polacchi e i Sarmati, come
Nadányi in base alla tradizione stabilita da Bonfini e da precedenti fonti italiane ed ungheresi, riconduce la storia di
Ungheria agli Sciti, agli Unni ed agli Avari. Perciò Pastorius
riceve dai suoi contemporanei il soprannome Florus
Sarmaticus. Albertus Bartochowski, nel suo proemio encomiastico e dedicatorio composto in forma saffica, dimostra
che «Non solus Tyberis disertos // Parturit Floros: parit et
Polonus // Vistula tantos!». Questo concetto, a suo avviso, si
basa sull’idea che non è il luogo che fa la grandezza, bensì la
virtù, che il popolo polacco ha in grande quantità, grazie
anche ai suoi re. La «Polonorum natio, vetustissimis saeculis,
comuni Sarmatorum nomine cognita» non fu, infatti, mai sottomessa a nessun potere, nemmeno all’Impero romano, e
guadagnò fama per i suoi atti di guerra, ma ora anche nelle
arti vuole eccellere; perciò l’autore dell’epitome prova ad
inserirvi, in forma sintetica, l’opera del grande Omero («nuci
inclusum Magni Homeri opus»). Nel Florus Polonicus dell’umanista tedesco i sovrani nei quali s’incarna la virtus del
popolo cattolico si trovano al centro dell’attenzione in tale
misura che un altro poema dedicatorio chiama l’autore Florus
Lechichus, dal nome del principe Lech che nella tradizione
141
storiografica umanistica fu il progenitore dei re polacchi (fol.
1), anche se la sua figura è avvolta nell’incertezza: «Quem alii
indigenam, alii ex ultimis Russiae recessibus, alii ex Illyrico
advenam fuisse tradunt» (1).
Tuttavia il carattere di speculum per principi si manifesta
più che negli altri Flori, nel Florus Danicus, opera di Vitus
Beringius, di cui ho studiato l’edizione del 1698. L’autore,
secondo lo Zedler Lexikon, morì nel 1672, quindi l’opera
doveva essere ultimata prima di quella data. Nella estesa
praefatio l’umanista danese, sulle orme di Sallustio, vede
realizzarsi nella storia la dualità dell’anima e del corpo, e per
questo pone al centro della trattazione il potere del sovrano,
sottolineando: «Quod corpori humano mens et anima, illa
per membra omnia manans et exporrecta vis, id humano
coetui regimen praestat et administratio». Se tali guide
dell’umanità cessassero di esistere, tutto andrebbe in rovina,
o come è espresso con un’immagine latineggiante e retoricamente barocca: «Tolle societatibus Rerum publicarum
capita et moderatores, tolle rectores orbi, iam in caedes
ruent populi non quiescere sese, non alios passuri» (a). Di
conseguenza, è provvidenza divina che i popoli ebbero le
loro guide (cfr. «Quo sollicitius Deus, ut orbis consuleret perpetuitati, dedidit populis Rectores»; a2). Nell’universo regna
un unico Dio, una nave ha un solo nocchiere – anche la
società umana deve rispettare questa regola: «Tutela rerum
humanarum, velut in una navi, sic in uno regno, uni tradenda
est Rectori» (a5). Dopo tutto è evidente che per l’umanista
danese la storia del popolo danese non è che uno speculum
interminabile dei sovrani della Danimarca, a cominciare con
DAN, quale PRIMVS REGVM, continuando con HVMBLVS o
LOTHARVS ecc., tutti paragonati ad uno dei sovrani romani.
La storia della Danimarca prende importanza dal fatto che
«Monarchicum semper fuisse Danorum regimen», e il germoglio, la metamorfosi più recente è inizio di un’epoca ancor
più felice, garante della sua eternità (cfr. «hunc novi regiminis
exortum Daniae universae florem dixeris, et melioris s(a)eculi
felicia incunabula»; d2). Perciò è possibile, che
«Oldenburgica domus Seminarium Regni nostri et aeternae
stirpis propagatrix» (686). All’insegna di quanto detto lo
«speculum Danicum» si rivolge alla casa regnante con fiducia, indirizzandole la richiesta: «Accede Beata Domus et da
perennitatem Daniae!». Tale desiderio ha i suoi precedenti
nei tempi più remoti, in quanto i Danesi sono eredi dei Goti,
il popolo più antico e più glorioso d’Europa, inserendosi in tal
modo «inter Imperia autem universa per orbem» (c3 verso). Il
142
Florus Danicus prende posizione nel modo più consapevole
a favore della monarchia, ritenendo che in una societas dove
tutti sono uguali non può sorgere uno Stato stabile, basato
sulla concordia (b3). Ciò significa che il Florus Danicus in
ultima analisi non è che uno speculum dei principi inserito in
un quadro storico e motivato storicamente, collocandosi
piuttosto distante dall’opera originale di Floro che presenta
una serie di guerre della repubblica romana. Tuttavia, se consideriamo che l’opera latina si conclude con l’elogio del regime ecumenico di Augusto, con la consecratio della persona
del primo Imperatore, quale conseguenza e culmine delle
guerre del populus Romanus, dobbiamo renderci conto che
il germoglio dell’evoluzione del genere in questa direzione
già era incluso nell’epitome dell’autore latino.
Una prospettiva fondamentalmente diversa è stata scelta
dall’autore del Florus Germanicus, il quale, a differenza delle
storie nazionali finora esaminate, intendeva trattare il passato dei Tedeschi non nel contesto della storia universale.
Eberhard Wassenberg (Everhardus Wassenbergius) aveva lo
scopo di sintetizzare la storia recente del popolo tedesco,
attraverso la narrazione delle guerre fra Ferdinando II e III e i
loro nemici. Si trattava, dunque, del passato prossimo e dell’epoca contemporanea a quella dell’autore, che non ha
niente a che fare con i tempi remoti. Dell’impostazione del
Florus latino originale non è rimasta che la concezione della
storia quale una serie di guerre. Wassenberg somiglia ai Flori
europei finora esaminati in quanto utilizza spesso reminiscenze floriane, ed egli stesso è decisamente di orientamento cattolico, come si può dedurre dalla dedica dell’edizione
del 1639, indirizzata a Fr. Hartzfeld, arcivescovo di Bamberg.
Già l’epistula dedicatoria contiene delle invettive contro la
haeresis, ripetute ed esasperate dalla Praefatio e documentate nel corso della trattazione. Perciò la parte storica, inizia,
nella Introductio ad Bellum Bohemicum, con la seguente
affermazione: «Calvini dogma gliscebat» (17). Quest’opera è
per noi particolarmente significativa perché in essa
l’Ungheria ha un ruolo primario, innanzitutto le guerre del
Principato della Transilvania contro gli Asburgo. È ancora più
importante che Wassenberg non ha alcuna simpatia per
l’Ungheria e per gli Ungheresi, considerati fondamentalmente eretici. Con queste parole ostili inizia il capitolo Bellum
Transylvanicum primum: «Nihil hac plaga infestius» (48), dal
che non toglie nulla il fatto che si tratta di una citazione da
Floro che, tuttavia, usa queste parole in un contesto completamente diverso. La visione negativa della Transilvania è
143
rafforzata nella continuazione del testo: «mixtis invicem, in
exitum Christianorum, Bulgarorum, Turcarum, et Barbaricis
Tartarorum copijs». Vedendo perire i Cristiani anche gli
Ungheresi intervengono, poiché «Transilvania et Hungaria
violentus hostis erupit». L’ostilità degli Ungheresi è confermata limpidamente dal fatto che non rispettano l’accordo di
pace. Così scrive Wassenberg: «Sed quae fides apud
Barbaros?» (50). Bethlen, principe transilvanico è caratterizzato dal fatto che «Pacem simulat et bellum parat», inoltre
che «cum Palatino conspirat», pertanto il Florus Germanicus
parla apertamente di Bethleni dolus (ibid.), poiché il principe
«ad extremum tandem vesaniae progressus est» (55), ossia
si crea re d’Ungheria, estrema follia per l’autore.
Conseguentemente «amplos homo sumpsit Spiritus: et elatus animis ingentibus totius Hungariae et si posset Europae
cupiditate flagrabat». Così Bethlen riceve da Wassenberg la
seguente qualifica: «quasi anniversarius hostis», assetato del
potere non solo sulla Transilvania e sull’Ungheria, ma addirittura sull’intero Impero romano-germanico e sull’Europa
(209). Il Florus Germanicus, quindi, che ebbe varie edizioni
nel corso del secolo XVII, offre un quadro piuttosto negativo
della Transilvania e dell’Ungheria, quali traditori della cristianità.
Tali circostanze mettono in una prospettiva nuova rispetto a quella tradizionale il Florus Hungaricus di Nadányi, quale
opera in qualche modo di spirito protestante, e quale tentativo di convincere l’opinione pubblica europea secondo la
quale, contrariamente a quanto afferma Wassenberg,
l’Ungheria e la Transilvania sono il baluardo della Cristianità,
cioè hanno il ruolo che, secondo P. Berthault, aveva il Regno
della Francia più o meno un mezzo secolo prima. A differenza di Wassenberg, l’autore ungherese prende in considerazione anche i tempi remoti e la dimensione universale della
storia, in conformità con la tradizione umanistica che teneva
presente sia la possibilità di un’evoluzione organica della
storia che l’idea della translatio imperii, e la consapevolezza
di una missione della nazione. Il Florus ungherese, allo stesso tempo, parzialmente ha le caratteristiche di uno speculum
dei sovrani, in quanto nei primi tre libri sono abbozzati i ritratti di alcuni re, dal principe Géza al re Mattia Corvino, quali
figure esemplari, per passare poi, nel quarto libro, all’enumerazione delle campagne militari, tramite le quali viene formulata la convinzione che, contrariamente al Florus
Germanicus, il regnum Hungarorum non è altro che il propugnaculum Christianorum. Questi fatti da soli bastano per
144
considerare l’opera di Nadányi tutt’altro che una deformazione del genere storiografico del secolo XVII; essa è la riformulazione del genere alla luce del nuovo interesse destatosi
in tutta l’Europa nei confronti dell’Ungheria, negli anni intorno al 1660. Infatti, nelle biblioteche dell’epoca l’opera di
Nadányi è abbondantemente documentata; e venne tradotta, in breve tempo, in lingua inglese (sebbene sarebbe più
adeguato parlare di rifacimento, più che di traduzione vera e
propria).
Per quanto riguarda l’orientamento moderatamente protestante dell’opera di Nadányi, l’autore condanna palesemente le discussioni teologiche che sboccano in conflitti
armati. Nadányi condanna non solo la crudeltà delle armi, ma
anche le discussioni teologiche che disseminano terrore spirituale, che sono la prima causa dei conflitti di armi, e che
indeboliscono le basi della stessa Cristianità. Nella dedica
esprime, insieme all’orazione No. 66 di San Bernardo, che la
fede deve essere diffusa con la convinzione, non con la
forza; cioè gli infedeli devono essere convertiti per mezzo
dell’argomentazione, e non schiacciati con la violenza.
Nadányi estende tale sua convinzione nel tempo e nello spazio, e la pone su basi più ampie, citando non solo le parole
di San Paolo, ma anche quelle dei Padri della Chiesa, quali
Lattanzio e San Martino di Tours. Ritiene esemplare l’atteggiamento di San Martino che tentava di prendere la difesa
dei priscillianisti di fronte alle arroganze dell’Imperatore
romano. Nadányi ribadisce la sua convinzione che è indegno
che Cristiani spargano il sangue di altri Cristiani, ed è un peccato intervenire sulla coscienza umana con mezzi indegni. È
la sua più profonda convinzione che nelle discussioni sono
permessi solo gli argomenti concreti, per il resto deve
regnarci l’amore reciproco, in rispetto del comandamento
divino e del destino comune dell’umanità. Tale principio
viene illustrato attraverso la storia degli Ungheresi: fu il
Cristianesimo a condurre i magiari, immersi nella crudeltà di
natura, a un comportamento umano, ad esempio proibendo
che divorassero la carne dei loro nemici (libro I, cap. 18, pp.
68-69). Con l’assunzione della fede cristiana i Magiari smisero le incursioni in Europa, anche se (e qui Nadányi ripropone
un’idea tradizionale della storiografia cristiana) la devastazione d’Europa da parte dei magiari pagani fu il flagello di Dio a
causa della depravazione della Cristianità (libro I, cap. 18, pp.
78-79). Secondo il Florus ungherese la storia degli
Ungheresi si articola in due grandi periodi: quello del paganesimo e quello cristiano, con la sua cultura, la cui difesa
145
(
costituisce la missione più importante della nazione ungherese, depositaria della pietà e della virtù. Negli specula che
descrivono la vita dei maggiori re ungheresi si delineano dei
valori rispettabili come la religiosità, la pace, la legalità, il
diritto, la giustizia e la libertà. Tutto ciò costituisce con evidenza ciò che Nadányi definisce il principio della Christiana
mansvetudo, in grado di trasformare la gente barbara e feroce in un popolo umano, conformemente al comandamento
divino (libro II, cap. 19, pp. 140-141).
Secondo Nadányi il paese, similmente all’Europa circostante, si trova in una situazione difficile quando con pretesti
di fedeltà alla fede si acuiscono i contrasti fra i Cristiani,
anche quando è il Papa che s’intromette in questioni politiche (come ad esempio nella questione della successione in
Boemia - libro II, cap. 23, pp. 146-147), il che suscita l’antipatia nei suoi confronti, diffondendo incertezza e rancore fra
la gente fino al punto di creare conflitti di armi (libro II, cap.
23, pp. 148-149). Altri gravi conflitti scaturiscono dall’utilizzo
delle armi, anziché dell’argomentazione, per ricondurre i
fedeli sulla giusta via della fede di Cristo.
Nadányi, tuttavia, non ne deduce che il Papa o il
Cattolicesimo abusa del suo prestigio per dividere la comunità dei Cristiani; egli stesso afferma che le dottrine di Lutero
contribuirono altrettanto alla divisione dei Cristiani: nei tempi
della minaccia ottomana la loro diffusione non fece che
aumentare il pericolo (cfr. «majus periculum impenderet,
quaquaversum doctrina propaganda est» – libro III, cap. 20,
pp. 230-231). Nadányi muove tale critica contro il
Luteranesimo anche se egli stesso ricorda che proprio i suoi
antenati presero per la prima volta le difese dei Luterani; tuttavia ritiene che i rappresentanti della nuova fede, mentre
rifiutano le tradizioni cattoliche, tendono ugualmente a sfruttare la situazione, dividendo la nazione, rendendo cioè incapace di contrastare la marcia delle barbarie ottomane.
Considerato quanto sopra, mi pare che Nadányi appartenga a quegli umanisti ungheresi del secolo XVII che si
resero conto che le discussioni teologiche riguardavano non
più l’essenza delle dottrine di fede, ma che si trattava invece
di una lotta del potere che ricorreva alla forza delle metafore
e, in generale, della retorica. Questa lotta nuoceva, più che
giovare, alla causa dell’Europa cristiana e dell’Ungheria, la
quale cercava di mantenere i rapporti europei e di contrastare gli Ottomani. Nadányi riteneva che mettendo a parte l’inutile retorica religiosa, bisognava indirizzare l’attenzione del
lettore agli esempi della storia i quali confermavano l’unità
146
del paese e dei suoi popoli, e la sua appartenenza all’Europa
evoluta sulla base della tradizione antica latina e cristiana.
La vera meta, quindi, secondo Nadányi, è che i Cristiani,
conformemente alla loro fede, si uniscano contro gli
Ottomani, rispettando comunque i principi del diritto internazionale (accordi e alleanze), come è prescritto dalla legge
divina universale. In questo atteggiamento autenticamente
umanistico, al di sopra delle singole confessioni, si osservano le aspirazioni missionarie per ‘recristianizzare’ i settori che
erano stati presi sotto controllo, quindi conquistati spiritualmente dagli Ottomani. Appare chiaro che Nadányi pensa al
ripristino non del Cattolicesimo, ma del Cristianesimo in
generale, che ritiene più utile per l’intera nazione; in tal modo
risponde alle accuse mosse contro l’Ungheria, traditrice dei
Cristiani e connivente con gli Ottomani. La pubblicazione del
Florus Hungaricus in Amsterdam, e la sua tempestiva traduzione inglese conferma l’impressione che l’opera rappresentava, in un tempo giusto e in modo adeguato, gli interessi
dell’Ungheria, costituendo un contrappeso alla propaganda
negativa, come quella presente nel Florus Polonicus o nel
Florus Germanicus.
Bibliografia e note
Johannes Nadányi, Florus Hungaricus, Amsterdam, 1663.
J. Ijsewijn-D. Sacrè (a cura di), Companion to Neo-Latin Studies II,
Leuven 1998.
F.N. Coeffeteau, Paris, 1621 (Ho studiato la seconda edizione dell’opera
(1623) e le versioni più recenti del 1632 e del 1663. Nelle note mi riferisco all’edizione del 1632).
Pierre Berthault, Florus Francicus. Ne ho usato l’edizione del 1633
(Coloniae), che ho confrontato con quella del 1647 (5a edizione) e con quella
del 1661 (6a edizione), nel cui sottotitolo è aggiunto: ab anno 420 usque ad
ann. 1661. (L’autore fu un gesuita francese, cfr. J.H. Zedler, Großes
Vollständiges Universal-Lexicon, Suppl. 3, Leipzig 1752 = Gray 1999, coll.
917-918). - FLORVS GALLICVS sive RERVM A VETERIBUS GALLIS BELLO
GESTARVM EPITOME.
Florus Anglicus di Lambert van den Bos 1610-1698 (= Lambertus Silvius),
edito nel 1626 a Parigi. Ho usato la seguente copia: Bibliothek Herzog August,
sign. Wolf 596.6 Hi /1/, rilegata insieme a una copia della Historiae Parliamenti
147
Angliae BREVIARIVM (sempre del 1651, ma in Londra, con il monogramma
dell’autore T.M., finora non identificato). In questa edizione del Florus Anglicus
si trova il seguente sottotitolo: sive RERUM ANGLICARUM Ab exordio, usque
ad Caroli primi mortem deductarum COMPENDIVM. Auctore Lamberto Silvio
Amstelodamensi. Ciò indica che la versione edita precedentemente a Parigi
(1626) fu completata, come nota l’autore nella premessa: «Lectori: ne quid
deesset, ad haec usque tempora historiam deduximus, immo res Carolo primo
infeliciter gestas adiecimus» (*4).
Florus Polonicus di Joachim/us/, Pastorius de Hirtenberg, apparso nel
1641, di cui ho consultato la quarta edizione pubblicata ad Amsterdam nel
1664.
Florus Danicus, opera di Vitus Beringius, di cui ho studiato l’edizione del
1698. L’autore, secondo lo Zedler Lexikon, morì nel 1672, quindi l’opera doveva essere ultimata prima di quella data. Pubblicata più tardi anche dalla tipografia di Nagyszombat sotto il nome di Vitus Petersen Bering.
Florus Germanicus di Eberhard Wassenberg (Everhardus
Wassenbergius), 1639.
148
LÁSZLÓ SZÖRÉNYI
Istituto di Studi Letterari dell’Accademia Ungherese
delle Scienze (Budapest)
Fasti Hungarie, il poema elegiaco di Ferenc Kazy
- ossia un’eccellente opera neolatina
della poesia ungherese del XVIII secolo
Nella mia relazione ho deciso di parlare di un solo poeta,
figura importantissima e interessante della scuola più significativa dell’epoca, quella dell’ordine dei gesuiti: Ferenc Kazy
(1695-1759), che è conosciuto soprattutto come storico, ma
che ha iniziato e, fino alla sua elezione alla cattedra di professore di storia all’Università di Nagyszombat (Tyrnavia), ha
continuato la sua attività come poeta.1 La sua prima opera,
intitolata Fasti Hungarie, soggetto della mia relazione, fu
pubblicata nel 1721 a Kassa (Cassovia) dall’università dei
gesuiti della città. Si tratta di un cosiddetto libellus promotionis, scritto in occasione del conferimento solenne dei
diplomi di laurea dei baccalaureati. Secondo quanto richiede questo tipo d’edizione, sul frontespizio del libellus, invece del nome dell’autore, era indicato soltanto quello del professore che presiedeva alla cerimonia dei giovani laureandi.
Il presidente fu in questo caso il professore di filosofia Antal
Mindszenti, e ciò spiega perché le enciclopedie della storia
della letteratura ungherese inseriscono i Fasti Hungarie ora
tra le opere di Kazy, ora tra quelle di Mindszenti.2
Il poema è costituito da una dedica in prosa abbastanza
lunga (pp. 3-4, senza numero la p. 1), da un prologo e da 17
canti: si tratta, in totale, di 2588 versi, scritti in esametri e in
pentametri. L’opera rientra nel genere del carmen elegiacum,
secondo quanto è indicato dallo stesso titolo, adattato da
Ovidio.3 In primo luogo, dobbiamo parlare della divisione del
carmen, che a questo riguardo, differisce dal suo modello
classico, i Fasti di Ovidio: di questi ci sono pervenuti soltanto 6 canti, sebbene l’intenzione originaria dell’autore fosse
quella di arrivare a 12 canti, dedicati alle feste del calendario
romano, seguendo l’ordine dei mesi dell’anno.4 Kazy, invece,
interpretò la parola ‘fasti’ in senso traslato, applicandola
all’intera storia nazionale d’Ungheria: di essa, però, gli interessava esclusivamente il periodo che inizia con la conver149
sione al cristianesimno e, quindi, prescindeva dalla preistoria
dei tempi pagani. Secondo la mia interpretazione, nell’assumere come punto di partenza la cronologia cristiana ha poi
voluto far corrispondere i 17 canti in cui è diviso il carmen al
numero di secoli che intercorrono tra la nascita di Cristo e la
propria epoca. Secondo questa logica, la Praefatio (pp. 5-6,
senza numero la p. 1), che riassume gli spunti attuali del presente, corrisponde al XVIII secolo, l’epoca di Kazy.
La dedica in prosa, indirizzata ai neo-baccalaureati, è
ispirata al principio fondamentale della modestia quasi obbligatoria, giustificata anche dalla sua precoce età (aveva soltanto 26 anni quando insegnava poetica all’università), e a
quello dello zelo patriottico, che l’ha indotto ad offrire al suo
pubblico l’unico regalo che potesse essere degno della sua
nazionalità e della sua patria. Fu lo stesso motivo che gli fece
tradurre nella lingua delle Muse tutta quella sapienza che si
conservava nei libri nascosti nel silenzio della biblioteca.5
La Praefatio suggerisce l’idea centrale di come sia prerogativa naturale di tutti i poeti quella di cantare gli eroi della
propria nazione. Così hanno fatto i romani e, spesso, anche
gli austriaci. Ed egli, sia pure senza nominarlo, evoca Péter
Schez, uno dei suoi precursori nell’ambito della poesia latina
in Ungheria: il gesuita austriaco che visse ed insegnò per un
certo periodo in Ungheria e che, con la pubblicazione del
suo poema Metamorphosis Hungariae nel 1716 a
Nagyszombat, divenne il fondatore di una vera e propria
scuola poetica.6
È comprensibile che, dopo la Metamorphosis, l’ambizioso Kazy volesse presentarsi con l’imitazione dell’altro capolavoro ovidiano, i Fasti. Il suo soggetto sarà quindi il popolo
ungherese, questa gente eletta.
Te cano, si pateris rudibus gens Hungara metris,
Gratia sit metris quantulacunque meis.
Te Genus electum, te Regni insignibus auctum
Divorum monitu: carmina nostra ferent.
Te gentem Marti propriam, Themidique dicatam,
Ah patet in laudes area magna tuas!7
Il titolo del primo canto è Insigne gentilitium Hungarie,
Crucem in Tricolle statuunt: Cujus rei originem Poesis deducit [La gente ungherese sceglie per insegna la croce che sta
sui tre colli: la Poesia deduce l’origine di questa cosa].
Numerosi studiosi, a partire dal famoso libro scritto all’inizio
del XVII secolo da Péter Révay, guardia della Corona, si
erano già occupati della spiegazione simbolico-emblematica
150
dello stemma ungherese, ma Kazy, evidentemente, non era
consapevole o non voleva tenerne conto e procede così
arbitrariamente nella creazione della sua allegoria, come
aveva fatto uno dei suoi predecessori – probabilmente
anch’egli a lui ignoto –, Illés Berger, che, nel 1600, aveva
pubblicato una rapsodia latina sulla Santa Croce, come
stemma d’Ungheria.8 Secondo Kazy, lo stemma antico degli
ungheresi pagani fu la favolosa aquila, raffigurata con un diadema ornato di perle sulla sua fiera testa, il che rappresentava perfettamente il carattere feroce del popolo. Il principe
Géza, però, cominciò ad avvicinarsi al cristianesimo, ed ebbe
un sogno miracoloso – motivo che deriva dalla leggenda di
Santo Stefano –, in cui Dio gli parlava del futuro del suo
regno: di come esso sarebbe stato guidato al cristianesimo
e santificato nella fede non per mezzo dello stesso Géza, in
quanto egli si era macchiato le mani di sangue, ma per
mezzo del figlio nascituro. Quando la concezione del figlio, il
futuro Santo Stefano, fu celebrata ad Esztergom con un torneo grandioso, nel corso di una gara di tiro con l’arco un
gruppo di guerrieri scagliava frecce mirando a una colonna e
– che miracolo! – una freccia trafisse proprio a metà la colonna, nella quale comparve una croce. Nella sua cieca violenza, la Superstizione pagana, infuriata, cerca di distruggere
l’emblema sacro, ma ottiene soltanto che anche la sua freccia trafigga di traverso la colonna della croce. Risulta in tal
guisa la forma della doppia croce. Un altro evento miracoloso segna il battesimo definitivo del paese: la Superstizione
muore ed il suo cadavere si trasforma in una triplice collina.
La doppia croce è posta su di essa, e diventa da quel
momento l’insegna del Regno.9
Il titolo del secondo canto è Sylvester II. Summus
Romanorum Antistes certior factus de suscepta ab Hungaris
fide, coronam Regibus Poloniae destinatam, monitu Divino,
Stephano Hungarorum Duci submittit [Il Sommo Pontefice
Silvestro II, informato della conversione degli ungheresi, su
monito di Dio, manda la corona, destinata originariamente al
popolo polacco, al Principe ungherese Stefano]. Il messo di
Dio racconta al papa che l’Ungheria è ormai cristiana ed il
futuro regno sarà lo scudo di Roma contro le stirpi pagane e
soprattutto contro i turchi: gli impone, perciò, di mandare
senza esitazione gli attributi dell’incoronazione e la corona,
promessa già ai polacchi, al Principe ungherese! Questa storia viene raccontata in una lunga lettera, inserita nel canto, in
cui il papa riferisce la sua visione ed il comando divino. La
151
lettera è ricca anche di diversi riferimenti al futuro: vi si allude alla casa austriaca destinata a diventare la grande protettrice dell’Ungheria. Ma possiamo leggere anche delle altre
profezie: la croce apostolica, ricevuta miracolosamente,
condurrà gli ungheresi a gloriose vittorie, paragonabili soltanto a quelle che la croce di Cristo aveva assicurato a
Costantino il Grande; e la nazione, straziata dalle pene che le
causeranno i turchi, popolo della mezzaluna, soffrirà anche
enormi tormenti, e i corpi dei morti insanguineranno l’acqua
del Danubio. Il popolo della croce, infatti, sarà sempre soggetto alla forza distruttiva dell’inferno. Per quanto riguarda la
corona, essa sarà custodita prima a Esztergom, poi a
Visegrád e, infine, a Presburgo.10
Il titolo del terzo canto è: Stephanus Hungariae Rex ex
bulla Sylvestri II. cum successoribus Apostoli titulum obtinet: inde crux Regibus Hungariae praefertur [Stefano, re
d’Ungheria, con la bolla papale di Silvestro II, riceve il titolo
di Apostolo, che si trasmette anche ai suoi successori: per
questo i re ungheresi si fanno precedere da una croce].
All’inizio del canto, il poeta invoca ancora una volta la Musa
perché racconti la storia della tradizione cui si allude nel titolo del canto. Nella scelta di questo procedimento, Ferenc
Kazy segue la lezione di Ovidio, che faceva raccontare i singoli aitia, cioè i fondamenti originari delle tradizioni, delle
feste o dei riti, dalla stessa divinità che ne era interessata.
Nella narrazione della Musa, il titolo di Apostolo di Santo
Stefano è dovuto alla sua personale attività apostolica nel
corso della quale, girando il paese, egli convertì tutto il popolo al cristianesimo. Per questo motivo, come apostolo, è più
venerato di San Giacomo di Spagna e il papa, per sua speciale grazia verso di lui, gli fece la donazione del titolo. La
bolla di Silvestro, per altro, all’epoca era ritenuta autentica e
continuò ad essere considerata tale fino al XIX secolo, mentre oggi sappiamo che si tratta di un falso prodotto da János
Tomkó Marnavics nella prima metà del XVII secolo.11
Il titolo del quarto canto è: Signa bellica, et nummos suos
Hungariae effigie B. Virginis quam magnam Hungariae
Dominam appellare consueverunt, pro suo in eam studio
insigniunt [Gli ungheresi ornano le proprie insegne militari e
le monete con l’immagine della Santa Vergine, che sono soliti chiamare grande Signora degli Ungheresi, in virtù della
particolare venerazione che nutrono per lei]. È il primo canto
a raccontare, in ordine più o meno cronologico, gli eventi
152
della storia ungherese dopo l’età di Santo Stefano. Il poeta
sottolinea e descrive la peculiare devozione del popolo
ungherese nei confronti della Santa Vergine e illustra il culto
di Maria, testimoniato dalle numerose chiese e dai giorni
festivi a lei dedicati, soprattutto il 15 agosto, festa
dell’Assunzione. Si diffonde anche in un elenco dettagliato
delle numerose occasioni in cui la Santa Vergine aiutò gli
ungheresi nelle battaglie, come se fosse stata qualche celeste Camilla o Giunone cristiana. (Comunque, il poema è
pieno di allusioni all’Eneide). Sebbene Maria sia la Signora
della pace, e le basti volgere gli occhi per riportare l’età
d’oro, i guerrieri ungheresi, consapevoli della sua protezione,
avevano dipinto la sua immagine sulle loro bandiere, ed i
nemici, a vederla, si diedero spesso alla fuga. L’autore riporta, come specifico mito allegorico, la storia della contesa
scoppiata tra le ninfe che simboleggiavano, rispettivamente,
l’oro, l’argento e il rame: ognuna di loro voleva dare il proprio
metallo per la coniazione delle monete che avrebbero recato l’immagine della Santa Vergine. La contesa viene risolta
da Apolllo: tutte le monete avranno l’immagine di Maria! (A
questo punto, il poeta si permette di introdurre, sotto il velo
dell’allegoria, alcuni riferimenti all’ombra minacciosa dell’inflazione, esprimendo però anche la sua fiducia nell’Austria
che, secondo le sue speranze, sarà capace d’impedirla).12
Il titolo del quinto canto è: Hungari regnum suum in quatuor status partiuntur: quibus veluti fulcris, moles amplissimi
Hungariae Regni, incumbit [Gli ungheresi dividono il loro
paese in quattro stati: su di essi come su fulcri, s’appoggia
la mole del vastissimo Regno Ungherese]. In primo luogo, il
poeta riporta un esempio attinto dalla Bibbia, citando il caso
della statua fatta di quattro diversi materiali che si legge nella
visione di Daniele. Ma né questa né l’opera del grandissimo
scultore Fidia possono essere tanto perfette quanto il sistema politico dell’Ungheria, fondato su quattro stati. E va bene
così: perché è d’uopo costruire uno stato o un impero su
basi stabili se si vuole impedire che gli tocchi la stessa sorte
di Troia. Le quattro colonne simboleggiano naturalmente il
clero, l’aristocrazia, la bassa nobiltà e la borghesia delle libere città reali.13
I canti che vanno dal sesto al decimo trattano uno ad uno
i quattro stati. Nell’ambito del clero, il poeta distingue naturalmente i prelati: l’arcivescovo primate di Sassonia, che in
quel tempo era il primate d’Ungheria, l’arcivescovo Csáky di
Kalocsa, il vescovo Erdő dy di Eger, un non meglio precisato
153
magistrato di Nyitra ed il vescovo di Vác, che fu anche cardinale, nato dalla famiglia dei Migazzi. Gli altri episcopati
sono appena elencati e del tutto tralasciato è il vescovo di
Pécs.14 L’autore sottolinea, inoltre, che il clero ungherese,
sebbene avesse tenuto sempre presente l’ufficio principale
del chiericato di promuovere la pace, prese parte con onore
anche alla difesa della patria se il momento storico lo richiedeva. A questo proposito, cita l’esempio eccellente dell’arcivescovo László Szalkai, caduto nella battaglia di Mohács. Poi
il poeta prende in esame le famiglie magnatizie. Va ricordato
come questo elenco-catalogo, collocato nella parte centrale
del poema, in funzione di elogio delle famiglie antiche e dei
singoli stati ed ordini, presenti parallelismi con un’opera italiana, anche se di epoca posteriore. Infatti, nel 1780, fu pubblicato il libro intitolato Fasti Goriziani del poeta arcadico
Rodolfo Coronini, che era stato scritto originariamente in latino, ma l’edizione citata includeva anche la traduzione italiana dell’opera, fatta da Lorenzo da Ponte (Gorizia, 1780). Il
libro è stato ristampato nel 2001 dall’Istituto per gli Incontri
Culturali Mitteleuropei, corredato da un saggio di Alessio
Stasi, che sottolinea come l’opera del conte Coronini risponda perfettamente all’imitazione di Ovidio cara alla scuola
gesuitica, e come fosse sua intenzione principale quella di
evidenziare, sia pure sotto il segno di una lealtà assoluta ed
incrollabile verso la casa degli Asburgo, le peculiari caratteristiche di indipendenza spirituale e autonomia giuridica della
regione di Gorizia.15 Il suo metodo fu la catalogazione delle
famiglie aristocratiche che vissero e furono in auge dai tempi
remoti nella contea goriziana. La storia della regione si delinea in base a questo mosaico di genealogie. A mio parere,
l’impresa del professore gesuita di Cassovia risulta simile a
quella del conte goriziano, in quanto egli intende, parallelamente, far riferimento alle aspirazioni autonomistiche
dell’Ungheria, ma in modo tale da poter conciliare la lealtà
alla casa degli Asburgo con tutti i topoi del patriottismo aristocratico, secondo quanto richiedeva la Pace di Szatmár
del 1711, firmata alla conclusione della rivolta di Rákóczi. Si
tratta di un intento che fu perseguito fino agli anni intorno al
1730 in tutti i campi della vita spirituale che rientravano sotto
il controllo dell’ordine. Questo duplice aspetto del loro atteggiamento politico è ormai assodato dagli studiosi; risulta,
pertanto, sostanzialmente confutata la concezione in precedenza dominante, secondo cui i gesuiti fino alla soppressione della Compagnia di Gesù avvenuta nel 1773, avrebbero
appoggiato gli Asburgo contro l’aristocrazia ungherese.16 Di
154
conseguenza, anche il catalogo di Kazy non è altro che la
celebrazione dell’aristocrazia nei suoi esponenti di maggior
prestigio, tra i quali l’autore pone in particolare rilievo la figura del palatino János Pálffy, che ebbe un ruolo decisivo nella
conclusione della Pace di Szatmár, e quella del giudice del
Regno István Koháry, cui il poeta dedicherà più tardi un
canto funebre. Kazy paragona gli esponenti dell’ordine aristocratico agli eroi romani più insigni. Della bassa nobiltà non
nomina specificamente nessuno, ma sottolinea l’importante
ruolo svolto da questo ceto nell’assicurare, anche a costo di
tributi di sangue, la continuità e la stabilità dello Stato e, grazie alla funzione determinante svolta dai suoi membri nei tribunali, la regolare amministrazione della giustizia. Cita i
comitati come formazioni storiche del diritto pubblico e non
dimentica di menzionare la Transilvania come parte integrante dell’Ungheria: convinzione opposta a quella degli austriaci dell’epoca, che la trattavano e governavano come principato separato.
Il tono del poema diventa più vibrante ed ardente quando l’autore, peraltro di origine nobile, vuole caratterizzare il
quarto stato: la borghesia cittadina. Ai suoi occhi, tutti i funzionari eletti dalla città possedevano le virtù borghesi ed
erano quasi all’altezza degli eroi più illustri della repubblica
romana: una vera e propria adunanza di semidei! La giurisdizione di queste città è indubbiamente regolare e la loro
amministrazione è lontana da qualsiasi possibilità di corruzione. Il tono di elogio è dovuto probabilmente a due ragioni: Ferenc Kazy nacque a Léva (oggi Levice, in Slovacchia),
una città libera reale, e scrisse la sua opera a Kassa (oggi
ˇ ice in Slovacchia), il più grande centro urbano dell’Alta
Kos
Ungheria. A mio avviso non è un caso che questo canto tendente a trasformarsi pian piano in un catalogo eroico delle
virtù dell’età d’oro, occupi il nono posto, e si collochi, cioè,
proprio a metà della composizione di diciassette canti.
Il canto decimo tratta della successione regale e, di conseguenza, è pieno dei problemi contingenti della politica dell’epoca. Il poeta dichiara naturalmente che sarebbe più
opportuna una successione diretta ed ininterrotta della casa
degli Árpádi, ma riconosce che, dopo l’estinzione di questa,
la Santa Corona non trovava più sicurezza e stabilità se non
sotto il regno del Re Mattia; e soltanto la casa degli Asburgo,
di cui Kazy profetizza la durata eterna, riusciva a rimediare ai
torti e ai continui abusi dello Stato!17
155
Il titolo dell’undicesimo canto è: Nationes diversae
Hungariam ambiunt eiusque cives esse volunt; affertur
earum usus loquendi, ac tandem origo linguae Hungarice
[Diverse genti ambiscono a venire in Ungheria e a diventare
cittadini; si tratta del loro linguaggio e dell’origine della lingua
ungherese].18 Lo stanco poeta dapprima siede all’ombra di
un grande tiglio, ma poi, in preda all’estasi, giunge con
Apollo alla cima della montagna più alta d’Ungheria, da cui
si può scorgere il panorama di tutto il paese. Mirando di qui
il popolo ungherese, può notare come la popolazione sia
divenuta mista, perché croati, tedeschi, austriaci e slavi
erano arrivati in massa nel paese, guidati dalla brama d’oro e
dalla speranza di una vita più agiata. Osserva però che gli
slavi, i quali in questo caso corrispondevano agli slovacchi,
erano gli antichi connazionali degli ungheresi. Elenca i topoi
tradizionali della fecondità del paese, dai tralci di Tokaj fino ai
seminati e alle greggi dell’infinitamente ricca Grande
Pianura; per esempio troviamo in lui, come nei poeti che
l’hanno preceduto, il motivo del tralcio che dà oro, ecc. Il
paese, in cui si mescolano le diverse nazioni, è caratterizzato da un particolare plurilinguismo che genera un ulteriore
aspetto della sua divisione. I discendenti di Svatopluk
(Suathus in neolatino) parlano la lingua slava o illirica e quelli di Teuto comunicano tra loro in tedesco. Eppure, tra queste e tra tutte le lingue del mondo, la più bella è l’ungherese
e, a questo proposito, il poeta compone un piccolo mito sul
perché la nostra lingua sia divina. Come una volta in nome
dell’avvenenza fisica, così ora per la bellezza del loro eloquio,
si accende una nuova contesa tra Giunone, Venere e
Minerva. Le tre dee chiedono ad Apollo di essere il loro arbitro. Ognuna di esse cerca di mettere in risalto le virtù e le
qualità della propria eloquenza: Giunone riteneva la propria
potente, cioè capace di soggiogare tutto il mondo; Minerva
vantava un’eloquenza sapiente, capace di giudicare con fermezza ed equilibro nella discussione di una causa; Venere,
infine, esaltava il fascino, l’incantevole grazia del proprio eloquio, capace di convincere anche Giove. Giunge in questo
frattempo la giovane ninfa Hunna, simbolo della progenitrice
della gente ungherese. (Anche questa ninfa è un’invenzione
di Péter Schez).19 Le dee dapprima vorrebbero cacciarla via,
ma la ninfa rivela la sua comunanza con loro, in quanto figlia
di Diana e di Marte. A questa rivelazione, le dee si raddolciscono ed esaudiscono la sua brama di avere una lingua che
riunisca in sé tutte le facoltà e le virtù delle lingue delle tre
divinità. Fu questa l’origine della lingua ungherese, e per
156
questo ogni ungherese prova un inesprimibile piacere nel
sentire la propria lingua che suona come un canto celeste
alle sue orecchie. Involontariamente ci sentiamo commuovere dalle parole del poeta che esalta la lingua ungherese in
una poesia latina, e lo fa proprio all’inizio di quel secolo alla
fine del quale il padre dell’Illuminismo ungherese, György
Bessenyei, dice sospirando che anche con gli angeli in
Paradiso egli parlerà in ungherese.20 È una cosa notevole,
soprattutto se ricordiamo che il gesuita Menyhért Inchoffer,
che visse in Italia, riteneva all’inizio del XVII secolo che l’unica lingua degli angeli fosse il latino.21
Il dodicesimo canto parla della sorte della religione in
Ungheria, che originariamente era sana, ma, più tardi, era
stata corrotta dalla Fortuna malvagia, per cui si erano potute
diffondere le diverse sette. Sia Esztergom, sia la ninfa che ne
rappresenta il simbolo scoppiano in un pianto infinito, che ci
fa ricordare Niobe, e inveiscono contro l’Invidia, nemico antico della Religione (Religio), che ha invocato le furie infernali
affinché esse guastassero la religione cattolica in Ungheria.
Naturalmente sono queste furie, cioè le eresie, la causa della
pace con i turchi, e dell’avvicinamento all’Oriente, delle orribili guerre e di quel cumulo di rovine che è rimasto dopo le
guerre. Hanno rovinato le chiese, tra le macerie delle quali si
sente l’ululare dei lupi. Sono Calvino, Lutero, Ario (il nome
del fondatore allude agli antitrinitari) e gli altri capi degli eretici che hanno distrutto il paese, benché bastasse il solo
Calvino a farlo. Alla fine del canto il poeta esprime la sua
speranza che la casa austriaca avrebbe colpito l’eresia con il
suo fulmine, come fece una volta Giove contro Fetonte.22
Il tredicesimo canto si occupa di un nuovo argomento, la
questione delle antichità nazionali.23 Il tema è perfettamente
conforme alla concezione fondamentale di Ovidio. La Musa
del poeta parla delle tradizioni funerarie degli ungheresi e,
con l’accuratezza di un etnografo, descrive le caratteristiche
tradizionali delle cerimonie e dei cortei funebri degli ungheresi antichi: cavalli addobbati a lutto e guidati dai preti, prodi
fedeli vestiti con l’armatura di ferro, scudi rivoltati, spade
nude, prefiche e le immagini dipinte degli avi, ecc., tutti
elmenti che costituiscono una visione poetica, evocata
davanti agli occhi del nostro autore. Alcuni elementi della
visione vengono spiegati da uno spettro che compare all’improvviso in mezzo alla massa. Egli racconta che, secondo
l’uso antico, gli ungheresi mettevano un’arca imbandierata
157
nell’avello ed appendevano bandiere nelle chiese (riporta gli
esempi di Cassovia e di Léva); ma spiega anche il valore simbolico dei cavalli di lutto. Sappiamo che i cosiddetti cavalli
del mortuarium ebbero un ruolo simbolico decisivo durante
il XVII e il XVIII secolo nei funerali degli aristocratici. Lo studioso Péter Szabó, che dedica all’argomento un intero libro,
ne cita esempi, presi soltanto dall’Inghilterra medievale o dai
paesi in cui erano predominanti le tradizioni della casa degli
Angioini.24 Il poeta tratta distintamente il significato del piffero bellico, usato durante i funerali, e quello del clarinetto
ungherese. A proposito del lutto antico, cita il caso di San
Ladislao, di Luigi II e, soprattutto, quello di Mattia: per quest’ultimo portarono il lutto anche i suoi leoni, che morirono di
dolore per la morte del loro padrone; ma ciò non bastava, ed
i parenti degli animali araldici del re, i corvi di Buda, dopo
aver presentito la morte del re, partirono per Székesfehérvár
per rendere onore al sepolcro del re, e gracchiando espressero le loro pene; anzi, il capocorvo fece cadere dal becco
un ramo di cipro, come segno del suo lutto.
Il quattordicemo canto tratta della testa rasa degli ungheresi.25 L’aition di questo segno distintivo risale al culto di
Maria: secondo il poeta, gli ungheresi si rasarono a zero il
capo per esprimere l’atto volontario con cui si resero servi,
anziché schiavi, di Maria.
Il quindicesimo canto è dedicato interamente all’uso bellico del clarinetto ungherese.26 Il poeta, pur compiacendosi
di vivere in anni di pace, ricorda come quasi l’intera storia
ungherese sia trascorsa in guerra: per questo non va dimenticato quel piffero bellico che animava ed incoraggiava i
guerrieri che stavano per partire per la battaglia. Il poeta cita
una piccola leggenda secondo cui, durante l’assedio di
Buda, una voce divina, che si ripeté tre volte, allarmò i difensori. Essi prima credettero una qualche macchinazione del
diavolo, ma dopo capirono che la dea Pallade, la loro protettrice, e qui l’equivalente di Maria, voleva avvertirli in tal
modo, consegnandogli anche un piffero magico che li avrebbe aiutati nelle battaglie future. La voce del piffero è talmente luttuosa che riesce a produrre negli ascoltatori uno stato
di estasi e a condurli al sacrificio assoluto e senza riserva di
sé stessi: il modello, ricordato dal poeta, di questo sacrificio
fu l’eroico Miklós Zrínyi, che si precipitò verso la morte senza
esitazione.27
158
Il sedicesimo canto esalta l’abito ungherese, che, sia per
la sua semplicità che per la sua pompa, supera quello dei
polacchi, dei tedeschi o dei francesi.28 Il poeta si sofferma lungamente sullo sperone che portano gli ungheresi e che allude
al fatto di essere sempre pronti a combattere, sulla penna di
gru che era l’ornamento più bello della testa, e sul mantello di
pelle di tigre, di lupo o di leone. La funzione principale sia del
taglio e del colore dell’abito, sia dell’armatura accessoria fu
quella di spaventare i nemici. Viene menzionato anche l’abbigliamento femminile, al cui riguardo il poeta esprime il proprio
dispiacere nel vedere come, per la volubilità delle donne,
siano venuti di moda i vestiti stranieri, che sono talmente morbidi da non meritare nemmeno una parola.
Infine, il diciassettesimo canto interpreta gli auguri del
poeta e, tramite lui, della poesia di Cassovia da lui rappresentata, indirizzati all’Ungheria.29 Gli auguri riguardano due
campi principali: l’autore si augura che, da un lato, sia abolita l’eresia nel paese; e dall’altro, si ponga finalmente termine
ai dissidi che avevano coinvolto i cittadini nelle diverse lotte
di fazioni e si affermi una pace eterna. È evidentissimo lo
sfondo politico di quest’augurio: siamo a dieci anni di distanza dalla Pace di Szatmár. Se questi auguri e desideri del
poeta si realizzeranno, avremo nella nuova generazione alcuni insigni guerrieri e cittadini che custodiranno le leggi. In
questo caso, Giano sarà costretto a chiudere per sempre la
porta del suo tempio e tutti gli dei dell’Olimpo si trasferiranno in Ungheria. A questo proposito, il poeta osserva che
Bacco è già arrivato: Tokaj e Sopron rappresentano le sue
vigne. Poi, il tono del poema cambia improvvisamente: il
carme si chiude formalmente con una preghiera a Maria,
madre di Dio, dalla quale il poeta si aspetta la rifioritura del
paese a lei consacrato e la cancellazione dell’antica colpa.
Il poema di Ferenc Kazy costituisce nella storia del genere il rapporto più interessante ed efficace tra l’allegoria di un
paese ancora leale agli Asburgo, iniziata con Péter Schez, e
l’Unniade (Hunnias) di László Répszeli, pubblicata nel 1731,
che deduce la sostanza ideale della storia ungherese dal
mito unnico della tradizione. Non è a caso che, tra i numerosi poemi scritti dai gesuiti, proprio nei Fasti si condensino
tutti i motivi che, in un’epoca successiva, nell’Inno (Hymnus)
di Kölcsey, rappresenteranno i punti cruciali della storia
ungherese.
159
Note
(1) Cfr. F. Szinnyei, Magyar Írók, vol. V, Budapest, 1897, coll. 1303-1304.
(2) L. Lukács, Catalogi Personarum et Officiorum Provinciae Austriae, S.I.,
VII, 1717-1733, Romae, 1993, pp. 156-158.
(3) Fasti Hungariae. Honori [...] Neo-Baccalaureorum, [...] Promotore [...]
Antonio Mindszenti [...] Ab. Humanitate Cassoviensi Dicati, Anno
M.DCC.XXXI, Cassoviae, Typis Academicis.
(4) Cfr. P. Ovidius Naso, ex iterata R. Merkelii recognitione, vol. III, Tristia,
Ibis, Ex Ponto libri, Fasti, Editio stereotypa, 1908, Lipsiae, in Aedibus B.G.
Teubneri, XXXIII-XXXXI, pp. 213-355; P. Ovidi Nasonis Fastorum libri sex, Für
die Schule erklärt von Hermann Peter, I, Leipzig und Berlin, B.G. Teubner4, pp.
14-16; P. Ovidius Naso, Római naptár, Fasti, traduz. di László Gaál, commenti di János Bollók, Budapest, Helikon Kiadó, 1986.
(5) Fasti Hungariae cit, p. 4.
(6) Ivi, p. 5: «Est qui mutatae cecinit discrimina formae, / Et punctum vates
omne canendo tulit». - Cfr. L. Szörényi, Hunok és jezsuiták. Fejezetek a
magyarországi latin hő sepika történetébő l [Unni e gesuiti, capitoli dalla storia
del poema eroico latino in Ungheria], Budapest, 1993, pp. 69-82.
(7) In traduzione: «Ti canto, o gente ungherese, se mi permetti, in versi
rozzi / Sia Grazia per essi, quali che siano. / Tu, Gente eletta, tu che l’ordine
dei santi aveva munito / dell’insegna del Regno: tu sarai l’oggetto del nostro
carme. / Tu, o Gente che discende da Marte e si diede a Temide, / quale ampio
spazio si apre alle tue lodi!» [Fasti Hungariae cit, p. 6].
(8) L. Szörényi, L’epopea di Elia Berger sulla Santa Croce e la storia
ungherese, in Acta Conventus Neo-Latini Cantabrigiensis, Proceedings of the
Eleventh International Congress of Neo-Latin Studies, Cambridge 30 July - 5
August 2000, General editor Rh. Schnur, Edited by J.-L. Charlet, L.G. Rosa, H.
Hofmann, B. Hosington, E. Rodríguez Peregrina, and R. Truman, Arizona
Center for Medieval and Renaissance Studies, Tempe, Arizona, 2003,
pp. 535-543.
(9) Fasti Hungariae cit, pp. 1-7.
(10) Ivi, pp. 7-12.
(11) F. Galla, Marnavics Tomkó János boszniai püspök magyarországi
vonatkozásai [Relazioni ungheresi di Giovanni Mrnavić Tomko, vescovo di
Bosnia], Budapest, 1940.
(12) Fasti Hungariae cit., pp. 15-20.
(13) Ivi, pp. 21-23.
(14) Ivi, pp. 23-27.
(15) R. Coronini, Fasti Goriziani, con un saggio in appendice di A. Stasi,
Gorizia, Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei - Mariano del Friuli
(Gorizia), Edizioni della Laguna, 2001.
(16) Cfr. D. Kosáry, Művelődés a XVIII. századi Magyarországon, [La cultura settecentesca in Ungheria], Budapest, Akadémiai Kiadó, 1980,
pp. 73-74.
(17) Fasti Hungariae cit., pp. 36-39.
(18) Ivi, pp. 40-46.
(19) Cfr. Szörényi, Hunok és jezsuiták cit., p. 71 sgg.
(20) Beszéd az Országnak tárgyárul [Orazione sull’oggetto del Regno], in
Gy. Bessenyei, Prózai munkák 1802-1804 [Opere in prosa 1802-1804], a cura
di Gy. Kókay, Budapest, Akadémiai Kiadó, 1986, p. 80.
(21) Cfr. D. Dümmerth, Inchofert Menyhért küzdelmei és tragédiája
Rómában [Conflitti e tragedia di M.I. a Roma], «Filológiai Közlöny», 1976.
(22) Fasti Hungariae cit., pp. 46-51.
(23) Ivi, pp. 51-56.
160
(24) P. Szabó, A végtisztesség [I riti funerari], Budapest, Magvető
Könyvkiadó, 1989.
(25) Fasti Hungariae cit., pp. 56-58.
(26) Cfr. L. Szörényi, “Múltaddal valamit kezdeni” [Cominciare qualcosa
con il tuo passato], Budapest, Magvető Könyvkiadó, 1989, p. 51.
(27) Sic olim in caedes Deciis Dux aemulus ivit
Zrinius, ad cantus Attica diva tuos
Sic socii Hunniadae devoti exempla secuti
Sponte Ducis pulchras oppetiere neces
Ille prior, vidit ferrô ut grassetur et igne
Hostis, in obsessos diruta tecta lares.
An desperatae non est spes ulla salutis
Dixerat: an pecudum more subibo necem?
Haec ait: et pulchrae succensus mortis amore,
Devovit dignum vivere sponte caput.
Cingitur ense latus, dextram acrior asperat hasta,
Defendit vestis murice picta sinus.
Nudatur clypeo praecordia, Gorgone frontem,
Ut faciat morti pectore, fronte locum.
Heros magnanimus sic in sua fata paratus
Ivit in adversos mortis amore globos.
Occumbit demum, ac vitam cum sanguine fundit,
Quam tamen haud una morte Gelonus emit.
[Fasti Hungariae cit., pp. 61-62]
Cfr. L. Szörényi, Arcades ambo, Relazioni letterarie italo-ungheresi e
cultura neo-latina, Soveria Mannelli (Catanzaro), Rubbettino Editore, 1999,
pp. 145-167.
(28) Fasti Hungariae cit., pp. 62-65.
(29) Ivi, pp. 65-70.
(30) Cfr. Szörényi, “Múltaddal valamit kezdeni” cit., pp. 29-35; F. Kölcsey,
Versek és versfordítások [Poesie e traduzioni poetiche], a cura di Z.G. Szabó,
Budapest, Universitas Kiadó, 2001, pp. 711-766.
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BÉLA KÖPECZI
Accademia Ungherese delle Scienze
(Budapest)
La vita religiosa nelle Confessioni
di Francesco II Rákóczi
Il principe Francesco II Rákóczi ha scritto le sue
Confessioni dal 1716 al 1720 a Grosbois, presso Parigi, e in
Turchia. Il titolo in latino è Confessio Peccatoris, dove il principe si inginocchia davanti a Dio. Nelle sue memorie, scritte
in francese, Rákóczi parla della guerra per l’indipendenza
contro gli Asburgo e della sua vita religiosa e diplomatica. Il
testo delle Confessioni è stato pubblicato a Budapest nel
1876 da Agost Grizsa, che ha utilizzato un testo manoscritto
che si trovava nella Bibliotheque Nationale di Parigi, ed è
stato poi più volte tradotto in ungherese. La traduzione in
francese fu fatta nel XVIII secolo da Chriysonome
Carbonnier, il superiore dei Camaldolesi di Grosbois.1 Come
abbiamo detto, le Confessioni parlano della vita di Rákóczi e
della sua diplomazia, ma anche della sua religiosità e della
sua obbedienza da peccatore.
Il testo comincia con la presentazione del padre e della
madre e con le sue prime impressioni, dove si comincia a
intravedere la sua ortodossia appresa dai Francescani e dai
Gesuiti. Il suo abbecedario è stato conservato e sappiamo
che i suoi istruttori hanno cercato di impartirgli una religiosità
gesuita ortodossa. Dopo la resa di Munkács Rákóczi fu inviato al collegio dei Gesuiti a Neuhaus, dove conobbe non soltanto il latino e la natura degli studi generali ma anche le teorie dei Gesuiti e l’inclinazione verso il culto mariano. Nelle
Confessioni, questo periodo ortodosso si manifesta nella
sua ostilità verso il Conte Emerico Thököly, capo degli insorti ungheresi, che aveva sposato sua madre, Elena Zrínyi.
Rákóczi odia il luterano Thököly perché sa che vuole ucciderlo o consegnarlo come ostaggio ai Turchi.
Dopo Neuhaus il giovane va all’Università di Praga. Non
essendo soddisfatto delle lezioni decide logicamente di non
entrare nell’ordine dei Gesuiti. Sua sorella, sposata con il
conte Aspremont, cerca di farlo venire a Vienna. Rákóczi
conosce bene il latino ma non parla il tedesco, ha dimenti163
cato l’ungherese, cerca di apprendere il francese e l’italiano.
Passa circa un anno in Italia a Venezia, Roma e Napoli. Nelle
Confessioni Rákóczi parla del suo viaggio, dove conosce il
mondo romano, visita i musei e le chiese, si interessa alla
geografia e alla storia, alle scienze naturali ma condanna
severamente la corruzione e la prostituzione. È ricevuto
anche dal Pontefice ma perde le reliquie ottenute e si interessa poco ai miracoli religiosi.2
La religiosità neostoica
Il matrimonio con Amalia di Hessen Rheinfels è malvisto
dalla Corte di Vienna. Quando nel 1697 i soldati di Thököly
cercano di catturarlo, Rákóczi si reca con sua moglie a
Vienna dove chiede in cambio dei suoi beni delle proprietà in
Germania, ma questa richiesta non viene esaudita. Sapendo
che i militari austriaci avrebbero cercato di arrestarlo, si reca
a casa del suo amico Ádám Batthyány, dove ha la possibilità
di meditare sulla sua sorte. Ha l’occasione di leggere non
soltanto la letteratura francese dell’epoca ma anche i libri di
religione. Dopo un breve periodo, dove è influenzato dalla
Pietas Austriaca propagandata da Juan Nierenberg, comincia a leggere Les caractères de l’homme selon les sentiments de Sénèque di Antoine Le Grand,3 che seguendo
Seneca cerca di meditare sulla parte dell’uomo e sulla
distanza dalle passioni. Oltre a questo libro, nella sua biblioteca si trova la traduzione francese di Gracian Les aventures
de Télémaque di Fenelon, ma anche Montaigne e La
Bruyère. Quando è imprigionato a Wiener-Neustadt legge
Fénelon, ma anche un altro libro neostoico di Jean Puget de
la Serre, L’esprit de Sénèque. Tutti questi libri attestano gli
elementi di questa religiosità neostoica del principe che si
protrae fino al 1715.
Dopo l’esilio passato in Polonia, il principe guidò le guerre antiasburgiche in Ungheria, dopodichè si ritrovò di nuovo
in Polonia e quindi in Francia dove divenne un homme de
cour di Luigi XIV.
La sua religiosità neostoica si manifesta anche nella vita
privata. In Polonia fa la conoscenza di Elisabetta Sienavska,
moglie del Gran Hetman, che diventa la sua amante, ma
anche il suo agente diplomatico verso la Francia e la
Russia.4 Nel 1706 la moglie di Rákóczi si trova con il permesso della Corte in Ungheria, dove ha il compito di convincere il principe a rinunciare al principato di Transilvania. Non
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riuscendovi si reca a Karlsbad, dove fa nascere la figlia avuta
dal rapporto con il cancelliere austriaco Wratislaw, che però
muore subito dopo la nascita. Dopo questa tragedia la
moglie di Rákóczi raggiunge la Polonia, lasciando la Cechia
dove nel 1711 ha l’occasione di incontrare suo marito. In
Francia Rákóczi cerca di far innamorare la contessa di Conti
ma senza successo. Dopo il 1717 queste relazioni amorose
finiscono e Rákóczi diventa giansenista.
Il giansenismo
Rákóczi conobbe in Ungheria le controversie tra il Papa e
il giansenismo, ma è solo dopo il suo ritorno a Grosbois che
viene a conoscenza di questa eresia. Jansenius invoca una
religione intima servendosi della lettura della Bibbia, accettando la predestinazione del calvinismo, negando l’importanza delle opere buone in un’atmosfera di pessimismo.
Rákóczi ha conosciuto i libri dei giansenisti francesi, di
Pascal, di Nicole e Arnauld, e la Bibbia tradotta dei giansenisti. Non ha però accettato la controversia dei giansenisti
contro il protestantesimo: è rimasto fedele all’idea della tolleranza religiosa, cui aveva aderito alla dieta di Szécsény del
1705 permettendo ai protestanti di recuperare i loro templi e
le loro scuole. Il vicario Mauri fece vedere il testo a Rákóczi,
che accettò anche le regole dei Camaldolesi con una eccezione: una volta alla settimana poteva andare a Parigi per
incontrare i suoi amici.
Quando visitò il monastero, il vescovo Fleury fu sorpreso
della conoscenza del francese di Rákóczi. Il superiore
Carbonnier disse che il principe aveva studiato Nicole e la
lingua francese. Il vescovo di Fréjus chiese se il principe
conoscesse anche le cosiddette nuances. Il superiore rispose che il principe era giansenista.
Nel 1719 le discussioni sul giansenismo in Francia attraversano una fase decisiva, i preti e i monaci devono accettare la Bulla Unigenitus del Papa. Rákóczi sa che alcuni camaldolesi appartengono ai cosidetti ‘appellanti’, che non vogliono sottoscrivere la bolla menzionata. Si decide di far leggere per i censori ecclesiastici uno dei loro Soliloquia in forma
meditationum adventus domini diebus. Conosciamo il nome
di uno dei due censori che si chiama Franciscus Prus de
Taurino, un francescano, il secondo è un dominicano o un
oratoriano di cui non si conosce il nome.5 I censori criticarono la concezione di Rákóczi sulla grazia divina, sul peccato,
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sull’amore, sulle opere buone, sulla natura umana e sul pessimismo, adducendo la condanna delle bolle papali. Rákóczi
ricevette con furore queste tesi ma preferì non rispondere.
Nel 1720 scrive nelle Confessioni che non ha fatto studi
ecclesiastici, ha voluto servirsi del miele ma non del veleno.
Dei suoi libri condanna tutto ciò che può essere considerato
giansenismo, non solo nelle Confessioni ma anche nelle sue
meditazioni dove dice «que paravance je retracte et révoque
pourquoi j’anérantis comme s’il n’avait jamais été dit tout ce
qui s’y pourrait s’y trouver contraire». Rákóczi nelle sue
dichiarazioni decide di essere ortodosso ma nelle
Confessioni e nelle sue opere scritte in Turchia si trovano
testi giansenisti.
Nonostante la sua vita religiosa non ha dimenticato la sua
esigenza di condurre azioni diplomatiche per rientrare in
Transilvania. Con la Francia, con la Russia, con la Spagna,
con i Turchi cerca di far avviare la guerra contro l’Austria,
oppure di inserirsi nei diversi tentativi diplomatici. Dopo la
morte del re polacco Augusto II, fa un tentativo di partecipare alla guerra contro il successore di quest’ultimo insieme
con la Francia e la Spagna e in una dichiarazione del suo
agente a Parigi, Bon, scrive «Je ne suis pas moins zèlè pour
ma patrie e je suis encore engaggè par des serments à soutenir la libertè et le droit de ma principautè»; Rákóczi ha dunque continuato la sua politica diplomatica per rientrare in
Transilvania malgrado la sua vita religiosa.
Davanti al parlamento si trova la statua di Francesco II
Rákóczi come generale. Io sono d’accordo con Ladislao
Szalay che considera il principe un tosto homme de cabinet,
grazie alla sua diplomazia, alle sue opere scritte e alla sua
vita religiosa.
Note
(1) Da me pubblicata a Budapest nel 1977 ne L’autobiographie d’un
prince rebelle.
(2) Vedi la mia comunicazione all’Accademia Ungherese di Roma.
(3) Vedi B. Köpeczi, Döntes előtt [Prima della decisione], Budapest, 1982.
(4) Abbiamo pubblicato le sue lettere scritte in francese.
(5) I rapporti sono stati pubblicati da A. Vizkelety nel 1961.
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Pubblicato a cura di:
Fondazione Cassamarca
Piazza S. Leonardo, 1 - 31100 Treviso
Stampato nel mese di novembre 2005 presso Europrint (Tv)