Regno - Dehoniane

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Regno - Dehoniane
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hiese nel mondo |
sinodo sulla famiglia
I vescovi,
le domande
e le attese
Cosa mi aspetto
dal Sinodo?
Johan Bonny; Vincent Nichols;
ACERAC; Jean-Paul Vesco
Johan Bonny, Anversa
Che «cosa spero da questo Sinodo?
Che non divenga un sinodo platonico.
Che non si ritiri sull’isola sicura delle
discussioni dottrinali e delle norme
generali, ma abbia uno sguardo aperto per la realtà concreta e complessa
della vita». Con queste schiette parole
il vescovo di Anversa, mons. Johan
Bonny, è intervenuto sui temi del Sinodo straordinario, pubblicando una
lunga riflessione sul sito della sua
diocesi. A seguire, pubblichiamo altri
tre interventi di vescovi ed episcopati
che, in sedi diverse, hanno espresso il
proprio pensiero nei confronti dell’assise: il discorso di apertura dell’arcivescovo di Westminster, card. Vincent Nichols, alla conferenza annuale
della fondazione cattolica Marriage
Care; il messaggio finale dell’Assemblea plenaria dell’Associazione delle
Conferenze episcopali della regione
dell’Africa centrale (ACERAC); una
riflessione sulla questione dei «divorziati risposati» del vescovo di Orano
(Algeria), mons. Jean-Paul Vesco.
(1) Stampa (10.9.2014) da sito web www.
kerknet.be; traduzione dal neerlandese a cura di
Rino Ascioni. (2) Stampa (16.9.2014) da sito
web rcdow.org.uk; nostra traduzione dall’inglese. (3) Stampa (17.9.2014) da sito web acerac.
org; nostra traduzione dal francese. (4) Stampa
(28.9.2014) da sito web www.lavie.fr; nostra
traduzione dal francese. Titolazione redazionale.
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Dal 5 al 19 ottobre di quest’anno si terrà a Roma
un Sinodo dei vescovi sul tema: «Le sfide pastorali sulla
famiglia nel contesto dell’evangelizzazione». In preparazione a questo Sinodo il Vaticano ha inviato un questionario ai vescovi e a tutte le persone interessate. Malgrado
i tempi ristretti per reagire, il questionario ha incontrato
vasta risonanza in tutto il mondo. Nel nostro paese sono
state prese diverse iniziative.
I vescovi belgi hanno diffuso il questionario in tutte
le diocesi francofone e fiamminghe, ricevendo complessivamente 1.589 risposte provenienti da persone, gruppi
e servizi diversi. Un gruppo di esperti, tra cui cinque teologi associati all’Université catholique de Louvain e alla
Katholieke Universiteit Leuven (KU), ha elaborato tutte
le risposte e ha redatto una relazione sintetica che è stata
trasmessa a Roma.1
La Facoltà di teologia e di Scienze religiose dell’Università della KU Leuven ha organizzato un’inchiesta
sul vissuto della fede e della famiglia nelle Fiandre. I risultati di questa inchiesta sono stati presentati a Leuven
nell’ambito di una giornata di riflessione.2 In seguito a
questa giornata di riflessione il Servizio interdiocesano
per la pastorale della famiglia (fiammingo) ha pubblicato
una serie di aspettative e di suggerimenti.3
Inoltre, diversi gruppi e movimenti, come il Consiglio pastorale interdiocesano (fiammingo)4 e i consigli
pastorali delle diverse diocesi, hanno organizzato incontri sul tema del prossimo Sinodo. Le reazioni provenienti dal Belgio concordano per altro con quelle dei
paesi confinanti.5 Nel frattempo, la Segreteria generale
del Sinodo, a Roma, ha pubblicato l’Instrumentum laboris, in cui sono state elaborate tutte le risposte pervenute
dai cinque continenti.6
«Come vescovo, in che modo vedi il prossimo Sinodo?». Mi è capitato spesso di sentire questa domanda
negli ultimi mesi. Da una parte cerco di leggere e capire
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con attenzione le risposte provenienti dal nostro paese e
dai paesi vicini. Queste risposte manifestano un’ampia
conoscenza della documentazione e una grande aspettativa nei confronti di questo Sinodo. Esse provengono
da persone coinvolte in prima istanza: gente che attualmente s’impegna nella propria relazione, nel proprio
matrimonio e nella propria famiglia, alla luce del Vangelo e in connessione con la comunità ecclesiale.
Dall’altra parte cerco di capire come un vescovo
possa tener conto delle idee e delle attese che vivono
in quella parte del popolo di Dio a lui affidata. Certamente non posso anticipare il prossimo Sinodo e quanto
diranno i vescovi insieme a papa Francesco sul matrimonio e sulla famiglia. Tuttavia, con questo mio contributo, vorrei indicare alcune aspettative personali.
Le esprimo a nome mio. Le esprimo altresì come un
vescovo dell’Europa occidentale, nella consapevolezza
che vescovi di altri paesi europei o di altri continenti
potrebbero avere opinioni diverse.
Le mie attese riguardano sia la comunità ecclesiale sia
la famiglia. Esse seguono una linea storica che parte dal
concilio Vaticano II e arriva fino ai nostri giorni. Proverò
inoltre a coniugare il più possibile teologia e pastorale. La
Chiesa, come «la casa e la scuola di comunione», sarà il
filo rosso che attraversa questo mio contributo.7
1. La collegialità
La mia formazione al sacerdozio è iniziata nel 1973:
otto anni dopo la fine del concilio Vaticano II (19621965) e cinque anni dopo la pubblicazione dell’enciclica
Humanae vitae (1968). Sin da allora ho dovuto constatare come questioni importanti relative alla relazione,
alla sessualità, al matrimonio e alla famiglia costituissero
un ambito particolarmente conflittuale nella Chiesa.
Molti credenti, soprattutto quelli impegnati nelle istituzioni e nei movimenti ecclesiali, non si ritrovavano più
nei testi del magistero e nei pronunciamenti morali provenienti da Roma.
Questo divario, con il tempo, invece di ridursi si è
allargato sempre di più, fino al punto che il susseguirsi
di documenti del magistero relativi a questioni sessuali,
familiari e bioetiche si scontrava con una crescente incomprensione e indifferenza. Per evitare l’acutizzarsi
di tensioni, negli anni Ottanta e Novanta si è scelta la
strada della discrezione. Da un lato i credenti, con le
loro domande personali, si rivolgevano sempre di meno
ai vescovi, ai teologi e agli operatori pastorali. Dall’altro,
questi ultimi sceglievano di accompagnare le persone
individualmente, piuttosto che sovraccaricare ancor di
più un clima già teso con ulteriori discussioni a carattere
ideologico. Questa a loro apparve come la strada più
percorribile per svolgere il proprio servizio di «pastore»
con coscienza ed efficacia.
La crescente distanza tra l’insegnamento morale
della Chiesa e la visione morale dei credenti è una problematica complicata. Indubbiamente siamo qui in presenza di fattori diversi. Uno di questi riguarda il modo
in cui questa materia, dopo il Concilio vaticano II, sia
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stata in gran parte sottratta alla collegialità dei vescovi
e vincolata quasi esclusivamente al primato del vescovo
di Roma. Al centro della questione etica circa matrimonio e famiglia sorse una questione ecclesiologica: quella
relativa al giusto rapporto tra il primato e la collegialità
nella Chiesa cattolica. A partire dal Vaticano II, tutti
i dibattiti che, in un senso e nell’altro, si sono avuti su
matrimonio e famiglia, hanno a che fare con questa problematica ecclesiologica.
Nel solco del Concilio
Durante il concilio Vaticano II i vescovi, insieme al
papa, cercarono il massimo consenso possibile. Tutti i
documenti furono soppesati, scritti e riscritti, fino a che,
più o meno, tutti i vescovi potessero esprimere il loro
consenso. Diversi testi furono approvati solo dopo esser
passati attraverso tre sessioni conciliari. Papa Paolo VI
ripetutamente intervenne di persona con una formulazione adatta o una nota aggiuntiva per andare incontro
a chi fino alla fine ancora dubitava.
I vescovi belgi lavorarono giorno e notte alle principali costituzioni, per elaborare tutti gli emendamenti
presentati e redigere dei testi capaci di ricevere l’approvazione di tutti.8 Le cifre ne danno conferma: tutte le
costituzioni e tutti i decreti del Vaticano II, persino i più
ostici, furono infine approvati con un consenso quasi
unanime. Appena tre anni dopo, in occasione della pubblicazione dell’Humanae vitae, di quella collegialità non
rimaneva che pochissimo.
Il Concilio aveva previsto che il papa prendesse una
decisione in merito ai «problemi della popolazione, della
famiglia e della natalità».9 Ciò che il Concilio non aveva
previsto è che egli abbandonasse la ricerca collegiale di
un consenso più ampio possibile. Dal punto di vista formale, Paolo VI indubbiamente prese la sua decisione con
cuore e coscienza, nella consapevolezza particolarmente
acuta della sua responsabilità personale davanti a Dio
e alla Chiesa. Dal punto di vista del contenuto però, la
sua decisione andava contro il parere della commissione
di esperti nominati da lui stesso, della commissione di
cardinali e vescovi che avevano lavorato sull’argomento,
del Congresso mondiale dei laici (1967), della grande
maggioranza di teologi moralisti, di medici e uomini di
scienza e delle famiglie cattoliche più impegnate, certamente qui da noi.
Non spetta a me giudicare su come sono andate le
cose allora e come Paolo VI sia giunto alla sua decisione.
Ciò che comunque mi preoccupa è il fatto che l’assenza
di una base collegiale abbia causato subito tensioni, conflitti e rotture mai più risanati. In quel periodo sono state
chiuse, da una parte e dall’altra, delle porte che da allora
non si sono più riaperte. La linea dottrinale dell’Humanae vitae fu per di più trasformata in un programma
strategico portato avanti con mano forte. Ai margini di
questa politica ecclesiale troviamo ancora le tracce di calunnia, di esclusione e di opportunità perse.10
Questa discordia non deve prolungarsi. Il legame
tra la collegialità dei vescovi e il primato del vescovo di
Roma, come fu vissuto durante il concilio Vaticano II,
va restaurato. Questa restaurazione non può essere ri-
mandata più a lungo. Lì si trova la chiave per un nuovo
e migliore approccio di molte questioni nella Chiesa.
Collaborare a questo fa parte, secondo me, del ruolo
di un vescovo oggi. Ovviamente un approccio più collegiale non porta di per sé alla soluzione di tutti i problemi. La collegialità non è un percorso facile. Essa può
portare in emergenza delle nuove tensioni e provocare
delle rotture.
Chi cerca un accordo comune e una decisione condivisa deve tener conto del rischio di diversità di opinioni e
di mancanza di chiarezza. Su questo punto, l’esperienza
di altre Chiese e comunità ecclesiali ci deve indurre a un
sano realismo. E tuttavia, ritengo che la Chiesa cattolica,
proprio nel campo del matrimonio e della famiglia, abbia
urgente necessità di una nuova e più forte piattaforma di
collegialità nel processo deliberativo e decisionale. Spero
che il Sinodo prossimo contribuisca in questo senso.
La diversità regionale
Dall’Instrumentum laboris risulta inoltre come possano essere differenti le reazioni, relative al matrimonio
e alla famiglia, provenienti dai diversi paesi e continenti.
Su questo punto il documento preparatorio è onesto e
trasparente. L’Africa e l’Asia hanno tutt’altre opinioni
ed esperienze rispetto all’Europa e all’America del Nord.
Persino tra Europa occidentale ed Europa orientale oppure tra il Nord e il Sud dell’Europa si possono rimarcare
importanti punti di divergenza.
Non ha senso negare o trascurare queste divergenze.
Esse hanno per altro un vero significato. Nonostante la
globalizzazione, molti sviluppi e sfide in questo mondo
seguono un percorso diverso nel tempo. In queste diverse
«zone temporali» sono i vescovi a essere responsabili
della parte del popolo di Dio a essi affidato. Non è una
soluzione, per loro, dire che determinate questioni non
costituiscono un problema, o proprio costituiscono un
problema, dall’altra parte del mondo. Tanto una collegialità monolitica quanto un primato monolitico hanno
poco futuro nella Chiesa.
Spero che il Sinodo dei vescovi avrà l’attenzione necessaria per questa diversità regionale. In merito al contributo che le conferenze episcopali possono offrire per il
giusto rapporto tra primato e collegialità, papa France-
sco ha scritto che «questo auspicio non si è pienamente
realizzato» e che «non si è esplicitato sufficientemente
uno statuto delle conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo
anche qualche autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa
e la sua dinamica missionaria».11
Forse il Sinodo potrebbe dare incarico alle conferenze episcopali, per l’anno che viene, di trattare nelle
loro regioni la problematica del matrimonio e della famiglia in modo più approfondito, in vista della seconda
Assemblea generale del Sinodo dell’ottobre del 2015.
La relazione di sintesi può essere consultata in www.kerknet.be
(trad. it. in Regno-doc. 9,2014,290; ndr).
2
Inchiesta ed elaborazione sono consultabili in www.theo.kuleuven.be/enquete-geloof-gezin.
3
Cf. www.gezinspastoraal.be.
4
IPB: l’organo consultivo interdiocesano della comunità ecclesiale nelle Fiandre.
5
Cf. la sintesi della Conferenza episcopale tedesca sul sito www.
dbk.be (cf. Regno-doc. 5,2014,162); la sintesi della Conferenza episcopale francese sul sito www.eglise.catholique.fr (cf. Regno-doc. 9,2014,295).
6
III Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei vescovi, Instrumentum laboris, Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione; questo testo è stato pubblicato dal Vaticano il
26.6.2014 e serve da base per i dibattiti durante il Sinodo; consultabile
sul sito www.vatican.va (cf. Supplemento a Regno-doc. 13,2014,441ss).
7
Giovanni Paolo II, lett. ap. Novo millennio ineunte, 6.1.2001,
n. 43: «Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la
grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo
essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde
del mondo» (EV 20/85).
8
Tra questi vi sono il card. L.J. Suenens, mons. G. Philips, i
vescovi J.M. Heusschen, A.M. Charue ed E.J. De Smedt, mons. V.
Heylen e mons. Dondeyne.
9
Concilio ecumenico Vaticano II, cost. past. Gaudium et spes
(GS), II, c. I, nota 14; EV 1/1485.
10
Opportunità perse, tra l’altro, per un impegno comunitario dei
vescovi e dei teologi moralisti, un dialogo proficuo tra la Chiesa e la
scienza o tra la Chiesa e la società, il legame di fiducia con le coppie
cristiane e le famiglie, l’evangelizzazione del matrimonio e della famiglia.
11
Francesco, es. ap. Evangelii gaudium, 26.11.2013, n. 32; Regnodoc. 21,2013,647.
12
Cf. GS, II, «Alcuni problemi più urgenti», c. I, «Dignità del
matrimonio e della famiglia e sua valorizzazione», 47-52; EV 1/14681491.
13
Cf. Vaticano II, decr. Christus Dominus sulla missione pastorale dei vescovi nella Chiesa, c. II, «I vescovi e le Chiese particolari o
diocesi», n. 11; EV 1/1352-1354.
14
GS 1; EV 1/1319.
15
GS 4; EV 1/1324.
1
2. La coscienza
Come in altri paesi, anche i vescovi belgi si trovarono davanti a un compito difficile dopo la pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae. Durante il concilio
Vaticano II essi avevano lavorato in modo massiccio
alla redazione della costituzione Gaudium et spes, in
particolare al capitolo sulla Dignità del matrimonio
e della famiglia e sua valorizzazione.12 Su richiesta di
papa Giovanni XXIII e di papa Paolo VI, furono coinvolti attivamente nelle diverse commissioni che si occuparono delle questioni della genitorialità responsabile e
del controllo delle nascite.
Essi si erano consultati ampiamente con teologi moralisti, uomini di scienza e movimenti di cristiani laici.
La loro opinione personale era conosciuta al grande
pubblico. Da un lato essi, come vescovi, intendevano
rimanere lealmente uniti attorno alla persona di papa
Paolo VI, con il quale avevano collaborato in maniera
così intensa e confidenziale durante il Concilio. D’altro
lato, come vescovi diocesani, volevano assumersi la loro
responsabilità nei confronti di quella parte del popolo di
Dio loro affidata, nello spirito e secondo il mandato del
Concilio.13
Il Concilio aveva dato loro il mandato di far proprie
«le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi»14 e di «scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo».15 Essi intendevano esercitare il loro ministero di pastori sulla base di questa nuova
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ermeneutica ecclesiologica e pastorale. In questo modo si
sono ritrovati prima del previsto in un conflitto di lealtà e
dunque in un caso di coscienza. Come potevano rimanere
uniti al papa e al contempo rimanere fedeli al Concilio?
La reazione dell’episcopato belga
Un mese dopo la pubblicazione dell’Humanae vitae
i vescovi belgi pubblicarono una dichiarazione comune.
Questo testo non fu scritto e pubblicato in un batter
d’occhio.16 I vescovi intendevano da un lato rimanere
ancorati alla grande tradizione della Chiesa e dall’altro
portare avanti un dialogo costruttivo con le famiglie e la
cultura del loro tempo. Quattro bozze furono successivamente scritte ed emendate.
Gli autori principali della dichiarazione erano tutto
fuorché novellini in teologia o avventurieri. Al contrario, si trattava delle stesse persone che durante il concilio Vaticano II avevano contribuito in maniera decisiva
alla redazione di costituzioni come Lumen gentium, Dei
Verbum e Gaudium et spes, in particolare i mons. G. Philips e il vescovo J.M. Heusschen. Essi erano in stretto
contatto con diversi cardinali tra i più prominenti del
concilio Vaticano II, come L.J. Suenens (Mechelen –
Bruxelles), J. Döpfner (Monaco), B. Alfrink (Utrecht), F.
König (Vienna), J. Heenan (Westminster) e G. Colombo
(Milano). Riassumendo, la dichiarazione dei vescovi
belgi proveniva da quella stessa cerchia di persone che
avevano dato indirizzo al concilio Vaticano II, insieme a
papa Paolo VI.
Nel loro testo i vescovi belgi trattarono la questione
della coscienza personale, in linea con la tradizione cattolica e con la costituzione Gaudium et spes.17 Leggiamo
inoltre: «Se tuttavia qualcuno, competente in questa
materia e capace di formarsi un giudizio personale ben
stabilito – cosa che presuppone necessariamente una
informazione sufficiente –, pervenisse su determinati
punti, dopo un serio esame davanti a Dio, ad altre conclusioni, questi è legittimato a seguire in questo campo
la sua convinzione, a condizione che rimanga disposto a
continuare lealmente le sue ricerche». E ancora: «Si deve
riconoscere secondo la dottrina tradizionale, che l’ultima
regola pratica è dettata dalla coscienza doverosamente
illuminata secondo tutti i criteri esposti dalla Gaudium et
spes (n. 50 §2; n. 51 §3) e che il giudizio sull’opportunità
di una nuova trasmissione della vita appartiene in ultima
istanza ai genitori stessi, che devono deciderne davanti a
Dio».18 Diverse altre conferenze episcopali pubblicarono
negli stessi mesi dichiarazioni simili con un richiamo
analogo al giudizio personale della coscienza.19
Queste parole sulla coscienza, per quanto fossero
classiche e accurate, non trovarono la giusta valutazione
da parte dei difensori dell’enciclica Humanae vitae. Al
contrario, esse vennero dipinte come diserzione, come
rinnegamento nei confronti del papa e come leva per il
relativismo, il permissivismo e il libertinismo. Esse vennero deliberatamente scartate. Ciò segnò un punto di
svolta nei rapporti tra papa Paolo VI e i vescovi belgi.
Testimone di ciò è un aneddoto su mons. Charue, vescovo di Namur. Durante il concilio Vaticano II, tra lui e
papa Paolo VI era maturato un legame di stima e di fidu-
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cia reciproca. Per altro, un vescovo più classico di mons.
Charue non si poteva immaginare. Non era trascorso
ancora un anno dalla pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae che Charue fu ricevuto in udienza privata
da papa Paolo VI, «che esprime in maniera viva il suo
rammarico per la dichiarazione dei vescovi belgi sull’Humanae vitae. Questi arriva a dirgli: “E lei, Mons. Charue,
ora che è a conoscenza di tutto ciò, firmerebbe ancora
la dichiarazione dei vescovi belgi?”. Mons. Charue risponde: “Sì, santo padre”, e comincia a piangere. Questo
vescovo, che era un grande intellettuale e un uomo onesto, soffriva lo stesso dramma che molti teologi cattolici
hanno conosciuto in quei giorni, lacerati come erano tra
il loro onesto attaccamento a un grande papa umanistico
e la fedeltà alle loro convinzioni. Amicus Plato...».20 Da
quel momento in poi molti vescovi preferirono il silenzio
alla polemica.
Il posto della coscienza
La conseguenza di questa polarizzazione fu che la
coscienza, nell’insegnamento della Chiesa su sessualità,
matrimonio, pianificazione famigliare e controllo delle
nascite, slittò evidentemente in secondo piano. Perdeva
il suo posto legittimo in una sana riflessione di teologia
morale. Nell’esortazione apostolica Familiaris consortio,21
non c’è che un breve accenno al giudizio personale della
coscienza sul metodo della pianificazione famigliare e
del controllo delle nascite. Tutto è posto nel segno della
verità del matrimonio e della procreazione così come
la Chiesa la insegna, associato all’obbligo che hanno
i credenti di far propria questa verità e di metterla in
pratica. Partendo dalla legge naturale, determinati atti
sono qualificati come «buoni» o come «intrinsecamente
disordinati», prescindendo da ogni ambiente, esperienza
o storia personale.
Questo metodo lascia poco spazio a una valutazione
onesta e motivata di valori alla luce del Vangelo e della
tradizione cattolica nel suo insieme. Nei capitoli che il
Catechismo della Chiesa cattolica dedica al sesto comandamento (nr. 2331-2400)22 e al nono comandamento (nn.
2541-2533)23 quasi non si parla neanche del giudizio personale della coscienza. Questa lacuna non rende giustizia
alla completezza del pensiero cattolico.
Cosa mi aspetto dal prossimo Sinodo? Che possa restituire alla coscienza il suo posto legittimo nell’insegnamento della Chiesa, in linea con la Gaudium et spes. Si
risolveranno in questo modo tutti i problemi? Naturalmente no!
Il modo in cui la coscienza può pervenire a una decisione retta non è una questione semplice. Cosa è una coscienza ben formata? Come può essa conoscere la legge
che Dio «ha posto nel nostro cuore»? Come si relaziona
la coscienza nei confronti del magistero della Chiesa? E
viceversa: come si relaziona il magistero della Chiesa nei
confronti della coscienza? Come può la coscienza tener
conto della «legge della gradualità» e della pedagogia del
progresso graduale nel processo di crescita al quale non
sfugge nessuna persona?24
Come può la coscienza esercitare la virtù dell’epikeia,
ossia dell’equità, quando la lettera e lo spirito della legge
entrano in conflitto tra di loro? Per l’uomo di oggi, che
attribuisce grande importanza alla formazione di un giudizio personale e motivato della coscienza, si tratta di
questioni pertinenti. Senza che il Sinodo debba rispondere a tutte queste domande, spero comunque che esse
trovino un’adeguata attenzione.
3. La dottrina
In questi ultimi mesi di preparazione al Sinodo ho
sentito o letto diverse volte: «Siamo d’accordo sul fatto
che il Sinodo s’impegnerà per una maggiore flessibilità pastorale, ma non potrà toccare affatto la dottrina
della Chiesa». Alcuni danno l’impressione che il Sinodo
debba pronunciarsi solo sull’applicabilità della dottrina
e non sul suo contenuto. Questa contrapposizione tra
pastorale e dottrina mi sembra inadeguata, sia teologicamente sia pastoralmente. Essa non può rifarsi certamente alla tradizione della Chiesa. La pastorale ha tutto
a che fare con la dottrina, e la dottrina con la pastorale.
Entrambe debbono trovare il loro spazio di discussione
nel Sinodo, se la Chiesa vuole aprire nuove strade per
l’evangelizzazione del matrimonio e della famiglia nella
nostra società.
Un insegnamento complesso
Qual è l’insegnamento della Chiesa su matrimonio
e famiglia? Dove e da chi lo si trova? È praticamente
impossibile rispondere a questa domanda riferendosi solamente a un solo periodo, a un solo papa, a una sola
scuola di teologia morale, a un solo gruppo linguistico, a
un solo circolo di amici, a una sola politica ecclesiale.
Ogni elemento ha il suo valore, ma nessun elemento
può comprendere o sostituire il tutto. Ciò che una sola
persona dice o scrive, per quanto sia autorevole, va capito sempre e di nuovo alla luce di tutta la tradizione
della Chiesa. Sin dal suo nascere, la Chiesa si è interessata sia teologicamente sia pastoralmente alle questioni
riguardanti la relazione, la sessualità, il matrimonio, la
famiglia, la Chiesa domestica, il divorzio, le nuove relazioni, gli abusi e i comportamenti deviati.
Già nell’Antico Testamento troviamo a tal proposito
capitoli pieni di regole e soprattutto pieni di racconti personali. Nei Vangeli Gesù incontra spesso situazioni che
toccano il matrimonio e la famiglia; spesso egli prende
la parola su queste realtà. Paolo scrive ripetutamente su
questo argomento nelle sue lettere alle prime comunità
cristiane. Successivamente, possiamo leggere i padri della
Chiesa, e poi i teologi di tutti i secoli.
Durante e dopo il concilio Vaticano II questo sviluppo è andato avanti a tutti i livelli della vita della
Chiesa. Con il loro insegnamento su matrimonio e famiglia papa Paolo VI, papa Giovanni Paolo II e papa
Benedetto XVI vi hanno dato un contributo notevole.
In breve, la dottrina della Chiesa cattolica su matrimonio e famiglia è rinvenibile in una larga tradizione, che
durante la storia ha sempre conosciuto nuove forme e
nuovi contenuti.
Questo racconto ancora non è concluso. In ogni
tempo la Chiesa si trova a confrontarsi con nuove domande e nuove sfide. Ogni volta di nuovo deve trovare
il coraggio di rileggere il suo insegnamento alla luce di
tutta la tradizione della Chiesa. Cosa significa questo
per l’oggi? Vorrei qui proporre alcuni elementi teologici,
elementi su cui la Tradizione, a mio giudizio, dice più
di quanto possa apparire da documenti recenti del magistero ecclesiale. Oltre che della coscienza a cui facevo
riferimento sopra, vorrei parlare della legge naturale, del
sensus fidei e della complementarietà dei modelli di teologia morale.
La legge naturale
L’Instrumentum laboris in preparazione del prossimo
Sinodo dei vescovi è molto chiaro: «Per la stragrande
maggioranza delle risposte e delle osservazioni, il concetto di “legge naturale” risulta essere come tale, oggi
nei diversi contesti culturali, assai problematico, se non
addirittura incomprensibile. Si tratta di una espressione
che viene intesa in modo differenziato o semplicemente
non capita. Numerose conferenze episcopali, in contesti
estremamente diversi, affermano che, sebbene la dimensione sponsale della relazione tra uomo e donna sia generalmente accettata come realtà vissuta, ciò non viene
interpretato conformemente a una legge universalmente
data. Solo un numero molto ristretto di risposte e di osservazioni ha evidenziato un’adeguata comprensione di
tale legge a livello popolare».25
Come constatazione, questa ha certamente un gran
peso! Nessun teologo moralista o credente negherà l’esistenza di un senso e di una finalità profondi nella complementarietà tra uomo e donna e nella loro fecondità.
16
L. Declerck, «La réaction du cardinal Suenens e de l’épiscopat belge à l’encyclique Humanae vitae, Chronique d’une déclaration (giugno-dicembre 1968)», in Ephemerides theologicae lovanienses
84(2008), 1-68.
17
GS 16: «Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge
che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce
che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male,
quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa questo,
fuggi quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio nel suo
cuore: obbedire a essa è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa
egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario
dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria»; EV 1/1369.
18
A fondamento della loro dichiarazione sul rapporto tra coscienza personale e insegnamenti papali, i vescovi belgi rimandano
anche alla celebre lettera del cardinale Newman al duca di Norfolk:
J.H. Newman, A letter addressed to his grace the Duke of Norfolk. On the
occasion of Mr. Gladstone’s expostulation, Longmans, Londra 1891, V.
II, 258.
19
Cf. Dossier «Humanae vitae», Reacties op de encycliek, Katholiek
Archief, Amersfoort 1968.
20
Cf. Declerck, «La réaction du cardinal Suenens e de l’épiscopat belge à l’encyclique Humanae vitae», 58.
21
Giovanni Paolo II, es. ap. Familiaris consortio sui compiti
della famiglia cristiana, 22.11.1981; EV 7/1522ss.
22
Catechismo della Chiesa cattolica, Libreria editrice vaticana,
Città del Vaticano 1992.
23
In questi capitoli il Catechismo tratta tutti gli argomenti relativi
alla sessualità, alla famiglia, alla fecondità e al controllo delle nascite.
24
Cf. Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, n. 34; EV 7/1632.
25
Instrumentum laboris, n. 21; Supplemento a Regno-doc.
13,2014,449.
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Nel loro essere più profondo è iscritta una finalità che ha
a che fare con il progetto della creazione che Dio ha voluto per l’umanità e il mondo. A ragione la Chiesa invita
uomo e donna a far propri, volontariamente e responsabilmente, gli obiettivi di questo progetto della creazione.
Nell’ambito dell’amore, della sessualità, del matrimonio
e della famiglia esistono d’altronde diverse costanti che
non possono essere semplicemente negate o trascurate.
Su questo punto le scienze umane ci hanno già apportato
delle preziose prospettive e intuizioni.26
E tuttavia un certo tipo di ricorso al concetto di «legge
naturale» nel contesto di etica matrimoniale e famigliare
continua a generare molta confusione, incomprensione
e resistenza. L’uomo contemporaneo è alla ricerca di valori in grado di dare senso e coerenza alla propria vita.
Egli vuole essere felice e far felici gli altri. Nelle situazioni
spesso complesse egli desidera in coscienza prendere decisioni responsabili soppesando e confrontando tra loro i
diversi valori.
In questo processo decisionale egli vuol tener conto
dell’intenzione delle sue azioni, della proporzionalità tra
atto e conseguenza, della propria storia di vita personale
e del percorso di maturazione che lo riguarda. Il risultato di questa valutazione non è dato in anticipo. Esso
è diverso da una generazione all’altra, da un ambiente
all’altro. L’inserimento storico ed esistenziale del giudizio
della coscienza può combinarsi con il concetto di «legge
naturale» e, se sì, come?
La Commissione teologica internazionale ha pubblicato nel 2009 un documento dal titolo Alla ricerca
di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge universale.27 Il documento parla tra l’altro della prudenza che
bisogna avere quando si ricorre al concetto di «legge
naturale» per stabilire delle norme concrete di comportamento: «La legge naturale non può dunque essere presentata come un insieme già costituito di regole che si
impongono a priori al soggetto morale, ma è una fonte
di ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione» (n. 59; Regno-doc.
17,2009,540).
Il documento sottolinea inoltre il carattere storico e
dinamico della legge naturale: «Chiamiamo legge naturale il fondamento di un’etica universale che cerchiamo
di ricavare dall’osservazione e dalla riflessione sulla nostra comune natura umana. Essa è la legge morale inscritta nel cuore degli uomini e di cui l’umanità prende
sempre più coscienza via via che avanza nella storia.
Questa legge naturale non ha niente di statico nella sua
espressione; non consiste in una lista di precetti definitivi e immutabili. È una fonte di ispirazione che zampilla sempre nella ricerca di un fondamento obiettivo a
un’etica universale» (n. 113; Regno-doc. 17,2009,552).
Brevemente: l’etica cristiana, per giudicare e decidere,
necessita di uno spazio più ampio di quello che lascia un
approccio statico28 o apodittico29 della «legge naturale».
Tale spazio più ampio, per altro, non deve essere affatto
inventato, già esiste. Possiamo continuare a lavorare in
questo senso, facendo uso di tanti solidi fondamenti presenti nella nostra tradizione biblica, teologico-morale e
teologico-pastorale.30
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Il sensus fidei
Un altro elemento della nostra tradizione teologica
riguarda il sensus fidei, ossia il senso della fede dei credenti cristiani. Nell’Evangelii gaudium papa Francesco
scrive: «Lo Spirito lo [il popolo di Dio] guida nella verità
e lo conduce alla salvezza. Come parte del suo mistero
d’amore verso l’umanità, Dio dota la totalità dei fedeli
di un istinto della fede – il sensus fidei – che li aiuta a
discernere ciò che viene realmente da Dio. La presenza
dello Spirito concede ai cristiani una certa connaturalità
con le realtà divine e una saggezza che permette loro
di coglierle intuitivamente benché non dispongano degli
strumenti adeguati per esprimerla con precisione».31
Come risulta dall’Instrumentum laboris, la maggior
parte dei fedeli sottoscrive, in quasi tutti i paesi o continenti, i pensieri e le preoccupazioni principali della
Chiesa circa il matrimonio e la famiglia. Sappiamo comunque che una grande maggioranza di cristiani onesti
e ben informati già da tempo non condivida e persino
rifiuti determinati concetti teologico-morali o comandamenti e divieti morali. Nel 2014 la Commissione teologica internazionale ha pubblicato un documento su Il
sensus fidei nella vita della Chiesa.32
Vorrei citare qui due paragrafi del documento: «Ciò
che è meno noto, e in genere riceve meno attenzione, è
il ruolo svolto dai laici per quanto riguarda lo sviluppo
della dottrina morale della Chiesa. È quindi importante
riflettere anche sulla funzione svolta dai laici nel discernere la comprensione cristiana di adeguati comportamenti umani in conformità con il Vangelo. In alcune
zone, l’insegnamento della Chiesa si è sviluppato dopo
che i laici hanno scoperto quali imperativi derivavano
da nuove situazioni. La riflessione dei teologi, e quindi
il giudizio del magistero episcopale, è basata sulla esperienza cristiana già chiarita dall’intuizione di fede dei
laici» (n. 73).
Segue poi un paragrafo su cosa può significare un’evidente mancanza di recezione: «Vi sono dei problemi
quando la maggioranza dei fedeli rimane indifferente a
determinate decisioni morali e dottrinali prese dal magistero o quando le respinge con evidenza. Questa mancanza di recezione può indicare una debolezza o una
mancanza di fede da parte del popolo di Dio, causati
da un abbraccio insufficientemente critico della cultura
contemporanea. Ma in alcuni casi può indicare che certe
decisioni sono state prese da coloro che hanno autorità
senza la dovuta considerazione dell’esperienza e del sensus fidei dei fedeli, o senza una sufficiente consultazione
dei fedeli da parte del magistero» (n. 123).
La «sufficiente consultazione dei fedeli» non deve
partire da zero, visto che già da molto tempo preziose
idee ed esperienze del popolo di Dio aspettano di essere
prese in considerazione e diventare oggetto di un dibattito più approfondito.
Teologia morale:
complementarietà dei modelli
Un terzo elemento della dottrina che vorrei segnalare, riguarda l’evoluzione della teologia morale nel periodo postconciliare. Dopo l’Humanae vitae e la Familia-
ris consortio, la dottrina della Chiesa cattolica si è trovata
legata quasi esclusivamente a una determinata scuola di
teologia morale, costruita su una propria interpretazione
della legge naturale. Rappresentanti di altre interpretazioni della legge naturale o di altre scuole di teologia morale, in particolare la scuola personalistica, vennero visti
con sospetto ed emarginati.
Non si trattava di figure di secondo piano, ma di teologi moralisti altamente competenti e meritevoli, come P.
Jozef Fuchs sj, P. Bernhard Häring cssr e il prof. L. Janssens (KU Leuven). Essi erano della stessa generazione
e persino colleghi di studi dei più importanti vescovi e
teologi del concilio Vaticano II. Essi avevano collaborato
a porre le basi teologiche del Vaticano II e, attraverso il
loro insegnamento e le loro pubblicazioni, alla sua successiva elaborazione.
Al centro del loro pensiero teologico-morale si trovava la persona umana e la sua crescita verso una maggiore dignità umana, alla luce della ragione e della rivelazione. Essi erano sensibili a ciò che è umanamente
possibile quando ci si trova in circostanze fragili e complesse, e le decisioni non sono evidenti. Essi aprivano
spazi per la crescita e lo sviluppo nel percorso spesso
turbolento della vita umana. Tenevano conto della
variabilità della realtà e della complessità della verità.
Ragione, dialogo, tolleranza, compassione e misericordia mantenevano una posizione prominente nella loro
metodica.
Negli anni successivi al Vaticano II essi vennero marginalizzati. Questo sviluppo politico ecclesiale non ha
fatto bene al dibattito teologico-morale nella Chiesa e
soprattutto all’evangelizzazione. A mio parere il prossimo Sinodo darà un contributo limitato all’evangelizzazione del matrimonio e della famiglia se non ristabilirà
innanzitutto il dialogo con l’ampia tradizione di teologia
morale della Chiesa. Da sempre nella Chiesa hanno funzionato modelli diversi di teologia morale. Soltanto nello
loro complementarietà, questi modelli sono in grado di
valorizzare la ricerca multipla del pensiero umano della
verità e della bontà.
A questo riguardo, mi sembra importante quanto
papa Francesco scrive nell’Evangelii gaudium: «Le diverse linee di pensiero filosofico, teologico e pastorale, se
si lasciano armonizzare dallo Spirito nel rispetto e nell’amore, possono far crescere la Chiesa, in quanto aiutano
a esplicitare meglio il ricchissimo tesoro della Parola. A
quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti
senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta disper-
sione. Ma la realtà è che tale varietà aiuta a manifestare
e a sviluppare meglio i diversi aspetti dell’inesauribile ricchezza del Vangelo».33
26
Penso alla psicologia dell’età evolutiva, alla sessuologia, alla
pedagogia e alla sociologia.
27
Commissione teologica internazionale, Alla ricerca di
un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale; Regno-doc.
17,2009,525.
28
Nel senso di definitivo e immutabile, staccato dal contesto storico e ed evolutivo.
29
Nel senso d’imporre in maniera assoluta e cogente, senza possibilità di confronto e dialogo, come necessariamente vero.
30
Questo allargamento è importante anche dal punto di vista
ecumenico. Altre Chiese e altre comunità cristiane hanno difficoltà
ad accettare la legge naturale come una specie di rivelazione della
volontà di Dio. In seguito alla pubblicazione dell’Humanae vitae,
Karl Barth scrisse, in una lettera a Paolo VI, in data 29.9.1968, che
la legge naturale nell’enciclica è vista come «una seconda fonte della
rivelazione», cosa che egli non poteva accettare: cf. F. Ferrario, M.
Vergottini (a cura di), Karl Barth e il concilio Vaticano II. Ad limina
apostolorum e altri scritti, Claudiana, Torino 2012, 64s; cf. Archief
Willebrands, «Lettera di Barth del 20 novembre 1968 a Willebrands»,
in Dossier, 351-363.
31
Francesco, Evangelii gaudium, n. 119; Regno-doc. 21,
2013,664.
32
Commissione teologica internazionale, Il sensus fidei
nella vita della Chiesa, 2014; in www.vatican.va (inglese).
33
Francesco, Evangelii gaudium, n. 40; Regno-doc. 21,2013,649.
34
Le iniziali presenti nel testo che segue non si riferiscono ad
alcuna persona, mentre il racconto corrisponde, a grandi linee, al
vero.
4. La Chiesa come compagna di viaggio
Fortunatamente incontro ogni giorno persone che
s’impegnano nel loro matrimonio e restano fedeli alla promessa reciproca fatta davanti all’altare: «Io, N., accolgo te,
N., come mia/o sposa/o. Prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia,
e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita». Quella
promessa per la vita si trova al centro della loro relazione e
della loro vita famigliare, costituendone il «nocciolo duro»
ovvero la «spina dorsale». Si tratta del più bel dono che
si sono fatti reciprocamente e che hanno ricevuto da Dio.
Giustamente, questi sposati confidano nella comunità ecclesiale affinché li accompagni, li incoraggi e li ispiri.
Per altro, è opportuno dire qui una sincera parola di
stima nei confronti di tutte quelle coppie che di giorno in
giorno s’impegnano reciprocamente per la loro famiglia,
pagando a volte un prezzo fatto di grande dedizione e di
molte rinunce. Dietro una vita famigliare «normale» si
nasconde spesso un racconto «straordinario». Quando
visito una comunità parrocchiale, chiedo sempre di poter
incontrare a casa loro un paio di famiglie che attraversano un periodo o una situazione difficili. Per me si tratta
sempre di incontri commoventi e coinvolgenti.34 Essi mi
parlano del Vangelo.
Storie di famiglie...
T. già da 10 anni si prende cura, a casa, di sua moglie, malata di Alzheimer; per poter fare questo ha chiuso
la sua impresa e ha limitato la sua vita sociale al minimo;
la loro unica forma di comunicazione è fatta di gesti di
tenerezza e vicinanza. J. e F. hanno 4 figli propri e altri 2
adottati, provenienti dal Terzo mondo; per poter provvedere a tutta la famiglia, F. ha rinunciato al proprio lavoro; la loro famiglia è divenuta una piccola comunità internazionale. K. ha circa 85 anni; sua moglie è deceduta
alcuni anni fa; attualmente si occupa lui stesso del loro
figlio, affetto da sindrome Down. Egli ha già sessant’anni
e il suo stato di salute regredisce lentamente. L. e M.
hanno vissuto un periodo difficile nella loro relazione;
M. si era invaghita di un altro uomo e aveva pensato di
separarsi; con l’aiuto di amici e di un terapeuta di coppia
si sono scelti di nuovo reciprocamente e sperano che la
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C
hiese nel mondo
loro relazione migliori anche emotivamente. M. è stata
lasciata dal marito senza alcun preavviso; sebbene ella
non speri più in una riconciliazione, continua a credere
nell’unicità del suo matrimonio e della parola data; come
madre sola prosegue il suo cammino di vita.
Recentemente qualcuno mi ha fatto giustamente osservare che la Chiesa presta così tanta attenzione alle situazioni «straordinarie» che le coppie o le famiglie «normali» ritengono di far parte di un gruppo dimenticato.
Effettivamente, queste coppie «normali» meritano dalla
Chiesa un sostegno e un accompagnamento pastorale
migliore, anche nella mia diocesi. Il loro impegno e la
loro testimonianza sono di grande valore per il futuro
della Chiesa. Esse hanno molto da insegnare alla Chiesa
su quello che significa costruire «una casa e una scuola
di comunione» e impegnarvisi continuativamente.
Al contempo noto, come vescovo, quanto possa essere complessa oggi la costruzione di una relazione, un
matrimonio e una famiglia. Quotidianamente mi capita
di ascoltare storie di vita fatte di fallimenti e di ricominciamenti, di debolezza e di perseveranza, di resistenza
nei confronti dei meccanismi sociali ed economici, di
prendersi reciprocamente cura nelle situazioni difficili.
Anche questi racconti mi commuovono e mi parlano del
Vangelo. Come può la Chiesa essere ugualmente loro
compagna di viaggio?
T. è separata e madre di 3 adolescenti. I suoi figli
stanno iniziando il percorso di studi superiori. Ella non
vive (ancora) con il suo nuovo compagno, che è anche
padre di un ragazzo. T. lavora part-time nella scuola.
Percepisce mensilmente uno stipendio di 1.100 euro e
600 euro di assegni famigliari. La sua vita è una lotta.
Non ha soldi da parte e ogni giorno deve faticare per
organizzare la sua vita famigliare come conviene. T. è
catechista in una parrocchia. Ha 2 bambini. Il suo primo
matrimonio si è arenato finendo con la separazione. Si
è risposata civilmente con il suo nuovo coniuge. La parrocchia e la pastorale le stanno molto a cuore. Ella è uno
dei membri più attivi del gruppo parrocchiale. H. e B.
sono entrambi sui settant’anni e sposati da quasi cinquant’anni. Hanno 4 figli. Una figlia ha rotto con loro
quando aveva appena superato i 20 anni. Essi sono al
corrente del fatto che questa loro figlia ha avuto un compagno ed è divenuta madre. Il fatto che questa rottura
con la figlia, probabilmente, non si risanerà prima della
loro morte, è diventato per H. e B. una ferita inguaribile
e un dolore permanente. F. ha circa 25 anni. Ha finito
di studiare, è molto attiva nella pastorale giovanile della
parrocchia e ha partecipato alle Giornate mondiali della
gioventù. Il suo compagno si dice credente, ma non si
sente a suo agio nella Chiesa. F. ha difficoltà a condividere con lui quanto lei sente per il Vangelo e per la
Chiesa, sebbene lo ami ed è intenzionata a sposarlo.
Ogni domenica si ritrova sola nella celebrazione eucaristica. J. e K. sono una coppia omosessuale e sono sposati
civilmente. I loro genitori faticano a capire la loro scelta
e tuttavia sono sempre benvenuti a casa loro, proprio
come gli altri figli. Questo atteggiamento da parte dei
loro genitori e delle loro famiglie è molto apprezzato da
J. e K. Essi hanno difficoltà con la posizioni della Chiesa.
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Nel porto di Anversa entrano ed escono giornalmente
navi tra le più grandi esistenti. I loro equipaggi sono costituiti da gente di mare che proviene dall’Asia, dall’Africa
dall’Europa orientale. Si tratta spesso di giovani, alcuni
sposati, altri no. Diversi marinai, per esempio quelli delle
Filippine, lavorano con un contratto che prevede 9 mesi
in mare; in questo modo essi rivedono le loro mogli e i
loro figli solo dopo tanti mesi. I loro scarsi contatti avvengono attraverso la rete, le webcam o i telefoni. A questo
riguardo essi possono contare sul sostegno dell’Antwerp
Seafares’ Centre Stella Maris.
Una famiglia fiamminga ha come domestica una
donna di mezza età di nazionalità polacca. Per poter pagare gli studi superiori ai suoi figli, ella viene a lavorare
in Belgio. È felice di poter aiutare i propri figli in questo
modo. Però, come coniuge e come madre, a causa di
questo lavoro, ella è assente dalla propria famiglia per
lunghi mesi.
La famiglia B. proviene dall’Armenia. È composta da
4 adulti: padre, madre e 2 figli. Essi abitano già da 8 anni
in Belgio e sperano di poter ottenere la cittadinanza. Il
padre e il figlio più giovane sono affetti dalla malattia di
Huntington. Il figlio più anziano è molto indebolito. La
madre soffre continuamente di stress. Da 3 anni ricevono
un sostegno dall’Agenzia Fiamminga per le persone con
un handicap. I costi economici sono superiori alle loro
entrate. Essi dipendono dai servizi che offrono cibo e assistenza a chi si trova in difficoltà economiche.
Potrei continuare a lungo con questi racconti, ma non
è questo lo scopo. La mia intenzione è solo quella di richiamare la complessità dei contesti in cui si vivono oggi
la relazione, il matrimonio e la famiglia, come anche le
aspettative che molti continuano ad avere in una Chiesa
come «compagna di viaggio».
Non sia un Sinodo platonico
Cosa spero allora da questo Sinodo? Che non divenga un sinodo platonico. Che non si ritiri sull’isola sicura delle discussioni dottrinali e delle norme generali,
ma abbia uno sguardo aperto per la realtà concreta e
complessa della vita.
A questo riguardo il Sinodo può trarre ispirazione
da questo passaggio significativo di papa Francesco:
«Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per
essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle
proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata
di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio
di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è
che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la
consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una
comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di
senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che
ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che
ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci
sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine
affamata e Gesù ci ripete senza sosta: “Voi stessi date
loro da mangiare” (Mc 6,37)».35
Nel suo rapporto con gli uomini la Chiesa non sta in
una relazione simmetrica o di reciprocità. Anche se le
persone si tengono lontane dalla Chiesa, esse non sopportano che la Chiesa le ignori o le cancelli. E in questo non hanno tutti i torti. Difatti, qui stiamo parlando
di Gesù Cristo e della missione che egli ha affidato alla
Chiesa. Che tipo di persone frequentava Gesù e in che
modo lo faceva? Gesù e i suoi discepoli facevano una
forte impressione nel loro ambiente. Essi erano molto
vicini alla gente. A differenza di altri gruppi religiosi o
sociali, essi venivano visti come persone normali e semplici. Senza pretese andavano per la loro strada. E allo
stesso tempo lasciavano intravedere qualcosa che li distingueva, che suscitava meraviglia. Per la gioia di molti
e lo scandalo crescente di altri.
Molto vicino e molto differente
In cosa consisteva questa diversità che essi mostravano?
Tra l’altro, nel loro essere liberi e nel portare gioia; nel loro
rimettere al centro chi era stato condannato o si era perso,
nel loro invocare la misericordia e il perdono, nel loro rifiuto di ogni forma di esercizio di potere o di violenza, nel
loro voler occupare l’ultimo posto e nel loro credere nella
forza dell’amore che non conta sulla ricompensa.
Molto «vicino» e tuttavia molto «differente»: così i
loro contemporanei percepivano Gesù e i suoi discepoli.
Gesù, d’altronde, non dava un carattere di esclusività alla
comunità che si raccoglieva intorno a lui. Egli accolse e
raccolse persone intorno a sé in cerchie diverse. Tra la
cerchia esterna e quella interna egli permetteva diverse
sfumature. Per dirla con il linguaggio figurato dello stesso
Gesù: Egli era a volte come un seminatore, a volte come
un pastore, a volte come colui che invita a tavola. Questa
costruzione concentrica fa parte dell’architettura della
comunità ecclesiale così come Gesù l’ha voluta strutturare. Io spero che il Sinodo valorizzi questa architettura.
Nel discorso ecclesiale sul matrimonio e la famiglia
devono risuonare più chiaramente parole come «compagno di viaggio» e «fraternità», così come ha scritto
papa Francesco: «È necessario aiutare a riconoscere che
l’unica via consiste nell’imparare a incontrarsi con gli
altri con l’atteggiamento giusto, apprezzandoli e accettandoli come compagni di strada, senza resistenze interiori. Meglio ancora, si tratta di imparare a scoprire Gesù
nel volto degli altri, nella loro voce, nelle loro richieste.
È anche imparare a soffrire in un abbraccio con Gesù
crocifisso quando subiamo aggressioni ingiuste o ingratitudini, senza stancarci mai di scegliere la fraternità».36
5. Situazioni «regolari» e «irregolari»
Nel suo linguaggio corrente la Chiesa parla di situazioni «regolari» e «irregolari». La distinzione tra le due
poggia su motivi di teologia morale e ha conseguenze
sul piano del diritto canonico, tra l’altro nell’ambito dei
sacramenti. Non è mia intenzione negare la legittimità di
questa distinzione. È nell’interesse di tutti che la Chiesa
Francesco, Evangelii gaudium, n. 49; Regno-doc. 21,2013,650.
35
aiuti le persone a discernere ciò che corrisponde al disegno di Dio sulla loro vita e a crescere in questa prospettiva. Il compito della Chiesa, per altro, consiste anche nel
radunare i fedeli in una comunità ordinata dove ognuno
abbia i suoi diritti e i suoi doveri. E tuttavia dobbiamo
essere prudenti nel fare distinzioni del tipo «regolare» o
«irregolare». La realtà è spesso molto più complessa di
quanto possa racchiudere l’uso di due concetti opposti:
bene o male, vero o non vero, giusto o ingiusto. Questo tipo di pensiero bipolare raramente rende giustizia a
tutto il racconto della vita delle persone e alle situazioni
in cui esse si trovano.
Tanto per cominciare, troviamo situazioni «regolari» e «irregolari» nella maggior parte delle famiglie
cristiane. Questo miscuglio di situazioni non impedisce
affatto che nelle famiglie ci si continui a sostenere e a
stimare. E meno male! La Chiesa non può permettersi
di sottovalutare il senso di questa solidarietà nelle famiglie. Su questo punto, ho dovuto già ascoltare, come
vescovo, molta irritazione. Un fratello si arrabbia perché la sorella, essendosi risposata, non può più fare una
lettura durante la celebrazione eucaristica. Un padre
chiede più comprensione per il figlio omosessuale, che
si sente rifiutato dalla Chiesa.
Una nonna non riesce a capire perché il parroco non
vuole benedire la relazione tra sua nipote e un uomo
separato. Benché queste persone s’interroghino sul cammino di vita dei loro parenti, avrebbero preferito una
situazione diversa o soffrano a causa di tutto ciò, esse
non abbandonerebbero i loro famigliari. Per le persone
interessate questa solidarietà è un segno importante della
fedeltà di Dio a ogni uomo, qualunque cosa possa succedere. A loro parere la Chiesa non può permettersi di
rimanere indietro rispetto al mutuo sostegno e all’accoglienza reciproca testimoniata nelle famiglie.
Un linguaggio che può ferire
Nello stesso ambito ho dovuto spesso constatare come
un certo linguaggio della Chiesa possa ferire determinate
persone e in determinate situazioni. Chi intende dialogare con la gente, deve guardarsi bene dall’usare qualificazioni che non corrispondono alla realtà vissuta e risultano dunque molto umilianti. Su questo punto, molti
nostri documenti ecclesiastici hanno urgente bisogno
di revisione. Quando parlo alla gente non posso usare
certe formulazioni presenti nei documenti ufficiali senza
giudicarle ingiustamente, senza ferirle profondamente, e
senza dare loro un’immagine sbagliata della Chiesa.
K. e P. sono sposati da 30 anni e hanno 4 figli; ciò
significa 3 volte più della media del numero di figli di
una famiglia belga; dopo la nascita del quarto figlio si
sono resi conto di aver raggiunto il limite delle loro capacità e hanno deciso di ricorrere agli anticoncezionali
per non avere più figli. Si può dire senza sfumatura di
questi genitori con 4 figli che, a motivo del loro metodo
di controllo delle nascite, rendono falso l’amore matrimoniale, che hanno rotto il vincolo essenziale tra matrimonio e fecondità e che non sono più in grado di donarsi
Francesco, Evangelii gaudium, n. 91; Regno-doc. 21,2013,659.
36
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hiese nel mondo
totalmente l’uno all’altra? Oppure, possiamo dare il suo
giusto valore alla loro generosa paternità, come anche
alla cura che mettono nell’approfondimento della propria relazione e la costruzione di una casa accogliente
per i loro figli?
A. e L. hanno fatto di tutto per avere un figlio. Poiché
L. si avvicinava lentamente all’età di 40 anni, cominciava
ad avvertire una certa urgenza. Il loro desiderio di avere
un figlio era molto sincero e generoso, sostenuto, per
altro, da una profonda fede cristiana. A causa di problemi medici, hanno fatto ricorso a una fecondazione in
vitro omologa. Si può dire in generale di questa coppia
che, a motivo di tale atto medico, fanno prevalere il dominio della tecnica sul valore della persona umana, che
il loro agire è in contrasto con la dignità comune di genitori e figli, e che essi vedono il figlio come un oggetto
da possedere? Oppure, possiamo comprenderli nel loro
profondo desiderio di tenere insieme amore e fecondità,
e sperare che il loro desiderio di avere un figlio possa realizzarsi, grazie all’aiuto di medici capaci e coscienziosi?
J. e M. hanno entrambi circa 25 anni e hanno completato il loro percorso di studi superiori; tutti e due
hanno trovato lavoro e convivono senza essere sposati;
sono intenzionati a rimanere insieme e vogliono costruire una famiglia. I loro genitori e tutta la famiglia hanno
fiducia nel modo in cui cercano insieme il loro cammino
di vita. Possiamo dire a priori di questi giovani che, a
motivo della loro convivenza senza matrimonio, essi
hanno scelto un matrimonio in prova, che l’intelligenza
umana fa capire quanto sia inaccettabile la loro scelta e
che il loro modo di relazionarsi va contro la loro stessa
dignità umana e contro la finalità dell’amore? Oppure
possiamo incoraggiarli nell’aver scelto l’uno per l’altro,
nella speranza che la loro relazione possa sfociare in un
matrimonio civile e sacramentale?
Indubbiamente simili situazioni meritano un rispetto
maggiore e un giudizio più sfumato di quello che può
risultare da alcuni documenti della Chiesa. Il meccanismo di condanna e di esclusione che ne deriva può solo
ostacolare la via dell’evangelizzazione. Il «compagno di
viaggio» e la «fraternità» ricevono poco spazio in un linguaggio del genere. A tal riguardo, la Chiesa deve imparare di nuovo a parlare come una madre, così come
scrive papa Francesco: «Ci ricorda che la Chiesa è madre
e predica al popolo come una madre che parla al figlio,
sapendo che il figlio ha fiducia che tutto quanto gli viene
insegnato sarà per il suo bene perché sa di essere amato.
Inoltre, la buona madre sa riconoscere tutto ciò che Dio
ha seminato in suo figlio, ascolta le sue preoccupazioni
e apprende da lui. Lo spirito d’amore che regna in una
famiglia guida tanto la madre come il figlio nei loro dialoghi, dove s’insegna e si apprende, si corregge e si apprezzano le cose buone».37
Sulla storicità del nostro pensare
Aggiungiamo ancora una considerazione sulla storicità del nostro pensare e agire, anche nella Chiesa.
La distinzione tra situazioni «regolari» e «irregolari»
non ha a che fare solo con la teologia morale e il diritto canonico, ma anche con la cultura e la storia. Il
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modo in cui gli uomini curano le loro relazioni, il come
e il quando decidono di avere figli, il come e il quando
considerano e intuiscono una relazione come «indissolubile», sono tutte realtà umane determinate dal tempo
e dalla cultura, dalla provenienza e dalla formazione,
dalla mutevolezza di idee e sentimenti. Ogni generazione di genitori lungo i secoli, ha avvertito quel sentimento confuso che li ha portati a esclamare: «I nostri
figli vivono questo in maniera diversa».
D’altronde, il matrimonio è stato il meno evidente
tra i 7 sacramenti. Diversamente dagli altri sacramenti, il
matrimonio suggella una realtà umana preliminare: l’impegno per la vita che prendono un uomo e una donna,
secondo i costumi del tempo e della cultura. D’altronde,
nella tradizione latina della Chiesa cattolica il ministro
del matrimonio non è il sacerdote, ma sono gli stessi nubendi che si amministrano l’un l’altro il sacramento del
matrimonio. Per altro, si è dovuto attendere fino al XII
secolo prima che il matrimonio venisse inserito definitivamente nella lista dei 7 sacramenti. Per un tempo altrettanto lungo fu dibattuta la questione da quando un matrimonio poteva essere considerato come indissolubile.
La storia della provenienza del doppio criterio ratum et
consummatum è molto istruttiva a questo riguardo.38
Non è mia intenzione qui mettere in discussione la
legittimità di questo criterio. Vorrei solo indicare da
dove esso proviene: non dalla rivelazione o dalla storia
dei dogmi, ma dalla complicata storia del diritto della
Chiesa. Il suo peso non dovrebbe essere dunque più
leggero, ma neanche più pesante di quanto necessario.
Anche la «forma» necessaria per contrarre validamente
un matrimonio sacramentale è cambiata diverse volte nel
corso della storia del diritto canonico ed è stato applicata
in modi diversi.
Oltre alle tradizioni occidentali del diritto, esisteva
ed esiste talora nella Chiesa anche una tradizione orientale relativa a matrimonio e famiglia. Esisteva il matrimonio tra persone che oggi sarebbero considerate
minorenni, oppure il matrimonio disciplinato dalla promessa reciproca tra i capi di entrambe le famiglie (in
alcune regioni esiste ancora oggi). A partire dalla Rivoluzione francese l’introduzione del matrimonio civile (e
della separazione civile) ha portato a un nuovo contesto
legale, anche per i fedeli cattolici. Sin dalla metà del
secolo scorso le coppie disponevano, per la prima volta
nella storia, della conoscenza e dei metodi necessari per
il controllo delle nascite.
È arrivata poi la problematica della sovrappopolazione e la diffusione del virus HIV. Attualmente il riconoscimento giuridico di un contratto di convivenza o
di matrimonio tra due persone dello stesso sesso apre a
nuove situazioni ed opinioni relative al matrimonio e alla
vita famigliare. Nel frattempo le persone vivono più a
lungo che in passato, per cui le loro relazioni si trovano
ad affrontare una prova del tempo molto più lunga.
Altri ancora, giunti a un’età media, grazie a questa attesa di vita più lunga, sono in grado d’iniziare una nuova
relazione. Questo contesto che cambia in continuazione
non è in sé né anticristiano né contro la Chiesa. Esso
fa parte delle circostanze storiche in cui tanto la Chiesa
quanto i singoli credenti debbono assumere le loro responsabilità. La Chiesa si trova così ogni volta di nuovo
davanti a una questione importante: come possono la sua
dottrina e la vita concreta incontrarsi e interrogarsi reciprocamente in una tensione feconda.
Leggo, in quasi tutte le risposte al questionario di
Roma, l’attesa che la Chiesa possa riconoscere quanto
di buono e di valido può esserci anche in altre forme di
convivenza, diverse da quella del matrimonio classico.
Questa richiesta a me sembra giustificata.
6. Divorziati risposati
Una problematica portata avanti da molti paesi è
quella dei divorziati risposati e della loro esclusione dalla
comunione eucaristica. L’Instrumentum laboris recita:
«Molte delle risposte pervenute segnalano che in tanti
casi si riscontra una richiesta chiara di poter ricevere i
sacramenti dell’eucaristia e della penitenza, specie in
Europa, in America e in qualche paese dell’Africa e la
richiesta si fa più insistente soprattutto in occasione della
celebrazione dei sacramenti da parte dei figli. A volte si
desidera l’ammissione alla comunione come per essere
“legittimati” dalla Chiesa, eliminando il senso di esclusione o di marginalizzazione. Al riguardo, alcuni suggeriscono di considerare la prassi di alcune Chiese ortodosse, che, secondo la loro opinione, apre la strada a un
secondo o terzo matrimonio con carattere penitenziale; a
questo proposito, dai paesi di maggioranza ortodossa, si
segnala come l’esperienza di tali soluzioni non impedisca
l’aumento dei divorzi. Altri domandano di chiarire se la
questione è di carattere dottrinale o solo disciplinare».39
Su questo argomento vorrei fare tre considerazioni.
Matrimonio ed eucaristia
La prima riguarda il legame stretto che la dottrina
ecclesiastica pone attualmente tra il sacramento del
matrimonio e il sacramento dell’eucaristia. Indubbiamente entrambi i sacramenti hanno a che fare l’uno con
l’altro. La vita sacramentale della Chiesa è un insieme
organico, in cui un sacramento apre o riapre l’accesso
all’altro. Tuttavia, ci si può interrogare come l’indissolubilità del matrimonio tra uomo e donna e l’indissolubilità del legame tra Cristo e la sua Chiesa corrispondano tra di loro. La «relazione» (o il «riferimento»)
37
668.
Francesco, Evangelii gaudium, n. 139; Regno-doc. 21,2013,
Secondo il diritto romano il matrimonio diventava effettivo con
il consenso degli interessati in una celebrazione privata e familiare. La
«consumazione fisica» non era importante. Secondo la tradizione del
diritto germanico, che in Europa colmò il vuoto dopo il crollo dell’Impero romano e del suo sistema giuridico, il matrimonio si realizzava
proprio con la «presa di possesso fisico» della sposa, come si era soliti
chiamarlo gentilmente. Secondo questa tradizione, il matrimonio non
era mai definitivo fino a quando non fosse stato consumato corporalmente. Entrambe le tradizioni, quella romana e quella germanica,
avevano i loro sostenitori tra i canonisti: la scuola di Parigi contro la
scuola di Bologna. Quando Rolando Bandinelli divenne papa (Alessandro III, 1159-1181) introdusse la distinzione tra ratum e consummatum per dirimere questa annosa diatriba tra i canonisti. Egli riunì le
due scuole in un’unica formula: un matrimonio contratto validamente
(ratum) e inoltre consumato corporalmente non può essere annullato
38
di cui parla Paolo nella sua lettera agli Efesini non è
un’«identificazione».40
Entrambe le «indissolubilità» non hanno lo stesso valore salvifico. Esse stanno in rapporto tra di loro come
«segno» e «significato». Chi è Cristo per noi e quanto ha
fatto per noi va ben oltre la nostra vita umana ed ecclesiale. Nessun «segno» può raffigurare in maniera definitiva la «realtà» del suo patto d’amore con l’umanità e con
la Chiesa. Persino il più bel riflesso dell’amore di Cristo è
segnato dalla finitezza e dal peccato umani.
La distanza tra «segno» e «significato» resta molto
grande. Per altro, quella distanza rappresenta per noi
un’opportunità e una benedizione. La nostra debolezza non potrà mai annullare la fedeltà di Gesù alla sua
Chiesa. Dall’indissolubilità del suo sacrificio sulla croce
e del suo amore per la Chiesa scaturisce la misericordia
con cui egli torna incessantemente a incontrarci, anche
nella celebrazione dell’eucaristia.
Partecipazione alla celebrazione eucaristica
La seconda considerazione concerne la partecipazione alla celebrazione eucaristica. Nel decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, il concilio Vaticano II
fa una distinzione tra due principi che si comportano in
modo dialettico: la partecipazione all’eucarestia come
«segno di unità» e come «mezzo della grazia».41 I due
principi vanno insieme: si richiamano e si fortificano reciprocamente, in una tensione creativa.
Questo approccio all’eucarestia mi sembra molto significativo. Secondo la dottrina e la disciplina attuali, i
divorziati risposati non possono ricevere la comunione
poiché la loro nuova relazione in seguito a un matrimonio interrotto, non è più «segno» del legame mantenuto
tra Cristo e la Chiesa. Indubbiamente questo ragionamento ha un suo senso.
Allo stesso tempo, ci si deve porre la questione di sapere se con ciò è stato detto tutto sulla vita spirituale di
queste persone e sull’eucaristia. Anche i divorziati risposati hanno bisogno dell’eucaristia per crescere nell’alleanza con Cristo e con la Chiesa, e per assumersi le proprie responsabilità di cristiani nella situazione nuova
che si è configurata. La Chiesa non può semplicemente
ignorare o trascurare il loro bisogno spirituale e la loro
domanda di poter ricevere la comunione come «mezzo
della grazia». D’altronde, anche chi si trova in una situazione «regolare» ha bisogno dell’eucaristia come
neanche dal papa. In seguito, il duplice ratum e consummatum entrò
nelle decretali pontificie per poi approdare nel Codex del 1917 e in
quello del 1983. Fino a oggi il papa può sciogliere un matrimonio sacramentale che non è stato consumato, come pure un matrimonio che
non è stato contratto sacramentalmente (Privilegio paolino e petrino).
39
Instrumentum laboris, n. 95; Supplemento a Regno-doc.
13,2014,461.
40
«Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e
alla Chiesa» (Ef 5,32).
41
Vaticano II, decr. Unitatis redintegratio sull’ecumenismo,
21.11.1964, n. 8: «Tuttavia la comunicazione in cose sacre non la si
deve considerare come un mezzo da usarsi indiscriminatamente per il
ristabilimento dell’unità dei cristiani. Questa comunicazione dipende
soprattutto da due principi: dalla manifestazione dell’unità della chiesa
e dalla partecipazione ai mezzi della grazia. La manifestazione dell’unità per lo più vieta la comunicazione. La partecipazione della grazia
talvolta la raccomanda»; EV 1/528.
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hiese nel mondo
«mezzo della grazia». Non è senza ragione che le ultime
preghiere comuni prima della comunione sono: «Agnello
di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi»
e «Signore, io non son degno di partecipare alla tua
mensa, ma dì soltanto una parola e io sarò salvato».42
Corrisponde all’intenzione di Gesù?
La terza considerazione verte sulla questione di sapere se l’esclusione dalla comunione dei divorziati risposati risponda realmente all’intenzione di Gesù a proposito dell’eucaristia. Non voglio qui suggerire una risposta
semplicistica, sebbene questa domanda non mi lasci in
pace. Nel Vangelo troviamo tante parole e gesti di Gesù,
dei quali la Chiesa sostiene, sin dal tempo dei padri della
Chiesa, che essi hanno anche un significato eucaristico.
Essi riguardano la «comunione della mensa» nel regno
dei Cieli.
Per una buona comprensione dell’eucarestia, è importante leggere che una compagnia numerosa di pubblicani e peccatori si mettevano a tavola con Gesù e i
suoi discepoli (cf. Lc 5,27-30); che Gesù, interrogato
proprio lì a tavola risponde di non essere venuto per
chiamare i giusti, ma i peccatori che si convertano (cf.
Lc 5,31-32); che tutti quelli che sono venuti da vicino
o da lontano per ascoltare la parola di Gesù, ricevono
da lui e dagli apostoli ugualmente il pane per sfamarsi
(cf. Lc 9,10-17); che quando fai una festa devi invitare
a tavola soprattutto gli infermi, gli storpi e i ciechi (cf.
Lc 14,12-14); che il padre misericordioso offre al figlio
che era perduto il miglior banchetto, provocando l’indignazione del figlio maggiore (cf. Lc 15,11-32); che
Gesù, durante l’Ultima cena, lava prima i piedi ai suoi
discepoli, compresi Pietro e Giuda, e li invita a seguire
il suo esempio, ogni volta che faranno memoria di lui
(cf. Gv 13,14-17).
Non è mia intenzione fare di questi riferimenti degli
slogan, ma sono persuaso che non possiamo lasciarli
fuori dalle nostre considerazioni. Ci deve essere una correlazione tra le molte parole e i gesti di Gesù legati alla
mensa e la sua intenzione per l’eucaristia. Se Gesù dà
prova di tale apertura e misericordia alla «comunione
della mensa» nel regno di Dio, la Chiesa dispone lì, a
mio sentire, di preziosi indicazioni per studiare come a
determinate condizioni si possa aprire anche ai divorziati
risposati l’accesso alla comunione.
Come si comporta la Chiesa in tali ed altre circostanze davanti a delle situazioni «irregolari»? A questo
proposito, penso ci sia una linea culturale che corre tra
l’Europa del Nord e quella del Sud. Rispetto all’Europa
settentrionale, l’Europa meridionale tollera una distanza
ben più grande tra la realtà e la norma. La tradizione del
diritto romano cercava soprattutto di promulgare delle
belle leggi; il fatto che venissero o meno applicate non
costituiva che una preoccupazione minore. Nell’Europa
del Sud avevo inoltre l’impressione che ciò che si distacca
dall’ideale non può e non deve essere regolato con delle
norme. Per le situazioni irregolari si troverà certamente
una soluzione in loco.
L’Europa del Nord ha difficoltà con un approccio del
genere. Da noi, anche ciò che è meno bello o meno po-
558
Il Regno -
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sitivo, deve essere canalizzato o regolato attraverso delle
vie legali. Secondo il nostro sentire, nessuno è aiutato dal
silenzio e dalla negazione. Al contrario, in questo modo
si sviluppa «il mercato nero». Inoltre, l’Europa del Nord
preferisce meno leggi, ma che siano leggi ben applicate.
Circa 20 anni fa alcuni vescovi diocesani tedeschi hanno
tentato di elaborare per le loro diocesi una direttiva fondata teologicamente e pastoralmente per ammettere dei
divorziati risposati alla comunione.43
Non intendo pronunciarmi qui sul valore intrinseco
della loro proposta. Ma ciò che mi preoccupa è questo:
quando a dei vescovi si impedisce di dare delle direttive
ai propri collaboratori per i casi di situazioni irregolari,
questi collaboratori si muoveranno in tutte le direzioni.
Non è raro che preti e collaboratori pastorali si confrontino con situazioni irregolari dove è necessario un
giudizio prudenziale. A buon ragione essi chiedono al
vescovo dei criteri o una direttiva. La mancanza di una
tale direttiva non può che causare ancor più confusione e
l’indebolimento dell’autorità del vescovo come «pastore»
del popolo a lui affidato.
Per quanto possa apparire paradossale, norme migliori per la condotta da avere in presenza di situazioni
irregolari possono solo rafforzare l’esercizio dell’autorità
nella Chiesa. La tradizione giuridica dell’Oriente cristiano, con la possibilità di un regolamento eccezionale
in nome della «misericordia» (economia, epikeia) può
offrire un’apertura.44 Pure su questo punto aspetto con
speranza il prossimo Sinodo.
Nei panni dei figli e dei nipoti
Infine, ancora una parola dal punto di vista dei figli
e dei nipoti. Come tutti i vescovi, vado anch’io in tante
parrocchie per il sacramento della cresima. La maggior
parte dei cresimandi nella mia diocesi ha 12 anni. Molti
di loro provengono da un secondo matrimonio o da una
nuova famiglia. Davanti a me vedo sempre una grande
comunità di bambini, genitori, nonni e altri parenti. Naturalmente sono a conoscenza che la maggior parte di
loro prende raramente parte all’eucaristia. Eppure, nessuno di loro intende rinunciare a questa celebrazione.
Il bambino che riceve la cresima, riunisce la famiglia.
Questa celebrazione ha, per altro, un forte significato per il
legame religioso tra le generazioni che si susseguono nella
famiglia. Inoltre, simili liturgie significano, in certe famiglie,
un raro momento di «tregua» in cui si debbono mettere da
parte eventuali frustrazioni o conflitti. Al momento della
comunione si fanno avanti spontaneamente la maggior
parte dei membri della famiglia per ricevere l’eucarestia.
Non riesco a immaginare cosa potrebbe significare
per i bambini e per il loro futuro legame con la comunità ecclesiale, qualora io in questo momento rifiutassi la
comunione a tutti i genitori, ai nonni o agli altri membri della famiglia che non si trovano in una situazione
matrimoniale «regolare». Ciò sarebbe fatale per la celebrazione liturgica, per la relazione tra le famiglie e la comunità ecclesiale, e soprattutto per lo sviluppo ulteriore
della fede dei bambini.
In simili circostanze sono certamente in gioco altri
motivi teologici e pastorali e non soltanto quello del ma-
trimonio sacramentale. Queste situazioni richiedono una
riflessione ulteriore sia sulla dottrina che sulla prassi della
Chiesa. A buon diritto, l’Instrumentum laboris segnala
questa problematica.45
7. L’annuncio del Vangelo
Il prossimo Sinodo ha ricevuto un titolo assai complesso: «Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto
dell’evangelizzazione». Il fatto che nel titolo sia stata
messa l’evangelizzazione, lo ritengo una cosa importante. Perché? Perché il matrimonio e la famiglia costituiscono solo uno tra i vari campi in cui la questione ben
più ampia dell’evangelizzazione è all’ordine del giorno.
La lingua, il metodo e la sensibilità con le quali lavorerà
il Sinodo costituiranno un test. Essi possono dare un tono
nuovo a tutto l’approccio pastorale della Chiesa. Tutti i
campi pastorali sono, d’altronde, collegati tra di loro e
in ognuno di essi sorgono questioni analoghe. Il significato del prossimo Sinodo va dunque ben più lontano del
campo particolare del matrimonio e della famiglia.
In che modo la Chiesa va incontro al mondo e all’uomo
di oggi? Nel corso dei decenni precedenti prevaleva nel governo della Chiesa un modello assai difensivo e antitetico.
A fronte di una cultura dell’«oscuramento», la Chiesa deve
lasciar risplendere la «bellezza della verità». Sebbene il
messaggio del Vangelo non sia popolare e sia difficile da
comprendere, la Chiesa deve esprimerlo in maniera intatta.
In un mondo che si aliena ogni giorno di più, ella
deve rimanere un faro di luce e di orientamento che permette di ritrovarsi. O la va o la spacca! Solo un ritorno
radicale alla verità eterna può far si che il mondo sia salvato. Indubbiamente esistono buone ragioni per questo
modello antitetico.
Il regno di Dio, difatti, non coincide con gli sviluppi
congiunturali di questo mondo. Esso si manifesta come
qualcosa di controcorrente e anche come un appello
profetico. Che Dio faccia «nuovo» il mondo significa
che egli lo fa «diverso» allo stesso tempo. Anche Gesù
e i suoi discepoli davano una testimonianza controcorrente. Vivevano e agivano chiaramente non come tutti.
Per questa differenza Gesù pagherà, d’altronde, un alto
prezzo. Ha finito i suoi giorni come un condannato sulla
croce. Alla fine per lui è stato un «tutti contro uno». La
comunità ecclesiale deve continuare a emanare questa
differenza controcorrente, se vuole restare fedele al suo
fondatore e alla sua missione.
Una «differenza»... prudente
Allo stesso tempo si richiede nei confronti di questo
modello antitetico una grande dose di prudenza. Gesù
è morto in croce «tutti contro uno», benché non avesse
mai vissuto «uno contro tutti». Più di qualunque guida
religiosa, egli stendeva le sue braccia e allargava il suo
cuore per gli uomini, chiunque essi fossero e qualunque
cosa avessero fatto. Intorno alla sua misericordia non
c’erano muri o confini. Passava di villaggio in villaggio
affinché ogni malato lo potesse incontrare, nessun lebbroso lo cercasse invano, a nessun peccatore mancasse
il suo perdono. Egli entrava in dialogo con interlocutori
imprevisti e si lasciava invitare a tavola con convitati di
reputazione sospetta. Favoritismi o esclusioni non erano
la norma nella scelta dei suoi amici e compagni, persino
nella scelta dei suoi apostoli. Su questo binario Gesù ha
posto la Chiesa.
Nelle sue relazioni con gli uomini e con il mondo, ella
deve avere la stessa apertura e la stessa misericordia del
suo fondatore. Soltanto lungo il cammino del dialogo la
Chiesa può compiere la sua missione. Ella non ha altra
scelta, se vuole mantenere la sua identità e la sua credibilità. Ed è proprio qui che la Chiesa, a mio parere, lotta
oggi contro un deficit.
Sopra abbiamo già parlato del sensus fidei. Se molti
oggi avvertono una mancanza nella Chiesa, si tratta
della chiarezza della sua somiglianza a Gesù Cristo. Essi
hanno difficoltà a riconoscere nell’atteggiamento della
Chiesa nei confronti degli uomini di adesso, l’atteggiamento di Gesù nei confronti degli uomini del suo tempo.
In questo, d’altronde, essi osservano soprattutto il
campo dell’amore, della relazione, della sessualità, del
matrimonio e della famiglia. Ciò non deve meravigliare.
Si tratta del campo che sta loro più a cuore e nel quale
vivono la felicità più grande o la sofferenza più grande.
Tenendo conto di questo, la Chiesa dovrà abbandonare,
proprio in questo campo, quel suo atteggiamento assai
difensivo o antitetico e cercare di nuovo la via del dialogo. Ella deve trovare il coraggio di passare nuovamente
dalla «vita» alla «dottrina». Su questa strada la Chiesa
non ha niente da perdere. Solo dialogando con il mondo
può scoprire dove oggi Dio sta operando e dove attualmente si trovano le sfide per la Chiesa e per il mondo.
A proposito di questo atteggiamento più aperto sul
mondo, papa Francesco scrive: «L’ideale cristiano inviterà sempre a superare il sospetto, la sfiducia permanente, la paura di essere invasi, gli atteggiamenti difensivi che il mondo attuale ci impone (...). Nel frattempo, il
42
Francesco, Evangelii gaudium, n. 47: «L’eucaristia, sebbene
costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i
perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli. Queste
convinzioni hanno anche conseguenze pastorali che siamo chiamati
a considerare con prudenza e audacia. Di frequente ci comportiamo
come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa
non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con
la sua vita faticosa»; Regno-doc 21,2013,650. Nell’Evangelii gaudium,
n. 47, papa Francesco rimanda a sant’Ambrogio, De sacramentis, IV,
6,28; PL 16,464; SC 25,87: «Devo riceverlo sempre, perché sempre
perdoni i miei peccati. Se pecco continuamente devo avere sempre un
rimedio».
43
Nella loro proposta, vi erano indicate condizioni chiare: che
le persone risposate esprimano un sincero dispiacere per il fallimento
del primo matrimonio; che esse continuino a osservare gli obblighi
derivanti dal primo matrimonio; che un ritorno al primo matrimonio
sia definitivamente escluso; che non si possa rinunciare agli obblighi
derivanti dal nuovo matrimonio civile senza nuova negligenza e colpa;
che ci si impegni onestamente a vivere questo nuovo matrimonio in
una spirito cristiano ed educando i figli nella fede; che si desiderino
i sacramenti come sorgente di forza nella nuova situazione che si è
venuta a creare; cf. W. Kasper, Das Evangelium von der Familie. Die
Rede vor dem Konsistorium, Herder, 2014, 65-66 (trad. it. Il Vangelo
della famiglia, Queriniana, Brescia 2014); Regno-doc. 19,1993,613.
44
Cf. Instrumentum laboris, n. 95; Supplemento a Regno-doc.
13,2014,461.
45
Cf. Instrumentum laboris, nn. 95.153; Supplemento a Regnodoc. 13,2014,461.471.
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hiese nel mondo
Vangelo ci invita sempre a correre il rischio dell’incontro
con il volto dell’altro, con la sua presenza fisica che interpella, col suo dolore e le sue richieste, con la sua gioia
contagiosa in un costante corpo a corpo. L’autentica fede
nel figlio di Dio fatto carne è inseparabile dal dono di
sé, dall’appartenenza alla comunità, dal servizio, dalla
riconciliazione con la carne degli altri. Il figlio di Dio,
nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione
della tenerezza».46
Nell’evangelizzazione si tratta innanzitutto della
persona di Gesù Cristo. Che la gente trovi o meno la
Chiesa credibile, ha soprattutto a che fare con il modo in
cui ella sa rappresentare l’immagine di Gesù. Ecco cosa
scrive papa Francesco a questo riguardo: «Tutta la vita
di Gesù, il suo modo di trattare i poveri, i suoi gesti, la
sua coerenza, la sua generosità quotidiana e semplice, e
infine la sua dedizione totale, tutto è prezioso e parla alla
nostra vita personale. (…) Affascinati da tale modello,
vogliamo inserirci a fondo nella società, condividiamo la
vita con tutti, ascoltiamo le loro preoccupazioni, collaboriamo materialmente e spiritualmente nelle loro necessità, ci rallegriamo con coloro che sono nella gioia, piangiamo con quelli che piangono e ci impegniamo nella
costruzione di un mondo nuovo, gomito a gomito con
gli altri. Ma non come obbligo, non come un peso che ci
esaurisce, ma come una scelta personale che ci riempie
di gioia e ci conferisce identità».47
8. Un Sinodo con una sfida
Le pagine precedenti possono aver dato l’impressione che io mi aspetti dal Sinodo soltanto approvazione
e incoraggiamento, come se la nostra visione occidentale
e nordeuropea del matrimonio e della famiglia dovesse
divenire la norma per tutti. Non è così. Matrimonio e
famiglia attraversano dalle nostre parti un tempo difficile. Lo sappiamo per esperienza. Il numero di matrimoni che non resistono è molto alto. I giovani esitano a
sposarsi, sia civilmente sia in chiesa. Il numero di figli a
famiglia è molto basso (eccetto per le nuove famiglie di
origine straniera).
Il numero di suicidi è molto alto e preoccupante e
per giunta a una età sempre più bassa. Il matrimonio
come istituto trova poco sostegno dalle autorità e dagli
ambienti socio-economici. Il divario tra famiglie ricche
e povere si allarga costantemente. Esistono cifre e statistiche per tutte queste constatazioni. Ciò non significa
che in altri paesi non esistano problemi o non abbiano
altri problemi; solamente che noi non possiamo negare
i nostri problemi. Senza onestà non andiamo lontano.
Meglio un dialogo coraggioso che nessun dialogo.
Nella Chiesa è come nello sport: un allenatore che
smette di allenare appena i primi cominciano a soffiare
e a sospirare, con questa squadra non vincerà mai un
campionato. Un bravo allenatore non può aver paura o
essere meschino; egli deve mantenere con coraggio alto il
livello, persino quando ci sono lamentele o resistenze. In
questo senso il prossimo Sinodo, per me, può rivolgerci
alcune sfide. Può benissimo ripassare la palla nel nostro
560
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campo calciandola con forza. Del resto, non dobbiamo
aspettare finché altri o un Sinodo rimettano la palla nel
nostro campo. Dobbiamo essere in grado di fare noi
stessi la nostra valutazione. Vedo in ogni caso tre linee
lungo le quali la palla potrà arrivarci di nuovo.
Livello di vita e scala di valori
La prima linea è quella del nostro livello di vita e
della nostra scala di valori. Proprio nel nostro Occidente
benestante emerge di nuovo la domanda su cosa renda
felice l’uomo. Ora che abbiamo quasi tutto ciò che una
società moderna è in grado di offrire, il motore del nostro
senso di felicità comincia a perder colpi. Noi sappiamo
meglio «ciò che abbiamo» che «chi noi siamo». E «chi
noi siamo» ha tutto a che fare con il radicamento relazionale della nostra vita: la nostra cerchia di amici, il nostro
compagno o compagna di vita, il nostro matrimonio, il
nostro focolare e la nostra famiglia.
Io «sono» l’amico o l’amica di, il marito o la moglie
di, il papà o la mamma di, il nonno o la nonna di, lo zio
o la zia di, il nipote o la nipote di, il vicino o la vicina di…
Quanti legami relazionali non abbiamo già sacrificato al
concorso della produttività e l’efficienza, lo studio e la
formazione permanente, il risparmio e l’investimento, il
voler contare ed eccellere?
Il prezzo relazionale di questa corsa assomiglia al debito dello stato belga: lo stiamo pagando a caro prezzo.
Su questo punto il Sinodo può ben rinviare la palla
nella nostra metà. Difatti, abbiamo molto da imparare e
da osare nuovamente: che il tempo dedicato al proprio
partner o alla propria famiglia non è un tempo perso;
che la paternità di un uomo lo rende un altro uomo;
che la maternità di una donna la rende un’altra donna;
che i figli e i nipoti ci ringiovaniscono e ci rinnovano
(anche se crescono i capelli bianchi); che la cura che i
componenti di una famiglia hanno gli uni per gli altri,
soprattutto nei giorni difficili, è un fattore di grandezza
umana e può essere fonte di pace; che un bambino può
aggiungere al libro della nostra vita proprio quel capitolo che mancava; che le relazioni svelano il loro ultimo
segreto soltanto lungo la strada della perseveranza; che
l’amore di Dio e il nostro amore s’incontrano nel sacrificio che insieme viviamo. Possiamo guardare queste
sfide negli occhi?
La comunità ecclesiale
La seconda linea è quella della comunità ecclesiale.
La Chiesa fa alla gente una proposta alta e ha fiducia
nelle loro opportunità di crescita. Crede nel valore del
matrimonio, edificato su un legame che dura per la vita.
Insiste sul legame essenziale tra amore e fecondità generosa. Vede matrimonio e famiglia come uno dei luoghi
principali dove vivere l’alleanza fedele e misericordiosa
di Dio con questo mondo. È in questa direzione che la
Chiesa vuole guidare gli uomini, rispettando il loro cammino di crescita. Invita tutti, qualunque sia la loro situazione relazionale o famigliare, ad accogliere la parola di
Dio nella loro vita e ad assumere le proprie responsabilità come cristiani.
Tuttavia, una missione del genere è difficile da com-
piere se si conta solo sulle proprie forze. Si ha bisogno di
altri per lavorare insieme a questo progetto di vita. Su
questo punto, la Chiesa è certamente carente. Le nostre
comunità parrocchiali spesso non sono più in grado di
animare e accompagnare le (giovani) famiglie in modo
adeguato. Le coppie si sentono talvolta, a torto o a ragione, abbandonate dalla Chiesa. C’è molto da fare su
questo punto! L’Instrumentum laboris recita a proposito:
«Il primo sostegno viene da una parrocchia vissuta come
“famiglia di famiglie”, identificata come il centro principale di una pastorale rinnovata, fatta di accoglienza e
di accompagnamento, vissuto nella misericordia e nella
tenerezza».48
Società e autorità civile
La terza linea è quella della società e dell’autorità
civile. Quello che una maggioranza di cittadini pensa e
desidera, determina in un paese democratico la politica
del governo. Questa politica ha molto a che fare con
i diritti e le libertà personali di ognuno. I governi per
altro preferiscono occuparsi dei cittadini individualmente e delle loro aspirazioni personali. La società
civile, come l’impegno di gruppi e movimenti o la riuscita di una famiglia, non rientrano nelle loro prime
preoccupazioni.
E tuttavia, questi livelli intermedi hanno un ruolo
essenziale nella costruzione di una società vitale e
degna dell’uomo. Un paese che vuole un futuro, ha effettivamente bisogno di famiglie solide, e soprattutto di
famiglie con bambini. Quale politica seguono i nostri
governi e che importanza riconoscono al matrimonio,
alla famiglia e all’accoglienza dei figli? A ragione, mi
sembra, l’Instrumentum laboris, dà uno spunto sulla
famiglia come «soggetto sociale»: «Le famiglie non
sono solo oggetto di protezione da parte dello stato, ma
devono recuperare il loro ruolo come soggetti sociali.
Tante sfide appaiono in questo contesto per le famiglie:
il rapporto tra la famiglia e il mondo del lavoro, tra la
famiglia e l’educazione, tra la famiglia e la sanità; la
capacità di unire tra di loro le generazioni, in modo che
non si abbandonino i giovani e gli anziani; lo sviluppo
di un diritto di famiglia che tenga conto delle sue specifiche relazioni; la promozione di leggi giuste, come quelle
che garantiscono la difesa della vita umana dal suo concepimento e quelle che promuovono la bontà sociale
del matrimonio autentico tra l’uomo e la donna» (n.
34; Regno-doc. 13,2014,451). Che qualcuno lanci pure
questa palla nella nostra metà!
Con queste considerazioni, non voglio precedere il
Sinodo, e ancor meno far lezione a qualcuno. Voglio
solo fare appello all’apertura e al dialogo costruttivo.
Chi esterna delle riflessioni o avanza delle proposte, deve
poter anche interrogare se stesso e correggersi. Abbiamo
molto da imparare e da ricevere gli uni dagli altri, anche
e soprattutto in una Chiesa che vuole essere «la casa e la
scuola della comunione».49
Francesco, Evangelii gaudium, n. 88; Regno-doc. 21,2013,658.
Francesco, Evangelii gaudium, nn. 265.269; Regno-doc.
21,2013,689.690.
46
47
In conclusione
Le mie considerazioni si sono fatte più lunghe di
quanto previsto inizialmente. Leggendo e scrivendo ho
scoperto la complessità delle molte domande e sfide,
sia sul piano teologico sia su quello pastorale. È chiaro
come tutti questi argomenti costituiscono un programma
troppo vasto per uno e persino per due Sinodi. Essi richiedono un processo di studio e di riflessione, e soprattutto un nuovo tipo di approccio, che richiede comunque
il suo tempo.
La cosa meno buona che il Sinodo potrebbe fare, sarebbe, a mio parere, voler arrivare rapidamente a qualche conclusione di ordine pratico. Sarebbe meglio che
esso potesse mettere in moto un processo diversificato in
cui si sentissero coinvolte più persone possibili: vescovi,
teologi moralisti, canonisti, pastori, uomini e donne di
scienza e politici, e soprattutto i coniugi e le famiglie delle
quali si tratta.
Sarebbe comunque curioso che la Chiesa come «casa
e scuola di comunione» ne uscisse fuori con meno pazienza, meno interazione e meno flessibilità del matrimonio o della famiglia come «casa e scuola di comunione»!
1o settembre 2014.
✠ Johan Bonny,
vescovo di Anversa
Preparazione
e accompagnamento
card. Vincent Nichols, Westminster
Domani, papa Francesco presiederà i matrimoni di
20 coppie nella Basilica di San Pietro. Sarà senza dubbio
un momento straordinario per questi 40 uomini e donne,
un momento speciale per loro personalmente e per le
loro famiglie, ma anche un momento simbolico rispetto
all’unicità che riveste il matrimonio in quanto uno dei
sette sacramenti della Chiesa cattolica.
Tra tre settimane, si svolgerà un altro momento straordinario: la III Assemblea generale straordinaria del
Sinodo dei vescovi avrà inizio a Roma. I presidenti delle
conferenze episcopali di tutto il mondo sono stati chiamati da papa Francesco a riunirsi per discutere il tema
del Sinodo: «Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto
dell’evangelizzazione». In quanto presidente della Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles, è mio privilegio rappresentare i vescovi di questo paese al Sinodo.
Come sapete, c’è stata molta preparazione per questo Sinodo. In un primo momento è stato pubblicato
48
Instrumentum laboris, n. 46; Supplemento a Regno-doc.
13,2014,453.
49
Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, n. 43; EV 20/85.
Il Regno -
documenti
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561
C
hiese nel mondo
il Documento preparatorio, che ha definito in modo più
dettagliato il tema da discutere al Sinodo (cf. Regno-doc.
21,2013,695ss).
Successivamente, c’è stata la consultazione condotta
dalla Santa Sede a livello mondiale per consentire al
maggior numero di fedeli possibile di avere l’opportunità
di contribuire ai lavori del Sinodo. Questa consultazione
ha prodotto relazioni di sintesi da 114 conferenze episcopali dei cinque continenti che sono state inviate alla
Segreteria del Sinodo.
In un terzo momento, c’è stata la pubblicazione
dell’Instrumentum laboris, il documento di lavoro per il
Sinodo di ottobre, che ha presentato i risultati della consultazione (cf. Supplemento a Regno-doc. 13,2014,441ss).
Come afferma l’introduzione di questo documento, «esso
offre un ampio quadro, sia pur non esaustivo, della situazione familiare odierna, delle sue sfide e delle riflessioni
che suscita» (ivi, 445).
Queste tre fasi di preparazione, e soprattutto il Sinodo
stesso, sono le finestre, per così dire, che papa Francesco
ha creato per guardare fuori e vedere com’è trasmesso e
ricevuto in tutto il mondo l’insegnamento della Chiesa
sul matrimonio e la vita familiare.
Senza dubbio, papa Francesco pone la Chiesa di
fronte a una grande sfida. Il Documento preparatorio per
il Sinodo ha dichiarato in modo abbastanza coraggioso:
«Le attese (…) circa le scelte pastorali riguardo alla famiglia sono amplissime. Una riflessione del Sinodo dei
vescovi su questi temi appare perciò tanto necessaria
e urgente, quanto doverosa come espressione di carità
dei pastori nei confronti di quanti sono a loro affidati e
dell’intera famiglia umana» (Documento preparatorio, I;
Regno-doc. 21,2013,696).
Allo stesso modo, il cardinale Baldisseri, segretario generale del Sinodo dei vescovi, ha dichiarato in maniera molto
chiara che papa Francesco «vuol far capire che la Chiesa
non si esime dall’affrontare sfide, ma le assume con tutta responsabilità, vuole camminare con i tempi, accompagnare
la gente, condividere le gioie e le pene, le speranze e le sofferenze umane, e lo vuol fare con chiarezza, determinazione
e verità» (intervista al SIR del 31.03.2014).
Quali strategie pastorali?
Il Sinodo del prossimo mese di ottobre (un’assemblea
generale straordinaria del Sinodo dei vescovi) sarà solo la
conclusione della prima fase di questa riflessione su scala
mondiale riguardo la pastorale del matrimonio e della
vita familiare. Sarà compito dell’Assemblea generale ordinaria nel mese di ottobre 2015 riflettere e continuare
il lavoro del Sinodo del prossimo ottobre, per arrivare a
definire adeguate linee guida pastorali per la cura pastorale del matrimonio e della vita familiare per il futuro.
Queste sfide al matrimonio e alla vita familiare sono
state riassunte nell’esortazione apostolica di papa Francesco Evangelii gaudium, dove il santo padre ha affermato: «La famiglia attraversa una crisi culturale profonda, come tutte le comunità e i legami sociali. Nel caso
della famiglia, la fragilità dei legami diventa particolar-
562
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documenti
17/2014
mente grave perché si tratta della cellula fondamentale
della società, del luogo dove si impara a convivere nella
differenza e ad appartenere ad altri e dove i genitori trasmettono la fede ai figli. Il matrimonio tende a essere
visto come una mera forma di gratificazione affettiva che
può costituirsi in qualsiasi modo e modificarsi secondo
la sensibilità di ognuno. Ma il contributo indispensabile
del matrimonio alla società supera il livello dell’emotività e delle necessità contingenti della coppia. (…) non
nasce dal sentimento amoroso, effimero per definizione,
ma dalla profondità dell’impegno assunto dagli sposi che
accettano di entrare in una comunione di vita totale»
(Evangelii gaudium, n. 66; Regno-doc. 21,2013,654).
Tra le tante sfide individuate nell’Instrumentum laboris
per i vescovi che saranno presenti al Sinodo il prossimo
ottobre, ci sono due questioni specifiche che riguardano
anche chi di noi partecipa al convegno oggi: l’importanza
della preparazione al matrimonio e il sostegno che la
Chiesa può offrire alle famiglie che vivono difficoltà nelle
relazioni e in particolare nelle situazioni di separazione e
fallimento di un matrimonio e della vita familiare.
C’è forse un presupposto di dominio comune secondo
cui il valore e l’importanza del matrimonio, anche tra
i cattolici, non siano più apprezzati. Eppure l’Instrumentum laboris ci informa che «un dato importante che
emerge dalle risposte è che anche di fronte a situazioni
assai difficili, molte persone, soprattutto giovani, percepiscono il valore del legame stabile e duraturo ed esprimono un vero e proprio desiderio di matrimonio e famiglia». Il documento afferma inoltre che «il “desiderio
di famiglia” si rivela come un vero segno dei tempi, che
domanda di essere colto come occasione pastorale» (Supplemento a Regno-doc. 13,2014,453).
Obiettivi a cui stiamo lavorando
Questa opportunità per il ministero pastorale – di
promuovere efficaci strategie pastorali per rafforzare il
matrimonio e la vita familiare in ogni diocesi – è già stata
identificata dalla Conferenza episcopale di Inghilterra e
Galles come una delle sue priorità strategiche.
Tra gli obiettivi su cui si sta lavorando in relazione a
queste priorità vi sono:
– la creazione di un programma nazionale per la
preparazione al matrimonio, che sostenga il lavoro dei
singoli vescovi nella preparazione al matrimonio e garantisca maggiore fiducia tra i fedeli verso questo servizio
cristiano;
– la creazione di strutture più solide per la preparazione, la formazione permanente e la supervisione dei
volontari coinvolti nella preparazione al matrimonio;
– l’estensione dell’accesso delle coppie di fidanzati ai
programmi di preparazione al matrimonio;
– il miglioramento della comunicazione tra le diocesi
e le organizzazioni coinvolte nella preparazione al matrimonio;
– lo sviluppo di uno strumento di valutazione comune, in modo che l’impatto dei diversi programmi in
uso possa essere meglio valutato.
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GIORGIO CAMPANINI
Il ruolo di Marriage Care
Sono perciò molto grato per la presentazione che il
vostro direttore, Mark Molden, ha proposto ai vescovi
durante la loro Assemblea plenaria di primavera all’inizio di quest’anno. Quella presentazione ha segnato un
passo importante nel ripristinare e rafforzare il legame
tra Marriage Care e la Conferenza episcopale.
È mia speranza infatti, in quanto vostro presidente,
ed è la speranza dei vescovi, che Marriage Care, essendo
una fondazione cattolica, non solo continui a svolgere il
suo compito, ma cerchi di svolgere una parte sempre più
importante nell’offerta della preparazione al matrimonio
per la Chiesa cattolica in Inghilterra e Galles.
Così come è importante sviluppare ed estendere la
preparazione al matrimonio, è chiaro che, come afferma
l’Instrumentum laboris del Sinodo, «è necessario che la
Chiesa si prenda cura di famiglie che vivono in situazioni di crisi e di stress; che la famiglia sia accompagnata
durante tutto il ciclo della vita. La qualità delle relazioni
al suo interno deve essere una delle preoccupazioni cruciali della Chiesa» (n. 46; Supplemento a Regno-doc.
13,2014,453).
In questo ambito, i risultati della consultazione in
preparazione al Sinodo ribadiscono il desiderio di papa
Francesco di non evitare le sfide. La realtà delle situazioni critiche che si sviluppano all’interno dei matrimoni
e delle famiglie, le separazioni e i fallimenti, la violenza e
l’abuso sono chiaramente riconosciuti.
I fallimenti dei matrimoni, le ferite e il dolore che li
accompagnano, l’impatto psicologico di questi fallimenti
sui bambini e sulle famiglie non vengono modificati dalla
condanna e dalla colpevolizzazione, possono invece essere riscattati dalla misericordia che apre la strada alla
riconciliazione. In questo, l’Instrumentum laboris per il
Sinodo è eloquente: «“La Chiesa è chiamata a essere
sempre la casa aperta del Padre. (…), la casa paterna
dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa”
(Evangelii gaudium, n. 47; Regno-doc. 21,2013,650). La
vera urgenza pastorale è quella di permettere a queste
persone di curare le ferite, di guarire e di riprendere a
camminare insieme a tutta la comunità ecclesiale. La
misericordia di Dio non provvede a una copertura temporanea del nostro male, altresì, apre radicalmente la
vita alla riconciliazione, conferendole nuova fiducia e
serenità, mediante un vero rinnovamento. La pastorale
familiare, lungi dal chiudersi in uno sguardo legalista, ha
la missione di ricordare la grande vocazione all’amore
a cui la persona è chiamata, e di aiutarla a vivere all’altezza della sua dignità» (n. 80; Supplemento a Regno-doc.
13,2014,458).
Sono convinto che la misericordia come strada verso
la riconciliazione e il perdono nelle relazioni umane e
nelle relazioni con la Chiesa sarà un tema importante e
ricorrente nelle riflessioni del Sinodo straordinario.
Sebbene il sostegno iniziale da parte della Chiesa per
le relazioni familiari cominci nella parrocchia, altre organizzazioni possono svolgere un ruolo significativo in
collaborazione con, e in appoggio a quel sostegno. Anche
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documenti
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Bene
comune
Declino e riscoperta di un concetto
I
l concetto di bene comune stenta oggi a essere
assunto come punto di riferimento nelle società
occidentali. Confinato tra le glorie del passato,
anche a causa della frattura tra etica e politica,
è tuttavia un’istanza destinata a riproporsi in uno
scenario deturpato da chiusure e privilegi riservati
a pochi. Anche l’emergere di nuove problematiche,
a partire da quelle ambientali, richiede di ripensare
il concetto in una prospettiva universalistica capace
di ricollocare l’uomo al centro della riflessione.
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La dottrina sociale della Chiesa:
le acquisizioni e le nuove sfide
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C
hiese nel mondo
in questo caso, Marriage Care ha tutti i requisiti per svolgere un ruolo significativo.
È però importante in questa collaborazione che la
preparazione al matrimonio e il sostegno alle relazioni
familiari che Marriage Care offre non siano solo ispirati
dalla dottrina della Chiesa cattolica, ma le siano fedeli in
tutti gli aspetti.
Una prima ragione deriva dalla visione ricca e coerente della persona umana che si manifesta nella persona
di Gesù Cristo ed è proclamata nell’insegnamento della
Chiesa. È anche l’assenza di quella visione da gran parte
della nostra società che sta al centro delle sfide che dobbiamo affrontare e che ha portato all’isolamento e alla
privatizzazione di gran parte della vita familiare di oggi.
Dimensione umana;
dimensione di fede
Senza dubbio, i risultati della consultazione in preparazione al Sinodo descrivono le reali situazioni pastorali
in cui molte coppie vivono prima di assumere un impegno
reciproco nel matrimonio. Nonostante quindi la realtà
contemporanea di tali rapporti e situazioni in cui molte
coppie si presentano per il matrimonio nella Chiesa cattolica, la preparazione al matrimonio che cerchiamo di
offrire deve fornire non solo un rafforzamento delle dimensioni umane del rapporto coniugale, ma anche della
sua dimensione di fede sia nella sua intima natura come
riflesso del mistero di Cristo e della sua Chiesa, sia nella
vocazione della famiglia a una testimonianza fedele e continua a Cristo nella società contemporanea. Una simile
preparazione richiede un approccio integrato in cui siano
coinvolti i sacerdoti, i collaboratori parrocchiali volontari,
i programmi diocesani e le altre organizzazioni.
La Chiesa deve anche tenere in massima considerazione che qualsiasi rinnovamento delle sue attività pastorali
a sostegno della famiglia dovrebbe dare priorità ai bisogni
dei bambini e alla vocazione alla genitorialità. La preparazione alla genitorialità e il sostegno ai genitori che spesso
vivono grandi fatiche nel far crescere i loro figli sono ambiti
che devono essere significativamente rafforzati all’interno
della Chiesa. Di nuovo, l’esperienza e la storia di Marriage
Care in questo contesto hanno molto da offrire.
Nato negli anni dopo la seconda guerra mondiale,
Marriage Care ha una storia encomiabile nel sostegno
all’interno della comunità cattolica delle famiglie le cui
vite e rapporti risentivano del logoramento che il conflitto aveva generato in così tanti uomini, donne e nei
loro bambini. Sono consapevole – e desidero esprimere
la mia riconoscenza – dell’ampia rete di volontari delle
parrocchie cattoliche dell’Inghilterra e Galles che si è
creata a partire da quei primi anni di attività e vedo il
loro lavoro all’interno di Marriage Care come un contributo concreto alla vita e alla missione della Chiesa.
Allo stesso modo sono consapevole, e in ugual modo
desidero esprimere la mia riconoscenza, della generosità e
dedizione di molti membri di Marriage Care che, sebbene
non siano membri della Chiesa cattolica, ne condividono
l’impegno nel sostenere il matrimonio e la vita familiare.
564
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La competenza che si è andata consolidando all’interno
del gruppo di volontari che sostengono Marriage Care è
notevole e rappresenta una vasta risorsa per il lavoro di preparazione al matrimonio e di cura delle relazioni familiari.
Apprezzo i legami e la collaborazione che nel tempo
si sono forgiati sia a livello nazionale sia locale tra i volontari e i centri di Marriage Care con i coordinatori
diocesani e locali del servizio «Matrimonio e vita familiare». Per offrire in modo adeguato la cura necessaria
alla preparazione al matrimonio e alle relazioni, è indispensabile che condividiamo una visione comune su ciò
che costituisce il matrimonio e quali principi governino
la cura delle relazioni familiari che di esso sono parte.
La mia speranza è che tali legami e la collaborazione
possano essere rafforzate.
Chiaramente, la missione principale e l’opera di Marriage Care in quanto organizzazione caritatevole è da
ricercarsi nel suo nome, sia che ci si riferisca alla dicitura ufficiale «Catholic Marriage Care Ltd» sia nella sua
forma abbreviata e di uso comune di «Marriage Care». I
suoi obiettivi indicano che tutti i servizi di Marriage Care
servono per «promuovere e sostenere il matrimonio e la
vita familiare in accordo con la visione della Chiesa del
matrimonio come vocazione di vita e di amore». Quello
che mi auguro pertanto sia sempre chiaramente posto
al centro della visione e del lavoro di Marriage Care, è
la cura sia per il matrimonio come istituzione, secondo
il significato della Chiesa cattolica, sia per le coppie che
concretamente incarnano tale istituzione.
Nel discorso alla conferenza annuale di Marriage
Care nel 2013, il vostro direttore Mark ha detto: «Ho
la reale sensazione che l’anno a venire sarà un periodo
piuttosto emozionante!». Beh, Mark, con la preparazione che ha avviato e con il Sinodo dei vescovi che ha
convocato, credo che papa Francesco stia certamente
offrendo a tutti noi un periodo emozionante!
Alla santa famiglia
Ho iniziato parlando di un momento simbolico: la
celebrazione del matrimonio di 20 coppie a Roma. Lunedì scorso, un’altra icona della famiglia è stata rivelata;
l’icona che sarà l’immagine centrale per la riflessione
all’Incontro mondiale delle famiglie a Filadelfia nel 2015.
L’icona raffigura la Sacra famiglia. All’interno dell’icona, però, non c’è solo il bambino Gesù, con la vergine
Maria e san Giuseppe; in piedi, dietro e vicino a loro
sono sant’Anna e san Gioacchino, la madre e il padre di
Maria e nonni di Gesù. Nel mese di giugno, in una messa
per celebrare gli anniversari di matrimonio di 15 coppie,
papa Francesco ha parlato nella sua omelia di tre pilastri
della relazione sponsale secondo la visione cristiana del
matrimonio: fedeltà, perseveranza, fecondità.
L’icona ci ricorda che quando contempliamo il matrimonio cristiano, comprendiamo che la sua vera fedeltà,
perseveranza e fecondità sono generate dalla presenza
di Dio onnipotente e sono sostenute da una famiglia allargata insieme a nonni, parenti e amici. Vorrei quindi
terminare il mio intervento con la preghiera alla santa
famiglia che conclude l’Instrumentum laboris per il prossimo Sinodo straordinario dei vescovi:
Gesù, Maria e Giuseppe,
in voi contempliamo
lo splendore dell’amore vero,
a voi con fiducia ci rivolgiamo.
Santa famiglia di Nazaret,
rendi anche le nostre famiglie
luoghi di comunione e cenacoli di preghiera,
autentiche scuole del Vangelo
e piccole Chiese domestiche.
Santa famiglia di Nazaret,
mai più nelle famiglie si faccia esperienza
di violenza, chiusura e divisione:
chiunque è stato ferito o scandalizzato
conosca presto consolazione e guarigione.
Santa famiglia di Nazaret,
il prossimo Sinodo dei vescovi
possa ridestare in tutti la consapevolezza
del carattere sacro e inviolabile della famiglia,
la sua bellezza nel progetto di Dio.
Gesù, Maria e Giuseppe,
ascoltate, esaudite la nostra supplica.
Amen.
Daventry, 13 settembre 2014.
✠ Vincent card. Nichols,
arcivescovo di Westminster
La famiglia
in Africa, oggi
I vescovi della ACERAC
Introduzione
Dal 6 al 13 Luglio 2013 si è svolta a Brazzaville (Repubblica del Congo) la X Assemblea plenaria dell’Associazione delle Conferenze episcopali della regione dell’Africa centrale (ACERAC) sul tema «La famiglia in Africa
oggi», che fa seguito a precedenti incontri sulla donna,
a Malabo (Guinea equatoriale) nel 2002, sui giovani, a
N’Djamena (Ciad) nel 2005, e più recentemente al Congresso di Libreville (Gabon), nel 2013, e anticipa altresì i
prossimi Sinodi della Chiesa universale sulla famiglia.
I. La famiglia cristiana oggi
1. Importanza della famiglia
La famiglia è il fondamento su cui è costruita la società che si assume il compito di promuoverla, proteggerla e difenderla. È il contesto in cui nasce la persona
umana, si realizza il suo essere e il suo destino. È lì che
riceve il nome, è riconosciuta, identificata e introdotta
in una rete complessa di relazioni organizzate, che permettono il vivere insieme. È ancora lì che riceve la sua
prima educazione. Perciò la famiglia ha un significato e
un ruolo rilevante in ogni esperienza umana. Questo è
particolarmente vero nel nostro contesto africano.
2. La crisi della famiglia oggi
Come ovunque nel mondo, anche in Africa, la famiglia subisce i contraccolpi dei cambiamenti socioculturali. Le tensioni socio-politiche si ripercuotono in
maniera insidiosa sul nucleo familiare. Sotto gli effetti
della civiltà contemporanea segnata da utilitarismo, individualismo e avidità, la gratuità, che è l’essenza dell’amore, si sbriciola a vantaggio del profitto. I valori delle
famiglie tradizionali sono messi in discussione. Relazioni
sessuali, in passato marginali, vorrebbero vedersi riconosciute, autenticate e legalizzate.
3. La famiglia cristiana
Questa crisi colpisce in modo particolare la famiglia
e il matrimonio cattolico. Infatti, la Chiesa cattolica nel
suo ruolo di mater et magistra ricorda che la persona
umana è fondamentalmente chiamata all’amore. Creata
a immagine e somiglianza di Dio, la persona, nella sua
natura, vive un mistero di apertura agli altri e alla comunione. È proprio nella famiglia che si realizza in maniera
privilegiata questa vocazione.
Da qui la definizione di famiglia innanzitutto come
«una comunità di vita e di amore». Comunità di persone che è la prima cellula della società e dove la persona
umana trova le sue radici, il suo luogo originario di vita
e di realizzazione, il suo punto d’inserimento non solo
nella famiglia umana, ma anche nella Chiesa-«famiglia
di Dio». È per questo motivo che la famiglia è anche il
luogo attraverso il quale passa il futuro dell’umanità e
della Chiesa.
4. La famiglia e il matrimonio
La famiglia trova la propria origine nel matrimonio
che è l’unione socialmente e/o sacramentalmente riconosciuta tra un uomo e una donna. Non c’è riflessione
sulla famiglia che non passi attraverso una riflessione sul
matrimonio, dal momento che le due realtà sono connesse e non devono essere considerate l’una senza l’altro.
Infatti, è il matrimonio che fonda la famiglia e segna il
passaggio dalla comunione tra i due coniugi alla comunità familiare. La Bibbia dice infatti: «Dio creò l’uomo
a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e
femmina li creò» (Gen 1,27). O ancora: «L’uomo lascerà
suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due
saranno un’unica carne» (Gen 2,24).
5. L’impegno della Chiesa cattolica
In considerazione della crisi e di tutte le difficoltà che
riguardano la famiglia africana in generale e la famiglia
cristiana in particolare, l’ACERAC ha deciso di dedicare
la sua riflessione attuale sul tema generale della famiglia
e più in particolare della famiglia cristiana. Si tratta, nel
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C
hiese nel mondo
contesto della nuova evangelizzazione, di elaborare una
nuova pastorale familiare in grado di rispondere alle
principali sfide del nostro tempo.
II. Deliberazioni
Per questo motivo, riunita a Brazzaville per la sua X
Assemblea plenaria, l’ACERAC adotta le seguenti deliberazioni.
1. Ristrutturare la pastorale della famiglia
Nelle diverse diocesi e conferenze episcopali, esistono
pastorali della famiglia. È opportuno armonizzarle e ristrutturarle, dando loro mezzi umani e materiali. A questo scopo, è necessario creare e rendere operative commissioni per la famiglia nel contesto dell’ACERAC, delle
conferenze episcopali e delle diocesi.
2. Migliorare la preparazione al matrimonio
Poiché il matrimonio è una vocazione, bisogna prepararsi con serietà. Questa preparazione avverrà attraverso una serie di tappe: preparazione a lungo termine
nell’ambiente familiare; preparazione prossima e immediata al momento del fidanzamento. Essa deve essere
assicurata congiuntamente dalla famiglia, dai sacerdoti
e da un gruppo di laici coinvolti nella pastorale della famiglia, in centri appropriati.
3. Armonizzare le tre forme
di celebrazione del matrimonio
Attualmente in Africa vi sono tre forme di celebrazione del matrimonio: il matrimonio tradizionale, quello
civile e quello cattolico. Ciò pone il problema del costo
economico del matrimonio e dissuade i giovani dall’impegnarsi. La Chiesa cercherà di armonizzare le tre forme
di celebrazione, facendo in modo che ciascuna conservi
il proprio significato originario.
4. Educare all’amore
Nel contesto contemporaneo, caratterizzato da egoismo, utilitarismo ed edonismo, un accento particolare
deve essere posto sull’amore agape, l’amore oblativo e
gratuito che si nutre di perdono.
5. Sostenere le coppie
La celebrazione del matrimonio non è il risultato di
un processo. È una nuova vita che inizia. Questa nuova
avventura deve essere sostenuta nella Chiesa. Da qui
l’importanza di strutture di condivisione e di sostegno
per le coppie sposate.
6. Formare gli operatori pastorali
Promuovere strutture di sostegno richiede operatori
pastorali formati in questo ministero. Sarà opportuno
che ogni diocesi invii sacerdoti, suore, religiosi, coppie
di laici presso il Pontificio istituto Giovanni Paolo II a
Cotonou, Benin, o altrove per compiere gli studi sul
matrimonio e la famiglia. Un corso di pastorale familiare dovrebbe essere inserito nel programma di forma-
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zione dei futuri sacerdoti, per prepararli ad assumere le
proprie responsabilità nell’animazione della pastorale
familiare.
7. Formare le famiglie
La vita familiare non è facile e non si può improvvisare. Di qui l’importanza della formazione nelle famiglie.
Formazione umana per imparare a conoscersi e a vivere
relazioni armoniose. Formazione socio-antropologica
che permetta di comprendere il contesto culturale, sociale, politico ed economico. Formazione cristiana per la
comprensione delle radici bibliche, teologiche e morali
della nostra vita di fede.
8. Testimoniare la propria vita di fede
Ogni membro della famiglia deve essere pronto «a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza
che è in voi» (1Pt 3,15). Non c’è vita cristiana senza testimonianza implicita ed esplicita. La parola di Dio irradia
il cristiano e lo incita a vivere come Cristo e a testimoniarlo. Attraverso la testimonianza, famiglie cristiane
evangelizzano altre famiglie.
9. Impegnarsi socialmente
Le famiglie non devono chiudersi in se stesse. Esse
devono impegnarsi per la trasformazione della società in
campo sociale, giuridico e politico, diffondere un’atmosfera cristiana nei vari ambiti della società, lottare contro
le false ideologie e spiritualità, le ingiustizie sociali e i
difetti morali della società.
10. Educare i bambini
I genitori sono i primi e principali educatori dei propri figli. La famiglia è la prima scuola ai valori, di cui
nessuna società può fare a meno. Questa educazione
inizia con la presenza fisica effettiva di entrambi i genitori in famiglia. Essa comprende l’educazione affettiva
e sessuale. Dobbiamo insegnare al bambino a conoscere il proprio corpo e rispettarlo. Infine, i giovani
saranno educati a prendersi cura e ad amare il lavoro
ben fatto, a sviluppare il loro pieno potenziale e avere
fiducia in sé stessi.
11. La vita spirituale in famiglia
La vita spirituale in famiglia si appoggia sui quattro
pilastri che il libro degli Atti degli apostoli propone (cf. At
2,42-47). La famiglia è radicata nell’ascolto della parola
di Dio, letta e meditata in famiglia e in comunione con
tutta la Chiesa. Si nutre della partecipazione regolare
all’eucaristia. Vive inoltre di preghiera che riunisce regolarmente tutti i membri della famiglia, pur mantenendo
il legame con la comunità locale. Infine, la famiglia è un
luogo di comunione, di condivisione, di scambio, un rifugio sicuro in cui è bello vivere, dove sappiamo celebrare
eventi felici.
12. Dialogare in famiglia
La coesione familiare passa attraverso un dialogo
franco e sincero. E richiede anche un’auto-valutazione.
Periodicamente, l’intera famiglia deve compiere una va-
R1f_Caritas:Layout 1 03/07/14 15.33 Pagina 1
CARITAS ITALIANA
lutazione degli obiettivi che si è prefissata, fare il punto
sui progetti realizzati e sulle difficoltà incontrate e fissare
nuovi obiettivi.
Famiglie sospese
13. Insistere sulla riconciliazione della famiglia
Alla luce dell’esortazione postsinodale Africae munus,
occorre ricordare che la nuova evangelizzazione per l’Africa è essenzialmente impegno per la riconciliazione.
Oggi, a causa delle numerose fratture che destrutturano
le famiglie, dobbiamo insistere su una pastorale familiare
di conversione, di perdono e riconciliazione.
Quaderno di riflessione teologico-pastorale
sulla famiglia in difficoltà nell’Italia delle false partenze
D
ai dati recenti dei Centri di Ascolto
della Caritas emerge che la famiglia è
pesantemente coinvolta dal disagio sociale
e dai contraccolpi della recente crisi economica. Come uscirne? La Chiesa svolge un
ruolo prezioso e insostituibile, anche se la
responsabilità ultima di intervento va sicuramente affidata alle istituzioni pubbliche.
14. Rivisitare la dote
Inizialmente, la dote era un simbolo, uno scambio di
doni per approfondire le relazioni tra le famiglie. Oggi è
snaturata e frena l’assunzione di responsabilità di molti
giovani. Inoltre, svaluta la dignità della donna, considerata come una merce. Si dovrebbe lavorare per restituire
alla dote il suo iniziale valore simbolico.
«PASTORALE DELLA CARITÀ»
15. Riaffermare il valore del celibato cristiano
La pastorale della famiglia non dovrebbe ignorare
il celibato cristiano, che è complementare alla vita coniugale ed è un altro segno della vocazione di amore
a cui tutti sono chiamati. In questo senso, celibi e sposati devono sostenersi a vicenda nelle loro vocazioni
specifiche.
16. Lottare contro la discriminazione
all’interno delle famiglie
Educazione alla mondialità e pedagogia dei fatti in tempo di crisi
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La preghiera
del mattino e della sera
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Ciclo delle quattro settimane
I
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La preghiera del mattino e della sera,
testo ufficiale minore per la «Liturgia delle Ore secondo il rito romano»
della Chiesa in Italia.
18. Avviare una pastorale attiva
per i matrimoni misti e interreligiosi
I matrimoni misti e interreligiosi possono porre delle
difficoltà per la coesione familiare e l’educazione dei
bambini. È importante sostenere in modo molto particolare i giovani che vogliono impegnarsi in una simile
relazione e aiutarli in un adeguato discernimento, in particolare con l’aumento dell’estremismo.
19. Resistere alle sette
Le sette, di origine sia africana sia occidentale o orientale, continuano a portare la devastazione nelle nostre
Chiese e nelle nostre famiglie, seminano la divisione e la
confusione. La pastorale familiare deve proteggere i cristiani cattolici dalle sette attraverso una formazione e una
vita spirituale solide, oltre che con la comunione per saper
resistere al richiamo delle sette.
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S T E S S O AU T O R E
R1f_La preghiera:Layout 1 21/05/14 16.18 Pagina 1
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17. Sfruttare i mezzi di comunicazione sociale
Oggi, non è possibile ignorare i nuovi mezzi di comunicazione sociale, anche se il loro impatto non è sempre
positivo. Occorre evangelizzarli, metterli al servizio della
pastorale e della coesione familiare, e insegnare ai bambini e ai giovani a usarli.
documenti
D E L LO
Costruire fraternità globale oggi
Donne, giovani, bambini, anziani, vedove e orfani... a
volte sono oggetto di discriminazione e perfino violenza
in famiglia e nella società. La pastorale familiare, con
l’assistenza delle commissioni Giustizia e pace, deve lottare per sradicare tali discriminazioni.
Il Regno -
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hiese nel mondo
20. Abbandonare la credenza nella stregoneria
In un contesto di grande disperazione economica,
sociale, per la salute, politica o affettiva, riemergono le
credenze e le accuse di stregoneria che distruggono le
persone e la coesione familiare. Queste credenze e accuse si basano spesso su una cattiva interpretazione della
tradizione e una lettura fondamentalista della Bibbia. Di
qui la necessità di una pastorale della razionalità, che si
basa su una spiritualità consapevole e solida.
21. Promuovere una gestione efficace delle risorse
Con la crisi economica, le grandi pandemie... le famiglie sono economicamente vulnerabili. Questi problemi
spesso colpiscono il loro equilibrio. La pastorale familiare
deve promuovere la gestione efficace delle risorse disponibili, la creatività e la solidarietà.
22. Interpellare le autorità pubbliche
I poteri politici stanno investendo molto nella promozione della famiglia. Ma alcune politiche sociali messe
in atto sono contro il benessere delle famiglie. È quindi
necessario sollecitare le autorità pubbliche a una buona
gestione del bene comune favorevole allo sviluppo delle
famiglie, in particolare le più fragili.
23. Avviare un direttorio
sulla catechesi della famiglia
Infine, sulla base delle raccomandazioni dell’Assemblea generale del SECAM del 1981 (cf. Regno-doc.
17,1981,533ss), è opportuno avviare un direttorio della
catechesi familiare, catechesi essenzialmente biblica, di
cui si farà una valutazione a cadenza triennale.
Conclusione
In sintesi, la crisi non è necessariamente negativa. Può
addirittura rivelarsi rinforzante, se ben gestita. Le turbolenze vissute dalle famiglie oggi sono certamente una
chiamata dello Spirito Santo a lavorare di più per la ristrutturazione e la promozione della famiglia in generale
e della famiglia cristiana in particolare, nel contesto della
nuova evangelizzazione. Che la Santa famiglia continui a
guidare e proteggere le nostre famiglie affinché non cessino di riflettere l’immagine della Famiglia trinitaria!
Brazzaville, 12 luglio 2014.
Una possibile
uscita dall’impasse
Jean-Paul Vesco, Orano
L’indissolubilità di un’alleanza autentica tra due persone è stata affermata con forza da Cristo, e da lui messa
in relazione con la creazione dell’uomo e della donna (cf.
Mt 19,4). Fin dai tempi apostolici, essa ha occupato un
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Il Regno -
documenti
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posto particolare nella dottrina della Chiesa, più che in
ogni altra religione o tradizione. Così, sulla linea di Paolo,
che associa allo stesso mistero l’alleanza degli sposi e quella
del Cristo e della Chiesa (cf. Ef 5,32), il matrimonio è stato
elevato, secoli più tardi, al rango di sacramento. Il matrimonio cristiano è un tesoro che deve essere protetto e
valorizzato, soprattutto in un momento in cui, in Francia
e altrove in Europa, si acuisce il divario tra il matrimonio
sacramentale cristiano e il matrimonio civile.
Tuttavia, se il patto matrimoniale tra due persone è
nella sua essenza indissolubile, esso rimane una delle più
belle avventure umane, ma anche la più difficoltosa che ci
sia. Molte sono le coppie che si lacerano e si disfano, e molti
sono anche coloro che dopo una prima alleanza sciolta in
coscienza e verità si trovano nella situazione di stringerne
una seconda, ugualmente in coscienza e verità. Si tratta
di coloro che troppo genericamente vengono definiti «divorziati risposati». Sappiamo quanto questa terminologia
generica faccia riferimento a storie di vita, tutte uniche e
tutte diverse, che difficilmente si possono comprendere in
uno stesso vocabolo e sotto uno stesso trattamento.
In virtù del carattere indissolubile del primo legame,
rispetto al quale non si attribuisce alcun potere, il magistero della Chiesa oggi ritiene che lo stato di vita dei «divorziati risposati» sia assimilabile alla persistenza ostinata
in uno stato di peccato grave (l’adulterio), che nega loro
l’accesso al sacramento della riconciliazione e quindi alla
comunione eucaristica (Codice di diritto canonico, can.
915). Questa nozione di persistenza ostinata in uno stato
di peccato è il punto critico che distingue i «divorziati
risposati» dai peccatori comuni, che noi tutti siamo, perché nega l’accesso al sacramento della riconciliazione.
Non c’è infatti perdono sacramentale possibile senza la
ferma volontà di rinunciare al proprio peccato. Ma solo
la riconciliazione sacramentale può, dopo una colpa
grave, aprire la strada al sacramento dell’eucaristia.
La nozione di persistenza ostinata in uno stato di
peccato grave non ha certamente alcun legame con la
vita di tante coppie che mettono tutto il loro cuore a (ri)
costruire, giorno dopo giorno, una vita coniugale vera e
feconda. La loro vita non ha molto a che vedere con il
disordine e la doppiezza di una vita adultera che suppone
una relazione con due persone contemporaneamente,
cosa che non è nel loro caso.
Anche se sono disposti a riconoscere che la loro vita
è segnata da una dolorosa rottura, magari colpevole in
relazione all’impegno preso il giorno delle nozze, non
si riconoscono nella situazione di adulterio nella quale
invece si trovano agli occhi della Chiesa. Dal loro punto
di vista, la posizione magisteriale appare ingiusta, eccessivamente legalista, senza alcuno spazio per l’espressione
della misericordia divina. Si sentono esclusi, o peggio
ancora si auto-escludono dalla Chiesa, e molti di loro
perdono la via della fede.
Eppure sembrerebbe possibile scommettere sulla non
contraddittorietà tra l’affermazione rigorosa dell’intrinseca indissolubilità di ogni vero amore e il fallimento,
dal punto di vista umano, di questo amore. Occorre per
questo tornare alle fonti dell’indissolubilità e operare una
distinzione tra unicità e indissolubilità.
Alle fonti dell’indissolubilità
del matrimonio sacramentale
Per poter ricevere il sacramento della riconciliazione,
e in seguito avere accesso alla comunione eucaristica, i
«divorziate risposati» sono posti di fronte a una decisione
impossibile, vale a dire rompere un’unione coniugale felice dalla quale sono forse nati dei figli. Tale decisione è
impossibile da prendere, non a causa di una mancanza
di coraggio o di una mancanza di fede. È impossibile perché la loro scelta di impegnarsi in una seconda alleanza
ha creato un secondo legame altrettanto indissolubile
quanto il primo.
In effetti, non è il sacramento del matrimonio che
rende indissolubile l’unione di due persone che intendono donarsi completamente l’una all’altra; è l’indissolubilità di ogni vero amore umano che rende possibile il
sacramento del matrimonio.
La forza rivoluzionaria delle parole di Gesù sul matrimonio non deriva dal fatto che lui ha decretato l’indissolubilità dell’unione reale dell’uomo e della donna. Deriva
dal fatto che Gesù la rivela, la riconosce fin dall’inizio
nello spessore della realtà umana, che è l’unione autentica dell’uomo e della donna («l’uomo lascerà suo padre
e madre...»; Mt 19,5s).
C’è nell’alleanza coniugale tra due persone qualcosa
di «definitivo» che si crea, qualcosa che supera le due
persone stesse e impedisce di pensare una nuova alleanza
dopo il divorzio come una relazione adulterina dalla
quale si potrebbe uscire con un semplice atto volontà. La
nascita dei figli è il segno più evidente di tale «definitivo»
che è avvenuto.
Di fronte a questo definitivo creato da una seconda
alleanza, la Chiesa stessa non può nulla, e questo in virtù
del carattere ontologicamente indissolubile che essa riconosce all’alleanza tra due persone che si donano autenticamente l’uno all’altra. Essa incontra quel limite che essa
stessa, d’altro canto, oppone ai «divorziati risposati» per
riferimento alla loro prima unione che non può essere
spezzata. Non è infatti possibile difendere, da un lato,
l’indissolubilità del matrimonio sacramentale basata su
un’indissolubilità ontologica che il sacramento disvelerebbe, rinforzerebbe, trascenderebbe e, dall’altro, considerare una seconda unione, spesso umanamente più
solida, come se potesse essere sciolta semplicemente da
un atto di volontà. Bisognerebbe in tal caso scegliere di
porre il fondamento, il «tutto» dell’indissolubilità, nella
sola azione sacramentale. Non è questo ovviamente il
caso, dal momento che la Chiesa riconosce il carattere
indissolubile del matrimonio civile tra due persone non
battezzate.
Distinguere indissolubilità e unicità
Riconoscere carattere d’indissolubilità a una seconda
unione dopo un divorzio, e quindi accogliere l’esperienza
umana vissuta da così tante persone, presuppone di non
collegare troppo facilmente indissolubilità e unicità.
Le persone vedove che, dopo un certo periodo, scelgono di risposarsi fanno molto spesso l’esperienza sconvolgente e destabilizzante di poter amare due persone di
un amore diverso ma totale. Queste persone scoprono
che il loro secondo amore non ha dissolto il primo, che
conserva tutto il suo posto, il suo valore unico. Esse
fanno, lecitamente agli occhi della Chiesa, l’esperienza
che i «divorziati risposati» fanno in modo non lecito. È
un fatto: le nostre relazioni amorose autentiche lasciano
una traccia indissolubile, incancellabile, nelle nostre vite.
Esse non si cancellano le une con le altre.
L’unicità, che è lo scopo ultimo di ogni autentico
amore coniugale, immagine dell’amore di Cristo per la
sua Chiesa, è significata dal sacramento del matrimonio,
che non è ripetibile (fatta eccezione per i casi di vedovanza o di annullamento del primo matrimonio). Attraverso il sacramento di cui sono ministri, i coniugi riconoscono esplicitamente la presenza del Signore al cuore
del loro amore. Essi riconoscono esplicitamente questo
amore come un dono di Dio. Riconoscono che il loro
matrimonio è una vocazione, una chiamata a mostrare
una forma particolare dell’amore intimo di Dio per tutte
le sue creature. L’indissolubilità è di conseguenza ben
lontana dall’esaurire in sé il valore unico del sacramento
del matrimonio.
Dal momento che i «divorziati risposati» sono confrontati al definitivo della situazione che hanno creato
impegnandosi in una seconda unione coniugale autentica, questo significa che ogni accesso al sacramento della
riconciliazione diventa per loro impensabile? Ciò equivarrebbe a considerare il loro secondo «sì» alla stregua
di un errore imperdonabile, una situazione nella quale
la Chiesa, dispensatrice della misericordia divina, difficilmente può porsi.
Per superare questa impasse il ricorso alla distinzione
tra reato istantaneo e reato permanente nel diritto penale è particolarmente illuminante. L’analogia permette
di fondare una necessaria distinzione tra la decisione di
impegnarsi in una seconda unione e le conseguenze oggettive e permanenti derivanti da questa decisione. E di
trarne le conclusioni.
Reato istantaneo e permanente
nel diritto penale
Nel diritto penale in vigore in tutti i sistemi di diritto
sia romano sia anglosassone, la dottrina comune opera
una distinzione fondamentale tra reato istantaneo e reato
permanente.
I reati istantanei sono reati, come l’omicidio, la cui
esecuzione si svolge in un tempo limitato e chiaramente
identificabile. L’omicidio porta a una conseguenza definitiva sulla quale l’omicida non può più fare nulla. Può
essere giudicato sulla gravità del suo atto ed eventualmente può chiedere perdono.
I reati permanenti, al contrario, come il furto con
sottrazione dei beni (vale a dire, il fatto di conservare per
sé l’oggetto rubato), si prolungano in modo indefinito
nel tempo e l’infrazione si perpetua fino a quando non
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hiese nel mondo
si mette fine volontariamente alla situazione irregolare.
Il ladro perpetua il reato che si aggrava con il tempo
fino a che non ha restituito l’oggetto rubato. Non può
chiedere perdono prima di aver restituito l’oggetto al suo
proprietario.
La distinzione ha rilevanti conseguenze giuridiche.
In particolare, nel caso del reato permanente nessun
termine di prescrizione può essere calcolato finché non
viene messa volontariamente fine alla situazione di irregolarità. È importante notare che il criterio discriminante è quello della volontà: un reato è permanente
perché un’azione riprovevole si protrae nel tempo con
atti di volontà costantemente reiterati, che si potrebbero
interrompere in qualsiasi momento.
La questione è di sapere se il fatto di essersi impegnati
in una seconda unione sponsale è assimilabile analogicamente a un reato istantaneo o a un reato permanente.
Come nel caso del furto, il reato si può interrompere in
ogni momento (interrompendo la seconda alleanza), o
come nel caso dell’omicidio, l’impegno in una seconda
alleanza crea qualcosa di definitivo che esula dalla volontà di coloro che l’hanno contratta?
L’attuale posizione magisteriale della Chiesa, senza
aver esplicitamente posto tale distinzione, assimila di fatto
una seconda alleanza tra due persone, di cui una almeno
precedentemente sposata sacramentalmente, a un reato
permanente, ovvero a un reato che persiste nel tempo
per via di una manifestazione ripetuta della volontà dei
coniugi di rimanere in una posizione gravemente sbagliata. Parrebbe tuttavia più corretto classificare il fatto
di entrare in una seconda alleanza nella categoria dei
reati istantanei i cui effetti perdurano nel tempo. Si tratta
infatti chiaramente di un atto unico della volontà, che ha
conseguenze permanenti e perfino definitive.
Vi è, da un lato, un atto di volontà, forse colpevole,
che è quello di stringere una nuova alleanza. E ci sono,
dall’altro, tutti gli atti di volontà che verranno posti, un
giorno dopo l’altro e un anno dopo l’altro, e che sono
della stessa natura di quelli posti da tutte le altre coppie
che costruiscono un destino comune e ne assumono insieme le difficoltà. Questi atti della volontà non fanno
assolutamente numero con il «sì» pronunciato un giorno
davanti al sindaco o nell’intimità di una relazione. Sono
la conseguenza necessaria di quel «sì». Non possono
essere considerati una persistenza ostinata in una situazione di peccato, ma una volontà di vivere e riuscire in
una relazione di alleanza nella quale, un giorno, abbiamo deciso di impegnarci, fosse anche per la seconda
volta, fosse anche in modo gravemente erroneo. La differenza tra questi due ordini della volontà è essenziale per
le conseguenze che ne derivano.
Seconda alleanza come «reato» istantaneo:
le conseguenze
La distinzione (senza separazione) tra l’atto singolare della volontà di entrare in una relazione di alleanza coniugale – racchiuso nel tempo di un «sì» –, e
gli atti quotidiani della volontà di far crescere questa
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alleanza, perché porti frutto (figli, forse, ma non soltanto), ha almeno tre conseguenze positive.
1. Permette di pronunciare una parola di verità,
e di conseguenza anche eventualmente di riconciliazione sacramentale, su un’azione passata che ha conseguenze nel presente e nel futuro. Se si considera, come
avviene adesso, che da un medesimo atto della volontà
scaturisca l’impegnarsi in una nuova alleanza e il rimanervi (reato permanente), fintanto che la persona
non rinuncia a questa seconda alleanza non si può dire
alcuna parola di verità e di riconciliazione sacramentale sulla sua situazione. Questo, però, è impossibile se
la seconda alleanza è un’autentica alleanza coniugale,
che potrebbe essere coronata dal sacramento del matrimonio in assenza dell’impedimento dirimente di un
primo matrimonio sacramentale valido.
Per contro, se si distinguesse tra la decisione fondante l’alleanza coniugale (il «sì»), e la situazione permanente che ne deriva, la Chiesa potrebbe dire sugli
atti che hanno portato alla rottura dell’alleanza una
parola di verità e possibilmente una parola di riconciliazione. Essa potrebbe così onorare pienamente la
sua vocazione pastorale che illumina, guida, giudica
e riconcilia sacramentalmente. Un pastore non può
lasciare una delle sue pecore in una situazione impossibile. Altrimenti, questo significherebbe che si rassegna a correre il rischio di perderla. La distinzione
consentirebbe altresì alle persone coinvolte, magari
lungo un percorso spirituale accompagnato, di rivolgere uno sguardo riconciliato ad azioni del passato che
possono aver contribuito alla rottura dell’alleanza. Un
tale sguardo sul passato diviene possibile al punto tale
da ipotizzare una vita cristiana nella Chiesa, nutrita
dai sacramenti della riconciliazione e dell’eucaristia.
Sostenere che non si possa pronunciare una parola
di perdono sacramentale per una persona pienamente
consapevole delle proprie eventuali mancanze, ma che
affronta il definitivo della propria condizione, equivale
di fatto a riconoscere nella rottura dell’alleanza sacramentale un peccato irremissibile. È meglio dirlo piuttosto che nascondersi dietro la finzione di un impossibile
ritorno indietro. In questo senso, la citata analogia con
l’omicidio è provocatoria ma illuminante. Un assassino pentito può essere sacramentalmente riconciliato.
Eppure il suo atto determina conseguenze irreparabili
e permanenti, che si protraggono nel tempo, quanto
meno nel cuore dei parenti della vittima. L’omicidio
però è giustamente trattato come un reato istantaneo,
perché non è possibile alcun ritorno al passato. L’assassino può dunque beneficiare di un perdono che si
nega a una persona impegnata in una seconda alleanza
tacitamente assimilata a un reato permanente. Ma se si
stabilisce che una seconda alleanza crea una situazione
di vita definitiva allo stesso modo in cui un omicidio
crea una situazione di morte definitiva, diventa difficile capire perché la riconciliazione sacramentale può
essere accordata all’uno e negata all’altro.
2. La stessa distinzione permette di differenziare le
situazioni personali, abbandonando l’appellativo poco
soddisfacente di «divorziati risposati».
Concentrarsi nel considerare in se stessa, e nel suo
carattere irreversibile, la decisione fondatrice, il «sì»
della seconda alleanza, permette di uscire dal calderone dei «divorziati risposati». Ogni persona ha una
storia singolare, che richiede discernimento e ricerca
di verità specifiche. Essere lasciato(a) per un(a) altro(a)
e tentare di «ricostruirsi una vita» dopo un lutto doloroso è cosa diversa dallo «strappare» l’alleanza e
andarsene con uno dei «pezzi». Ciò permette anche
di non imprigionare troppo in fretta nella medesima
«solidarietà di peccato» colui o colei che non è mai
stato(a) sposato(a), e che sposa una persona divorziata
senza avere alcuna responsabilità nella rottura della
prima unione. L’alleanza autentica tra due persone
trae la sua grandezza dalla sua fragilità; sono innumerevoli le cause di rottura, sulle quali non c’è bisogno di
dilungarsi.
3. La distinzione consente infine di non focalizzare
la questione dell’indissolubilità sul ri-sposarsi, ma di
rivolgere lo sguardo sulla rottura in se stessa.
Secondo l’attuale posizione del magistero, è il
nuovo matrimonio più che la rottura della prima alleanza a rappresentare il vero problema. Quando affronta il tema dei «divorziati non risposati» l’esortazione Familiaris consortio mostra invece una grande
comprensione delle possibili cause di rottura dell’alleanza: «Motivi diversi, quali incomprensioni reciproche, incapacità di aprirsi a rapporti interpersonali,
ecc. possono dolorosamente condurre il matrimonio
valido a una frattura spesso irreparabile. Ovviamente
la separazione deve essere considerata come estremo
rimedio, dopo che ogni altro ragionevole tentativo si
sia dimostrato vano» (n. 83; EV 7/1793).
C’è qui il riconoscimento esplicito della possibilità
oggettiva di una rottura irreparabile dell’alleanza, che
non è biasimevole se è giustificata dall’oggettiva impossibilità a mantenere una vita in comune. Un’eccessiva focalizzazione sulla seconda alleanza può mascherare il fatto che l’offesa fondamentale, umanamente e
spiritualmente, accade innanzitutto e principalmente
al momento della rottura del primo legame. L’impressione che si esoneri un coniuge dalla propria responsabilità nella rottura soltanto perché non si è impegnato
in un nuovo rapporto di alleanza, lo espone al rischio
di non poter fare verità su un atto che può necessitare
di pentimento, richiesta di perdono al coniuge e richiesta di riconciliazione sacramentale.
L’analogia con la distinzione tra reato istantaneo
e reato permanente è qui ancora pertinente. Infatti,
quando si stabilisce un’autentica seconda alleanza
dopo la rottura del primo legame ci si trova, secondo
noi, in un caso analogo a un reato istantaneo che produce effetti permanenti e definitivi. Nel momento in
cui, per contro, un legame si rompe senza la volontà
di contrarre un altro legame, ma per la sola volontà,
ad esempio, di godere di una libertà che si considerava
perduta, ci si trova nel caso analogo a un reato permanente e non istantaneo. In tal caso, infatti, ci sarebbe
chiaramente una volontà reiterata di rimanere in uno
stato di separazione quando nulla precluderebbe for-
Il Regno -
documenti
17/2014
malmente la ricostituzione dell’alleanza coniugale.
È lo stesso movimento della volontà che ha deciso la
rottura e che rimane in questa situazione. Si coglie
facilmente la differenza con la situazione precedente.
In questo secondo caso, paradossalmente, si capirebbe
meglio il riferimento a una persistenza nello stato di
peccato che farebbe ostacolo al ricevere il sacramento
della riconciliazione.
Verso una necessaria
pastorale della riconciliazione
La distinzione introdotta attraverso l’analogia giuridica con i reati permanenti e istantanei nel diritto penale ha il vantaggio di aprire teologicamente la porta
a una pastorale della riconciliazione senza mettere in
discussione l’affermazione del carattere indissolubile
del matrimonio. Una pastorale della riconciliazione è
anche l’unica in grado di coniugare due realtà che per
essenza non possono essere inconciliabili: l’indissolubilità del matrimonio e la misericordia infinita di Dio.
Tutte le vie alternative offerte oggi ai «divorziati risposati» fanno torto all’una, all’altra o a entrambe queste
realtà.
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– Utilizzare la dichiarazione
nullità Pagina
del primo
1 28-05-2014di 15:36
1
matrimonio per vizio di consenso (immaturità...) porta
a concludere che non c’è mai stata alcuna alleanza. I
casi di autentica nullità sono estremamente rari e sono
PIER GIORDANO CABRA
Credo
Il contenuto della fede cristiana
P
er vivere in pienezza il rapporto di fede,
la Chiesa ha tramandato nei secoli un
tesoro prezioso e spesso dimenticato: il
Credo. Gli articoli che l'autore ha scritto per
il mensile Testimoni entrano nel vivo del
testo, non per commentarlo con il piglio del
teologo, ma per percorrerlo con il passo
umile e incerto del fedele che interpreta il
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hiese nel mondo
il risultato di una carenza da parte di coloro che hanno
preparato i futuri coniugi. Ciò significa che si dovrebbe
avere il coraggio di non celebrare molti matrimoni, con
le conseguenze pastorali che si possono facilmente immaginare. Se, al contrario, la procedura viene utilizzata per addolcire o deviare dalla regola dell’indissolubilità, si fa violenza sia alla vera dottrina della Chiesa
in materia di indissolubilità sia alle persone alle quali
vengono negati anni di vita, come nulli e non accaduti.
Per non parlare dei figli, che sarebbero nati dal nulla.
– L’astinenza eucaristica derivante dall’impossibilità di ricevere il sacramento della riconciliazione è
una violenza inaudita fatta alle persone di cui è difficile
misurare la portata. Tale divieto, salvo arrangiamenti
pastorali più o meno clandestini, viene talvolta pudicamente definito «digiuno eucaristico». Ma il digiuno per
sua natura è fatto per essere rotto. Ora, dei divorziati
risposati che non intendono rompere la loro famiglia
non potranno mai rompere il digiuno. Non si tratta
quindi di un digiuno, ma della privazione definitiva di
un cibo che consideriamo essenziale nella vita di un
cristiano. Tanto vale dirlo chiaramente.
– L’astenersi dagli atti propri dei coniugi o il vivere
«come fratello e sorella», per indicare una vita coniugale privata di relazioni sessuali, mette le persone in
una situazione per così dire impossibile. Anche in questo caso le formulazioni fanno violenza sia alle persone
sia alla visione cristiana dell’alleanza. I rapporti sessuali
non esauriscono l’alleanza, c’è una vita nell’alleanza
dopo le relazioni sessuali, o perfino senza. Esse non
sono affatto il vertice dell’alleanza e vi sono molti altri
gesti riservati agli sposi. Senza parlare dell’intimità e
della tenerezza nella quotidianità, il gesto riservato agli
sposi è primariamente il custodirsi come unici l’uno per
l’altro e il farsi dono reciproco della parte più intima
di sé, in modo tale che è proprio tale dono che sta a
fondamento dell’unicità dell’alleanza e della sua indissolubilità ontologica.
L’espressione vivere «come fratello e sorella» non è
priva di ambiguità. Infatti, per coloro che hanno sentito la chiamata a vivere qualcosa di questa fraternità,
per esempio sotto forma di vita religiosa, c’è lì un ideale
di vita che si differenzia dal rapporto di alleanza tra
due persone. È una vocazione, non un ripiego. E la vocazione consiste precisamente nel rinunciare a questo
dono più intimo di sé a una persona, a trattenerlo, al
fine di vivere qualcosa dell’universalità dell’amore di
Dio. Tra questi due stati di vita c’è più che una questione di relazioni sessuali. C’è una differenza di vocazioni esprimenti ciascuna, in modo complementare, un
aspetto dell’amore divino.
Per concludere
È nel fondamento stesso dell’indissolubilità dell’alleanza autentica tra due persone che bisogna cercare di risolvere i segni di contraddizione tra questo vertice dell’amore umano e i suoi inevitabili e dolorosi fallimenti, e
non nella ricerca di un compromesso al ribasso tra due
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ordini di realtà che sarebbero divergenti. Non ci sono,
da un lato, delle parole di Cristo che designerebbero un
ideale di amore coniugale e, dall’altro, delle necessarie
concessioni che rischierebbero di relativizzarle troppo.
Il percorso esplorato intende considerare nella sua
radicalità il carattere indissolubile dell’alleanza tra due
persone e riconoscerlo alla seconda alleanza allo stesso
modo che alla prima. La seconda alleanza crea quindi
una situazione definitiva, che supera i due partner e la
Chiesa stessa. Ma non si tratta in alcun modo di relativizzare il valore unico del matrimonio sacramentale. Al
contrario, se prende forma un futuro possibile, la tentazione di negare il passato perde forza.
L’esperienza umana dimostra che è possibile vivere
una seconda alleanza in tutta la sua fecondità, anche
dopo il fallimento della prima. È quindi importante
distinguere tra l’indissolubilità del vincolo coniugale e
la sua unicità, che non sono sinonimi. L’unicità a cui
aspira l’amore coniugale è significata dal sacramento
del matrimonio la cui indissolubilità non ne esaurisce il
significato.
L’analogia con la distinzione tra reato istantaneo e
reato permanente nel diritto penale consente di operare
una distinzione fondamentale tra due livelli di volontà:
l’atto di volontà fondatore della seconda alleanza (il
«sì») e gli atti quotidiani di volontà inerenti alla riuscita
di qualsiasi relazione coniugale.
Pertanto, la presa in conto del carattere definitivo,
indissolubile, di un’alleanza autentica, anche se non sacramentale, e la distinzione tra i livelli di volontà, consente di uscire dall’impasse rappresentata dall’attribuzione di una persistenza ostinata in uno stato di peccato
alle coppie che vivono un autentico amore coniugale.
Diventa quindi possibile sia per le persone coinvolte
sia per la Chiesa rivolgere uno sguardo di verità, e se
occorre una parola di perdono, su un atto (l’impegno in
una seconda alleanza) racchiuso nel tempo di un «sì»;
e questo indipendentemente dalla persistenza della seconda alleanza. Tale possibilità apre la porta a un cammino di riconciliazione sacramentale, secondo modalità
da definire, stante appunto il perdurare di una seconda
alleanza. Le modalità della riconciliazione, che potrebbero prevedere un percorso, delle tappe, dovrebbero
ovviamente prendere in considerazione anche la dimensione della riparazione, per quanto possibile, come
in qualsiasi cammino di riconciliazione.
Un siffatto percorso non porterebbe più scandalo
o incomprensione rispetto alle alternative attualmente
offerte ai «divorziati risposati», le quali fanno violenza
sia alle persone sia ai fondamenti stessi della fede. Al
contrario, un cammino di riconciliazione spalancherebbe le porte della misericordia di Dio, che si manifesta sacramentalmente, senza ovviamente fare sconti alla
verità e senza mettere in discussione il carattere unico
del sacramento del matrimonio.
23 settembre 2014.
✠ Jean-Paul Vesco op,
vescovo di Orano