Palermo dentro. Il teatro di Emma Dante a cura di Andrea Porcheddu
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Palermo dentro. Il teatro di Emma Dante a cura di Andrea Porcheddu
Palermo dentro. Il teatro di Emma Dante a cura di Andrea Porcheddu Pieve al Toppo (AR), Zona 2006, pp. 42-61. Intervista a Emma Dante di Andrea Porcheddu e Patrizia Bologna Come è nato il nome della compagnia? Cosa significa? Il nome è nato mentre stavamo lavorando a Il sortilegio, lo spettacolo che ha formato il nucleo centrale della compagnia. Avevo deciso, infatti, che dovevo dare una identità a questo gruppo. Mi sono scervellata per una notte proprio per capire come chiamare la compagnia, anche perché avremmo dovuto presentare alla Regione i documenti necessari per il finanziamento del progetto. Quindi un nome serviva, anche burocraticamente... Fino a quel momento il nome della compagnia era legato a quello della Associazione culturale che ci ospitava: "La Vicaria". Questo è il nome di un carcere di Palermo - tra l’altro è il carcere in cui è ambientato il primo testo, di due autori sconosciuti, in cui la mafia è chiamata "mafia" e i personaggi sono chiamati "i mafiusi de la Vicaria" - ma come nome artistico non funzionava... E allora mi sono chiesta: «dove siamo?A Palermo, in Sicilia, al Sud». Ho pensato che la compagnia potesse avere come nome la sua collocazione geografica, ovvero il luogo in cui viveva e lavorava. Palermo sta sulla Costa Occidentale: all’inizio avevo pensato a "Costa Sud Occidentale", ma sembrava il nome di una compagnia di crociere! Allora ho messo "Sud" prima di tutto. E "Sud Costa Occidentale" mi piaceva. In primo piano il Sud, la nostra lingua, le nostre storie, e poi, specificato, quale sud: la costa occidentale della Sicilia... Ancora sugli attori: cominciamo a parlare del suo gruppo di lavoro. Lei ha detto che non le interessa "l’attore", poi afferma che, di preferenza, sceglie attori che provengono dall’Accademia, perché hanno una preparazione a 360 gradi... A me interessano gli attori che escono dall’Accademia perché sono "preparati". Che è diverso dall’essere bravi. La "bravura" è un’altra cosa: ha a che fare con la consapevolezza ostentata del proprio talento e con una "rigidità" nei confronti di ogni possibile ricerca sul cosa c’è dopo il talento, cioè sul modo in cui si può applicare quel talento. Di solito, invece, gli attori bravi si fermano alla constatazione del talento: sono in grado di affrontare un testo, di fare uno spettacolo, di usare la tecnica e anche molto altro. Ma tutto questo è, per me, molto sterile. L’attore che esce dall’Accademia possiede, in modo ancora informe, la sua possibile "bravura". Ha delle "basi": l’Accademia non fa esser bravi, ma dà delle basi. E le basi sono fondamentali: io non lavoro con persone che hanno degli handicap psico-fisici, non lavoro con persone "della strada": lavoro comunque sulla formazione dell’attore. Formo, anzi, l’attore con cui lavoro. Allora il tentativo è quello di dare ai miei attori una "tecnica": ma quella "bravura" non ha niente a che vedere con la tecnica. E la tecnica cosa è? È la capacità di riportare dentro al tuo percorso artistico il sistema paranoico che hai nella vita, con tutto ciò che questo comporta. E cioè il ritmo del tuo parlare, il ritmo del tuo respiro, il tuo modo di camminare: ovvero tutte quelle caratteristiche che noi abbiamo, normalmente, nella vita. Ognuno di noi ha una "tecnica della vita", ognuno di noi conosce qual è il modo giusto per muoversi nello spazio, per andare da un punto a un altro, qual è l’intonazione esatta per comunicare un certo stato d’animo. Nessuno, ad esempio, può essere monocorde perché tutti noi, ogni giorno, usiamo una serie ampia di ritmi e di moduli espressivi... Riportare tutto ciò in teatro è molto difficile perché c’è il rischio di perdere naturalezza: per farlo serve una conoscenza profonda dello spazio in cui ci si muove, del proprio registro di intonazioni vocali e soprattutto del ritmo. La tecnica, a questo scopo, è fondamentale, ma non deve mortificare il talento. II talento deve rimanere puro, deve rimanere lindo, non si deve far sporcare. Ma il talento serve all’attore per "sporcarsi". Il talento deve essere il mezzo che permette di arrivare da qualche parte: se l’attore non applica il proprio talento, tutti i giorni, quotidianamente, in un allenamento costante, non arriva da nessuna parte. Perché il talento, da solo, non basta, non serve a niente. È sterile. E allora torniamo all’attore bravo: chi se ne frega dell’attore bravo che sa recitare quel testo bene, che sa fare quello spettacolo? Chi se ne frega di uscire da uno spettacolo e dire: «quell’attore era bravo»? Non è interessante! È un virtuosismo sterile... Quel che mi interessa, semmai, è capire fino a che punto quell’attore può arrivare, quali sono le contaminazioni, quanto può sporcarsi. Ovvero quanto un attore si lascia contaminare dallo spettacolo che sta facendo. Secondo me, un attore bravo non si fa contaminare, è difficile che si lasci corrompere dallo spettacolo, perché quel tipo di bravura ti tiene su un piedistallo, ti fa emergere talmente tanto che diventi più bravo dello spettacolo. Ed è una cosa, per me, molto fastidiosa. Però, al tempo stesso, non voglio "l’attore di strada", perché l’attore deve conoscere il proprio "strumento": che è se stesso. La differenza, dunque, è nell’obiettivo. Ovvero nel chiedersi perché un attore fa un certo tipo di teatro. Qual è l’obiettivo? È importante che un attore capisca dove può essere portato da un certo spettacolo, e non limitarsi, semplicemente, a fare quello spettacolo solo perché lo deve fare. È qui la differenza tra lo "scritturato", tra l’attore anche bravo, e un attore che aderisce a un percorso artistico, ad una progettualità. L’attore narciso è quello che sa di essere bravo e si piace, gli piace la sua voce quando recita, gli piace il suo sguardo quando guarda, gli piace il suo corpo quando si muove: è l’attore compiacente. E compiaciuto? Sì, compiaciuto. In questo senso intendo l’essere bravo, ovvero l’attore che sa troppe cose, quello che sa di saper recitare, sa di sapersi muovere, è cosciente della sua tecnica e la usa semplicemente come un’esibizione, senza mettersi in discussione, senza affrontare qualcosa che possa smuoverlo o toccarlo profondamente. Un attore non può cambiare uno spettacolo, ma uno spettacolo può cambiare un attore: il tipo di attore che io aborro è quello che considera lo spettacolo secondario rispetto alla sua presenza. Cioè l’attore convinto che, dal momento che lui è bravo e recita bene, lo spettacolo automaticamente acquisisce un senso. Ma non è così: il teatro deve giocare in maniera preponderante con la vita dell’attore, anche in modo violento, come un’esperienza forte. E quindi perché questo accada, servono attori che abbiano delle grandi capacità tecniche... Però devono essere puri. Gli attori d’Accademia non sanno tutto, però hanno acquisito strategie di formazione, e sono pronti per metterle in gioco. Hanno un bagaglio tecnico: non lo sanno usare, però hanno a loro disposizione l’ abc del teatro. Solo che non sono ancora "furbi", per cui non sanno come usare la fonetica anche se l’hanno studiata, sanno come cacciare fuori la voce però non sanno cosa farsene... Questo significa che sono attori ancora bastardi. Puri o bastardi? Tutti e due, per me puro e bastardo sono la stessa cosa. Bastardo significa senza genitori, significa non avere avuto un’educazione. Significa maleducato. Penso ad un attore maleducato. Uno che sa che per mangiare a tavola bisogna usare le posate, però lui, d’istinto, mangerebbe con le mani. Vogliamo dire qualcosa di più dei suoi attori? Loro fanno la differenza perché se io dovessi fare il mio teatro con degli attori "scritturati" chiaramente i miei spettacoli non avrebbero la forza che hanno. Cosa hanno loro di speciale? Sabino, Manuela e Gaetano, poi Enzo, e Alessio e Ersilia e tutti quelli che in qualche modo sono entrati in questa follia, in questo delirio hanno scelto questa abnegazione, la strada più difficile, quella più scomoda, cioè quella che porta a fare il teatro e ad ammalarti. Sono ammalati di questo mestiere, cioè rischiano di perdere l’equilibrio fisico e mentale. E sono tutto per me, proprio per questo motivo. Hanno rinunciato e rinunciano costantemente alle cose importanti, agli agi, alle certezze: rinunciano anche alla visibilità, perché molto spesso lo spettatore si ricorda lo spettacolo, non il singolo attore. Eppure lavorano tantissimo, si allenano, applicano il loro talento... Manuela, ad esempio, ha un talento straordinario. Lei, probabilmente, anche senza me, sarebbe stata comunque un’attrice sublime. Non è la stessa cosa per Sabino, Gaetano e gli altri: con loro ho lavorato molto e loro si sono trasformati. Come se fossero usciti da un bozzolo e ora sono farfalle: avevano un talento, ma la loro forza è stata di applicarsi a questo talento. Chi si ferma al talento, non supererà mai quel confine, si fermerà sempre a quello che sa fare. Invece loro sono riusciti a volare. Sabino è uno che vola quando sta in scena, è uno che ha sfidato se stesso, come un atleta che vuole superare il proprio record. C’è una frase che ripeto sempre a Sabino, è una frase detta dalla Cvetaeva quando è nata sua figlia, «io sono il tuo primo poeta e tu sei il mio verso più bello»: questo anche perché Sabino è l’unico, del gruppo, a non aver mai fatto esperienze con nessun altro regista. Ha iniziato con me e non ha mai fatto niente prima di me. Gaetano e Manuela avevano fatto la Scuola del Teatro Biondo di Palermo, e hanno fatto altre esperienze professionali. Ma Sabino è come se fosse mio figlio, la mia vita: per lui ho un’adorazione particolare... Manuela, invece, è stata sempre più avvantaggiata, è speciale rispetto agli altri. E questo non l’ho mai nascosto a nessuno di loro: lei ha una dote in più, che è assolutamente sovrannaturale. Per questo, forse, è la più pigra fra tutti, quella che si applica di meno, perché sa di avere una forza in più rispetto al resto del gruppo. Gaetano è quello più "duro". Mentre Sabino è aiutato dal suo corpo di gomma, il corpo di Gaetano è muscoloso, molto alto, con quelle braccia lunghe. È stato, per lui, un lavoro faticoso fare in modo che il suo corpo non fosse "ingombrante": faticoso soprattutto fargli capire quale fosse il "centro" del suo talento, dove doveva cercare. Ma adesso anche lui è diventato, a mio avviso, un attore bravissimo... Comunque si capisce che i miei ragazzi sono la mia vita, no? Non c’è bisogno che dica di più, no? Però mi piace sempre citare una frase tratta dalla Canzone dei F.P. e degli I.M. da Il mondo salvato dai ragazzini, di Elsa Morante, che dice: «La vostra benedizione è conoscere che pure il desiderio del paradiso è servile.[...] La vostra libertà è conoscere che ogni mèta di vittoria, ogni aspettazione d’applauso è servile. La vostra bellezza non si vergogna degli abbasso né degli sputi. Altro, altro è il suo pudore. E la vostra grazia senza paragone, ultima, è che la vostra bellezza NON VI RIGUARDA». Una citazione molto calzante. Oltre che, naturalmente, un bel brano... Dunque un gruppo, che non si basa solo sul rapporto professionale, sulla ricerca teatrale. Sembrate molto legati, tra voi. È così? Anche il rapporto con la vita è importante. Perché la nostra è stata una scelta di vita: e questo credo sia giusto ricordarlo. Siamo cresciuti insieme, ci siamo confrontati su aspetti importanti, ci siamo interrogati su domande scottanti, per cui alla fine noi siamo un vero gruppo. Anche se, spesso, si sente più il mio nome che non quello della compagnia. Ma, ad esempio, i ragazzi non hanno mai avuto problemi rispetto a questo aspetto. Sono straordinari. cacca [...] Cominciamo a scandagliare le strutture del suo lavoro: che cos’è, per lei, il ritmo? L’elemento più importante del mio teatro. Lavoro molto con gli spartiti, con la musica, con il suono onomatopeico della lingua, con i gesti reiterati e a volte ossessivi che gli attori mettono in scena... Tutto questo ha a che fare con il ritmo, che è il fattore principale nella genesi di qualsiasi spettacolo della Compagnia. Partiamo da lì, da quell’istinto: il ritmo è un elemento istintuale, che tocca l’animalità. Per Carnezzeria siamo partiti proprio dall’animalità: gli attori hanno lavorato tanto sull’animalità, proprio per raggiungere una "perdita assoluta della vergogna", ossia per togliersi di dosso la vergogna, come gli animali. Per la Compagnia questa prospettiva è stata fondamentale: scardinare completamente qualsiasi tipo di giudizio e di morale sulle cose che facciamo... I suoi spettacoli, a partire da mPalermu, sono molto claustrofobici: c’è sempre una suggestione opprimente di chiusura -forse in spazi metafisici - predomina sempre una "casalinghitudine" molto stretta, davvero senza via d’uscita: perché? Perché non ci sono porte, non ci sono quinte. Quindi, paradossalmente, se tu fai un palcoscenico senza aperture e senza chiusure, non c’è una via di fuga. E tutto qui: più apri il teatro e più diventa chiuso. Può sembrare un paradosso, eppure più tenti di delimitare gli spazi, di fare scatole chiuse e più ottieni il risultato opposto: lo spettatore comincia a pensare: «cosa c’è dietro la quinta? Perché questo attore sta lì? Cosa sta facendo? Dove va?» e lascia libera l’immaginazione, si fa un proprio film... Se invece non metti nessuna quinta, non c’è più il problema: abolisci completamente il problema del dietro, del davanti, dei lati. E quindi ti trovi inevitabilmente in un "altrove": sei in un altro posto e questo altro posto non ha porte e non ha finestre, e non ha tetti e non ha pavimentazione. Così lo puoi fare diventare quello che vuoi... Per parlare di mPalermu dobbiamo tornare a parlare della sua città. Lo spettacolo segna anche il suo ritorno a Palermo e, al tempo stesso, la sua rinascita dopo la crisi... Sono tornata in una città che non conoscevo - perché l’infanzia l’ho vissuta a Catania. Palermo è la mia città natale, la città natale dimenticata. Quando sono tornata, molti anni dopo - perché mia madre stava morendo, per assisterla -, sentivo anche che era fallito tutto quel percorso che avevo seguito: non mi interessava più fare l’attrice, non mi interessavano più quelle dinamiche assurde dei provini, delle lunghe tournée, di quegli spettacoli di cui non me ne fregava niente. Sono tornata a Palermo con un senso di fallimento: perché avevo trentadue anni, e a quell’età non ero niente. Mi ero data, sin da ragazza, una scadenza: «se a trenta anni non riesco a fare questo mestiere smetto». E cosa facevo? Guadagnavo pochissimo, facevo degli spettacoli che non mi piacevano: lo facevo come lo fanno in molti. Mi immaginavo a sessanta anni, ancora un’attrice sconosciuta, a fare provini: non avrei potuto. E allora sono tornata a Palermo con questo senso di fallimento, convinta di avere chiuso col teatro e pronta a fare qualcosa d’altro per sopravvivere. Poi è successo un fatto. Avevo perso mio fratello in un incidente stradale, e un giorno un suo amico venne a casa mia, dicendomi: «sai Emma, ho un’associazione culturale, non a scopo di lucro, non so che farmene, e lavoro in una chiesa occupata che si chiama Sant’Eulalia che sta nel cuore della Vucciria: perché non ci facciamo uno spettacolo?». E io dissi: «ma io non sono una regista» e lui ha risposto: «vabbè, ma abbiamo questa associazione, che ci dobbiamo fare?». Quello era il periodo più brutto della mia vita: avevo perso mio fratello, mia madre stava morendo, ero disoccupata, avevo lasciato la casa di Roma, non avevo più niente, ero stata mollata dal mio fidanzato che nel frattempo si era fidanzato con un’altra... E allora mi sono detta: «ma è possibile che in tutti questi guai non ci possa essere un miracolo?». Io dovevo trasformare quei guai in un miracolo, quel dolore doveva essere una cosa miracolosa, doveva diventarlo, altrimenti non ne sarei uscita. Ero arrabbiata, ma così arrabbiata! E allora ho detto all’amico di mio fratello: «va bene, facciamo una cosa: facciamo un grande laboratorio, facciamo venire tutti questi artisti palermitani». Dove? Mi diede uno spazio Beatrice Monroy: una stanza per fare un laboratorio al quale vennero tante persone, tra cui Sabino, Manuela e Italia (Italia Carroccio, ndr). Gli unici che rimasero. Poi anche Italia se n’è andata perché ha fatto un’altra scelta: la maternità, ha avuto un figlio... Sabino e Manuela sono i miei pilastri, quelli che hanno fondato, insieme a me, la compagnia. Tutti gli altri se ne andarono subito: scapparono appena io chiesi di levarsi le scarpe e di camminare a piedi nudi! Facevo fare un lavoro fisico pazzesco, stavamo ore e ore chiusi là dentro a scannarci. Io ero isterica: qualcosa di indescrivibile... Ma sii cosa si basava per impostare il lavoro? Come era strutturato il laboratorio? Sul lavoro che aveva fatto con Gabriele Vacis? Ero cieca e sorda. Non saprei dire, adesso, cosa feci in quel laboratorio. Perché ero accecata dalla rabbia: non c’era niente che avesse valore per me. Ma questa è stata la mia fortuna: la "grandezza" dell’inizio di questa storia è stata proprio la convinzione che niente più avesse valore... E quindi non avevo il problema di essere corretta. Non c’era nessuna correttezza in quello che facevo: ero scorretta fino all’esasperazione! E questa mia scorrettezza con gli attori, con le persone, con le cose che gli facevo fare, con i calci, con gli sputi, con gli insulti era qualcosa di devastante. Tutta quella violenza, quel vomito - perché poi di questo si trattava - ha generato una sensibilità: quella scorrettezza mi ha portato alla ricerca di una poesia. (…) In che senso questo disagio deve "essere violentato"? E come se chiedessi continuamente agli attori di essere "peccatori". Come se chiedessi loro, continuamente, di peccare. Il peccato che loro commettono genera l’effetto. Non è il contrario. Non dico: «dobbiamo fare una scena sentimentale della madre addolorata perché il figlio è morto», cioè non dico qual è la scena, ma ci arrivo, insieme a loro. Ecco quale poteva essere un’effettaccio: quando ho cominciato Vita mia, ho messo Giacomino (Giacomo Guarneri, ndr) sul letto da morto e loro tre intorno. Ho provato una settimana questa situazione: lui era già morto e loro erano intorno. Quello era un "effetto", perché se uno spettatore entra in una stanza vuota e vede un catafalco, un ragazzino vestito di bianco sdraiato con gli occhi chiusi e la madre vestita di nero che lo veglia, è chiaro che quello che sente è l’effetto di qualcosa di doloroso... Ma, a un certo punto mi sono detta: «questa è la soluzione, ma io non devo dare la soluzione, devo raccontare quello che c’è prima, la vita intorno a quel letto». Allora ho "svuotato" il letto, ho tolto Giacomino da lì. E gli ho detto: «tu sei sempre morto, non è che sei vivo, attenzione però: facciamo che tu ti muovi come loro, che tu guardi tua madre e ci parli». E lì è successo: quella è la causa, cioè la causa è il dolore della donna, non la morte del figlio. La morte del figlio non è importante tanto quanto il dolore di lei. Così diventa lei il perno: la sua ossessione di vestire il figlio morto da vivo diventa la cosa predominante, non il fatto che il figlio sia morto... In questa unione di ritmo e di scavo violento sulle cause si crea, quindi, il personaggio, oltre che la situazione. E come sono nati i personaggi della famiglia di mPalermu? E stata una genesi molto lunga, durata circa un anno. In quell’occasione ho capito che volevo scrivere per il teatro, non limitarmi a fare la regia. Volevo proprio far nascere il teatro. Quindi mi sono preoccupata di cercare quei "fantasmini" che, con molta fatica, con molto tempo, con molta dedizione e cura, alla fine sono venuti alla luce. E da lì è nato lo spettacolo: prima sono nati loro e poi è nata la casa, o meglio prima sono nati quei fantasmini e solo in un secondo momento li ho "intrappolati" in quella casa. Ma c’era un aspetto che non capivo, una domanda che mi ponevo durante le prove: «ma questi cosa fanno sul palcoscenico?». Li avevo trovati, ma cosa dovevano fare? Qual è la vera necessità, cosa li faceva stare lì? Poi, un giorno, ho avuto una sorta di illuminazione: si vestono, hanno i pasticcini, sono sempre pronti, ma che devono fare? E allora ho pensato: questi cercano una via d’uscita e non la trovano, cioè sono motivati a uscire da questo palcoscenico in cui io li ho intrappolati in maniera violenta e prepotente. Loro vorrebbero uscire, ma non ce la fanno: e in quel momento ho capito lo spettacolo, perché una volta capita quella dinamica lo spettacolo era fatto... Sembra avvertire una sorta di "pirandellismo ", nell’eterno gioco dei personaggi in scena, della vita in palcoscenico: un pirandellismo anche piuttosto manierato ... Forse sì, ma non dimentichiamo che i personaggi di Pirandello avevano l’autore: il problema era cercar loro un posto nel mondo e questo posto era il teatro che li aveva fagocitati. I personaggi pirandelliani sono pura psicologia, i miei sono maschere senza anima. I miei personaggi non hanno un’anima, non hanno il dono della parola, non pensano, non hanno ragioni, non sentono ragioni, non sono razionali. Per questo sono forse molto più vicini alla tragedia greca che non al teatro di Pirandello. Cosa sono i fantasmini? Gli ectoplasma. Quando dico agli attori di trovare i fantasmini significa che devono entrare in una specie di trance, che devono acquisire una concentrazione talmente profonda, da mettersi in contatto con questo famoso "altrove", che poi è la scena. Niente altro che la scena: non un altro posto ma, comunque, un mondo parallelo rispetto al nostro. Dove sono "esseri", creature che si impossessano dell’attore: ecco perché parlo di trance, perché è una sorta di possessione dell’attore... Quasi che, ad un certo punto, il livello di concentrazione diventi talmente alto che l’attore è in grado di percepire una "presenza", che ha dentro di sé: non è una presenza che viene da fuori, non si tratta di qualcosa di satanico! Così l’attore è talmente presente a se stesso ed è, al tempo stesso, talmente calato in quello che sta facendo che riesce a far emergere quello che chiamo "fantasmino": che sembrerebbe diverso da lui, sembrerebbe arrivare da un altro mondo, ma in realtà è sempre stato lì. Per una strana commistione di elementi, per una strana alchimia, tutto coincide: il tempo, lo spazio, la battuta... Per cui si crea questa specie di alone di mistero: chi è questo qui? Ho percepito chiaramente, e in modo molto forte, questa "trasformazione" con Manuela: lei è davvero una medium quando fa teatro, richiama gli spiriti. È incredibile, si trasforma, arriva a livelli di trasformazione inquietanti: cioè, è talmente inquietante il passaggio dall’attrice al personaggio che, ogni volta che assisto a questa genesi, mi sento male. Durante le prove de La scimia c’era Elena con me quando Manuela è diventata Nina. Ci siamo guardate ed eravamo entrambe pallide: ancora oggi non riusciamo a dimenticare quello sguardo di Manuela che diventa lo sguardo di qualcun altro... Questo è il fantasmino di cui parlo. Io, qualche volta, quando facevo l’attrice avevo sfiorato questa "trasformazione": ma l’ho scoperta con i miei attori. (…) Mi ricordo Sabino durante le prove: non avevamo soldi, e lui mangiava questi "mottini" (piccole brioches, ndr) da 500 lire che compravamo alla Vucciria, perché non poteva fare la scena dei pasticcini senza mangiare qualcosa. Mangiava quei "mottini", di qualità pessima, che costavano pochissimo: e ne consumava cinquanta al giorno perché io gli facevo ripetere quella scena all’infinito. E poi mi ricordo l’infezione alla trachea che gli venne perché quelle "brioscine" erano piene di polvere... Mi ricordo quando Sabino mi chiese l’acqua perché non riusciva più a ingoiare e io presi il bidone che avevamo lì. Non c’era acqua in quel posto e con quel bidone è nata la scena dell’acqua di mPalermu... Ha sempre detto che quella scena, il "miracolo dell’acqua", è forse l’omaggio più grande che ha fatto alla sua città... Credo che quella scena sia la più importante di tutto quello che ho fatto finora. Nata così, da una richiesta casuale, da un bisogno che ho sentito e che Sabino aveva: se non l’avessi sentito e non avessi trasportato quel bidone in scena, se non gli avessi chiesto di sprecare quell’acqua... Non avevamo acqua, ma in quel momento era importante sprecare quello che avevamo. Perché questo è Palermo: chi se ne fotte se non c’è acqua, buttiamola via... Cosa è lo spreco? Lo spreco è la sporcizia che si trova nelle strade della mia città, lo spreco è tutte le cose che ho trovato nella spazzatura e con cui ho fatto il teatro. Ricordo che, una volta, trovai quattro sacchi pieni di vestiti vicino a un cassonetto. Vestiti puliti. Probabilmente era morto qualcuno: c’era anche un sacco di effetti personali. Ho portato tutto all’ex carcere, dove provavamo, e ho chiamato i miei attori: ho cominciato a tirare fuori le cose e per ogni vestito ci inventavamo una storia. Lo spreco è anche questo: gente che butta via le cose che potrebbero continuare a servire, cose che poi prende qualcun altro e le fa rivivere. Ha detto che con mPalermu ha capito di "voler far nascere il teatro ", di non volersi limitare alla regia. E ha parlato di "fantasmini ", che emergono alle prove grazie al lavoro con gli attori. Ma nei suoi lavori c’è anche una forte componente verbale, che fa presumere un lavoro di scrittura. Come elabora i suoi testi? mPalermu non è uno spettacolo con un testo, è una condizione. Con il tempo, sto cambiando metodo di lavoro. Dopo mPalermu c’è stato Carnezzeria, fatto con lo stesso gruppo di attori. Ne La scimia è intervenuta Elena Stancanelli e partivamo dal romanzo di Landolfi. E poi, con altri interpreti, ho realizzato Vita mia e Mishelle di Sant’Oliva... Già Mishelle rappresenta una novità, qualcosa è cambiato rispetto ai precedenti spettacoli: perché c’è stato un lavoro "a tavolino", reso necessario dalla presenza di Giorgio Li Bassi. Ad un attore come lui vanno comunque dati dei "paletti": non gli si può chiedere di improvvisare come fanno normalmente i miei attori. I miei attori si mettono in scena, fanno un gran casino: e io estrapolo le parole che mi servono, li faccio incontrare, suggerisco di dire qualcosa, do uno stimolo. Invece Li Bassi, o attori nuovi rispetto al nucleo "storico", come Ciccio (Francesco Guida, ndr), non essendo abituati al nostro metodo, hanno bisogno di una concretezza maggiore: anche per questo ho iniziato a lavorare da sola sulla drammaturgia. È interessante che lei parta dalla richiesta degli attori... Io scelgo gli attori per la storia che ho in mente, perché li ritengo adatti. Studio non solo l’anatomia del loro corpo, ma il modo in cui guardano, in cui gesticolano, in cui si muovono. Da questo, lentamente, capisco cosa "dipingere" su di loro, cioè qual è la qualità del linguaggio e della parola che serve loro. Poi, dopo le improvvisazioni fatte assieme, torno a casa e scrivo. Non faccio il contrario, cioè scrivo e poi vado alle prove e impongo agli attori cosa dovrebbero fare o dire: scrivo dopo le prove, e 1’ indomani porto quello che ho scritto. Cioè formalizzo, da sola, quello che abbiamo fatto insieme. Gli spettacoli della Trilogia sono frutto di un unico progetto? Aveva già in mente come proseguire e chiudere il percorso iniziato con mPalermu ? Quando ho fatto Carnezzeria mi sembrava che ancora mancasse qualcosa: la mia idea è stata di chiudere la trilogia per approfondire il percorso sulla famiglia siciliana. Se in mPalermu la morte è appena accennata, in Carnezzeria è già più presente, infine in Vita mia è lampante, palese. I tre spettacoli finiscono con una morte. Una morte chiaramente simbolica. Per il nuovo spettacolo, Cani di bancata, ho lavorato su un argomento difficilissimo come la mafia, la cosca. Insomma, la famiglia come "associazione a delinquere" non più come nucleo sociale. Mi sono chiesta, allora, cosa dovrebbe esserci in questa nuova storia. Le armi? Ma io non potrei mai dare a un attore una pistola finta e dire di sparare a un altro e far cadere l’altro... Perché non lo farebbe mai? Perché sarebbe come se avessi messo subito Giacomino sul letto di Vita mia! Sarebbe la stessa cosa! Lo sappiamo già che un morto sta sul letto e lo sappiamo già che un proiettile uccide un uomo. Ma nel momento in cui si fa teatro non ci crede nessuno! Non è una bugia, è la verità: io, invece, devo raccontare le bugie, altrimenti la verità come fa a venire fuori? Posso mai fare una vera messa, come la farebbe il sacerdote? No, sarebbe ridicolo! Devo traviare chi mi sta di fronte. Insomma, io devo mentire. Abbiamo parlato della sua indagine sulla "famiglia siciliana ", con il nuovo lavoro parla di mafia e di cosche, usa prevalentemente un dialetto molto forte e connotato: non c’è un forte rischio di "sicilitudine" in tutto questo? Sì, c’è il rischio, ma chi se ne frega! Io devo fare i conti, e i conti li posso fare solo in dialetto. I conti li faccio in dialetto e li faccio con quel tipo di personaggi, li faccio con i disgraziati, con i farabutti. Devo fare i conti con i farabutti: ci deve essere sempre qualche conto che non torna... E allora perché prendere un’altra strada? Il mio non è un "esercizio di stile", ma una ricerca vera. Un giorno, forse, questa diventerà "maniera", ma sarò la prima ad accorgermene. Ci sono dei momenti in cui vedo i miei spettacoli e vorrei scappare, perché non sono quasi mai d’accordo: ma ci sono rari momenti in cui mi dico: «effettivamente qua c’è qualcosa», ed è come se parlassi di qualcun altro, non di me. Nel momento in cui questo mio fare teatro diventerà "maniera", e stancherà anche me, smetterò: ma se stanca gli altri non mi interessa, non è un problema mio... Io sto parlando questa lingua, e non me ne posso inventare un’altra. Soprattutto se ancora non ho capito questa lingua che cazzo sta dicendo. Io non capisco il dialetto dei miei spettacoli, ancora non ho capito bene che cosa vuole dire questo dialetto del mio teatro: quando lo capirò comincerò a fare teatro borghese! Come colloca La scimia in questo percorso? C’è un’apertura verso un’altra lingua... Però quello spettacolo non è andato bene, è fermo, non riusciamo a farlo vedere... Si ricordi che siamo in uno stato confessionale, cattolico e molto bigotto. Se lo dico io non mi credono: eppure non lo vuole nessuno quello spettacolo! Neanche il romanzo è andato così bene... Ed è un capolavoro... Perché Landolfi ? Ho scoperto Landolfi tardi, e in particolare ho scoperto tardi Le due zittelle: ma quando l’ho letto sono rimasta folgorata. Mi ha colpito la sua scrittura, così violenta, eppure forbita, piena di riferimenti a quella letteratura russa che adoro. Studiando e leggendo Le due zittelle si ritrovano infatti molti riferimenti a Il grande inquisitore di Dostoevskij, che Landolfi conosceva perfettamente, perché traduceva dal russo. E allora, sia per questi rimandi, sia perché Landolfi si interroga, in maniera laica su Dio - mentre l’interrogazione di Dostoevskij è religiosa, quasi mistica - ho trovato una fortissima fascinazione. Forse perché anch’io, quando faccio teatro, mi interrogo, laicamente, su questo famoso "Altrove"... La sequenza della morte della scimmia, poi, mi ha colpito, mi ha quasi violentata: il modo in cui Landolfi descrive il sacrificio della scimmia mi ha fatto piangere. Mi ricordo che non riuscivo a smettere. Il giorno dopo, sola in casa, mi sono chiusa in bagno, e ho riletto quella pagina. Non so perché, forse avevo paura che qualcuno potesse interferire tra me e quel libro: volevo stare sola, per rileggere quella pagina e piangere ancora... Allora ho capito che per esorcizzare quel malessere dovevo portare a teatro quel racconto, rappresentare quel sacrificio. Landolfi descrive la morte dal punto di vista della scimmia: ossia di quegli occhi innocenti che accettano la coltellata della padrona come se fosse un atto d’amore. Quello sguardo della scimmia mentre muore mi ha scosso profondamente: e per liberarmene l’ho dovuto portare a teatro. Ho lavorato con Elena Stancanelli alla drammaturgia durante le prove. Lei non ha scritto prima il testo, non ha lavorato sul racconto di Landolfi, ma ha lavorato con me e con gli attori. Ci siamo concentrati sull’atto sacrilego della scimmia: il momento in cui l’animale compie il sacrilegio e il momento in cui i due sacerdoti la processano. Questo è stato il dettaglio su cui abbiamo voluto mettere la lente di ingrandimento. Non abbiamo voluto rappresentare tutto il romanzo di Landolfi, ma solo quel piccolo accadimento che poi è la causa scatenante di tutto il racconto... Torino, gennaio 2006 Tentiamo di approfondire un elemento interessante, colto durante il lavoro in un laboratorio, ovvero la differenza tra "buffone" e"idiota", che ha spiegato ai suoi allievi... Ci sono, secondo me, tre figure molto importanti che un attore deve in qualche modo trovare nell’arco della sua carriera. Variano, a seconda di quello che può servire, del tipo di spettacolo che quell’attore fa. Attenzione, però, non sto facendo un discorso assoluto: voglio ribadire che io parlo sempre del mio teatro, non sto parlando del teatro borghese, del teatro-danza, o del lavoro di registi come Luca Ronconi o Antonio Latella... Parlo del mio teatro, quindi delle regole che io stessa pongo, che non sono, certo, le regole del "Teatro". E nelle regole del mio teatro, allora, ci sono tre figure fondamentali per l’attore: l’idiota, la bestia e il bambino. La bestia è l’istinto puro, violento; il bambino è l’ingenuità e l’idiota è la santità. C’è, quindi, una differenza tra il buffone e 1* idiota: l’idiota è, il buffone fa. Il buffone cerca consensi, il giudizio, mentre l’idiota non cerca niente, è senza freni ed è assolutamente libero da qualsiasi tipo di sovrastruttura. E questa è, appunto, la differenza tra un attore che sta facendo un movimento e un attore che è quel movimento. L’attore "buffone" è colui che è consapevole di essere buffone e ne è cosciente. L’attore "idiota" è colui che, essendo idiota, non ha nessuna consapevolezza. Quindi non ha nessuna forma di giudizio: un attore idiota non sarà mai retorico perché sarà sempre spiazzante e non sarà mai esauriente, non saprà mai fino in fondo che cosa sta facendo e perché lo sta facendo... Lei ha detto, durante un laboratorio, agli attori: «se voi imitate qualcun altro, in una caratteristica che non vi appartiene, sarete inevitabilmente generici. Se invece cercate un vostro difetto, una caratteristica che vi appartiene e la esasperate, allora farete nascere veramente qualcosa». Si collega a quanto sta affermando ora? Sì, naturalmente. Facciamo un esempio. Fare lo zoppo, fare l’ubriaco, vuol dire fare il "buffone", ossia fare lo stereotipo. Essere ubriaco o essere zoppo non significa, necessariamente, zoppicare e sbandare, perché ogni ubriaco vive l’ubriachezza in modo personale: e non è detto che non si riesca a camminare dritti. Ma se un attore fa l’ubriaco, camminando storto e sbandando, perché è nello stereotipo, non fa altro che seguire un’impostazione standard, che è appunto il cliché. Claudio Meldolesi parla del rapporto tra attore e personaggio come dell’imitazione di un "altro da sé", cioè dell’imitazione di un altro essere che è appunto il personaggio... Certo, questa imitazione è necessaria perché altrimenti ogni attore rimane sempre se stesso. Ma questa "imitazione" deve passare attraverso un’esperienza: e questa è fondamentale. Se l’attore arriva direttamente alla soluzione e non lavora sulla costruzione, non fa un’esperienza... Sono sempre dalla parte dell’attore, di colui che, in qualche modo, deve imitare: è chiaro che il gioco dell’irritazione è necessario nell’arte... Però in questo lavoro di scavo che l’attore fa dentro se stesso per ritrovare quel ‘ fantasmino ", non potrebbe tornare lo Stanislavskij della riviviscenza? Quel processo fa sempre parte del percorso artistico. Anche Artaud ha attraversato questo processo... Tutti i grandi artisti - e non sto parlando di me, ma dei grandi come Artaud, Kantor hanno attraversato quel percorso di "esperienza su di sé" e di esperienza della vita riportata su di sé. Questa esperienza è necessaria. C’è una storia - che mi piace raccontare - scritta da Sciascia in Todo modo. Il protagonista è un pittore che capita in una sorta di convento, dove si fanno degli "esercizi spirituali": vi si ritrovano diversi uomini politici che, dietro l’apparenza degli esercizi spirituali, in realtà studiano strategie, anche criminose. Il pittore, una mattina, si sveglia molto presto, apre la finestra e vede un’alba bellissima e ne rimane incantato. E, più o meno, dice: «la prima sensazione che ho avuto vedendo questa alba è stato il desiderio fortissimo di dipingerla, però nel momento preciso in cui ho sentito questo desiderio, ho sentito che questo desiderio era falso, accademico. Perché per me la pittura è vòlta a tutto ciò che non è da dipingere». Questa sua affermazione si può riportare, tranquillamente, anche al percorso teatrale. Se un attore, per strada, vede una persona che cammina in un modo strano perché è zoppa o perché, che ne so, ha un difetto eclatante, e fa davvero sua questa esperienza, magari non si sofferma più sul fatto che quella persona sta zoppicando, ma si accorge dello sguardo che è un riflesso del suo zoppicare: allora quello sguardo, paradossalmente, è più importante dello zoppicare... È chiaro che tutti, per tornare a Sciascia, "dipingerebbero" il suo zoppicare perché è la cosa che si vede. Ma quella zoppia porta la persona ad avere un determinato sguardo o un modo di muovere le mani, o molto altro, a prima vista insignificante: ecco le cose davvero interessanti, perché chiaramente determinate dallo zoppicare... Perché il pittore di Sciascia sente falsa e accademica la voglia di dipingere quell’alba? Un’alba che è talmente bella da non poter essere dipinta perché è lì, ed è più forte di qualsiasi altra cosa? Però, se quel pittore dipingesse se stesso che guarda l’alba, arriverebbe sicuramente a qualcosa di più interessante: il suo sguardo sull’alba, non l’alba. Sono emerse parole curiose in questa conversazione: ha parlato di medium, di trasformazione, di sentimento, di esperienza. Elementi forse più trascendenti che concreti. Sembra quasi che lei, con il suo lavoro, possa arrivare sino ad un certo punto e poi voglia rimandare a delle forze "esoteriche", che si devono scatenare per ottenere i risultati da lei cercati... No, sono parole che non devono spaventare. Niente di esoterico. Lo stesso Peter Brook diceva che l’attore deve essere una creatura mediatica che ha delle antenne con cui captare le onde, percepire tutto e riportare... Ecco, mi rimetto a lui. In questo senso parlo di attore-medium, non nel senso di sovrannaturale. Però succede, inevitabilmente, che ci sia qualcosa di misterioso nel teatro: sento che c’è un mistero incontrollabile e forse è proprio il teatro - come diceva Kantor - la mia preghiera laica.