Avvocato e Cliente trova la sua disciplina normativa nel contratto

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Avvocato e Cliente trova la sua disciplina normativa nel contratto
"La responsabilità civile dell’avvocato”
Varese, 4 febbraio 2005
1. Premessa. 2. La natura giuridica dell’obbligazione gravante sul professionista. 3. La diligenza
richiesta nell’espletamento della prestazione. 4. L’obbligo di informazione e gli altri obblighi
accessori al dovere di diligenza. 5. Il rapporto di causalità tra inadempimento e danno. 6. La perdita
di chances. 7. La responsabilità dell’avvocato per fatto dei sostituti e degli ausiliari. 8. L’art. 2226 cc
e la sua inapplicabilità al contratto d’opera intellettuale. 9. L’onere della prova.
1. Premessa.
Il rapporto tra Avvocato e Cliente trova la sua disciplina normativa nel contratto d’opera
intellettuale previsto dagli artt. 2230 e segg. del codice civile.
Sono lontani i tempi del diritto romano pregiustinianeo nel quale l’opera dell’avvocato
(advocatus) era al di fuori della teoria dei contratti ed era, anzi, previsto il divieto per
l’advocatus stesso di esigere una retribuzione in denaro per l’opera svolta; fu, infatti,
soltanto dal primo secolo dell’impero che agli avvocati fu riconosciuto il diritto agli
onorari e il rapporto con il cliente rientrò nell’alveo della disciplina negoziale.
Il contratto d’opera intellettuale -così come il contratto d’opera tout court- costituisce una
species del genus rappresentato dal lavoro autonomo, tanto che l’art. 2230 CC. prevede
che il contratto d’opera intellettuale sia sottoposto alle medesime disposizioni previste per
il contratto d’opera ove compatibili con la natura del rapporto.
Oggetto del contratto è la prestazione di un’opera intellettuale che viene dal cliente
commessa al professionista (e dunque a esercenti una professione liberale –medici,
avvocati, ingegneri, dottori commercialisti, ecc.- di regola obbligati alla iscrizione nei
relativi albi professionali- art 2229 CC.), nel caso di specie, l’avvocato.
2. La natura giuridica dell’obbligazione gravante sul professionista.
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Al fine di individuare la natura dell’obbligazione gravante sull’avvocato soccorre, secondo
la tesi prevalente, la tradizionale distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di
risultato.
Si suole affermare che l’obbligo del professionista è soltanto quello di porre in essere una
determinata attività quale mezzo per conseguire il risultato sperato dal cliente e si suole
viceversa escludere che il professionista sia nella specie tenuto a raggiungere, a favore
della controparte contrattuale, un determinato risultato.
Questa tradizionale distinzione è stata, per vero, messa in discussione dall’orientamento
dottrinale (vedi per tutti Rescigno) secondo il quale, anche nelle obbligazioni cosiddette di
mezzi, è dovuto un risultato, comunemente individuato nell’opera che il prestatore è
tenuto a compiere in vista del fine ultimo che il cliente vuole raggiungere.
Il risultato sarebbe pertanto costituito da un complesso di prestazioni, comportamenti ed
atti, conformi alle regole dell’arte e alle norme di correttezza 1 .
La giurisprudenza della Suprema Corte, comunque, è costante nel ritenere che
l’obbligazione derivante dalla stipula di un contratto intellettuale in capo al professionista
sia una obbligazione di mezzi e ciò in quanto “il professionista, assumendo un incarico, si
impegna ad espletare la sua attività onde porre in essere tutte le condizioni tecnicamente necessarie
a consentire al cliente la realizzazione dello scopo perseguito, ma non il conseguimento effettivo di
tale risultato” (così, recentissimamente, Cassazione 30/07/2004 nr. 14597).
All’avvocato è, in buona sostanza, richiesto, non un opus, ma un facere, qualificato dalla
professionalità dell’attività svolta.
Anche il progetto di “Codice Europeo dei Contratti” elaborato dall’Accademia dei
Giusprivatisti europei distingue le obbligazioni di mezzi da quelle di risultato in omaggio
alla dottrina francese. Solo per le prime prevede l’esenzione di responsabilità del debitore
per i danni provocati ove dimostri di aver agito con la dovuta diligenza mentre per le
seconde afferma la responsabilità del debitore qualora non riesca a dimostrare che
Insuperato appare peraltro l’insegnamento di un’illustre dottrina (Mengoni) secondo la quale “in
qualunque obbligazione il bene dovuto è qualche cosa oltre l’atto del debitore. Sennonché, nelle obbligazioni
cosiddette di mezzi, l’oggetto del diritto di credito non è senz’altro una certa modificazione o la conservazione
della situazione presupposta dal rapporto e quindi l’effettivo soddisfacimento dell’interesse primario del
creditore, ma soltanto la produzione di una serie, più o meno ampia, di mutamenti intermedi ai quali è
condizionata la possibilità di tale soddisfacimento. Ciò che si attende dal debitore affinché l’obbligazione
possa dirsi adempiuta è un comportamento idoneo a dare principio ad un processo di mutamento (o di
conservazione), l’esito del quale dipende peraltro da condizioni ulteriori, o estranee alla sfera del vincolo”.
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l’inadempimento è dovuto ad una causa estranea, imprevedibile, ed irresistibile, in
conformità a quanto previsto sin dal Codice Napoleonico 2 .
3. La diligenza richiesta nell’espletamento della prestazione.
L’art. 1176 CC. prevede che, nell’adempiere l’obbligazione, il debitore debba usare la
diligenza del buon padre di famiglia, ma al secondo comma specifica che
nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di una attività professionale la
diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata.
Il capoverso dell’art. 1176 CC. fornisce allora il criterio di individuazione della diligenza
che il libero professionista deve porre nello svolgimento dell’attività professionale in
favore del cliente: detta diligenza è quella media e cioè propria di un professionista di
media preparazione e di media attenzione.
Si tratta quindi di una norma derogatoria, per le attività professionali, al criterio di
carattere generale in cui al primo comma dell’art. 1176 CC. in quanto nel caso del
professionista, il debitore, per adempiere la sua obbligazione, deve porre in essere una
cura e un interesse qualificati e specifici, propri di un professionista accorto e scrupoloso e
caratterizzanti quindi una diligenza più intensa e concreta.
L’applicabilità alla fattispecie dell’art. 1176, comma secondo CC. porta ad affermare che la
colpa richiesta per la responsabilità del professionista nell’esecuzione della prestazione è
quella ordinaria e dunque la cosiddetta colpa lieve, sia pur qualificata dal metro della
diligenza professionale.
Quanto sin qui detto in tema di obbligazioni di mezzi, ovviamente non vale nell’ipotesi in cui il
professionista accetti l’incarico di svolgere un attività stragiudiziale consistente nella formulazione
di un parere in ordine all’utile esperibilità di un azione giudiziaria e ciò in quanto qui la
prestazione oggetto del contratto non costituisce un obbligazione di mezzi ed il professionista si
obbliga ad offrire tutti gli elementi di valutazione necessari ed i suggerimenti opportuni allo scopo
di permettere al cliente di adottare una consapevole decisione a seguito di un ponderato
apprezzamento dei rischi e dei vantaggi insiti nella proposizione dell’azione.
Pertanto in applicazione del parametro della diligenza professionale, sussiste la responsabilità
dell’avvocato che nell’adempiere siffatta obbligazione, abbia omesso di prospettare al cliente tutte
le questioni di diritto e di fatto atte ad impedire l’utile esperimento dell’azione rinvenendo
fondamento detta responsabilità anche nella colpa lieve qualora la mancata prospettazione di tale
questioni sia stata frutto dell’ignoranza degli istituti giuridici elementari e fondamentali, ovvero di
incuria ed imperizia insuscettibili di giustificazione.
Nella specie il professionista aveva omesso di indicare al cliente che il diritto che questi intendeva
far valere in giudizio da prescritto omettendo altresì di approfondire l’eventuale sussistenza di
elementi e circostanze in grado di contrastare un’eventuale eccezione di prescrizione (Cass.
16023/2002).
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Peraltro, con norma speciale, l’art. 2236 CC. prevede che, nel caso di prestazioni che
implichino la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non
risponde dei danni se non in caso di dolo o colpa grave.
L’ambito di operatività dell’art. 2236 CC. risulta tuttavia profondamente modificato
dall’evoluzione giurisprudenziale della Suprema Corte che, come è stato autorevolmente
affermato, si trova, con riferimento al sistema della responsabilità civile, sempre più a
compiere un'opera di ingegneria sociale.
Ed, invero, si è sostenuto che l’art 2236 CC. è una norma di limitazione della responsabilità
circoscritta alla sola imperizia, (e non dunque estensibile alla imprudenza o alla
negligenza), fino ad affermare, ad esempio in tema di responsabilità del medico,
(sicuramente il settore oggetto delle controversie numericamente più elevate in materia di
prestazioni d’opera intellettuale e di più rilevanti approfondimenti da parte della
giurisprudenza) che l’attenuazione di responsabilità ex art. 2236 CC. non si applica a tutti
gli atti del medico ma solo ai casi di particolare complessità, o perché non ancora
sperimentati o studiati a sufficienza, o perché non ancora dibattuti con riferimento ai
metodi terapeutici da seguire.
L’attenuazione di responsabilità è poi ulteriormente limitata dalla richiesta, in capo al
professionista, di una scrupolosa attenzione pretendendosi dallo specialista uno standard
di diligenza superiore al normale, di modo che il richiamo al concetto di colpa grave non
vale più come criterio di valutazione di una grossolana divergenza dalla diligenza media,
ma come scarto di diligenza esigibile da uno specialista dal quale appunto pretendere una
preparazione ed un dispendio di attività superiore al normale (così recentemente, nella
parte motiva, Cass. 9471/2004).
Se allora la diligenza viene individuata nel comportamento che il prestatore deve
osservare al fine di rendere realizzabile la migliore tutela dell’interesse del cliente, a
contrariis la colpa professionale consisterà in quei comportamenti che non si presentano
come idonei a permettere il raggiungimento delle finalità cui si rivolge l’opera del
professionista (così Cattaneo, La responsabilità del professionista - 1958).
A tali fini spiegano allora rilievo i modificati ambiti di applicazione dei criteri classici di
imprudenza, imperizia e negligenza:
- la negligenza oggi è ritenuta una violazione di regole sociali, e dunque non soltanto una
ipotesi di disattenzione e di mancato uso dei poteri di attenzione dell’individuo;
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- l’imprudenza si sostanzia nella violazione delle modalità operative che le regole sociali
impongono per l’espletamento di certe attività e non è più soltanto la mancata adozione
delle necessarie cautele suggerite dall’esperienza 3 ;
- l’imperizia non è soltanto una attitudine men che idonea all’esercizio di arti o professioni
ma è la violazione di regole tecniche vigenti in determinati settori della vita di relazione.
Come è stato autorevolmente affermato (Macri’, La responsabilità professionale), l’attività
intellettuale oggetto della prestazione del professionista deve essere tecnicamente
impeccabile e basata sugli strumenti messi a disposizione dalla scienza e sul patrimonio
tecnico scientifico e morale del prestatore, rappresentato soprattutto dal complesso delle
sue cognizioni acquisite attraverso lo studio e l’esperienza.
Non appare invece avere autonomia concettuale il cd. errore professionale scusabile e cioè
quell’errore evitabile con l’uso della diligenza media.
In tale occasione il professionista andrà, infatti, esente da responsabilità non perché si sarà
accertato che l’errore anziché inescusabile era scusabile ma perché, ancora una volta, si
accerterà che nell’adempimento della prestazione il professionista aveva tenuto la
diligenza di cui all'art. 1176, secondo comma CC.
Il discrimen, nello specifico settore, tra responsabilità ex art. 1176, secondo comma CC. e
responsabilità ex art. 2236 CC. è stato così disegnato dalla Suprema Corte: “la responsabilità
del professionista per i danni causati nell’esercizio della sua attività postula la violazione dei doveri
inerenti al suo svolgimento tra i quali quello di diligenza che va a sua volta valutato con riguardo
alla natura dell’attività”.
In particolare, in rapporto alla professione di avvocato deve considerarsi responsabile
verso il cliente il professionista in caso di incuria e di ignoranza di disposizioni di legge e,
in genere, nei casi in cui per negligenza ed imperizia comprometta il buon esito del
giudizio, dovendosi invece ritenere esclusa la detta responsabilità, a meno di dolo o colpa
grave, solo nel caso di interpretazioni di legge o di risoluzione di questioni opinabili (Cass.
10068/96).
Il problema affrontato dal professionista deve, perciò, aver richiesto un impiego
intellettuale superiore a quello medio con conseguente dispendio di attività superiori alla
media (Cass 4437/82).
Il professionista deve in particolare evitare di adottare scelte che sconfinino nella c.d. temerarietà
sperimentale; il concetto di imprudenza costituisce quindi il limite invalicabile della discrezionalità
tecnica (Baldassari, La responsabilità del professionista).
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In tal caso il professionista sarà responsabile solo ove si riscontrino errori non scusabili per
la loro grossolanità (C5885/82) e si rinvengano ignoranze incompatibili con il grado di
addestramento e di preparazione che la reputazione di un professionista da motivo di
ritenere esistenti 4 .
4. L’obbligo di informazione e gli altri obblighi accessori al dovere di diligenza.
Un profilo particolare della diligenza richiesta all’avvocato è rappresentato dall’obbligo
di informare il cliente sull’opportunità o meno di intraprendere un giudizio e sui possibili
esiti.
Si tratta di un comportamento al quale l’avvocato deve attenersi innanzi tutto nella fase
precontrattuale, e ciò al fine di consentire al cliente la libera determinazione circa la stipula
del contratto
Casi di applicazione dell’art 1176, secondo comma CC.
Sono state ritenute ipotesi di colpa ex art. 1176, secondo comma CC.:
1. il mancato compimento di atti interruttivi della prescrizione del diritto del cliente in quanto essi,
di regola, non richiedono speciale capacità tecnica, salvo che, in relazione alla particolare
situazione di fatto, che va liberamente apprezzata dal giudice di merito, si presenti incerto il
calcolo del termine. Non ricorre tale ipotesi, con la conseguenza che il professionista può essere
chiamato a rispondere anche per semplice negligenza ex art. 1176, secondo comma CC., e non solo
per dolo e colpa grave ai sensi dell’art. 2236, allorché l’incertezza riguardi, non già gli elementi di
fatto in base ai quali va calcolato il termine, ma il termine stesso, a causa dell’incertezza della
norma giuridica da applicare al caso concreto. Parimenti l’esistenza di un contrasto
giurisprudenziale in ordine alla questione relativa all’applicabilità del termine di prescrizione, in
caso di mancata proposizione della querela, non esime il professionista dall’obbligo di diligenza
richiesto dall’art. 1176 CC. (Cass. 10454/02);
2. la errata gestione di una causa di opposizione a decreto ingiuntivo per aver omesso il difensore
di indicare la data dell’udienza di comparizione nella copia notificata dell’atto di opposizione per
aver omesso di citare un teste in una prova delegata (così Cassazione 5928/02);
3. l’omessa citazione dei testi all’udienza dibattimentale sulla dinamica dell’incidente patito dalla
parte civile (Cass. 1286/98);
4. l’aver immotivatamente trattenuto la documentazione fornita dal cliente precludendo a
quest’ultimo la possibilità di ricorso all’Autorità Giudiziaria (così Cassazione 11612/90);
5. l’aver mancato di riassumere tempestivamente una causa cancellata da ruolo per inattività delle
parti in mancanza di una espressa revoca del mandato (Tribunale Roma 2/6/03).
Casi di attenuazione della responsabilità ex art. 2236 CC.
Sono stati ritenuti problemi tecnici di speciale difficoltà
1. lo stabilire se anche il contratto preliminare debba essere provato per iscritto ove tale limitazione
di prova sia prevista dalla legge per il contratto definitivo (Pretura Taranto 19/02/82).
2. La particolare difficoltà tecnica nell’individuazione del termine di prescrizione qualora si
presenti incerto il calcolo del termine.
La proposizione di un giudizio per il recupero di un credito che poteva essere considerato
derivante da un contratto nullo (Trib Benevento 18.1.92).
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L’obbligo di informazione sussiste, poi, ovviamente, a rapporto d’opera intellettuale
instaurato in quanto il difensore deve informare l’assistito circa l’andamento delle vicende
processuali e renderlo edotto delle scelte che in corso di causa egli ha intrapreso.
E’ assolutamente costante al riguardo l’orientamento della Suprema Corte che ritiene nella
specie l’applicabilità dell’art. 1176, secondo comma CC. e quindi esclude che tale obbligo
dipenda da una difficoltà tecnico giuridica particolare, tale da legittimare da parte del
professionista l’invocazione della limitazione di responsabilità di cui all’art. 2236 CC.
In particolare si è affermato:
1. che l’avvocato che non ritenga opportuno di promuovere l’azione giudiziaria debba
comunque informare tempestivamente della sua decisione il cliente, in modo da metterlo
in condizione di evitare decadenze o prescrizioni qualora il cliente stesso sia di contrario
avviso (Cass n. 3958/69);
2. che grava sul difensore munito di procura ad litem, in quanto soggetto alle obbligazioni
del mandatario, l’obbligo di rendiconto che può dirsi adempiuto solo quando colui che vi
è tenuto abbia fornito la prova, non solo delle somme incassate, dell’entità e causale degli
esborsi, della quantità e qualità dei frutti percepiti, ma anche di tutti gli elementi di fatto
che consentano di individuare e vagliare le modalità con cui l’incarico è stato eseguito e di
stabilire anche in relazione ai fini da perseguire ed ai risultati raggiunti se l’operato di chi
rende il conto sia adeguato ai criteri di buona amministrazione (Cass. 2230/73);
3. che il professionista ha il dovere di informare il cliente dell’avvenuta prescrizione del
diritto da lui vantato prima di instaurare il processo a seguito dello studio preliminare del
caso litigioso ed in ogni caso l’obbligo di informativa sussiste quando in corso di processo
l’eccezione di prescrizione sia sollevata dalla controparte (Cass. 3298/73);
4. che il legale deve informare il proprio assistito della possibilità di ricorrere in
Cassazione avverso la pronuncia di inammissibilità dell’appello per mancato rinnovo
della notifica ad opera del legale stesso (Cass. 5617/96);
5. che l’obbligo di informazione sussiste con riferimento alla data fissata per l’udienza
dibattimentale pretorile al fine di evitare la decadenza dalla costituzione di parte civile
(Cass. 1286/98).
In materia di contenuto del dovere di diligenza si segnala poi, per la sua completezza, una
recente pronuncia della Suprema Corte (Cass. 30/7/04 n. 14597) secondo la quale la
natura dell’obbligazione assunta dal professionista, come obbligazione di mezzi, non
esime quest’ultimo dal dovere di prospettare al cliente tutti gli elementi contrari
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(ipotizzabili in virtù di quella preparazione tecnica, di quella esperienza media
caratterizzanti l’attività professionale alla luce degli evidenziati parametri normativi) per i
quali, nonostante il regolare svolgimento di tali attività, gli effetti a questa conseguenti
possano essere inferiori a quelli previsti oppure in concreto nulli o persino sfavorevoli,
determinando in tal modo un pregiudizio rispetto alla situazione antecedente; il
professionista, infatti, deve porre in grado il cliente di decidere consapevolmente, sulla
base di una adeguata valutazione di tutti gli elementi favorevoli, e anche di quelli
eventualmente contrari ragionevolmente prevedibili, se affrontare o meno i rischi connessi
all’attività richiesta al professionista medesimo. Pertanto la valutazione in ordine
all’adempimento o meno da parte dell’avvocato dell’obbligazione conseguente all’incarico
professionale conferitogli, non attiene al mero accertamento del mancato raggiungimento
del risultato utile da parte del cliente, ma involge un’indagine volta a verificare l’eventuale
violazione dei doveri connessi allo svolgimento dell’attività professionale ed in particolare
del dovere di diligenza; nell’ambito di quest’ultimo sono ricompresi i doveri di
sollecitazione di dissuasione ed in particolare di informazione al cui adempimento il
professionista è tenuto, sia all’atto dell’assunzione dell’incarico, che nel corso del suo
svolgimento, evidenziando al cliente le questioni di fatto e/o di diritto, rilevabili ab
origine o insorte successivamente, ritenute ostative al raggiungimento del risultato, o
comunque produttive del rischio di effetti dannosi, invitandolo a fornirgli gli elementi
utili alla soluzione positiva delle questioni stesse ed anche sconsigliandolo dall’iniziare o
proseguire una lite ove appaia improbabile un epilogo favorevole o anzi probabile un esito
negativo.
Il caso all’esame della Suprema Corte era quello della instaurazione da parte
dell’avvocato, all’unico fine di soddisfare un credito del cliente di lire un milione e mezzo
nei confronti della controparte, di una serie di giudizi contenziosi (opposizione di terzo ed
azione revocatoria) pur in presenza, come innanzi detto, di un credito assai modesto e di
un debitore in precaria situazione economica con l’unico risultato, per il cliente, di veder
lievitare le spese legali senza ottenere il soddisfacimento coattivo del proprio credito.
La Corte ha in buona sostanza affermato che l’avvocato avrebbe dovuto prospettare al
cliente il rapporto costi/benefici in modo da farlo eventualmente concludere per la
inutilità dei giudizi da intraprendere.
5. Il rapporto di causalità tra inadempimento e danno.
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L’art. 1223 CC. rende risarcibili i soli danni che siano conseguenza immediata e diretta
dell’inadempimento.
Sotto l’impero del codice abrogato, la Suprema Corte aveva affermato non potersi porre a
carico dell’avvocato per mancata proposizione dell’appello il danno subito dal cliente in
conseguenza della soccombenza. Si era in particolare rilevato come mancasse la certezza
della sussistenza di un rapporto di causalità tra il fatto colposo del procuratore e la
soccombenza non potendosi procedere in via induttiva alla determinazione di quello che
sarebbe stato l’esito definitivo della causa se l’appello fosse stato proposto.
La
Suprema
Corte
rilevò
inoltre
come
non
potesse
raggiungersi
la
prova
dell’immediatezza del danno attraverso una stima preventiva del prodotto del fenomeno
giudiziale (Cass. 10/2/1931).
a) La ragionevole certezza
Nei decenni, il Supremo Collegio ha abbandonato la posizione radicalmente negativa sulla
possibilità di configurare la sussistenza di un nesso di causalità tra il fatto colposo del
procuratore e la soccombenza del cliente affermando che “in materia di responsabilità del
professionista il cliente è tenuto a provare non solo di aver sofferto un danno ma anche
che questo è stato cagionato dalla insufficiente o inadeguata attività, e cioè dalla difettosa
prestazione professionale, rimanendo a carico del professionista la dimostrazione della
impossibilità, a lui non imputabile, della perfetta esecuzione della prestazione stessa;
conseguentemente l’affermazione di responsabilità di un legale implica l’indagine sul
sicuro fondamento dell’azione che avrebbe dovuto essere proposta o diligentemente
coltivata e perciò la certezza morale che gli effetti di una diversa attività del professionista
sarebbero stati vantaggiosi per il cliente (Cass. 2230/73).
Ancora più esplicitamente, richiamandosi al criterio della cosiddetta ragionevole certezza,
la Suprema Corte ha, in un'altra fattispecie, fatto carico al cliente di provare che l’azione
giudiziaria, in relazione al cui rigetto si chiedeva il risarcimento dei danni, sarebbe stata
con certezza accolta se tempestivamente proposta e che quindi il rigetto di essa fosse
dipeso con rapporto di causa ad effetto dalla irregolarità della prestazione dell’attività
intellettuale.
A ciò consegue che il giudice di merito, una volta accertato che la tardiva proposizione
della domanda sia dipesa dalla colpa del difensore, è tenuto ad esaminare, ai fini della
condanna del medesimo al risarcimento dei danni se la domanda sarebbe stata accolta ove
proposta nei termini (Cass. 3848/68).
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Spetta dunque al cliente di dimostrare, in caso di mancata impugnazione della sentenza di
primo grado, l’erroneità della sentenza stessa, oppure produrre nuovi documenti o altri
mezzi di prova idonei a fornire la ragionevole certezza che il gravame, se proposto,
sarebbe stato accolto (Cass. 2222/84).
b) Il criterio probabilistico
La più recente giurisprudenza della Suprema Corte si è peraltro orientata, in conformità
alle decisioni già adottate in altri settori della responsabilità dei professionisti (quello
medico in particolare) a ritenere provato il nesso causale tra inadempimento e danno
attraverso un criterio, non di certezza degli effetti della condotta, ma di mera probabilità,
criterio tutt’affatto diverso e più favorevole per il cliente.
Mentre i precedenti orientamenti si richiamavano all’applicazione dei principi della
equivalenza di cause e della causalità efficiente di cui agli artt. 40 e 41 c.p. (con la
conseguenza che il limite alla configurazione del rapporto di causalità tra antecedente ed
evento era rappresentato solo dall’idoneità della causa successiva ad essere valutata come
la causa sufficiente ed unica del danno) o
richiedevano l’accertamento sul sicuro
fondamento dell’azione che avrebbe dovuto essere proposta o diligentemente coltivata e
dunque la certezza morale che gli effetti di una diversa attività del professionista
sarebbero stati vantaggiosi per il cliente, l’orientamento attuale richiede, non la certezza,
ma serie ed apprezzabili possibilità di successo, semplici probabilità di un possibile
diverso esito 5 .
In ordine alla soglia minima che il criterio probabilistico deve possedere per assumere
rilevanza ai fini della sussistenza del rapporto di causalità, merita di essere segnalato che
nel campo penale, ed in particolare con riferimento a comportamenti omissivi nel settore
medico–chirurgico, le Sezioni Unite Penali del Supremo Collegio, risolvendo un contrasto
di giurisprudenza tra alcune pronunce che affermavano dover essere vicino alla certezza
ed altre che ritenevano essere sufficienti serie ed apprezzabili probabilità di successo ha
enunciato i seguenti principi di diritto:
1. il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controffattuale
condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza, o di una legge scientifica
(universale o statistica), si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la
condotta doverosa impeditiva dell’evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato
Così Cass. 1286/98, che si segnala anche per aver cercato di attenuare la rilevanza, in subiecta
materia, della differenza tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, facendo riferimento
all’obbligo per gli avvocati di perseguire il buon esito della lite.
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oppure si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore, o con minore
intensità lesiva:
2. non è consentito dedurre automaticamente, dal coefficiente di probabilità espresso dalla
legge statistica, la conferma o meno dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso
causale, perché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto sulla base delle
circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, cosicché all’esito del ragionamento
probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e
processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata
condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale o
probabilità logica (Cass. Penale Sezioni Unite 30328/02).
Detta pronuncia si caratterizza, per un verso, per il richiamo al rigore del giudice
nell’accertamento del nesso causale e, per altro verso, per valorizzare l’apprezzamento, da
parte del giudice del merito, delle circostanze di fatto che possono confortare, o meno, in
ordine alla sussistenza del nesso causale, con ciò discostandosi da pregresse posizioni
della giurisprudenza della Suprema Corte che avevano addirittura ritenuto corretta la
valutazione del giudice di merito sulla sussistenza del nesso causale tra la condotta
omissiva e l’evento sussistendo la probabilità del 30% che un corretto e tempestivo
intervento medico avrebbe avuto un esito positivo (Cass. 371/92).
Altre, e più risalenti, pronunce della Suprema Corte in materia di prova per presunzioni,
hanno affermato il principio secondo cui non occorre che i fatti su cui la presunzione si
fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza
possibile dei fatti accertati in giudizio, secondo un legame di necessarietà assoluta ed
esclusiva, bastando invece che l’operata interferenza sia effettuata alla stregua di un
canone di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile, verosimile di
accadimenti la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza
accolte dal giudice per giungere all’espresso convincimento circa tale probabilità di
sussistenza e la compatibilità del fatto supposto con quello accertato (così Cass. 2790/95 e
9717/91).
Anche per tale via, pertanto, può affermarsi, nell’ipotesi che ci occupa, la rilevanza del
criterio probabilistico che peraltro, lascia, soprattutto in una materia svincolata da leggi
mediche o chimiche di valenza incontestata, ampio margine all’apprezzamento del giudice
di merito.
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5. La perdita di chances
La chance, assurta da più di un decennio ad entità giuridicamente rilevante, è definita
dalla Suprema Corte come una concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire
un determinato bene o risultato e pertanto non è una mera aspettativa di fatto ma appunto
un entità patrimoniale a sè stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di
autonoma valutazione per il che la sua perdita, id est la perdita della possibilità
consistente di conseguire il risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura
un danno concreto ed attuale (Cass. 11340/98).
Si tratta di un danno che non è meramente ipotetico od eventuale, quale sarebbe stato se
correlato al raggiungimento del risultato utile bensì concreto ed attuale (perdita di una
consistente possibilità di conseguire quel risultato).
Detto danno, pertanto, non va commisurato alla perdita del risultato, ma alla mera
possibilità di conseguirlo.
Nel quadro della giurisprudenza della Suprema Corte che ha esaminato la questione della
perdita di chances, appare di notevole rilievo una recente sentenza ( Cass. 4400/2004) che
ha ben evidenziato come il criterio probabilistico e la cosiddetta perdita di chances
abbiano ambiti applicativi del tutto diversi. Non è pertanto possibile ritenere che, laddove
l’applicazione del criterio probabilistico evidenzi percentuali modeste di risultato utile per
l’attore e dunque non consenta di ritenere provato il nesso di casualità tra inadempimento
e danno, possa essere elargito all’attore medesimo un minus costituito dalla
quantificazione di quelle, appunto scarse, probabilità di successo.
Quel che rileva nella specie è appunto il principio della domanda per cui, ad esempio in
materia lavoristica, se il dipendente reclama come danno di aver perso i vantaggi inerenti
alla posizione superiore, alla sua domanda si applica il modello in tema di inadempimento
di prestazione professionale intellettuale, per cui la domanda va rigettata se le probabilità
di vittoria erano scarse, mentre se erano elevate, gli si liquida tutto il danno che deriva dal
non aver raggiunto la posizione superiore.
Se il dipendente reclama che è stato privato della possibilità di concorrere, si considera che
il diritto leso è stato quello di partecipare e lo si risarcisce di una quota di danno
commisurato alla possibilità di vittoria che gli è stata riconosciuta.
In campo medico, poi- e deve ritenersi che tale ragionamento possa mutuarsi anche nel
settore che ci occupa-, è stato ribadito che la domanda per perdita di chances è
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ontologicamente diversa dalla domanda di risarcimento del danno da mancato
raggiungimento del risultato sperato.
Infatti, in questo secondo caso la stessa collocazione logico giuridica dell’accertamento
probabilistico attiene alla fase di individuazione del nesso causale mentre nell’altro caso
attiene al momento della determinazione del danno: in buona sostanza nel primo caso le
chances substanziano il nesso causale, nel secondo caso sono l’oggetto della perdita e
quindi del danno.
Deve quindi ritenersi che l’attuale orientamento dominante della Suprema Corte (vedi
anche Cass. 123/2003-734/2002) dissoci il danno come perdita della possibilità, dal danno
per mancata realizzazione del risultato finale, così introducendo una distinta ed autonoma
ipotesi di danno emergente incidente su un diverso bene giuridico, la possibilità del
risultato appunto.
Ne consegue, nell’ambito della responsabilità medica, ma non solo, che ove sia stato
richiesto solo il danno da mancato raggiungimento del risultato sperato, non può il
giudice esaminare ed
eventualmente liquidare il danno da perdita di chances che il
creditore della prestazione aveva, neppure intendendo questa domanda come un minus
rispetto a quella proposta, trattandosi invece di domande diverse non ricomprese l’una
nell’altra (Cass. 4400/2004).
6. La responsabilità dell’avvocato per fatto dei sostituti e degli ausiliari.
L’art. 2232 CC. prevede che il professionista debba eseguire personalmente l’incarico
ricevuto ma gli attribuisce la facoltà di valersi di sostituti ed ausiliari.
Gli ausiliari sono
coloro che aiutano il professionista cooperando allo svolgimento
dell’incarico e lavorando insieme a lui ed in genere sono legati all’avvocato da un
contratto di lavoro subordinato.
I sostituti sono
colleghi dell’avvocato che compiono un attività in sua vece o lo
sostituiscono.
L’art. 2232 CC. utilizzando l’espressione “sotto la direzione” non allude ad un particolare i
vincolo intercorrente fra professionista ed ausiliari e sostituti ma sancisce un obbligo in
capo al professionista il quale è tenuto verso il cliente a dirigere egli stesso l’esecuzione
della prestazione.
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Sotto il profilo della responsabilità non vi è dubbio che il professionista è l’unico
destinatario delle doglianze del committente per un comportamento inadempiente.
Cosa diversa è il fatto che l’ausiliario possa essere chiamato a rispondere nei confronti del
professionista secondo le norme generali per fatto illecito in ordine ai danni da evento
ricollegabili ad una condotta colposa nell’esecuzione delle mansioni affidate ( Cass.
3016/75).
7. L’art 2226 CC. e la sua inapplicabilita’ al contratto d’opera intellettuale.
Ci si è chiesti se il professionista possa godere della norma agevolatrice in termini di
limitazione di responsabilità prevista per il lavoro autonomo in generale dall’art 2226 CC.
in caso di “difformità o vizi dell’opera”, e ciò perché l’art 2230 CC. estende al contratto
d’opera intellettuale le disposizioni del contratto d’opera in quanto compatibili.
Un orientamento giurisprudenziale più risalente (Cass 1101/639) aveva escluso tale
applicabilità sulla scorta dell’impossibilità di tradurre in risultato obbiettivamente
esteriorizzato una obbligazione tipicamente di mezzi.
Altre successive pronunce ne hanno invece ritenuto l’applicabilità quando oggetto della
prestazione sia un opus dotato di materialità.
L’attuale orientamento è invece nel senso di ritenere che l'art. 2226 cod. civ. che regola i
diritti del committente per il caso di difformità e vizi dell'opera, non è applicabile al
contratto di prestazione di opera professionale intellettuale; essa, infatti, ha per oggetto pur quando si estrinsechi, come nel caso della redazione di un progetto di costruzione da
parte di un ingegnere, in una cosa visibile quale il progetto medesimo - la prestazione di
un bene immateriale in relazione al quale non sono percepibili, come invece per i beni
materiali, le difformità o i vizi eventualmente presenti. Il complesso di grafici, disegni, e
calcoli rappresenta, infatti, solo il "corpus mechanicum" in cui essa prestazione
intellettuale si estrinseca onde essere utilizzata dal committente (così Cass 4704 /97 e
10741 /02).
Non par quindi esservi dubbio, sulla scorta di tale indirizzo, che tale norma non trovi
applicazione in tema di responsabilità dell’avvocato.
8. L’onere della prova.
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Secondo una distinzione tradizionale, la rigida regola di responsabilità fissata nell'art. 1218
CC. per il caso d'inadempimento, varrebbe soltanto per le obbligazioni “di risultato”,
mentre per quelle “di mezzi” varrebbe il principio della diligenza.
Dal punto di vista dell'onere della prova, invece, si assisterebbe, nel caso delle
obbligazioni “di mezzi”, all'individuazione dell'onere in capo al creditore, dovendosi al
contrario individuarlo in capo al debitore in quelle di “risultato”.
Secondo una autorevole dottrina (Mengoni), poi, che giunge al medesimo risultato, il
debitore può dirsi liberato dalle conseguenze dell’inadempimento se prova di essersi
trovato nell’impossibilità di adempiere senza impiegare mezzi anormali rispetto al
contenuto dell’obbligazione.
L’art 1176 CC. possiederebbe una valenza specificativa della responsabilità del debitore
per l’inadempimento a norma dell’art 1218 CC.
La causa dell’inadempimento avrebbe i caratteri della non imputabilità al debitore ove
non dipenda da colpa di questi, nel senso che il debitore non abbia potuto impedirne la
verificazione malgrado l’uso della normale diligenza.
Sul piano strettamente processuale il cliente non potrebbe limitarsi a dimostrare l’evento
dannoso (la perdita della causa) ma dovrebbe dimostrare la sussistenza del nesso causale
tra l’evento dannoso e il comportamento del professionista, e la violazione da parte di
questi dell’obbligo di prestare la dovuta diligenza, mentre il professionista dovrebbe poi, a
sua volta, dimostrare che la imperfetta esecuzione della prestazione è dovuta a una causa
a lui non imputabile.
Ai nostri fini ne conseguirebbe che, essendo generalmente inquadrata l'obbligazione del
professionista tra quelle “di mezzi”, l'onere della prova graverebbe sul cliente.
Altri autori (Rescigno) hanno affrontato criticamente la distinzione tra obbligazione di
mezzi e obbligazione di risultato, osservando che l'art. 1176 CC. riguardante la diligenza
nell'adempimento e l'art. 1218 CC. sulla responsabilità del debitore per l'inadempimento,
concernono tutte le obbligazioni, e non sono suscettibili di applicazione distinta a seconda
della tipologia di obbligazioni in discorso: applicabilità dell’art. 1218 solo per le
obbligazioni di risultato, valendo il principio della diligenza per le altre.
Secondo tale autore vi è piuttosto una tipologia di obbligazioni nelle quali la diligenza,
oltre che la misura per valutare l'esattezza dell'adempimento, costituisce ed esaurisce
l'oggetto stesso dell'obbligazione. Il comportamento negligente integrerebbe già, di per sé
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solo, gli estremi dell'inadempimento, senza doversi attendere il proseguimento della
prestazione.
In Giurisprudenza si era prima affermato un indirizzo secondo il quale (Cass 11652/90 ) ai
sensi degli artt. 1176 e 1218 CC. nelle obbligazioni di mezzi, quando la prestazione del
debitore non è mancata, grava sul creditore l'onere di allegare (e provare), mediante
eccezione in senso proprio soggetta alla preclusione di cui all'art. 416 cpc. e non
proponibile per la prima volta in appello, la condotta colposa del debitore per violazione
dell'obbligo di diligenza, con la specificazione di quei profili d'inadeguatezza della
prestazione resa, in cui si concreta il fatto dello inadempimento, salva per il debitore la
possibilità di fornire la prova della non imputabilità della violazione predetta 6 .
Recentemente Cass. Sez. 3, sentenza n. 11488 del 21/06/2004, ha precisato che “la prova
dell'incolpevolezza dell'inadempimento (ossia della impossibilità della prestazione per causa non
imputabile al debitore) e della diligenza nell'adempimento è sempre riferibile alla sfera d'azione del
debitore, in misura tanto più marcata quanto più l'esecuzione della prestazione consista
nell'applicazione di regole tecniche, sconosciute al creditore in quanto estranee al bagaglio della
comune esperienza e specificamente proprie di quello del debitore”.
La profonda evoluzione giurisprudenziale, che ha portato la Suprema Corte a porre
sostanzialmente l’onere della prova a carico del professionista, gravando il cliente del solo
onere di provare la stipula del contratto e di allegare l’inadempimento, ha trovato il suo
punto di approdo, allo stato, nella pronuncia n. 10297/ 04.
La Cassazione ha in particolare affermato la necessità di rileggere i principi fino ad allora
applicati in materia di onere della prova alla luce della pronuncia delle Sezioni Unite che
con sentenza 30 ottobre 2001 n. 13.533 avevano enunciato il principio secondo cui il
creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero
per l'adempimento, deve dare la prova della fonte del suo diritto limitandosi ad allegare
l'inadempimento della controparte, mentre è quest'ultima ad essere gravata dell'onere
della prova del fatto estintivo, costituito dall'esatto adempimento.
Secondo Cass. Sez. 3, sentenza n. 10297 del 28/05/2004, “In tema di responsabilità civile nell'attività
medico-chirurgica, il paziente che agisce in giudizio deducendo l'inesatto adempimento dell'obbligazione
sanitaria deve provare il contratto e/o il "contatto" e allegare l'inadempimento del professionista, che
consiste nell'aggravamento della situazione patologica del paziente o nell'insorgenza di nuove patologie per
effetto dell'intervento, restando a carico dell'obbligato - sia esso il sanitario o la struttura - la prova che la
prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati
determinati da un evento imprevisto e imprevedibile”.
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Secondo tale ultima, per ciò che consta, decisione, spetta pertanto al cliente (paziente
nell'ipotesi esaminata dalla sentenza) di provare l'esistenza del contratto e il risultato
peggiorativo scaturito dall'intervento del professionista, mentre è quest'ultimo ad essere
gravato della prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e
che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile.
Tale conclusione rispetta in pieno l'orientamento giurisprudenziale che, in tema di onere
della prova, va accentuando il principio della vicinanza della prova stessa, ripartendo
l'onere in ragione dell'effettiva possibilità, per l'una o per l'altra parte, di offrire la prova
stessa e non vi è dubbio che coincidendo l’inadempimento con il difetto di diligenza
nell’esecuzione della prestazione la prova sia vicina a chi ha eseguito la prestazione.
L’iter ricostruttivo sin qui compiuto evidenzia il travagliato cammino che dottrina e
giurisprudenza hanno compiuto per assicurare effettività di tutela al cliente del contratto
d’opera intellettuale.
Tale tutela passa attraverso la rilevanza della probabilità in tema di nesso causale per poi
ampliare il novero dei danni risarcibili fino a gravare il professionista degli oneri probatori
connessi al contestato inadempimento.
È difficile dire se in materia l’evoluzione giurisprudenziale sia giunta a termine, certo lo
stato dell’arte impone una serena ma rigida valutazione delle iniziative giudiziali
intraprese e una quanto mai opportuna opera di filtro da parte dei legali che debbano
valutare la praticabilità dell’iniziativa nei confronti del collega.
Miro Santangelo
Giudice del Tribunale di Varese
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