Il tavolino di Lomas Zamora

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Il tavolino di Lomas Zamora
Dati dell’autore:
Giri Massimiliano
[email protected]
Via 21 settembre, 50/a
47897 Fiorentino
Repubblica di San Marino
Titolo opera: Il tavolino di Lomas Zamora.
Con il presente documento dichiaro che l’opera dal titolo: Il tavolino di Lomas
Zamora, è scritta da Massimiliano Giri ed è un’opera inedita.
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Il tavolino di Lomas Zamora
Argentina, sabato 12 gennaio 1980
Buenos Aires alitava il suo fiato bollente sopra ai tetti di lamiera di Lomas Zamora,
accartocciando le ombre come figli disobbedienti da punire. Un sudario infuocato
avvolgeva la favela e tutti i reietti umani che l’abitavano: bande armate di ragazzini
scheletrici, prostitute dai visi troppo truccati, tossicodipendenti con braccia livide e
denti marci.
Dentro una baracca edificata con terra e immondizia, Fernando se ne stava seduto
avvinghiato alle gambe ossute, mentre Carlos, il fratello maggiore, preparava le dosi
da vendere per pochi pesos ai diseredati del quartiere.
‒ Dai alza il culo, la roba è pronta. Portala al mercato e non fare credito a nessuno,
capito? Specie a Pablo, che non ha mai il becco di un quattrino.
Fernando non rispose, raccolse le bustine e s’incamminò lungo la via di terra battuta
che puzzava di carne avariata e urina, accompagnato da Angus, un cane spellato dalla
rogna.
Il sole, nella piazza del mercato, gocciava un nodo d’olio bollente sulle schiene
bruciate degli avventori, che si accalcavano come formiche sulle numerose
bancarelle. In mezzo alla calca variopinta si diffondeva odore di sudore, pesce fresco
e pannocchie arrostite. Pablo gli venne incontro con il solito crocefisso d’oro che gli
ciondolava sul petto glabro, gli stessi pantaloncini verdi e infradito di paglia che
indossava da una vita.
‒ Non posso darti niente ‒ l’anticipò Fernando, riparandosi sotto l’ombra di un
tendone. ‒ Mio fratello è stato tassativo.
Pablo si strinse nelle spalle mostrando i palmi della mani in segno di resa. ‒ Ehi,
okay. Non preoccuparti! Comunque ho molto denaro adesso. Sto diventando ricco,
sai?
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‒ Ricco? Ma che vai blaterando?
‒ Sì! ‒ insistette lui. ‒ Ho un lavoro che mi sta fruttando bene.
‒ Allora ricordati dei soldi che devi a mio fratello.
‒ Naturale che me li ricordo. Li avrà.
‒ Di che lavoro si tratta?
‒ Recluto persone per soddisfare i bisogni particolari del mio cliente. È un uomo
ricchissimo che vive a La Horqueta ‒ sibilò Pablo, mostrando gli incisivi
bianchissimi. ‒ Tu per esempio, vuoi lavorare per lui?
‒ Bisogni particolari di che tipo?
Pablo si avvicino all’orecchio di Fernando per sussurrargli i dettagli del lavoro.
‒ Ma è matto? ‒ squittì Fernando, dopo aver ascoltato.
‒ No. È solo eccentrico e gli piacciono queste cose. Ma a te che importa? Vedilo solo
come un lavoro! ‒ si affrettò a ribattere Pablo. ‒ Tutte le persone che ho portato da lui
adesso hanno il portafoglio più gonfio.
Fernando si grattò il mento. Poteva essere l’occasione per dimostrare a Carlos che
anche lui, riusciva a contribuire all’economia della famiglia.
‒ Quanto paga per il lavoro?
Pablo ghignò con aria soddisfatta. ‒ All’inizio cento pesos, ma se gli andrai bene
arriverà a trecento.
‒ Al mese?
‒ A servizio.
Fernando si sentì nervoso ed eccitato allo stesso tempo. ‒ Va bene, accetto il lavoro.
‒ Bueno cabrón, allora seguimi e te lo farò conoscere.
‒ Come si chiama?
‒ Nessuno sa il suo nome. Io lo chiamo solo signore.
Fernando seguì Pablo fuori dalla favela, attraversando lo squallore multicolore delle
baracche che assediavano la collina come nidi di zecche. Dopo un’ora di cammino
arrivarono a La Horqueta, dove le case dei facoltosi riposavano protette da mura di
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cemento armato e filo elettrificato. Si diressero verso una villa immersa nel verde e
Fernando restò sorpreso, quando vide Pablo estrarre una chiave personale.
‒ Te l’ho detto che sto per diventare ricco ‒ sghignazzò, aprendo la porta
dell’abitazione.
Oltre l’ingresso, un salone con il soffitto affrescato si aprì ai loro occhi. Ai lati, otto
colonne doriche di marmo svettavano come in un antico tempio.
‒ Impressionato?
‒ Sì ‒ tentennò Fernando. ‒ Un po’
‒ Vieni. Ci aspetta in biblioteca.
Pablo aprì una porta e condusse Fernando in una stanza circolare, colma di piante e
libri stipati ovunque. All’interno un uomo, curvo come un salice piangente sopra il
proprio bastone, li stava aspettando. La sua pelle era una diafana carta velina, in
contrasto con l’abito scuro che indossava. Il viso, con il lato destro seminascosto dai
lunghi capelli argentei, accoglieva occhi torbidi e ispide sopracciglia pettinate
all’insù.
‒ Buongiorno, signore. Le ho portato un ragazzo che potrebbe fare al caso suo.
Il vecchio sondò Fernando dalla testa ai piedi, facendolo sentire a disagio.
‒ Qual è il suo nome, giovanotto?
‒ Fernando.
‒ Pablo le avrà accennato in cosa consiste il lavoro.
Fernando confermò con imbarazzo. ‒ Sì, me l’ha detto.
‒ Molto bene. Ci lasci soli ora ‒ ordinò l’anziano rivolgendosi a Pablo. ‒ Più tardi le
darò la sua percentuale.
‒ Tornerò fra un paio d’ore, signore ‒ borbottò Pablo, e scivolò a testa bassa dietro la
porta, scomparendo.
Quando furono soli, l’uomo alzò il bastone fino al mento, e grattandosi con
l’impugnatura d’avorio, ordinò. ‒ Si giri, per favore.
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Fernando obbedì con prudenza. Non si fidava di quella mummia: nei suoi modi c’era
qualcosa di bizzarro. Un’aurea malevola circondava la sua figura come un sudario. Il
vecchio si avvicinò, tanto che Fernando percepì il suo fiato sulle scapole sudate:
puzzava di carogne lasciate a decomporsi al sole.
‒ Una buona schiena ‒ gracchiò. ‒ Ora si spogli, e si metta a quattro zampe.
Fernando incrociò lo sguardo dell’anziano. ‒ Voglio prima i soldi ‒ mormorò, con
voce malferma.
‒ Cinquanta pesos adesso ‒ rispose l’altro. ‒ Il resto a fine lavoro. ‒ Il vecchio gli
porse il denaro con la mano nodosa. ‒ Coraggio. Li prenda.
Fernando osservò la banconota: la faccia stampata in viola del presidente Julio Roca
Paz lo fissava accartocciata di fianco alla filigrana. Non aveva mai guadagnato tanto
da solo. Suo fratello ne sarebbe stato fiero. Prese i soldi e l’intascò.
‒ Bene. Adesso si spogli.
Fernando lasciò scivolare pantaloncini e slip fino alle caviglie e li sfilò da un piede,
poi, si posizionò carponi.
‒ Cerchi di mantenere la schiena dritta ‒ bofonchiò il vecchio, dirigendosi verso un
armadio a due ante.
Fernando abbassò la testa a fissare il marmo del pavimento, sentendo il cuore
pompargli convulso nelle tempie. Udì l’altro trafficare nell’armadio, finché una
sensazione di gelo gli pervase le scapole e la zona lombare: l’uomo gli aveva
appoggiato sul dorso una pesante lastra di vetro.
‒ Stia fermo! ‒ grugnì. ‒ Devo vedere se la sua schiena è adatta.
Fernando cercò di concentrarsi, e irrigidì i muscoli per stabilizzare il piano di cristallo
che gli premeva da sopra come una mano invisibile. Dopo qualche secondo di
silenzio, il vecchio rimosse la lastra e l’appoggiò contro una parete.
‒ Bene, congratulazioni! Lei è perfetto per essere il mio nuovo tavolino.
‒ Okay ‒ replicò Fernando. ‒ Ma poi voglio la mia paga.
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‒ Sono un uomo di parola, non si preoccupi, la pagherò. Ma adesso, la prego, beva un
po’ di limonata fresca ‒ lo invitò l’altro, che nel frattempo aveva riempito un
bicchiere da una brocca. ‒ La aspetta un pomeriggio faticoso e mi sembra ancora
accaldato.
Fernando aveva la gola riarsa come la favela da dove proveniva. Accettò di buon
grado il bicchiere che gli veniva offerto e trangugiò la bevanda tutta d’un fiato.
‒ Per quanto tempo dovrò farle da tavolino? ‒ azzardò a domandare Fernando.
‒ Per oggi solo qualche ora, tanto per valutare la sua resistenza. Poi la convocherò un
paio di volte alla settimana, in occasioni particolari ‒ rispose l’uomo. ‒ Io e i miei
amici giocheremo a carte sulla sua schiena ‒ continuò. ‒ Ora mi segua. Voglio che
faccia la prova di resistenza nello studio, non in biblioteca.
L’anziano guidò Fernando in una stanza buia adiacente la libreria, dove solo una
parete, s’intravvedeva in quel gorgo di pece. ‒ Mi aspetti qui, mentre vado a prendere
la lastra e le cinghie per fissarla.
Fernando obbedì, cercando di non inciampare nell’ombra. Riuscì a distinguere solo,
appesa alla parete visibile, una foto in bianco e nero di un plotone di soldati in parata,
sotto la quale campeggiavano svastiche e altre iconografie naziste.
Mentre studiava i volti inespressivi dei soldati, avvertì un violento capogiro. Si sentì
pervaso da un senso di torpore improvviso. Si accasciò a terra, ansimando, con lo
sguardo perso nell’oscurità.
I passi del vecchio si avvicinarono echeggiando nella sua testa come tamburi, e
quando la luce di una lampadina a incandescenza ingoiò le tenebre, Fernando vide,
con gli occhi sgranati dal terrore, l’interno dello studio: alla sua sinistra un uomo
nudo, rigido come una statua, fungeva da attaccapanni, reggendo una giacca e un
cappello. Nelle orbite vuote erano inserite due svastiche di metallo, e la mandibola
semi staccata, lasciava in mostra tutta l’arcata dentaria inferiore. Vicino
all’attaccapanni, c’era una libreria composta da quattro uomini mummificati usati
come ripiani. I corpi erano sostenuti da tubi di acciaio che fuoriuscivano dalle bocche
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e dai retti, rendendo i cadaveri come enormi spiedini. Tutto lo studio, a esclusione
della scrivania, risultava arredato con un macabro mobilio di carne e metallo.
Il vecchio si avvicinò a Fernando e cominciò a punzecchiarlo nelle costole con la
punta del bastone.
‒ Mi dispiace che debba finire così ‒ ridacchiò. ‒ Ma voi siete animali e io il
cacciatore. Comunque non si preoccupi, non sentirà alcun male mentre le reciderò i
tendini, la svuoterò delle interiora e la riempirò di metallo e formaldeide. Vedrà,
riuscirò a fare di lei un tavolino perfetto!
Fernando lo afferrò per una gamba con le ultime forze che gli restavano in corpo. Il
vecchio scivolò contro una mensola stipata di barattoli colmi di organi genitali sotto
formalina. Un recipiente esplose al suolo spargendo sul pavimento uno sciame di
schegge e un pene intorpidito. Un odore pungente aggredì le narici di Fernando
facendogli lacrimare gli occhi.
Il vecchio ritrovò l’equilibrio e i suoi lineamenti trasfigurarono in pieghe di pazzia. Si
avvicinò al ragazzo e gli assestò due colpi alla testa con il bastone. Fernando sentì un
rivolo di liquido caldo scivolargli dalla tempia allo zigomo, disegnando sulla trama
del tappeto un intricato groviglio di lingue scarlatte.
‒ Brutto animale! ‒ grugnì l’anziano, con la voce che adesso sembrava una eco
lontana. ‒ Cosa voleva fare, scappare?
‒ M… lasc… ‒ biascicò Fernando, che cominciava a vedere il suo carnefice con i
contorni sempre più rarefatti.
‒ Non si sforzi a parlare ‒ mormorò, sedendosi su una poltrona fatta di braccia e
gambe intrecciate. ‒ Si arrenda all’inevitabile e vedrà che non se ne accorgerà
nemmeno.
Fernando lottò contro se stesso per restare sveglio. Strisciò sul pavimento sentendo
alle sue spalle il ghigno cacofonico del pazzo.
Presto la stanza e i volti dei cadaveri cominciarono a girare nella sua mente in un
caleidoscopio di colori bruciati, e Fernando si arrese all’idea che non avrebbe mai
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contribuito all’economia della famiglia. Sarebbe diventato un tavolino di carne secca
e nessuno l’avrebbe più trovato. Un’ombra scura lo abbracciò quando ormai non
distingueva più le immagini e i colori. Un grido gli inondò i timpani come uno
tsunami di frequenze altisonanti. Udì i suoni confusi e concitati di una colluttazione.
Poi fu solo silenzio.
Domenica 13 gennaio
Quando Fernando annusò l’aria, puzzava di piscio cotto dal sole e spazzatura. Riaprì
gli occhi e riconobbe subito il soffitto: era quello della sua baracca a Lomas Zamora.
Era steso nel suo letto di stracci, tramortito, con la bocca amara e una patina di sudore
ad avvolgerlo come una seconda pelle. Da dietro la zanzariera vide Carlos seduto a
tavola: armeggiava con un tirapugni. In un angolo c’era Pablo raggomitolato sopra
una macchia paglierina e pezzi di denti rotti: la sua faccia era una lampo aperta che
vomitava sangue.
‒ Ehi, sei sveglio? ‒ esclamò Carlos, voltandosi verso Fernando.
‒ Co… cos’è successo?
‒ Ti ho salvato il culo. Ma che cazzo ci facevi lì? Ti ha dato di volta il cervello?
‒ M-ma… come mi hai trovato?
‒ Vi ho seguiti ‒ rispose il fratello. ‒ Per via dei soldi che mi doveva questo infame ‒
sibilò, puntando Pablo. ‒ Sapevo che se mi fossi presentato io al mercato sarebbe
scappato, così ho mandato te in avanscoperta. Poi ho visto che prendevate la via del
centro.
‒ L’hai ucciso?
‒ Il nazista? Certo che l’ho ucciso, gente come quella non merita un processo. Come
non lo merita questo cane. ‒ Carlos si alzò e assestò una raffica di calci a Pablo,
ormai in fin di vita. ‒ Volevi vendere mio fratello a quello psicopatico, vero?
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Fernando arrancò verso Carlos, tenendo premuta la benda che gli avvolgeva la testa
come un turbante. Fitte lancinanti gli martellavano il cranio con scosse regolari.
‒ Il corpo del vecchio dov’è?
‒ Che domande! L’ho lasciato in quella specie di mausoleo.
‒ Voglio tornarci.
‒ Perché?
Fernando fissò il fratello, sentendo la rabbia veleggiare dentro di sé come una fregata
sul piede di guerra. ‒ Perché ci serve un tavolino nuovo. Non credi?
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