Istantanee del sé. Appunti su autoritratto fotografico e identità moderna

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Istantanee del sé. Appunti su autoritratto fotografico e identità moderna
MARCELLO WALTER BRUNO
ISTANTANEE DEL SÉ
AUTORITRATTO FOTOGRAFICO
E IDENTITÀ MODERNA
A Marianna
specchio dell’anima
1
Introduzione
Se è facile dimostrare che la Fotografia è figlia della Modernità - diciamo: che la riproduzione indexicale del mondo è una conseguenza
dell’effervescenza tecnoscientifica dell’occidente capitalistico nel XIX secolo - , più problematico è affermare che l’Io moderno è nato nella camera
oscura. Eppure la storia culturale delle scienze sociali deve confrontarsi con
questo dato: solo la riproducibilità tecnica dei volti permette di concepire la
carta d’identità come strumento necessario per il controllo della (libera?)
circolazione delle persone all’interno delle metropoli, nel corpo organico
dello stato-nazione e – sotto forma di passaporto – nello spazio poroso del
mondo globalizzato. Il passaggio dalla Gemeinschaft alla Gesellschaft è anche questo: la fine di un controllo sociale basato sulla conoscenza personale
e l’inizio di una spersonalizzazione (sistematica, sistemica) che trova nella
fotoritrattistica il suo supporto tecnologicamente avanzato.
Quando Foucault parla delle «tecnologie del sé, che permettono agli individui di eseguire, coi propri mezzi o con l’aiuto degli altri, un certo numero di operazioni sul proprio corpo e sulla propria anima – dai pensieri, al
comportamento, al modo di essere – e di realizzare in tal modo una trasformazione di se stessi allo scopo di raggiungere uno stato caratterizzato da felicità, purezza, saggezza, perfezione o immortalità»1, sta pensando a pratiche
che vanno dall’introspezione filosofica alla seduta psicanalitica. Ma - ferma
restando la centralità del linguaggio verbale tanto nella costituzione della
società quanto nella strutturazione dei sistemi psichici - non si può non vedere come l’avvento delle tecnoimmagini abbia finito col rivoluzionare
l’attorialità sociale ridefinendo i confini della visibilità, la dialettica tra esibizione e potere, il ruolo delle apparenze, l’economia del corpo. La biopolitica è contemporaneamente un’iconopolitica.
«»
1
M. Foucault, Le tecnologie del sé, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 13.
2
1.
L’autoritratto prima della fotografia:
l’identità sociale dell’artista moderno
Bisogna pur immaginarlo, l’autoritratto; e bisogna immaginarlo da subito come autore-ritratto, quand’anche il ritrattista (disegnatore, pittore,
grafico, fotografo, scultore – ma perché non scrittore?) non possedesse ancora il carisma ufficiale dell’autorialità. Immaginarlo non significa che l’
esecuzione produrrà un’immagine: spesso il termine viene usato per etichettare un genere letterario prossimo all’autobiografia; e questo già implica un passaggio alla diegesi, all’immagine-azione. Ma nulla vieta alla
pittura – all’iconopoiesi – l’episodio (auto)biografico, il frammento (auto)narrativo: ecco allora Goya curato dal dottor Arieta, in un quadro del
1820; ecco Van Gogh con l’orecchio tagliato (1889) o l’autoritratto da malato di Kirchner (1918); ecco Frida Kahlo che si è appena tagliata tutti i
capelli dopo esser stata abbandonata da Diego Rivera (1940). Dopo i miti
degli dèi e le vite dei santi, sono le leggende degli artisti maledetti ad annunciare la modernità come regno dell’autosoggettivazione.
Bisogna pur vedere, per dipingere – o per scattare foto. Il disegno è
cieco, dice Derrida riprendendo Baudelaire2: appena lo sguardo abbandona
il soggetto da ritrarre per guardare il foglio ancora bianco, nulla è visto – e
ciò che guida la mano non è la percezione ma solo la memoria, foss’anche
una bergsoniana “memoria del presente” (legata a un soggetto fisicamente
presente in qualità di “modello”). Ogni volta che un disegnatore prende a
soggetto un cieco, non fa altro che allegorizzare la nascita del disegno; e lo
stesso evidentemente varrebbe per le fotografie di ciechi, come quelle di
Lewis Hine, Paul Strand (1916), Lisette Model (1933). Eppure, nel caso
dell’autoritratto, questa “memoria di cieco” non può che rifarsi all’ esperienza della visione speculare come autoriconoscimento.
Il riconoscimento di sé è la forma più semplice di autocoscienza,
nonché la più vecchia dal punto di vista evolutivo. Essa richiede che il
soggetto sia capace di riferirsi a se stesso tramite una rappresentazione
riflessiva, tipicamente uno schema del proprio corpo. Riconoscere la
propria immagine è la forma più tipica del riconoscimento di sé.3
L’autoritrattista, insomma, non può soffrire di autoprosopagnosia.
Bisogna pur vederli, gli auto-ritratti. Ma, prima ancora, bisogna sapere
che sono “auto-”, non semplicemente “-ritratti”: com’è possibile l’ attribuzione se non affidandosi a un corpus già prescelto dagli specialisti? Dunque, l’autoritratto non è un genere autoevidente, basato su regole immanenti all’opera stessa: solo la tradizione può garantire su un eventuale titolo (o didascalia) – o solo una contemporaneità di cui si è sufficientemente
padroni.4 E la tradizione stessa è forse indebitata con l’ideologia del titolo
come chiave di lettura: un libro di autoritratti fotografici 5 potrà dunque
2
J. Derrida, Memorie di cieco. L’autoritratto e altre rovine, tr. it., Abscondita, Milano 2003.
P. Perconti, L’autocoscienza, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 49.
4
Per il repertorio iconografico v. A. Boatto, Narciso infranto, Laterza, Roma-Bari 2005; E. Rebel, Autoritratti, tr. it.,
Taschen, Colonia 2009.
5
Il riferimento è al volume Autoritratti, Contrasto, 2009.
3
3
contenere immagini paradossali come il minotauro di Erwin Blumenfeld
(1936) o un fotogramma astratto (una mano?) di Moholy-Nagy (1926).
Evidentemente non c’è icona senza simbolo, non c’è indice senza simbolo:
se l’autoritratto pittorico o fotografico è innanzitutto un quadro o una foto
che s’intitola Autoritratto, vuol dire che l’immagine si tiene nel linguaggio. Ciò che vediamo è un testo: da leggere, più che da guardare.
Si possono dunque avere tre atteggiamenti: quello per cui l’autoritratto
propriamente non esiste – e neppure il ritratto (linea Derrida); quello per
cui ogni ritratto – e forse ogni quadro – è sempre un autoritratto (linea
Oscar Wilde/Dorian Gray); quello per cui la pittura è tassonomizzabile in
generi più o meno codificati, fra cui il ritratto (l’autoritratto come sottogenere).
Dall’autoritratto come equivalente del nome (pratica che Cicerone faceva risalire a Fidia che, non potendo firmare la statua di Atena, si era effigiato sullo scudo) all’autoritratto come pratica autonoma (che si fa risalire al 1433, con l’olio di Van Eyck Uomo con turbante rosso, ora alla National Gallery di Londra), c’è di mezzo il passaggio dall’uomo “animale
politico” all’individuo rinascimentale. E la progressiva laicizzazione
dell’arte sembra comportare una sorta di calcolo sull’immortalità: se il pittore è in grado di eternare il volto del committente, perché non dovrebbe
consegnare anche se stesso ai posteri?
Il Cinquecento si apre col clamoroso autoritratto di Albrecht Dürer
(conservato a Monaco di Baviera), bello come un Gesù non sofferente, e
marchiato con un monogramma furbescamente ambiguo: “1500 AD” indica la data, l’anno domini, ma quelle lettere sono anche le iniziali
dell’autore. Da allora, l’autoritratto non è più solo una sorta di firma visiva
all’interno di una struttura più ampia – come in Fidia, Fra Lippo Lippi,
Raffaello e tanti altri – ma una resa dei conti col proprio ego, nelle due direzioni possibili: il silenzioso dialogo con sé stessi, come il Salvator Rosa
della londinese National Gallery, anche in qualità di modelli gratuiti;
l’esibizione in una sorta di sfera pubblica virtuale, con tutte le conseguenze di una scelta oculata del proprio “personaggio”.
Ecco allora che il concetto di “realismo” si confronta immediatamente
con un doppio o triplo immaginario: quello del pittore riguardo a se stesso,
al proprio ruolo sociale, al proprio destino nella storia dell’arte; quello dei
suoi contemporanei, che giudicano non solo la somiglianza ma anche
l’eventuale deviazione dalle norme dell’apparizione pubblica; e quello di
noi posteri, abbagliati dalla riconoscibilità dello stile pittorico e disattenti
ai codici vestimentari, posturali ecc. Oggi, probabilmente ci appaiono realistici il Tiziano del Prado (1565) e il Rembrandt del Louvre (1660), il Rubens viennese (1637) e il Van Gogh del Musée d’Orsay (1889); il Van
Dyck con girasole (1635) ci appare già un tantino osé; il Van Eyck con
turbante rosso (1433) un eccentrico decisamente inquietante. Ma, giustappunto, l’autoritratto non è finalmente tutta la verità dell’artista su se stesso
e sulla pittura – su se stesso in quanto pittura, sulla pittura in quanto se
stesso?
L’allegoria è uno dei modi di dire la verità attraverso la finzione. In
una tela mutilata, ma di cui sappiamo che raffigurava due teste (di cui una
mozzata), Giorgione si è scelto la parte del biblico Davide; un secolo dopo, Caravaggio (olio della romana Galleria Borghese) ha dato la sua faccia
– occhi sbarrati, bocca spalancata – alla testa mozzata di Golia, tenuta per
4
i capelli da un giovinetto pre-freudiano. Per inciso: visto che non esiste
primo piano del volto, poiché (Deleuze docet) il primo piano è il volto,
non occorrerà dire che ogni ritratto – tagliando il resto del corpo fuori dallo spazio pittorico o dall’inquadratura cinefotografica - è di fatto una testa
mozzata?6
Allegorie intertestuali: nel 1665, vecchio e fallito, Rembrandt si ritrae
in veste di Zeusi, il pittore che secondo il mito è morto dal ridere mentre
dipingeva una donna anziana che voleva essere ritratta come Venere. Tra
Antico Testamento e mitologia greca, la morale del racconto è nel rapporto fra bellezza e morte, sfida e sovrana distanza dalla sconfitta.
L’autoritratto costruisce il mito dell’artista, costituisce il suo testamento.
Allegorie della morte: nel 1889 James Ensor, l’uomo che dieci anni
dopo metterà la propria faccia “reale” in mezzo ai mascheroni a cui ha ridotto l’umana società, si ritrae in tenuta impeccabile ma col viso ricoperto
dalla maschera di un teschio, quasi a ricordare che anche la pittura è la
morte al lavoro. Ma già nel 1872 Arnold Böcklin, anche lui giovane bello
ed elegante, s’è ritratto con in mano tavolozza e pennello ma con lo sguardo perplesso: è come se stesse guardando nelle orbite vuote (allo specchio?) la Morte in persona che, appoggiata alle sue spalle, sta suonando il
violino con le sue dita scheletriche (Warhol ne farà un remake nel 1978,
togliendo il violino ma accentuando con l’uso del bianco l’equiparazione
volto/teschio).
L’autoritratto di un pittore è innanzitutto il ritratto di un pittore. Ecco
allora comparire gli strumenti del mestiere, il pennello in una mano e la
tavolozza nell’altra, nelle autorappresentazioni di Jacques-Louis David
(1794), Manet (1878), Cézanne (1886), Rousseau il Doganiere (1890),
Modigliani (1919). Ecco il pittore affiancato da una modella, vestita in
Kirchner (1910), nuda in Otto Dix (1923) e Christian Schad (1927). Un
passo in più, e siamo alla rappresentazione dell’intero atelier, eventualmente con tela sul cavalletto, frontale (già dipinta) o vista sul retro: sono i
metaquadri di Poussin (1650), David Bailly (1651, dove la sequenza naturalistica è quadro-scultura-teschio), ovviamente Las Meninas di Velazquez
(1656) con tutto il suo complesso panottismo, Goya (1795), Bazille
(1870).
Dall’allegoria siamo passati alla realtà: il mestiere della rappresentazione non è solo legato al tempo e alla sopravvivenza, ma anche allo spazio del lavoro e delle relazioni sociali. Eppure, per dire tutta la verità,
l’autoritratto non deve solo enunciare il proprio soggetto/oggetto (il pittore
come attore sociale) ma anche denunciare il proprio procedimento: se
l’artista dipinge ciò che vede – e se l’essenziale dell’io è invisibile agli occhi, poiché lo sguardo non vede il volto che lo contiene – allora da dove
viene questo sapere, da quale impossibile esterno? Lo specchio (lacaniano
ante litteram) è l’inevitabile strumento dell’auto-osservazione: un autoritratto che voglia dire la verità su se stesso non può che mettere in mostra
questo rapporto fra esecuzione manuale e ocularità protesica. Il trompel’oeil manierista del Parmigianino (1523) conservato a Vienna, ovvero
l’olio su semisfera di legno che riproduce la visione in uno specchio tondo
convesso, ha in primo piano una mano deformata dal riflesso: la pretesa
riproduzione del mondo è una scienza complessa basata sulle regole
6
Cfr. J. Kristeva, La testa senza il corpo, tr. it., Donzelli, Roma 2009.
5
dell’ottica, dunque lontana da qualunque in-mediatezza; l’artista non è invasato dal dio, bensì illuminato dal sapere.
Un’oggettivazione del procedimento è nell’autoritratto tondo di Johannes Gumpp datato 1646: al centro c’è il pittore di spalle con il pennello
in mano, a sinistra c’è il suo volto nello specchio, a destra c’è il suo volto
sulla tela; la linea degli sguardi converge verso il punto centrale, creando
una dissomiglianza che rende conto della dislocazione schizofrenica autore/modello/rappresentazione. Curiosamente, abbiamo la stessa compresenza in una foto che ritrae il fotografo Henri-Cartier Bresson mentre si guarda nello specchio per farsi un autoritratto a carboncino: ma sappiamo extratestualmente che si tratta di uno scatto di Martine Franck (1992) e non
di un autoscatto.
Quest’ultimo riferimento ci conduce ad un’evidenza: c’è un autoritratto pittorico prima della fotografia e c’è un autoritratto pittorico dopo
l’invenzione della fotografia; qual’è l’incidenza della tecnologia indexicale sulla tradizionale iconopoiesi?
6
2.
L’autoritratto dopo la fotografia:
l’identificabilità è lo stile
Si guardi attentamente l’Autoritratto con tavolozza dipinto nel 1878,
cioè quarant’anni dopo l’annuncio ufficiale della dagherrotipia, da
Edouard Manet, il proto-impressionista amico del grande fotografo Nadar:
la mano che impugna il pennello non è un groviglio cromatico piuttosto
informe? le setole dei pennelli non sono palesemente staccate dai manici
di legno? Se la velocità d’esecuzione dell’ultimo Manet sembra voler entrare in competizione con l’istantaneità dell’istantanea, questi “errori”
sembrano riprodurre gli errori fotografici, in questo caso la sfocatura che
deriverebbe da una mano in movimento. All’improvviso, la posa tende
all’istante qualsiasi.
............................................................................................
7
3.
Fotografia e identità nell’Otto e Novecento
Una psicologia dell’autoritratto fotografico – e in particolare una psicanalisi come quella di Serge Tisseron, che parte dal caso della paziente
freudiana resa paranoica dal presunto rumore di uno scatto fotografico –
conduce quasi inevitabilmente alla conclusione che la fotografia è desiderio di vedere la scena primaria dell’accoppiata genitoriale; o che, fungendo
da processo riparativo rispetto alla schisi originaria feto/ventre materno,
permetta la realizzazione di fantasie uroboriche7. Leggendo il mito di Narciso a partire dall’equivalenza simbolica acqua=madre, e accettando
l’ipotesi di Winnicott sulla funzione di specchio della madre, potremmo
vedere tutti gli autoritratti allo specchio (con raddoppiamento del volto)
come tentativi di fusione del sé con l’immagine materna, soprattutto nel
caso di fotografe (Claude Cahun 1928, Ilse Bing 1931, Laurie Anderson
1975). Lo specchio sarebbe insomma l’utero (camera oscura?), e
quell’opposizione fra ombra e luce che troveremo in Mulas (§ 4.) non sarebbe altro che la metafora del trauma della nascita.
Un approccio in termini di cultura visuale può invece partire
dall’assunto benjaminiano di una specificità storica dell’invenzione della
fotografia, tecnologia che si rivelerebbe a posteriori responsabile non solo
di una radicale trasformazione del concetto di arte e delle pratiche artistiche (a partire dalla perdita dell’aura cultuale delle opere a causa della loro
riproducibilità seriale) ma anche di una nuova frontiera delle rivendicazioni democratiche: quella, appunto, del diritto al ritratto come forma di
uguaglianza nell’iconosfera pubblica e di pari opportunità di eternizzazione nella memoria collettiva. Per Benjamin, mentre la fotografia metropolitana di Atget (indiziaria nel senso che è destinata a diventare documento di
prova nel processo storico) è l’inizio di un’arte fondata sulla politica, la
fotoritrattistica – non solo d’autore – è l’ultima sopravvivenza di un’ iconopoiesi fondata sul rituale.
Nella fotografia il valore di esponibilità comincia a sostituire su
tutta la linea il valore cultuale. Ma quest’ultimo non si ritira senza opporre resistenza. Occupa un’ultima trincea, che è costituita dal volto
dell’uomo. Non a caso il ritratto è al centro delle prime fotografie. Nel
culto del ricordo dei cari lontani o defunti il valore cultuale del quadro
trova il suo ultimo rifugio. Nell’espressione fuggevole di un volto
umano, dalle prime fotografie, emana per l’ultima volta l’aura. È questo che ne costituisce la malinconica e incomparabile bellezza. Ma
quando l’uomo scompare dalla fotografia, per la prima volta il valore
espositivo propone la propria superiorità sul valore cultuale.8
Dunque, potremmo dirla così: i fotoritratti privati sono ancora immagini per la comunità, mentre le immagini pubbliche/pubblicabili sono destinate a circolare (con didascalia) nel sistema sociale. Ma cosa succede
quando il fotoritratto abbandona quell’incredibile museo rappresentato dal
moderno camposanto (in cui la lapide è gestita come una carta d’identità,
7
M. Giuffredi, “Preliminari a una psicologia dell’autoritratto fotografico” in S. Ferrari (cura), Autoritratto, psicologia e
dintorni, cit.
8
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it., Einaudi, Torino 2000, p. 28.
8
con i dati anagrafici a fare da didascalia alla foto-tessera), abbandona insomma il luogo di culto comunitario per eccellenza, e incomincia a circolare come informazione lungo i canali comunicativi della Gesellschaft? La
faccia entra come una moneta estetica nel libero mercato delle immagini: i
personaggi pubblici si avvicinano ancora di più (ancora di meno) al pubblico indifferenziato della metropoli, i borghesi si scambiano cartes de visite, le famiglie imparano a costruire album genealogici e cronologici. È il
narcisismo di massa per come lo coglie Baudelaire nel secondo intervento
sul Salon del 1859:
Nella pittura e nella scultura, il Credo attuale della società altolocata [...] è il seguente: «Credo nella natura e non credo che nella natura
[...] Credo che l’arte sia e non possa essere se non la riproduzione fedele della natura [...] Perciò l’industria che ci desse un risultato identico
alla natura sarebbe l’arte assoluta». Un Dio vendicatore ha esaudito i
voti di questa moltitudine. E Daguerre fu il suo messia. E allora la folla
disse a se stessa: «Giacché la fotografia dà tutte le garanzie desiderabili
di esattezza (credono proprio questo, gli stolti!), l’arte è la fotografia».
Da allora, la società immonda si riversò, come un solo Narciso, a contemplare la propria immagine volgare sulla lastra.9
La società civile “progressista” sostituisce il Bello col Vero, l’anima
con la materia, il sogno del poeta con la realtà esteriore. Quanto alla funzione sistemica della fotografia, essa diventa chiara quando si consideri
che nel 1839, prim’ancora del famoso discorso dell’astronomo Arago che
a nome della Francia regala al mondo i segreti della dagherrotipia, è il ministro degl’interni Duchatél a perorare la causa della nuova invenzione: la
riproducibilità tecnica dei volti significa la possibilità di archiviazione poliziesca dei soggetti devianti. Già nel 1848 la polizia urbana di Birmingham produce due dagherrotipi segnaletici: i soggetti sono una prostituta e
un ladro; va da sé che i soggetti sono obbligati a posare, e che dunque il
loro ritratto è a pieno titolo il trionfo della società sorvegliante sull’ individuo da punire. Nel 1854 c’è il primo caso di arresto per riconoscimento
a partire da una foto. Il passaggio dalla dagherrotipia alla calotipia è segnalato dal ritratto del condannato a morte Lewis Payne (1865), reso celebre dall’analisi di Roland Barthes; Ando Gilardi10 attribuisce lo scatto a
Mathew B. Brady, il fotografo della guerra di Secessione americana. Nel
1872 in Inghilterra ci sono 375 arresti resi possibili dall’identificazione dei
criminali a partire da un archivio che conta ormai più di trentamila foto.
Attorno al 1885 si diffonde il fotorevolver o “detective”, che già si presta a
foto istantanee: il controllo sociale si apre all’apporto dei cittadini vigilanti. La definitiva saldatura istituzionale tra polizia scientifica e arte del ritratto fotografico avviene nel 1890 con la pubblicazione del manuale La
Photographie Judiciaire, scritto direttamente dal capo servizio identificazioni della prefettura di Parigi, Alphonse Bertillon (da cui il termine di
bertillonage per intendere le tecniche di presa dei valori segnaletici).
Se il sottosistema politico/poliziesco vede nella tecnologia fotografica
le possibilità di un panopticon disseminato nel territorio – dunque concepito non per ispezionare corpi segregati bensì per controllare la circolazione
9
C. Baudelaire, Opere, tr. it., Mondadori, Milano 2001, p. 1194.
A. Gilardi, Wanted! Storia, tecnica ed estetica della fotografia criminale, segnaletica e giudiziaria, Bruno Mondadori, Milano 2003.
10
9
delle facce -, il sottosistema scientifico provvede a un’iconografia della
devianza modernizzando le tecniche lavateriane della fisiognomica. Nel
1851 il dottor Hugh Diamond, poi fondatore della Royal Photographic Society, esegue nel manicomio della contea del Surrey i primi calotipi con ritratti di donne folli. Dal 1878 al 1881 l’alienista Charcot pubblica l’ Iconographie photographique de la Salpêtrière, realizzata con la collaborazione alla camera (stereoscopica o a obiettivi multipli) di Albert Londe,
che nel 1890 pubblica il manuale La photographie instantanée. L’arte del
ritratto diventa studio delle facies; e, dopo un po’, l’archiviazione dei casi
clinici somiglia all’archiviazione dei profili criminali, lo stigma dell’ isterica procede allo stesso modo dell’uomo delinquente.
I medici della Salpêtrière assunsero dunque un ruolo di «polizia
scientifica», alla ricerca di un criterio applicabile alla differenza, inteso come principium individuationis; un criterio teso a fondare dei
«connotati», vale a dire un riconoscimento, un’assegnazione di identità. Indubbiamente questa attività di «polizia scientifica» ebbe un
ruolo molto attivo in questo contesto.
La complicità tra la Salpêtrière e la Prefettura di polizia fu, infatti, discreta, tacita e impeccabile; utilizzarono le stesse tecniche fotografiche ed ebbero le stesse speranze [...]
[...]
Della suddetta sottile complicità tra medici e Polizia è sufficiente
ora ricordare che a partire dal gioco combinato delle istanze scientifiche e giudiziarie, e dalle loro risposte tecniche, fotografiche, venne
elaborato forzatamente un concetto di identità. E la fotografia divenne l’elemento nuovo delle didascalie: il dovere di leggere un’identità
nell’immagine.11
Se esiste un hexis corporeo che caratterizza la classe sociale, sono i
fratelli Tournachon a rappresentare la divisione del lavoro iconografico in
rapporto al soggetto trattato: il maggiore, Félix detto Nadar (famoso caricaturista prima che ricco e famoso fotografo), ritrae i volti “auratici” del
pantheon artistico-culturale parigino; il minore, Adrien Tournachon, collabora con il dottor Duchenne de Boulogne per produrre i volti “esponibili” dei poveracci sottoposti a elettroshock per avere un repertorio di
espressioni riproducibili dai pittori (e in effetti, le foto che nel 1862 corredano il volume Mécanisme de la physiognomie humaine si ritroveranno,
un decennio più tardi, trasformate in illustrazioni nel libro di Darwin The
expression of the emotions in man and animals)12. Il dovere di leggere
un’identità nell’immagine si scinde in due pratiche differenti: il volto
“esposto” alla curiosità scientifica – che sia quella dell’elettrofisiologo, del
criminologo o della polizia – non possiede altro che un’identità generica,
anonima, tipizzata (il tipo di Galton non è una variante visiva dell’idealtipo di Weber?); il volto “auratico” della personalità di culto, che non a caso afferisce ad un “pantheon” (il termine è di Nadar), possiede invece
un’identità individuale, nome cognome e professione. I volti di Duchenne
vanno “letti” come i segni di un atlante sintomatico, roba da specialisti; i
volti di Nadar vanno riconosciuti come membri del bel mondo, pena
l’esser tacciati d’ignoranza.
11
12
G. Didi-Huberman, L’invenzione dell’isteria, tr. it., Marietti, Genova-Milano 2008, pp. 84/86 (corsivi dell’autore).
H.M. Koetzle, Photo Icons, Taschen, Köln 2005.
10
L’autoritratto, allora, è innanzitutto la procedura rituale con cui il fotografo s’inserisce nel suo gruppo di riferimento; e poi – per l’inevitabilità
della riflessione sui codici stessi della “esponibilità”, ma ovviamente anche per l’assenza di committenza – il modo individuale in cui l’artista gestisce la sua adesione alla (o la sua devianza dalla) norma iconografica.
Il primo autoritratto fotografico della storia (1840) è quello in cui Hippolyte Bayard - che l’anno precedente ha subìto lo smacco di vedere il governo francese, di cui è funzionario, proclamare Daguerre e non lui (inventore del positivo su carta) come padre della fotografia – si presenta
come in una foto giudiziaria ante litteram, didascalia esplicativa compresa:
fa la parte del morto, per la precisione del suicida per annegamento, sicché
ha gli occhi chiusi, il torso nudo e le mani nere come putrefatte dall’acqua.
Insomma, siamo da subito nel nudo, da subito nella fiction (con protagonista Narciso che affoga!), da subito nella rivendicazione identitaria. Ma
questa creatività può confrontarsi solo con la tradizione pittorica. Invece,
quando la diffusione del fotoritratto e della foto segnaletica, della carte de
visite e delle immagini “esponibili” (e anche qui è curioso notare che lo
stesso Disderi serializzatore delle fototessere è il documentatore dei cadaveri dei comunardi parigini esposti in pubblico) confluiscono
nell’invenzione istituzionale della carta d’identità, gli artisti hanno un preciso riferimento per le loro esercitazioni sul tema. A partire da quel momento, l’autoritratto sta all’individuo come la fototessera sta alla società.
Marcel Duchamp, l’uomo che ha cambiato i connotati alla Gioconda
(giocando sull’ipotesi che sotto il viso glabro di Monna Lisa si nasconda
quello barbuto di Leonardo), è l’artista che più modernamente fa cortocircuitare il valore espositivo/didascalico delle immagini con la questione
dell’identità (non) certificabile. Nel 1921 si fa fotografare da Man Ray in
un paio di pose in cui inventa il personaggio femminile di Rrose Sélavy,
col trucco di utilizzare le mani di un’amica; dello stesso anno è il taglio di
capelli a stella con cometa, eseguito da Marius de Zayas e documentato
sempre da Ray (che peraltro, per suo conto, produce un suo autoritratto
“lombrosiano”). Nel 1923 Duchamp produce una litografia in cui, sotto la
scritta WANTED, pone due sue foto segnaletiche e poi un testo che promette 2.000 dollari di taglia a chi permetterà l’arresto di “George W.
Welch alias Bull alias Pickens eccetera” soprannominato Hooke, Lyon e
Cinquer nonché “conosciuto anche col nome di Rrose Sélavy”: il travestito
si rivela un criminale alla Dr. Mabuse, la cui “vera” faccia è quella
dell’artista francese emigrato negli USA. La particolarità dell’annuncio è
che le due foto, oltre ad essere sfuocate e troppo piccole rispetto al riquadro previsto dal format, non sono nella sequenza codificata dalla segnaletica “all’inglese” utilizzata dall’FBI: il profilo è a sinistra e il front view è
a destra – al contrario, per dire, del manifesto per la cattura di Dillinger.
L’abitudine a fotografare i criminali (o le persone sospettate di un
delitto) da punti di vista divergenti di 90 gradi è vecchia tanto quanto
lo è il ricorso stesso alla fotografia da parte dell’apparato poliziesco.
Trova la propria spiegazione nell’idea che solo una doppia visuale può
essere considerata possibile garanzia di identità.
[...]
Smascherando questo antico dialogo [tra visione frontale e di profilo], Duchamp svela l’illusione: quel che vediamo è una rappresentazione stravolta, una rappresentazione in cui il calco della doppia inqua-
11
dratura presenta una rottura nascosta ma importante, una rappresentazione che propone una dichiarazione non di identità ma di falsa identità.13
Per capire perché l’immigrato Duchamp si autoraffiguri come pericoloso e poliedrico criminale (falsario?), bisogna ricordare che i ruggenti anni Venti sono in America quelli della repressione poliziesca del movimento operaio, culminata nella condanna a morte degl’immigrati anarchici
Sacco e Vanzetti.
Ma per capire perché l’ebreo Benjamin, in pieno nazismo, sia così preso dall’avvento delle immagini “esponibili” (fondate sulla politica) e dalla
scomparsa delle immagini “auratiche”, bisogna guardare un olio su tela di
Felix Nussbaum datato 1943. Sullo sfondo di un muro di cinta che sbarra
l’accesso a una città notturna, un uomo con cappello e bavero alzato – che
lascia vedere la stella gialla di Davide sul cappotto – guarda negli occhi lo
spettatore e solleva nella mano sinistra il passaporto: possiamo leggere il
numero, il nome e cognome e la stampigliatura “juif-jood”; possiamo vedere la foto in bianco e nero, che riproduce lo stesso volto con lo stesso
cappello. Il titolo è Autoritratto con passaporto ebraico, ed è stato dipinto
in clandestinità l’anno prima che l’autore fosse deportato ad Auschwitz
dov’è morto. Capolavoro sull’angoscia dell’identità – o meglio delle sue
articolazioni: identificabilità, identificazione, identikit, carta d’identità -, il
quadro stabilisce la dialettica paradossale che lega l’indice fotografico
all’icona pittorica: la foto segnaletica è esatta nella sua funzione poliziesca
di persecuzione, ma proprio per questo è solo il prodotto di una macchina
istituzionale disumana; il volto dipinto è esattamente uguale a quello della
foto, ma il suo essere un autoritratto ne fa una meta-comunicazione sulla
differenza fra identità attribuita (etichettamento, stigmatizzazione) e rivendicazione d’appartenenza. La resistenza alla persecuzione comincia da
questa guerra iconica: opporre all’immagine che l’altro fabbrica di me
l’immagine che io stesso fabbrico – non perché è diversa, ma perché sposta il Sé dal versante del Me al versante dell’Io.
E nell’epoca della globalizzazione? Chen Zhen, nato a Shanghai nel
1955 e immigrato nel 1986 in Francia (dov’è morto a quarantacinque anni), ha intitolato Autoritratto un cartone nero su cui ha assemblato le fotocopie dei suoi documenti (passaporto, tesserino ecc.) scrivendo in rosso –
in cinese e francese – la frase «La cosa più importante nell’arte è mostrare
prima di tutto la carta d’identità dell’artista».
13
V.I. Stoichita, Breve storia dell’ombra, tr. it., Saggiatore, Milano 2008, p. 210 (corsivo dell’autore).
12
4.
Identità senza volto, con volto, con macchina:
dallo stadio dell’ombra allo stadio dello specchio
Il mito di Butade, narrato da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia,
riconduce la nascita della pittura e della scultura al desiderio femminile di
fermare l’immagine dell’amante: è la figlia del vasaio che traccia la silhouette del volto del giovane che sta partendo (verso la morte in guerra?),
è il padre che riempie quel profilo d’ombra14. È chiaro che gli elementi
“notturni” da mito della caverna (luce artificiale usata per produrre
un’ombra regolabile e, letteralmente, “a portata di mano”) mirano a rintracciare un grado zero dell’iconopoiesi: tracciare una linea di contorno
già proiettata è più facile che provare a rappresentare occhi naso e bocca,
anche se il prezzo da pagare è la sostituzione della frontalità col profilo.
Ma forse l’insistenza sull’ombra sottolinea un elemento di auraticità che
rende indispensabile il valore protagonista del desiderio: l’ombra è un feticcio in quanto è metonimia dell’altro, sua traccia visibile; la pittura nasce
per trasformare un indice volatile (la fase “orale” del linguaggio visivo) in
un’impronta duratura (la “scrittura”, qui letteralmente “grafia” come procedura manuale connessa alla grafite). La pittura, per così dire, nasce come “foto-grafia”, o meglio – secondo il gioco positivo/negativo – come
“skia-grafia” (Derrida) o “melano-grafia” (Haussmann).
Il mito della nascita del ritratto come profilo dell’altro involge due
questioni: l’identificabilità della personalità individuale con i tratti
dell’ombra riportata intesa come segno indexicale – ipotesi fisiognomica
che assurge al rango di scienza a fine Settecento, quando Lavater ripristina
la macchina per disegnare silhouette (profili circoscritti) anticipando le sedie immobilizzanti delle pose fotografiche; l’impossibilità dell’autoritratto
prima dell’invenzione dello specchio – o prima del mito di Narciso. Quando Giorgio Vasari rappresenta l’origine della pittura (affresco di Casa Vasari a Firenze) come legata all’autoritratto maschile, sta facendo cortocircuitare il mito di Butade (fondato sull’amore femminile, il desiderio
dell’impronta, la fisiognomica del profilo, la proiezione da caverna platonica, la distinzione fra soggetto pittorico ed esecutore – addirittura fra esecutore e committente) con il mito di Narciso (amore inconscio per lo stesso, estetica della frontalità “dialogica” e “teatrica”, paradossalità del
daydream ad occhi aperti, coincidenza del visto e del vedente), lo stadio
dell’ombra con lo stadio dello specchio. Ma, giustappunto, l’affresco di
Vasari è del 1573, dunque di mezzo secolo successivo all’autoritratto del
Parmigianino – che utilizzava, ricordiamolo, uno specchio concavo – e soprattutto all’invenzione veneziana dello specchio piano in vetro riflettente:
la nuova soggettività e il nuovo narcisismo sono derivati della stessa tecnologia. L’autoritratto pittorico è la giubilazione infantile – raccontata da
Lacan - che si fa opera d’arte.
Se lo specchio è «un dispositivo che consente di stare con l’ immaginazione al posto delle altre persone e di osservarci con le sembianze che
abbiamo agli occhi altrui»15, potremmo ben dire che la macchina fotogra14
15
M. Bettini, Il ritratto dell’amante, Einaudi, Torino 1992..
P. Perconti, L’autocoscienza, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 85.
13
fica è uno specchio raggelante. Ma questo perché, innanzitutto, esso è un
occhio-protesi telecomandabile (appunto attraverso il cavo dell’autoscatto,
nei casi di apparecchio fisso) o addirittura (nel caso di minicamere) maneggevole: lo shooting può essere rivolto contro il proprio corpo, l’occhioprotesi può fronteggiare il volto da una distanza pari alla lunghezza delle
proprie braccia. In un mondo privo di superfici riflettenti, io posso vedere
del mio corpo soltanto la parte anteriore – in plongée: ecco allora il piede
di Henri Cartier-Bresson (1933) ripreso dalla prospettiva di un corpo disteso su un muretto di campagna italiana (e non sfuggirà il carattere di
haiku visivo, col corpo del viandante zen concentrato sul piede dolorante,
dettaglio anatomico “voltificato” nel contesto di un paesaggio naturale);
ecco i piedi di Lou Stoumen (nudi accanto alle scarpe) e il piede di Agha
(rovesciato con gli occhiali); ecco Herbert Bayer che nel 1937 intitola Autoritratto una foto in cui si vede una mano che impugna una matita con la
punta poggiata su una superficie illimitata.
Poi c’è l’ombra. All’inizio è un difetto, la “auto-ombromania” 16 , in
quanto marca dell’enunciazione, disvelamento della produzione nel cuore
stesso dell’immagine – l’indice che sporca l’icona. Ma la fotografia giunge presto all’autocoscienza artistica attraverso l’esibizione metaoperativa:
nella seconda metà degli anni Venti, László Moholy-Nagy lascia che la
sua ombra lambisca il soggetto fotografato (ad esempio la figlia di Oscar
Schlemmer) o addirittura ne copra il volto (la ragazza sdraiata della foto
Repos) facendo sì che la marca dell’enunciazione si trasformi in elemento
narrativo. André Kertész e Istvan Hanga, rispettivamente nel 1927 e nel
1933, non solo fotografano la propria ombra di profilo, ma fanno entrare
nell’inquadratura l’ombra della macchina fotografica: la marca dell’ enunciazione è un qualificativo per l’enunciatore. «Rispetto a un semplice autoritratto, abbiamo qui a che fare con un autoritratto in atto, come se per
l’operatore la questione fosse fotografarsi fotografando» 17 . Dal profilo
all’ombra frontale: Lee Friedlander la sparge sui corpi delle folle quotidiane, ma Claudio Parmiggiani (fotografia su tela del 1979) la fa campeggiare
come un rito dell’assenza «leggibile solo in quanto storicamente determinato anche dal profilarsi di una fine dell’uomo, parallela alla fine
dell’arte»18. L’ombra torna nell’alveo della speleologia platonica, indicando che il sommo errore allucinatorio è l’identità.
Poi ci sono le superfici riflettenti, anch’esse passibili di generare marche dell’enunciazione valutabili tanto come errori quanto come firme autoriali: le vetrine di Atget, in cui spesso è riflesso il fotografo con la sua
macchina, non piacevano anche per questo ai surrealisti? Ecco allora Lee
Friedlander al centro di una vetrina che riflette una strada di New Orleans
(1968). Ecco Bruce Davidson nel lato inferiore di un parabrezza, mentre
nella parte superiore – quasi si trattasse di un altro fotogramma – c’è la signora all’interno dell’abitacolo (l’automobile è ferma nell’Arizona del
1955). Qui siamo nella situazione di Narciso, ma si tratta di un narcisismo
primario, indebitato con il volto della madre: è il caso di notare che il tondo obbiettivo della camera, nella foto di Davidson, si trova all’altezza
dell’invisibile seno della signora che guarda altrove? (Lo scatto, peraltro, è
16
C. Chéroux, L’errore fotografico, tr. it., Einaudi, Torino 2009.
ivi, p. 57.
18
A. Serra, “Claudio Parmiggiani: autoritratti d’ombra” in S. Ferrari (cura), Autoritratto, psicologia e dintorni, Clueb,
Bologna 2004, p. 213.
17
14
in anticipo di un decennio sul saggio di Winnicott19 sulla funzione di specchio della madre)
Poi – eccoci - ci sono gli specchi: quelli in cui si vede il fotografo ma
non la macchina (Lotte Jacobi 1937), quelli in cui si vede anche la camera
(Edouard Boubat 1952) o solo la camera (Sarah Moon 2004), quelli che riflettono la luce dei faretti (Werner Bischof 1940). Ovviamente c’è anche il
presunto specchio, quello di cui non si vede la cornice, ma che supponiamo inevitabile supporto dell’immagine: ad es. l’autoritratto di Umbo datato 1952, in cui un occhio è riquadrato dal mirino della camera e l’altro è
occultato dall’obbiettivo, in una commistione uomo/macchina che evidenzia come l’autoritratto del fotografo non possa essere altro che l’autovisione dell’occhio-protesi, dunque un volto-camera. C’è il falso specchio,
o specchio surrealista, come quello in cui il trentaduenne Herbert Bayer –
l’anno in cui i nazisti decidono di chiudere la Bauhaus – guarda con attonito stupore un trancio del proprio braccio staccato dal corpo come se fosse il pezzo rotto di una statua greca. Pochi anni prima che Lacan parli a
Marienbad dello specchio come strumento ortopedico per la formazione
del je a partire dalla percezione del corpo come totalità, il bambino surrealista Bayer mette in scena il fantasma del corpo in frammenti, mettendo lo
spettatore difronte all’evidenza dell’inattendibilità dello specchio – o almeno della fotografia come tecnologia indexicale.
L’unione dell’ombra e dello specchio – del mito di Butade con quello
di Narciso – è realizzata da Ugo Mulas nella seconda delle sue “verifiche”
(1971/72), intitolata L’operazione fotografica e sottotitolata Autoritratto
per Lee Friedlander. Vale la pena leggere per intero la didascalia:
Qualche tempo dopo l’omaggio a Niepce ho voluto verificare un
altro aspetto della realtà della fotografia: la macchina. Contro la finestra c’è uno specchio, il sole sbatte alla finestra, ne proietta l’ombra
di un montante contro la parete e insieme proietta la mia ombra. Da
quest’ombra si vede che sto fotografando, e la mia azione appare anche nello specchio. In ambedue i casi c’è un elemento comune: la
macchina cancella il viso del fotografo, perché è all’altezza
dell’occhio e nasconde i tratti del volto. La verifica è dedicata a quello che io credo sia il fotografo che più ha sentito questo problema, e
ha tentato di superare la barriera che è costituita dalla macchina, cioè
il mezzo stesso del suo lavoro e del suo modo di conoscere e fare.
Forse, qui come nel successivo autoritratto con Nini, c’è l’ ossessione di essere presente, di vedermi mentre vedo, di partecipare, coinvolgendomi. O, meglio, è una consapevolezza che la macchina non
mi appartiene, è un mezzo aggiunto di cui non si può né sopravvalutare né sottovalutare la portata, ma proprio per questo un mezzo che
mi esclude mentre più sono presente.20
Ecco dunque finalmente portato in piena luce il problema della differenza fra autoritratto pittorico e fotografico: il pittore può ritrarsi a memoria, il fotografo no; e mentre il pittore che si ritrae allo specchio tiene i
suoi strumenti di lavoro in mano, il fotografo che ha in mano la macchina
deve – per inquadrare e scattare – coprire il proprio volto con la macchina
19
Cfr. il capitolo “Lo specchio, l’Io e l’autoritratto” in S. Ferrari, Lo specchio dell’Io. Autoritratto e psicologia, Laterza,
Roma-Bari 2002.
20
U. Mulas, La fotografia, Einaudi, Torino 2007, p. 150.
15
stessa. L’autoritratto fotografico può diventare “pittorico”, cioè far vedere
il volto, solo a patto di staccare l’occhio-protesi dal volto del fotografo – a
costo di staccarlo anche dalle sue mani (col paradosso della definitiva
scissione fra occhio e sguardo: ricomparsa della cecità derridiana).
Nel citato Autoritratto con Nini (verifica 13), si passa dalla camera a
mano all’autoscatto, cioè dall’immagine speculare (virtuale) a quella “reale” (attuale); ma mentre il viso della donna è ben inciso, quello di Mulas è
fuori fuoco: la “memoria di cieco” è diventata “memoria di miope”.
[...] Quando il fotografo lascia l’apparecchio dopo averlo messo a
punto, per trasferirsi dall’altra parte, questa realtà [l’impossibilità di
vedere il proprio viso – ndr] non muta e lui continua a non potersi vedere. Mettendo a fuoco la macchina gli è chiaro ciò che lo circonda, e
può vederlo con estrema lucidità, ma il suo viso nell’obiettivo è assente. Mettere uno specchio davanti alla macchina è ingenuo, perché il discorso resta fra me e la macchina, e non fra la macchina e lo specchio.21
Questo rapporto paradossale macchina/specchio è evidente nella foto
che Mulas scatta a un’opera trompe-l’oeil di Michelangelo Pistoletto,
un’iperrealistica donna nuda di schiena (a grandezza naturale) distesa su
un letto, posizionata sul bordo inferiore di una superficie specchiante: lo
spettatore, nel guardare l’opera frontalmente, si ritrova in uno spazio virtuale il cui controcampo dovrebbe essere costituito dallo spettatore stesso
che guarda il davanti della donna. Per evitare l’ambiguità della situazione,
Mulas allarga l’inquadratura a comprendere i bordi dello specchio-opera,
compresi i chiodi che l’appendono e l’ombra sulla parete. Ciononostante,
non può fare a meno che la documentazione di un oggetto artistico si trasformi automaticamente in un autoritratto: può solo abbassare la testa per
nascondere il volto. Per una volta, la fotografia di un nudo è la messa a
nudo della fotografia.
Ma si può avere una fusione di Butade e Narciso che esclude la presenza dello specchio. Succede con un autoritratto di Umbo del 1930
in cui la traccia o il segno della macchina fotografica è integrato
precisamente nel campo dell’immagine; l’ombra portata appare come il
mezzo per registrare la presenza umana e, al tempo stesso, come
l’agente dello spostamento di questa presenza. In effetti l’ombra delle
mani e della macchina fotografica cade sugli occhi del soggetto, il suo
centro di visione, e sostituisce l’attività dello sguardo con lo strumento
di registrazione, producendo così per noi l’immagine del corpo reale
che si assoggetta al dominio della protesi visiva costituita da quel
membro artificiale che è la macchina fotografica.22
Con un gesto banale quanto inedito – quello di tenere la camera con
l’obiettivo rivolto verso l’interno del cerchio formato da corpo e braccia,
portando poi le braccia al massimo dell’estensione -, Umbo ottiene
l’effetto di staccare il terzo occhio dal proprio sguardo: l’autoritratto è
dunque “cieco” (se la cecità è assenza di sguardo) ma comunque non è affidato alla “memoria”, poiché il governo manuale della macchina configu21
22
ivi, p. 170.
R. Krauss, Teoria e storia della fotografia, tr. it., Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 214-215.
16
ra uno sguardo-protesi “in diretta” (si tratta in fondo di una classica istantanea fatta sulla spiaggia). Doppia cecità, formalmente messa in scena:
siccome il viso è rivolto verso la luce, Umbo indossa occhiali da sole che
sembrano formare le orbite nere di un teschio; siccome la camera è in asse,
la silhouette della macchina fotografica cade esattamente su occhi (occhiali) e fronte, facendo sì che la marca dell’enunciazione sostituisca metaforicamente lo sguardo. La macchina fotografica è diventata Narciso che
guarda il suo riflesso umano senza poterlo riconoscere. L’ombra è quella
di un’amante meccanica che si sovrappone al viso dell’amato, lo compenetra, certificando l’avvenuta fusione identitaria dell’artista-modello (cieco perché privo dell’occhio-protesi) col suo inconscio ottico.
.........................................................................
«»
17
5.
Autoscatto: il sé a distanza
...............................................................
6.
Volto, corpo, abbigliamento, nudità, scheletro, spirito:
l’identità come materia e come aura
................................................................
18
7.
L’autoscatto delle donne:
identità e dis-identità di genere
Esiste uno specifico femminile dell’autoritratto? La storia dell’arte ci
dice che la piccola tempera su tavola di Catharina Van Hemessen del 1548
(Kunstmuseum di Basilea) è il primo esempio di autoritratto al cavalletto
e, per dirla tutta, di meta-autoritratto se non di meta-pittura. Se la prima
metà del Cinquecento è ancora l’epoca in cui l’affermazione
dell’autorappresentazione dell’artista oscilla fra una sorta di ipostasi prefotografica e l’occultamento criptico (Michelangelo che si nasconde nella
pelle di San Bartolomeo che pende da una nuvola del Giudizio universale),
il meta-autoritratto di Catharina già mette in mostra tutti gli elementi della
messa-in-abisso: l’artista guarda “in macchina” (cioè verso lo specchio); il
suo pennello è su una tela in cui sta completando il proprio viso, che risulta collocato in alto a sinistra (dunque simmetrico/speculare rispetto al meta-quadro, in cui il viso è in alto a destra).
Nel Settecento un altro caso di meta-autoritratto è il pastello su carta
(Uffizi di Firenze) in cui Rosalba Carriera si riprende mentre dà un ultimo
tocco al ritratto della sorella Giovanna. Anche qui l’immagine-affezione è
indiscernibile dall’immagine-cristallo: siccome il ritratto-oggetto è girato a
favore dello spettatore, e siccome le due sorelle sono praticamente gemelle
e anche similmente vestite, il risultato è un doppio sguardo rivolto allo
spettatore-specchio, con evidente cortocircuito fra enunciazione pittorica
ed enunciato-quadro (ma è già passato mezzo secolo dalle Meninas).
Altro elemento di cui forse gli storici dell’arte potrebbero accertare
una specificità, se non primogenitura, femminile è quello della nudità: la
tempera su cartone di Paula Modersohn-Becker Autoritratto nel sesto anniversario di matrimonio (1906) vede l’artista incinta mostrare con fierezza il suo pancione; con l’aria, come scriverà il suo amico Rilke nella poesia Requiem per un’amica, di dire non “sono io” bensì “questo è”. Naturalezza, dunque, ma legata non tanto alla biologia quanto alla biografia.
Autoritratto come autobiografia: ecco forse un’altra direzione prettamente femminile, come può testimoniare l’ampia produzione di Frida Kahlo23. In uno stile surrealista indebitato con gli ex voto popolari, l’artista
messicana racconta il turbolento rapporto amoroso/matrimoniale con il celebre muralista Diego Rivera, i suoi viaggi negli Stati Uniti compresa la
degenza al Ford Hospital, i suoi problemi di salute (La colonna rotta del
1944) ma anche i ricordi d’infanzia e le crisi psicologiche (Le due Frida
del 1939, esempio più unico che raro di autoritratto “schizofrenico”, io diviso trent’anni prima di Laing). Ora, il surrealismo naïf di Kahlo è in evidente contrapposizione non solo col realismo “socialista” di Rivera ma anche con la supposta obbiettività del ritratto fotografico; e questo da parte
di un’artista che ha avuto un padre fotografo professionista, un amante fotografo (l’americano Nickolas Muray) e amiche del calibro di Tina Modotti e Lola Alvarez Bravo. Ma, giustappunto, le due militanti comuniste Kahlo e Modotti – entrambe vestite di rosso nel murale di Rivera Ballata della Rivoluzione (1923/28) – sembrano condividere uno stesso pregiudizio
sul rapporto pittura/fotografia: mentre la seconda sarebbe arte sociale in
23
Cfr. A. Ketterman, Frida Kahlo, Taschen, Köln 2007.
19
quanto documentaria (e dunque nemmeno propriamente arte ma piuttosto
propaganda, allo stesso modo dei murales di Rivera), la prima resterebbe il
regno auratico della soggettività (e dunque intrinsecamente “impolitica”,
inutile alla causa).
Ma può l’autoscatto accedere al rango dell’autobiografia, dell’autoaffermazione soggettiva individuale? La risposta affermativa arriva paradossalmente da un’altra surrealista e militante comunista, l’intellettuale lesbica Claude Cahun (pseudonimo volutamente ebreo e androgino della
francese Lucy Schwob), attiva come fotografa autoritrattista soprattutto
negli anni Venti e Trenta ma riscoperta solo negli Ottanta 24 . Anche se
spesso scattate dalla sua amante e sorellastra Marcel Moore (pseudonimo
di Suzanne Malherbe), le foto di Claude Cahun vanno considerate dei veri
e propri autoritratti, prodotti per anni in una sorta di collezione di carte di
dis-identità. Il surrealismo di riferimento, in effetti, è quello travestitista di
Marcel Duchamp alias Rrose Sélavy (cfr. § 3.) da cui Cahun attinge la
propensione alla negazione del concetto prefreudiano di Io attraverso un
doppio movimento: da un lato, l’irriconoscibilità del volto ottenuto per via
di togliere (col taglio dei capelli e la rasatura delle sopracciglia) o per via
di mettere (coloritura dei capelli, parrucche, maquillage da attrice del muto); dall’altro, l’inassegnabilità del corpo, nudo ma con la maschera, nudo
ma di spalle, in abbigliamento maschile e così via depistando. L’autoritratto, insomma, è qui rimesso in radicale discussione proprio a causa
delle valenze del prefisso: l’auto-scatto non si distingue dall’etero-scatto
quando davanti e dietro l’apparecchio ci sono due amanti che non vogliono distinguere sé dall’altra; il ritratto di sé presume un Sé che va invece
decostruito, innanzitutto in riferimento all’identità sessuale. Non è un caso
se l’unico autoritratto pubblicato da Cahun, naturalmente su una rivista
surrealista, è caratterizzato da una distorsione ottica che allunga il cranio
rasato del soggetto facendolo apparire fantascientificamente alieno: la disidentificazione è un effetto speciale; l’identità è un’anamorfosi.
Se l’ambiente surrealista è favorevole all’onirismo autopoietico di
Cahun, la scuola del Bauhaus sembra spingere verso la fotografia
d’architettura: è questa la strada inizialmente presa da Gertrud Hantschk,
anche per l’influenza del collega e poi marito Alfred Arndt, architetto e
muralista, prima allievo e poi docente del Bauhaus. Ma Gertrud Arndt è
famosa per la serie delle Maskenphotos, una quarantina di autoritratti (non
destinati al pubblico) realizzati nel 1930 e numerati secondo una prassi cara alle avanguardie e che poi giungerà fino a Cindy Sherman. Il termine
“maschera” va qui inteso non come uno strumento teatrale che nasconde il
volto, ma come un particolare tipo di maquillage e di abbigliamento – in
particolare una serie di velette che sembrano uscire dal cinema espressionista tedesco (anche se l’ammirazione dell’artista va ai film di Ejzenstejn)
– che trasformano il viso in una superficie di “voltificazione” pronta ad esser letta in termini narrativi. Si tratta, insomma, di foto di scena per film
mai fatti: la persona diventa personaggio, la fotografa sceglie se stessa
come diva potenziale, all’interno di un mondo immaginario tenuto lontano
dall’industria dell’immaginario. Particolarmente perturbante è l’ Autoritratto in maschera n° 16, in cui una retina a nido d’ape raccoglie sia i capelli che un doppio volto: la sovraimpressione permette di avere contem24
F. Muzzarelli, Il corpo e l’azione. Donne e fotografia tra Otto e Novecento, Atlante, Monteveglio (BO) 2007.
20
poraneamente uno sguardo in macchina e un profilo di tre quarti. Ancora
una volta, un classico effetto speciale ripropone l’inafferrabilità dell’ identità, la compresenza spaziale di due tempi diversi si fa metafora della coesistenza dell’Io e dell’Es.
Tra le altre personalità di area Bauhaus va segnalata Florence Henri,
allieva di Moholy-Nagy, il cui autoritratto allo specchio (1928) viene pubblicato su Foto-Auge25. Lo spazio fotografato presenta uno specchio verticale senza cornice, messo contro un muro bianco ma poggiato su un tavolo: le assi del tavolo formano delle diagonali che sembrano fuoruscire dallo specchio per proseguire nello spazio “reale” o, secondo le caratteristiche d’indiscernibilità fra l’attuale e il virtuale proprie dell’immaginecristallo teorizzata da Deleuze, giungere dal “reale” per condurre in profondità “virtuale” all’immagine dell’autrice, seduta a capo-tavola con le
braccia conserte poggiate sulla superficie. Sul piano strettamente tecnico,
incuriosisce qui la posizione in cui si deve supporre essere posizionata la
macchina fotografica, laterale per non trovarsi riflessa nello specchio ma
anche intermedia tra il soggetto e la superficie riflettente (la macchina è
dunque sul tavolo?). Ma la presenza di due sfere metalliche alla base dello
specchio – dunque raddoppiate dal riflesso -, e il carattere ascendente delle
linee diagonali e dello specchio verticale, invitano a leggere la composizione in termini di “fallismo”26: mentre Claude Cahun sembra voler trasformare il proprio corpo in un fallo esibendo la testa calva (e non sfuggirà
l’oscenità del citato “allungamento” del cranio nella foto pubblicata su
Bifur), Florence Henri gioca sulla chiusura gestaltica che fa della propria
testa il glande di una “struttura fallica” subliminale (secondo una procedura ironica che l’apparenta – secondo la Krauss – a Man Ray, autore nel
1920 della scultura Presse-papier à Priape). Del resto, riguardando lo spiritoso autoritratto del 1927 in cui Claude Cahun indossa la maglietta “I
am in training, don’t kiss me”, si noterà che anche qui il busto si erge a
partire da due grandi palle decorate (con le scritte rispettivamente “Totor
et Popol” e “Castor et Pollux”): l’oscenità comica è il massimo momento
di derisione del fallocentrismo?
Il tema dell’indiscernibilità attuale/virtuale nell’immagine-cristallo
torna nell’ Autoritratto con cornici, dove Florence Henri è di nuovo riflessa in una posizione che crea problemi di orientamento spaziale: questa
volta, però, l’extratesto ci dice che si tratta di un falso specchio e che ci
troviamo davanti ad una metafotografia. Ma forse si tratta anche di
un’autocitazione: le due cornici quadrate appoggiate ai piedi della colonna, benché (freudianamente, proprio perché) evidentemente diverse dalle
palle della foto del ’28, non configurano di nuovo un monumento fallico?
Insomma, l’autoscatto delle donne mette in gioco una doppia problematica: quella del rapporto fra gender e professionalità; e quella del rapporto fra stereotipi iconografici ed esibizionismo femminile. Nel 1925,
Germaine Krull si autoritrae allo specchio in maniera tale che il suo volto
è fuori fuoco, e perdipiù seminascosto dalla macchina fotografica e dalla
mano che regge una sigaretta (quella sì a fuoco!): evidentemente, la moglie di Joris Ivens ci tiene a identificarsi col proprio mestiere. Nello stesso
25
Per questo e altri autoscatti “d’avanguardia” v. E. Grazioli, Corpo e figura umana nella fotografia, Bruno Mondadori,
Milano 1998.
26
Il termine è in R. Krauss, Teoria e storia della fotografia, tr. it., Bruno Mondadori, Milano 1996, che inserisce la foto
di Henri nel capitolo “Fotografia e Surrealismo”.
21
anno, e cioè un decennio prima del ciclo delle godesses con cui celebra il
glamour kitsch-mitologico dell’alta società, l’inglesissima Madame Yevonde si autoritrae in veste di Arlecchino, accovacciata a terra di profilo col
volto nascosto sulle ginocchia; ma in un’altra foto, eccola reggere con forza l’enorme macchina Vivex con sistema tricromatico. Attorno al 1930,
alcune professioniste scattano il loro autoritratto; ma ciascuna mettendo in
evidenza una sua particolare idea d’identità professionale o psicologica.
Lotte Jacobi, figlia d’arte, si specchia accanto al grande apparecchio da
studio, stringendo nelle forti mani il pulsante dell’autoscatto, il cui filo
sembra il cordone ombelicale che unisce la camera (che emerge da un buio
uterino) al volto (illuminato ad esaltare un’espressione scarmigliata, da ribelle destinata a scappare dalla Germania nazista). L’ex-dadaista Hannah
Höch, nel perturbante Autoritratto con incrinatura, indossa un camice da
pittore e sta vicino ad un cavalletto che regge un acquerello, tecnica ben
più tradizionale dei suoi famosi fotomontaggi; ma l’attenzione dello spettatore è catturata dal fatto che il corpo dell’artista è raddoppiato da una sovraimpressione (come già nell’autoritratto del 1927: la doppiezza è una
metafora della bisessualità?) e soprattutto dalla rottura del vetro in diagonale, che sembra sfregiare i due volti che impossibilmente vi si riflettono.
La surrealista Berenice Abbott, già assistente di Man Ray e scopritrice di
Atget, sgrana gli occhi davanti ad uno specchio deformante; l’effetto, che
ricorda l’anamorfosi di Louis Ducos du Haron datata 1888, più che segnalare una competenza tecnico-scientifica sembra voler esplicitare un’ appartenza di gruppo mediante una scelta stilistica già connotata. Nel 1930, anno della sua partecipazione alla biennale internazionale d’arte fotografica
di Roma, la futurista triestina Wanda Wulz – erede di uno studio di fotografia ritrattistica – firma il celebre autoritratto Io + gatto, che addiziona
due negativi per creare uno zoomorfema che sarebbe piaciuto all’ Ejzenstejn di Sciopero (in attesa del Cat People di Tourneur): l’equazione tra
femminilità e felinità dà vita ad una metafora esteticamente accattivante,
sospesa tra il gioco grafico e lo straniamento.
Dai travestimenti profilmici di performer ottocentesche come la serva
Hannah Cullwick e la contessa di Castiglione (Virginia Oldoini) alle metamorfosi in post-produzione delle artiste legate alle avanguardie del primo Novecento, la fotografia sembra attestare una sorta di esplosione fantastica del concetto d’identità femminile: nella quotidianità teatralizzata
della moda moderna, l’identità è una maschera («Sous ce masque un autre
masque. Je n’en finirai pas de soulever tous ces visages» scrive Claude
Cahun in un fotomontaggio di Aveux non Avenues) – ma, paradossalmente, ogni maschera è una nuova identità.
Nella stessa epoca in cui Claude Cahun o Madame Yevonde amavano raffigurarsi come figure fantastiche mascherate o in costume, la
psicoanalista inglese Joan Rivière pubblicò un saggio intitolato
“Weiblichkeit als Maskerade” (Femminilità come mascherata) [1929],
nel quale avanzava la seguente tesi: le donne che hanno successo sul
lavoro amano vestirsi in maniera ultrafemminile per prevenire le paure
dei loro colleghi maschili. Joan Rivière vedeva in questa femminilità
esibita in pubblico una dissimulazione ossia un mascheramento degli
attributi maschili delle donne di successo [...] Un aspetto caratteristico
della tesi di Joan Rivière (se vogliamo trasporla alle fotografe decise ad
affermarsi in un ambiente artistico dominato dagli uomini) è il princi-
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pio secondo cui non esiste una femminilità intrinsecamente naturale.
L’identità femminile sarebbe semmai una costruzione sociale, che
estranea la donna dalla sua comprensione di sé, dal proprio desiderio e
dalle proprie ambizioni, ma contemporaneamente offre uno spazio di
gioco per un’espressione di sé travisata: una messa in scena che viene
mantenuta credibile dal fatto che gli stereotipi di abbigliamento specifici del genere, la gestualità, le posture del corpo vengano continuamente ripresi e rimessi in circolazione in un contesto culturale.
È appunto quest’idea, secondo cui la femminilità è un’alterazione,
una dissimulazione, una mascherata, a costituire, per le fotografe degli
anni ’20 e ’30, il punto di partenza del loro smantellamento dell’ autoritratto tradizionale.27
Ecco dunque spiegato il carattere assolutamente privato tanto delle serie di Claude Cahun quanto delle Maskenphotos di Gertrud Arndt: se la rivoluzione sociale delle suffragette non può che avvenire nella sfera pubblica, la decostruzione identitaria deve piuttosto essere vissuta negli spazi
individuali, soprattutto quando il maschilismo si istituzionalizza nelle dittature politiche. Nell’epoca della femminilità come mascherata, l’ apparizione pubblica non può che essere quella di Lee Miller: il suo autoritratto
newyorkese del 1932 non è altro che la foto pubblicitaria per un articolo di
moda sulle acconciature; ciò che conta non è la firma dell’allieva di Man
Ray, ma il profilo statuario dell’ex-modella preferita di Steichen per Vogue.28
Se poi si vogliono mettere a confronto un modo femminile e un modo
maschile di trattare lo stesso tema, si possono accostare due immagini databili entrambe al 1930.
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28
E. Bronfen, Donne viste dalle donne, tr. it., Contrasto, Roma 2002, p. 23.
Cfr. A. Penrose, Le vite di Lee Miller, tr. it., Archinto, Milano 2009.
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8.
Dall’io-pelle all’io-pellicola:
Woodman, Sherman
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9.
Conclusioni per l’era di Facebook:
digitale e narcisismo di massa
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