Educazione alla visione

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Educazione alla visione
Laboratorio di didattica di Storia dell’Arte
Docente Renata Maccato
1. Storia dell’arte – Educazione alla visione
1.1.Educazione al Patrimonio artistico
I beni culturali sono l’eredità di una civiltà, sono le tracce che ha lasciato, rendono possibile
capire la sua evoluzione storica e quindi la sua identità presente.
L’Italia in particolare possiede una altissima quota del patrimonio artistico mondiale.
Gombrich ebbe ad affermare che studiare storia dell’arte è più importante per gli italiani che
per chiunque altro.
In Italia i beni culturali sono diffusi, fanno parte dell’ambiente in cui viviamo quotidianamente.
Compito educativo primario è dunque stabilire un contatto con questi beni, rendere
pienamente consapevoli della loro presenza e del loro valore, usare la loro capacità formativa a
livello personale e sociale.
Si deve educare ad una specifica sensibilità di fruizione attiva e di rispetto del bene artistico
che sia insieme acquisizione del significato spirituale-estetico e del significato di documento
storico.
1.2.Ruolo della scuola
A conclusione di una inchiesta sistematica, condotta con A. Darbel, sul pubblico dei musei
europei, le sue caratteristiche sociali e scolastiche, i suoi atteggiamenti rispetto al museo, le
sue preferenze artistiche, il sociologo P.Bourdieu così sintetizza le condizioni sociali della
democratizzazione della cultura: ” L’azione della scuola è il mezzo più efficace per accrescere la
pratica culturale” e, a proposito della frequenza dei musei, argomenta:“ Si può stabilire
scientificamente che solo il prolungamento della durata degli studi e l’accrescimento del posto
riservato nei programmi all’insegnamento artistico permetterebbero da soli di spezzare il vicolo
cieco entro il quale sono imprigionate tutte le tecniche di azione diretta, dall’animazione
culturale alla pubblicità attraverso la stampa, la radio o la televisione”1
Bourdieu motiva la necessità di una valida formazione scolastica per condurre ad apprezzare le
opere d’arte :” Dal fatto che l’opera d’arte non esiste in quanto tale che nella misura in cui è
percepita, vale a dire decifrata, si deduce che le soddisfazioni legate a questa percezione…
sono accessibili soltanto a coloro che sono preparati ad appropriarsele perché accordano loro
valore, essendo inteso che possono accordare loro valore soltanto se dispongono dei mezzi
1
Bourdieu,Darbel ,L’amore dell’arte, Firenze,1972
1
per appropriarsele. Di conseguenza, il bisogno di appropriarsi di beni che, come i beni culturali,
esistono come tali solo per chi ha ricevuto dal proprio ambiente familiare e dalla scuola i mezzi
per appropriarsene, non può manifestarsi che presso coloro che possono soddisfarlo e può
soddisfarsi nel momento in cui si manifesta. Ne segue che “il bisogno culturale”, a differenza
dei “bisogni primari”, si accresce come bisogno colto man mano che si soddisfa, poiché ogni
nuova appropriazione tende a rafforzare la padronanza degli strumenti di appropriazione e, suo
tramite, le soddisfazioni connesse a una nuova appropriazione”…2
1.3.La Storia dell’arte
Nel convegno “Quale storia dell’arte” che si svolse a Napoli nel 1976, G. C. Argan ebbe a
dichiarare:“Nelle pochissime ore di cui ora dispone la storia dell’arte, l’insegnante non può dare
nemmeno un compendio, il più sommario, dello sviluppo storico dell’arte italiana, ma non è
motivo per destoricizzare l’insegnamento e quindi vanificarlo, essendo la storia l’unica
disciplina che spieghi i fenomeni artistici.” Argan, infatti, ritiene che “le arti sono modi del
pensiero, componenti essenziali della cultura, che fanno storia e vanno studiate storicamente”.
Nello stesso tempo Argan marca la differenza rispetto alla storiografia del passato:” ….non si fa
più la storia delle personalità e dei capolavori, si studiano i contesti culturali e la loro dinamica.
Non si parla più di arte ma di arti, cioè delle tecniche di quella cultura materiale, che è dentro
la vita quotidiana e non sopra. Ma bisogna guardarsi dal materialismo volgare: la storia delle
arti non collima con quella delle tecniche se non nella misura in cui è la storia della ricerca di
un tipo particolare di valore, la qualità, e lo studio di essa, nel quadro generale dei valori, non
può farsi se non facendo la storia dell’arte. E questa, poi, è la storia del lavoro, non come
servitù ma come liberazione del lavoro stesso dalle sue negatività sociali : l’arte è
rivendicazione di classe anche quando, con le sue prestazioni, serve al potere religioso o
politico.…in un paese dove la storia dell’arte fosse studio obbligatorio e conoscenza diffusa non
ci sarebbe la degradazione ecologica oltre la tolleranza biologica, lo sfruttamento dello spazio
urbano e del territorio oltre ogni limite economico, la dispersione del patrimonio artistico”3
Intervenendo nella discussione sulla riforma della scuola, al tempo della “commissione dei
saggi” convocata dall’allora ministro L. Berlinguer, Cesare De Seta tentò una mediazione tra
Storia dell’arte e le altre discipline storico-umanistiche :
“ Nelle scuole superiori in cui si insegna la Storia dell’arte (o meglio dire l’ educazione storicoartistica), essa racimola poche ore che sono del tutto impari alla necessità di offrire cognizioni
e consapevolezza di un Paese che è per eccellenza la culla dell’arte. Non è certo mia intenzione
rivendicare spazi didattici a danno di altre discipline come la letteratura italiana o la storia;
piuttosto è mio debole parere che dovrebbe essere interesse di tutti pervenire ad un coordinato
disegno in cui l’insegnamento delle discipline storiche si configuri come un insieme in dinamica
2
3
Ibidem
De Seta (a cura di ), Quale Storia dell’Arte, Atti del Convegno del 6-8 maggio 1976, Napoli,1977
2
continuità, in modo che si possa trascorrere dalla storia letteraria alla storia delle arti, alla
storia politica al fine di delineare i tratti fondanti di una civiltà. Il problema è sempre quello di
far quadrare il cerchio delle ore di insegnamento che sono sempre poche se si vuol dare
ragione a tutti con le vecchie metodiche nozionistiche. Qualche esempio potrà essere utile per
spiegare quanto intendo dire più di qualunque formulazione generale o generica: infatti senza
che suoni offesa a nessuno si può sostenere che non aver letto l’Adone del Cavalier Giovan
Battista Marino non è una perdita irreparabile, al contrario dovrebbe essere impensabile non
conoscere le Sette opere della misericordia di Caravaggio o la Fontana dei fiumi di Bernini. La
stagione romantica non può prescindere da Manzoni e Leopardi, ma di Hayez o Dalbono se ne
può fare senza. I programmi dovrebbero essere configurati adottando una metodica
comparativa tra le discipline e tra diversi ambiti nazionali. La scuola italiana è estranea a tutto
ciò: la cultura impartita è comunque fortemente sperequata a tutto danno della cultura
artistica, intesa come coscienza collettiva del mondo materiale che ci circonda, costituita da un
insieme di prodotti che compongono nella loro interezza il patrimonio storico e artistico del
Paese. Patrimonio da conoscere in primo luogo per poterlo conoscere e tutelare…. Dobbiamo
far sì che la storia dell’arte si trasformi in una sorta di educazione civica. Difendere i paesaggi
reali dipinti da Piero della Francesca è altrettanto importante che difendere le sue tele, allo
stesso modo educare i giovani a intendere l’uno e l’altro è una forma di assicurazione affinché
quel paesaggio umbro e quel dipinto di Piero possa essere un’eredità di bellezza da trasmettere
alle future generazioni. Preservare e restaurare il patrimonio monumentale di una città o di un
paese, salvare Pompei o la Valle dei Templi è un’impresa prioritaria per la sopravvivenza della
nostra civiltà e della nostra identità … la storia non può prescindere dalla storia dell’arte che ha
il vantaggio di svolgersi in presenza dell’evento di cui narra. Essa è parte integrante e
essenziale della nostra civiltà che si configura come spazio storico-artistico.”4
1.4.Studiare il territorio di appartenenza
Perché l’educazione al patrimonio culturale sviluppi il senso di appartenenza, l’interesse, il
rispetto, la consapevolezza della propria e dell’altrui cultura è bene che sia innanzitutto
conoscenza del proprio territorio, che scandagli la vitalità del tessuto urbano e rurale, che
evidenzi la continuità della sedimentazione e stratificazione dell’opera di umanizzazione
condotta nei secoli, che valorizzi la globalità delle testimonianze presenti. La necessità di
questa impostazione metodologica è alla base del supporto teorico di A. Emiliani al progetto
dell’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, dispiegato nel
libro “Una politica dei beni culturali”. Emiliani afferma che il censimento, attuato dall’Istituto
con
finalità
divulgazione
conoscitive,
deve
prendere
costantemente
forma
attraverso
un’opera
di
e la partecipazione interattiva di gruppi sociali e di esperienze diverse, e
nell’accelerazione spontanea di un processo di partecipazione popolare al problema della
4
C.De Seta, articolo su Corriere della Sera del 21 ottobre 1997
3
conservazione e della gestione del patrimonio culturale. La scuola, afferma Emiliani, ha un
ruolo insostituibile di vera protagonista dell’enorme spazio didattico-educativo creato dal
patrimonio locale, perciò l’Istituto dovrà fornire gratuitamente copia dei materiali, attraverso
un catalogo periodicamente diffuso e aggiornato comprendente schede, fotografie e audiovisivi
per fornire informazioni e suggerimenti circa la dimensione spazio-temporale del luogo di
insegnamento.5
1.5.Educazione alla visione
Siamo avvolti da immagini, forme e segni grafici sempre più elaborati. Viviamo in una
”iconosfera” nella quale il codice di comunicazione che più utilizziamo, per rapportarci agli altri
o per definire le nostre azioni, è proprio quello visivo. Eppure la scuola continua ad
abbandonare alla casualità un approccio più responsabile nei riguardi della “funzione estetica”
e delle innumerevoli forme attraverso le quali transitano i prodotti.
Considerato che ancora oggi non in tutte le scuole superiori è presente nel curricolo la materia
e, anche dove si insegna Storia dell’arte, tutti i problemi della cultura visiva e progettuale
contemporanea dovrebbero essere concentrati ed “esauriti” in un quadrimestre dell’ultimo
anno, si comprende come la sfida sia impari alle possibilità didattiche e come nei giovani
domini un’accettazione acritica delle immagini del nostro tempo.
E’ urgente fornire gli strumenti per lasciare che le immagini ci parlino, superando un handicap
culturale che risale al Medioevo, quando l’ Occidente ha scelto la parola come via al sapere e
ha inteso l’immagine come complemento o decorazione alla parola detta o scritta. Perciò
l’abbondanza di immagini rischia di tradursi oggi in superficialità di relazione culturale.
M. Bettetini, in un suo recente libro, mette in guardia dalla presenza di una nuova forma di
iconoclastia perché:” le nuove immagini sono talmente voraci da distruggere incessantemente
le vecchie”6
2. La valutazione qualitativa – Il giudizio estetico
2.1.La relazione con l’opera
Entrare in relazione con l’opera non vuol dire fare esperienza estetica. Il livello del “gusto” ( mi
piace, non mi piace) non introduce gerarchie di valori. Rimane aperto il problema del giudizio
estetico.
Kant definisce bello ciò che piace senza concetto, ossia ciò che piace oggettivamente. La
bellezza è oggettiva ma non è riconducibile a regole prefissate. Kant vuole sottolineare che la
connessione tra il sentimento e il giudizio non si riferisce mai all’oggettività della natura o
5
6
Emiliani, Una politica dei beni culturali, Torino 1974
M. Bettetini, Contro le immagini. Le radici dell’iconoclastia, Roma-Bari 2006
4
dell’arte, bensì a ciò che il soggetto prova in sé nel momento in cui riconosce finalità e
bellezza.
Il gusto, in ogni caso, si educa mediante un percorso che si muove attraverso l’arte stessa,
intensificando le ore di storia dell’arte a scuola e frequentando più assiduamente il museo.
2.2.La percezione attiva
Per
superare
la
banalità
insita
in
un
approccio
superficialmente
sensoriale,
Dorfles
raccomanda: “Si deve costituire un intervallo che si frapponga tra opera e opera, tra opera e
spettatore, in maniera da permettere che l’opera possa venir accolta attraverso un tipo di
ascolto diverso da quello con cui si percepiscono suoni, rumori, immagini an-artistiche, in
modo da eliminare l’ “ascolto disattento” (ben sottolineato da Adorno), che costituisce di solito
la condizione più frequente in cui il pubblico si pone di fronte all’opera d’arte. E’ indispensabile
una presa di coscienza da parte di chi ascolta o di chi osserva, e non una ricezione passiva,
meramente sensoriale, disgiunta da ogni componente critica, speculativa, analitica….. Questo
non significa bandire ogni approccio immediato all’opera, ma soltanto renderlo più consapevole
e più specialistico. Restituire una zona diastematica, un intervallo, all’opera non deve
significare isolare l’arte dal contesto in cui è immersa, e neppure farne un’entità privilegiata
che sfugga ad ogni “commercio” con le attività pratiche dell’uomo; significa piuttosto realizzare
una funzione che non può identificarsi del tutto con altre funzioni non artistiche e soltanto
consumistiche, mercantili, edonistiche.
Non solo, ma significa postulare la presenza d’un elemento di intervallo anche nel contesto
stesso d’ogni opera, che permetta la messa in rilievo d’ogni suo singolo settore, togliendola da
quel magma indifferenziato in cui così spesso oggi viene a trovarsi soffocata.”7
2.3.Il giudizio estetico
Si può parlare di esperienza estetica quando il rapporto con l’opera mi ha fatto scoprire chi
sono e non ha semplicemente riconfermato ciò che di me già sapevo.
Perché si attui l’esperienza estetica , le più recenti teorie, in contrasto con quelle
ottocentesche, considerano necessaria la mediazione della conoscenza.
Importante, riconoscendo il codice artistico come codice debole, è conoscere il contesto di
origine dell’immagine, della tradizione iconografica, stilistica, tecnica in cui è radicata.
Senza dubbio si può ammettere che l’esperienza interiore, come capacità di risposta
emozionale alla connotazione dell’opera d’arte, costituisca una delle chiavi dell’esperienza
artistica. Ma la sensazione o l’affezione che suscita l’opera ha un diverso valore a seconda che
costituisca il tutto di una esperienza dell’opera d’arte ridotta al possesso di ciò che si può
7
Dorfles, L’intervallo perduto, Torino 1980
5
chiamare la sua espressività, o a seconda che si integri nell’unità di una esperienza adeguata,
che si riporti ad un contesto storico di riferimento.
Si può concludere che la prassi didattica dovrebbe indirizzarsi ad un equilibrio tra rigore e
intuito.
Il docente deve partire dalla considerazione che l’arte è forma primaria di pensiero:
intendendo, evidentemente, il pensiero come un’attività che si forma, nella persona singola
come nell’umanità intera, a partire dall’esperienza sensibile e dal rapporto con la natura
interna ed esterna a noi.
L’arte è testimonianza dell’unità di un’esperienza, affermava Dewey, che non si può
frammentare in aspetti mentali, corporei, affettivi, senza tradirla almeno in parte; e ancora
seguendo Dewey, l’arte in quanto comunicazione non è un dono mistico, ma “il fiore ultimo di
una lunga, conquistata storia di esperienze individuali e sociali”.8
La prassi intuitiva che presiede a ogni creazione artistica, in ogni caso, sa essere più rivelatoria
e più rivoluzionaria di ogni discorso centrato sulla logica.
L’esperienza più completa di fruizione dell’opera dovrebbe ricreare questa conoscenza totale.
2.4.L’interpretazione dell’opera
L’opera d’arte è ambigua per definizione, perché è polisemica. Non può essere completamente
“aperta” perché è anche comunicazione e deve quindi fare riferimento ad un codice, sia pure
“debole”.9
“L’inesauribilità del “messaggio” fa sì che la ricchezza della “ricezione” dipenda innanzi tutto
dalla competenza del “ricettore”, cioè dalla capacità di dominare il codice del “messaggio”.
…Quando il messaggio supera le possibilità di apprendimento dell’osservatore, costui non
arriva a coglierne la “intenzione” e si disinteressa di ciò che gli appare come un groviglio di
pennellate senza capo né coda, come gioco di macchie di colore senza necessità. Altrimenti
detto, posto davanti a un messaggio troppo ricco per lui e, come dice la teoria
dell’informazione, “sovraccarico”, si sente “sperduto” e non indugia oltre….”10
Percepire l’opera d’arte in modo propriamente estetico, vale a dire in quanto significante che
non significa niente altro che se stesso, non vuol dire considerarla “senza legarla a niente altro
che a se stessa, né emozionalmente né intellettualmente”, in breve abbandonarsi all’opera
appresa nella sua irriducibile singolarità, vuol dire invece coglierne i tratti stilistici distintivi
mettendola in relazione con l’insieme delle opere, e con queste soltanto, che costituiscono la
classe di cui essa fa parte.
8
J. Dewey, Arte come esperienza e altri scritti, Firenze 1995
Per la nozione di opera aperta vedi U. Eco, Opera aperta, Milano 1976
10
Bourdieu, Darbel, 1972
9
6
2.5.Il significato e il valore
G. C. Argan , ancora una volta nel ribadire la necessità di un approccio di contestualizzazione
storica dell’opera, così distingue significato e valore:
“Allo storico interessa il significato, al conoscitore il valore. Una cosa non vale in astratto, ma
per qualcuno. Per il conoscitore la definizione del valore collima con l’attribuzione dell’opera a
una personalità artistica; è questo che la rende accetta ( in termini di mercato, collocabile)
presso un ceto sociale in cui quello che conta è la personalità del singolo, che sovrasta la
massa e la dirige. Per i grandi collezionisti le opere d’arte sono titoli di potere. E’ logico che il
conoscitore metta in evidenza , nella fruizione dell’opera, tutto ciò che è espressione della
personalità : non la tecnica ma lo stile, non la tipologia o l’iconografia ma la singolarità
d’invenzione, non la tettonica dell’oggetto ma la sua “qualità”. La nozione di valore sembra più
vasta ed è più ristretta di quella di significato. Nel campo dell’arte tutto significa, tutto è
artistico. Non è riduzione metodologica ma decurtazione dell’area storica quella che
preliminarmente discrimina le opere d’arte assolute dalla ressa delle minori, dei tanti prodotti
dell’artigianato e dell’industria artistica, che pure hanno il loro peso, non piccolo, nel bilancio
delle relazioni di quantità e qualità e cioè nel vero quadro dei valori di una cultura. Anche le
materie, le tecniche, i supporti, gli schemi tipologici o iconici significano, comunicano
informazioni che il conoscitore trascura e interessano lo storico. Rivelano infatti il rapporto
dell’artista con la tecnologia, la strumentazione, l’organizzazione del lavoro; e spiegano come
l’arte, i cui vertici toccano i sommi livelli del pensiero speculativo, in tutto il suo corso sia il
nesso vitale che unisce le due sfere del lavoro manuale e della cultura.”11
3. La lettura dell’opera
3.1. Guida didattica alla lettura
La didattica della lettura di un’opera d’arte deve iniziare dai “dati”. Lo studente viene invitato a
prendere atto del nome dell’autore, del titolo dell’opera, della data di esecuzione, del luogo per
il quale è stata concepita e di quello in cui attualmente si trova, del materiale e della tecnica
con cui è stata eseguita, delle sue dimensioni. Il docente lo guiderà nell’approfondimento delle
considerazioni storiche ed estetiche che si possono ricavare da queste notizie.
La seconda fase riguarda la lettura iconografica, più o meno approfondita a seconda dell’età
degli studenti, del loro livello di preparazione, del tipo di scuola e quindi delle competenze che
si possono richiamare dallo studio di altre discipline (storia, letteratura italiana, latina, greca,
progettazione e laboratorio di architettura, tessitura, oreficeria, fotografia ecc. ).
La terza fase analizza l’uso degli elementi propri del linguaggio artistico: luce, uso del colore,
plasticità, linea, spazio, movimento, composizione per opere di pittura e/o scultura o
11
G.C.Argan, Riscoprire il ruolo del museo, in Corriere della sera del 6 aprile 1975
7
assimilabili; strutture, analisi della facciata, della pianta, dell’interno (focalizzando l’uso della
luce, le direttrici spaziali, l’unità o molteplicità statica o dinamica della composizione), relazione
con l’ambiente circostante per quanto riguarda l’architettura.
3.2. Polisemia dell’opera
Per essere tale l’opera d’arte deve essere “ineffabile”, esperienza totalizzante che esige un
atteggiamento attivo, creativo, da parte del fruitore. L’esperienza emotiva è importante ma
deve essere accompagnata, supportata, dalla conoscenza di quante più possibili notizie di tutta
la rete di relazioni di cui l’opera è frutto. Conoscenza dunque della biografia dell’artista, del
committente, dell’ambiente storico – geografico, della società coeva. In sede didattica, il
docente sintetizzerà questo panorama culturale, privilegiando di volta in volta gli elementi che
ritiene più importanti per focalizzare il senso di quell’opera in quel periodo. Resta basilare
tracciare, all’interno della storia dell’arte, il legame che unisce, per continuità e/o per desiderio
di cambiamento, l’opera alle altre opere dello stesso artista, per percepire il significato della
sua ricerca, e alle opere degli altri artisti, in senso diacronico e sincronico attraverso l’analisi
comparata.
Varie sono le metodologie che storicamente si sono definite nella critica d’arte e che possono
essere proficuamente applicate se riteniamo che possano maggiormente illuminare di senso
l’analisi dell’opera.12
Di seguito vengono proposte, come esempi, letture di opere secondo le varie metodologie.
12
per la storia della critica d’arte del Novecento vedi: G.C. Sciolla, La critica d’arte del Novecento, Torino 2003
8
3.3. La psicologia della visione
E’ l’analisi dei movimenti psicologici e delle componenti del processo visivo che partecipano alla
creazione come alla fruizione dell’opera13
Pablo Picasso, Pesca notturna ad Antibes, Museum of Modern Art, New York
Da: Arnheim, Verso una psicologia dell’arte,Torino 1969 pp.313-317
“…in
un
quadro
riuscito,
il
significato
essenziale
viene
espresso
direttamente
nelle
caratteristiche della forma visiva. Il dipinto di Picasso è composto da tre zone principali. Il
pannello verticale a sinistra presenta la città e il castello medievale di Antibes e prosegue come
un filo verticale di rocce, che fanno da cornice all’acqua del porto. Vi è poi il medaglione
centrale dei due pescatori nella barca, circondati da luci e da pesci. Infine il pannello di destra
mostra due fanciulle su un molo di pietra. Nel piano proiettivo frontale della tela, i pescatori
tengono il centro di una composizione approssimativamente simmetrica. Nello spazio
tridimensionale, siamo condotti diagonalmente dal lontano castello in alto a sinistra, attraverso
la scena di pesca, fino al molo in primo piano, più vicino a noi e con noi in diretta relazione
mediante la salda fondazione dei muri sulla base della cornice. Dopo aver viaggiato per il
quadro da sinistra a destra, veniamo catturati e trattenuti in compagnia delle fanciulle che, con
le loro biciclette, il cono gelato, i capelli e il seno prorompenti, sembra rappresentino gli
spettatori privi di preoccupazioni, attirati esteticamente. Noi stessi siamo argutamente
caratterizzati dalla compagnia in cui restiamo. La base di osservazione in primo piano serve
13
vedi R. Arnheim, Arte e percezione visiva, Milano 1971
9
pure da repoussoir: priva i pescatori nella barca di parte della comunicazione diretta con
l’osservatore, comunicazione che essi avrebbero monopolizzata se la loro posizione centrale
fosse stata dominante senza contestazione come accade, per esempio, nella Pesca miracolosa
di Raffaello in Vaticano. Picasso presenta la scena centrale come qualcosa cui si guarda, più
che come qualche cosa che è. Nondimeno il tema dei pescatori ha un peso considerevole, non
soltanto per la dimensione e la posizione centrale, ma anche per la sua stabilità quasi
architettonica, la quale fa sì che gli affaccendati uomini sulla barca instabile appaiano,
paradossalmente, quasi più saldamente fondati delle costruzioni in pietra a destra e a sinistra.
Nelle forme della città, simili a macigni, si evitano le verticali e le linee parallele: i cubi e le
piramidi si affastellano in un disordine enfatico. Similmente, l’ampio cubo del molo a destra
devia dal reticolo stabile in tutte e tre le dimensioni e si inclina obliquamente verso il fondo.
Anche nelle due fanciulle la verticale è giocata in sordina ed è incrociata da forme possenti, che
rappresentano forse il gioco di luci ed ombre. In confronto la scena centrale possiede la
frontalità e la piattezza di una facciata. La figura ritta svolge la propria azione senza alcun
impedimento e l’uomo accovacciato, sebbene un po’ di scorcio, si sviluppa pure liberamente
dai piedi alla testa. Nello stesso tempo, questa costruzione centrale è, per così dire, scritta
sull’acqua. Anziché trovare nella cornice una solida base, essa galleggia sulla mezzaluna della
barca, circondata dall’acqua immateriale, come un’apparizione. Questo senso di irrealtà è
rafforzato
dalla
distribuzione
cromatica.
Le
calde
ombre
purpuree
sono
riservate
prevalentemente alla periferia, mentre il gelo e la lontananza dei blu quasi monopolizzano il
centro. La stranezza dell’apparizione è ulteriormente esaltata, e spiegata, se notiamo una
differenza paradossale tra le figure dei due pescatori. L’uno, a sinistra, chino fuori bordo,
guarda nell’acqua. Sebbene il suo sguardo sia intento, egli è passivo, contemplativo. L’altro, a
destra è più attivamente impegnato nel trafiggere il pesce. Tuttavia, se ora guardiamo alle
forme mediante le quali sono rese le due figure, osserviamo che la distribuzione tra immobilità
e movimento è rovesciata. La figura dell’uomo in piedi è inserita nelle direzioni spaziali più
statiche: le orizzontali del corpo e del capo, col parallelo del braccio sinistro, e la verticale della
gamba, del braccio destro e della fiocina costituiscono una costruzione stabile, trave-pilastro.
L’orientamento spaziale equilibrato del braccio sinistro e l’angolo retto che distacca il braccio
dalla fiocina privano il colpo della sua energia.
Dall’altro lato, il compagno fisicamente inattivo è vivo di tutta l’inquietudine delle forme attive.
La sua posizione è capovolta, oscillante, con i piedi tesi nell’aria, lungo un asse obliquo, sia sul
piano frontale che nello spazio tridimensionale. Ma l’asse non è esplicitamente indicato. Non vi
è alcun sistema di linee fondamentali che sostenga o lo scheletro interno della figura o i suoi
contorni esterni. Il corpo è spezzato in curve corte, fortemente piegate, che si intercettano
irrazionalmente. Una simile contraddizione paradossale tra la natura dell’azione rappresentata
e la dinamica delle forme che la rappresentano non è rara in arte: spesso esprime il contrasto
tra il comportamento fisico e il suo significato spirituale. Così nella Resurrezione di Piero della
Francesca, la figura del Cristo sorgente è inserita in una cornice serena di verticali e di
10
orizzontali presentate frontalmente, mentre i dormienti, immobili, sono disseminati e disposti
secondo le diagonali più inquiete, irrazionalmente sovrapposte. A qual fine tale espediente
viene impiegato nella Pesca notturna ad Antibes? Sembra legittimo rammentare qui che il
quadro è stato eseguito nell’agosto del 1939, quando già oscurava l’orizzonte la seconda
guerra mondiale imminente. In questa luce minacciosa, l’uccisione dei pesci, rappresentata nel
nostro quadro, acquista un significato particolare. Guardata con disimpegnata curiosità dalle
ragazze, che sembrano creature di piacere e lussuria, la prospettiva del massacro appare
irreale, paralizzata nella sua violenza dalla distanza, dall’incompatibilità della violenza con il
gaio impianto di un porto mediterraneo. L’apparizione sulla barca a forma di mezzaluna
galleggia a qualche distanza, piatta e fredda, separata dallo spettatore da una striscia d’acqua;
e chi guarda è connesso visivamente e così associato simbolicamente col molo di pietra, il
luogo proprio degli spettatori lieti.
Il compagno contemplativo del pescatore ritto in piedi serve da ponte tra chi guarda e
l’immagine minacciosa e irreale. Sporgendosi in avanti, questo secondo uomo non è contenuto
nel remoto piano frontale ma si protende verso di noi. Ed è sempre lui che incontriamo per
primo quando entriamo nel quadro dall’angolo inferiore sinistro, incespicando sul granchio e
sulle rocce. Mentre i tratti del viso dell’uomo in piedi sono contratti in una concentrazione
restrittiva, gli occhi dell’uomo che si sporge sono aperti e assai distanziati, ed il naso giunge
come una proboscide scandagliante fin dentro l’acqua, che sembra vuota ma può nascondere
qualsiasi cosa. La pregnanza dell’acqua è familiare allo studioso dei sogni, che parla dell’acqua
come di un simbolo materno. In confronto con la tridimensionalità del pescatore, che scruta
inutilmente il futuro, tutto il resto perde la sua realtà. L’uomo della fiocina è bloccato in un
gesto raggelato, le pietre del castello storico recedono, le ragazze si appiattiscono. Il presagio
di cose violente, ma sconosciute, che verranno, emerge come il tema dominante del quadro.
Gli elementi percettivi che sono stati menzionati in questa analisi potrebbero facilmente venir
delucidati in termini più tecnici. Spero che i rapidi riferimenti che ho dato illustrino a sufficienza
l’unità fondamentale tra percezione ed espressione. Il significato di un’opera d’arte visuale è
contenuto nelle proprietà delle sue forme e colori: non vi è senso per tali forme e colori, al di
fuori del significato che esse proclamano.”
11
3.4. Iconologia
Ricerca dei valori simbolici, allegorici, metaforici delle immagini14
Caravaggio, Bacco, Galleria degli Uffizi, Firenze
Da: Maurizio Calvesi, Caravaggio, in Art Dossier n.1 aprile 1986 pp.28-30
“Il Bacco degli Uffizi, non è certamente privo di colte e intellettualistiche allusioni al Cristo o,
ancora, allo sposo del Cantico. Il mito di Bacco, il greco Dioniso (morto e risorto), poteva esser
valutato nei suoi significati più profondi come una prefigurazione o un annuncio misterico del
Redentore. Per Marsilio Ficino, campione del neo-platonismo rinascimentale, Bacco impersona
il primo grado del furor divino, quello sacerdotale, pertinente ai misteri sacrificali. Pico della
Mirandola scrive:” Rivelandoci i segni invisibili di Dio nei suoi misteri, vale a dire nei segni
invisibili della Natura, Bacco ci inebrierà dell’abbondanza della casa di Lui; nella quale la
santissima teologia, sopravvenendo, ci animerà di un duplice furore”.
Ficino e Pico, infine, giocando sull’omonimia con “Dionysus”, battezzano “Dionysus cristiano”
San Dionigi Aeropagita, che attinse la visione dei sacri misteri, ovvero “mysteria dionisiaca”,
“nell’ebbrezza di questo vino dionisiaco”. Per altro San Dionigi Aeropagita era confuso con San
Dionigi vescovo di Parigi, patrono della Francia, e la chiesa di San Luigi de’ Francesi, nella
quale il Caravaggio eseguirà la sua prima grande commissione pubblica procuratagli dal
cardinal Del Monte, era dedicata proprio anche all’Aeropagita. Il Bacco fu probabilmente dipinto
14
vedi E. Panofsky, Studi di iconologia, Torino 1975
12
per lo stesso Del Monte, che era un rappresentante italiano della nazione francese e vantava
discendenti dal re di Francia: quello del “Dionysus” cristiano non poteva quindi che essere un
tema a lui caro.
In Francia era di gran moda del resto il neo-platonismo di derivazione figiana: una forma di
pensiero cui possono riportarsi lo stesso codice caravaggesco della luce, la tematica spirituale
dell’Amore e, più in generale, quella raffinata cultura ermetica che cristianizzava i simboli
pagani, o l’alchimia, di cui il Del Monte era un cultore.
Ma l’ermetismo neo platonico, nei suoi ambigui riferimenti ai “mysteria dionisiaca”, non faceva
che riprendere quel tema della “ubriachezza spirituale” che è un motivo già elaborato dai Padri
della Chiesa proprio nei loro commenti al Cantico dei Cantici, laddove la Sposa e lo Sposo
profferiscono frasi come queste:” Il tuo ombelico è una coppa tornita, ove non manca mai
vino”; “Ho bevuto il mio vino e il mio latte; mangiate anche voi, amici, bevete e ubriacatevi”.
Espressioni che concordemente i teologi ricollegavano al passo del Vangelo:”Poi, preso il calice,
lo diede loro dicendo: Bevetene tutti, poiché questo è il mio sangue dell’alleanza”….
Infine Cesare Ripa, autore nel 1593 di un manuale di “Iconologia” che contiene un elogio del
cardinale Del Monte, e che definisce Bacco “simbolo del divino intelletto” scrive alla voce
“Grazia”, richiamando la frase dello Sposo:”La tazza denota la Grazia secondo il detto del
profeta Calix meus inebrians quam praeclarus est. Vi si potranno scrivere quelle parole: Bibite,
et inebriamini, perché chi è in grazia di Dio, sempre sia ebbro delle dolcezze dell’amor suo;
perciocché questa ubriachezza è sì gagliarda, e sì potente, che fa scordar la sete delle cose
mondane”.
Le fattezze effeminate del Bacco sono state naturalmente considerate un documento delle
propensioni pederastiche del Caravaggio. Ma sulla sua divina androgenia, valgono le stesse
considerazioni che abbiamo già fatto per il Fanciullo della Borghese; e nel Cantico dei Cantici
potremo trovare descrizioni dello Sposo particolarmente rispondenti: ” Le sue chiome riccie
sono grappoli di palma, nere come un corvo”; “le sue braccia sono un oro tornito, il suo busto
è d’avorio”. Con un dito della mano sinistra, annodato da un fiocco, il giovane indica il proprio
ombelico (“nodo”, ovvero centro, “onfalo”, neoplatonicamente “nodus mundi”) e con la destra
porge il calice di vino, quasi a sottolineare la relazione suggerita dal Cantico (“Il tuo ombelico è
una coppa tornita, ove non manca mai vino”), e visualizzando il suo invito all’ubriachezza. Il
luminoso vino è riproposto nella tersa ampolla di vetro toccata magicamente dalla luce, di
nuovo accanto alla canestra con le uve (che cingono anche il capo), i pomi, i fichi e le
melagrane, ovvero i frutti del Cantico.
La delicatissima sospensione di silenzio creata dalla luce sigla il clima sacrale dei “mysteria
dionisiaca”.
13
3.5. Psicanalisi
Considera l’opera d’arte come strumento capace di liberare tensioni inconsce nell’artista e
quindi di rivelarne elementi della personalità15
Leonardo, Sant’Anna, la Vergine e il Bambino,Louvre, Parigi
Da: Sigmund Freud, Leonardo, Torino 1975
Sant’ Anna con la figlia e il nipote è un tema di rado trattato nella pittura italiana; in ogni caso,
la raffigurazione di Leonardo si scosta per molti versi da tutte quelle che ci sono note …Nel
quadro di Leonardo, Maria, protesa in avanti, siede sulle ginocchia di sua madre e tende le
braccia verso il figlioletto, che gioca con un agnellino trattandolo persino un po’ male. La nonna
ha l’unico braccio visibile appoggiato sul fianco e guarda entrambi con un sorriso felice. La
disposizione certo non è priva di artificio. Ma il sorriso che brilla sulle labbra delle due donne,
per quanto sia evidentemente lo stesso del quadro di Monna Lisa, ha perduto il suo inquietante
ed enigmatico aspetto; esprime tenerezza e silenziosa beatitudine…In questo quadro è
15
E. Gombrich, Freud e la psicologia dell'arte. Stile, forma e struttura alla luce della psicoanalisi, Torino, 1967
14
tracciata in sintesi la storia della sua (di Leonardo) infanzia; le particolarità ch’esso presenta si
spiegano in base alle più personali impressioni di vita di Leonardo. . In casa di suo padre egli
non trovò solo la buona matrigna Donna Albera, ma anche la nonna, madre di suo padre,
Monna Lucia che, ammettiamolo pure, non sarà stata meno tenera verso di lui di quanto
sogliono essere le nonne. Questa circostanza gli suggerì forse di rappresentare un’infanzia
protetta dalla madre e dalla nonna…Sant’ Anna, la madre di Maria e nonna del Bambino, che
dovrebbe essere una matrona, è qui raffigurata forse un tantino più matura e severa di Santa
Maria, ma è ancora una giovane donna di non sfiorita bellezza. In realtà Leonardo ha dato due
madri al bambino, una che tende le braccia verso di lui, un’altra sullo sfondo, dotandole
entrambe del sorriso beato della felicità materna… L’infanzia di Leonardo fu singolare come lo è
questo quadro. Egli aveva avuto due madri, la prima, la sua vera madre, Caterina, alla quale
fu strappato fra i tre e i cinque anni e una giovane e affettuosa matrigna, la moglie di suo
padre Donna Albera. Combinando questa circostanza della sua infanzia con quella accennata
prima, la presenza di una madre e di una nonna, e condensandole in un’unità composita, prese
forma la triade di Sant’ Anna. La figura materna più distante dal bambino, vale a dire la nonna,
corrisponde sia nell’aspetto che nel suo rapporto spaziale col bambino, alla prima e vera madre
Caterina. Sotto il sorriso beato di Sant’ Anna l’artista ha celato e smentito l’invidia che la
poverina provò quando dovette cedere alla più nobile rivale, prima l’uomo e poi anche il figlio.
15
3.6. La Sociologia
Valutazione dell’opera d’arte come documento al centro dell’interazione dei rapporti tra artisti,
committenti, pubblico nella realtà sociale del periodo storico.16
Raffaello, L’incendio di Borgo, appartamento pontificio, Città del Vaticano
Da: Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte,Torino 1956 pp.377-379
L’arte del primo Cinquecento è interamente mondana; anche nelle scene sacre essa realizza il
suo stile ideale non già contrapponendo realtà naturale e realtà trascendente, ma creando fra
le cose stesse della natura una distanza, che nella sfera dell’esperienza visiva suggerisce
distinzioni di valore simile a quelle che esistono nella società tra l’aristocrazia e il volgo. La sua
armonia riflette l’utopistica immagine di un mondo da cui ogni lotta è esclusa, non perché vi
regni
un
principio
democratico,
ma
al
contrario
uno
autocratico.
Le
sue
creazioni
rappresentano una realtà superiore, più nobile, sottratta al caduco e al quotidiano….
Fra tutti i fattori dell’arte cinquecentesca quello più strettamente legato al tempo e alle
condizioni sociali è l’ideale della Kalokagathia. Nessun altro rivela con altrettanta evidenza
come il concetto di bellezza dipenda dall’ideale umano dell’aristocrazia. L’importanza attribuita
all’aspetto fisico non è una novità del Cinquecento, né un segno di mentalità aristocratica – già
il secolo precedente, opponendosi allo spiritualismo medioevale, aveva guardato con occhio
appassionato all’aspetto fisico dell’uomo – ma è solo nel Cinquecento che la bellezza e la forza
fisica divengono espressione perfetta della bellezza e del valore spirituale. Il Medioevo sentiva
16
vedi F. Antal, La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale, Torino 1960
16
come termini antitetici e inconciliabili lo spirito incorporeo e il corpo privo di spiritualità:
contrasto più o meno accentuato, ma sempre presente al pensiero degli uomini. Per il
Quattrocento l’inconciliabilità di spirito e corpo perde significato; il valore spirituale non è
ancora incondizionatamente legato alla bellezza fisica, ma non la esclude. La tensione che
tuttavia qui esiste ancora fra doti intellettuali e fisiche scompare del tutto dall’arte del primo
Cinquecento.
rappresentare
Secondo
gli
le
apostoli
premesse
come
di
volgari
quest’arte
contadini
appare,
o
ad
semplici
esempio,
artigiani,
inconcepibile
al
modo
del
Quattrocento, spesso così gustoso. Santi, profeti, apostoli, martiri sono ormai figure ideali,
libere e grandi, possenti e dignitose, gravi e patetiche, stirpe d’eroi di una bellezza piena,
matura, sensuale…Nel raffaellesco Incendio di Borgo la portatrice d’acqua è della stirpe delle
Madonne e delle Sibille michelangiolesche – umanità gigantesca, dal piglio energico, orgogliosa
e sicura. Tale è l’imponenza di quelle figure, che possono anche comparire svestite, nonostante
l’antica avversione nobiliare per il nudo; esse non perdono nulla della loro grandezza.
3.7. Lo strutturalismo
E’ la lettura dell’opera secondo il carattere sistematico della realtà linguistica, partendo dal
principio che l’arte è comunicazione e si affida quindi al linguaggio.17
Georges Seurat, Une dimanche à la Grande Jatte, Art Institute of Chicago, Chicago
17
vedi U. Eco, Segno, Milano 1973
17
Da: Filiberto Menna, La linea analitica dell’arte moderna, Torino 1975 pp.10-14
“Quando Seurat costruisce il quadro della Grande Jatte, ricorre a un procedimento tipicamente
analitico e scompone il tono nelle sue componenti elementari (nelle sue unità atomiche) e
organizza queste unità sulla base di relazioni e dipendenze interne fondate su regole costanti;
con lo stesso procedimento, scompone la continuità dello spazio in unità elementari (linee
verticali, orizzontali, diagonali, zone puntiformi di colore) e organizza queste unità di base in
un insieme fortemente solidale, in una struttura, dove ciò che conta non è la corrispondenza
tra interno ed esterno, tra il quadro e le apparenze fenomeniche, ma più semplicemente e
coerentemente la relazione interna di quelle unità. Il procedimento tende a ritrovare delle
invarianti di base del linguaggio pittorico e delle regole che presiedano alla organizzazione dei
dati elementari su fondamenti essenzialmente sintattici. Naturalmente, a Seurat interessa
l’atto individuale del fare pittura, il momento concreto della costruzione del quadro (di quel
determinato quadro); ma interessa anche, e direi soprattutto, assicurare ai singoli atti
espressivi un fondamento più oggettivo, un modello costante di riferimento, in definitiva, un
sistema, il sistema della pittura.
Riportandoci a quel lontano-vicino pomeriggio domenicale alla Grande Jatte, constatiamo che
Seurat ha voluto esplicitamente lasciare al quadro una sua presenza documentaria, una
indubbia referenzialità. Così in quel pomeriggio di sole, i parigini celebrano il loro tempo libero,
si sdraiano sulla verde pelouse, passeggiano lungo il fiume e affidano alla brezza le vele dei
canotti. L’artista riprende, puntigliosamente, l’intero universo scoperto e celebrato dai pittori
impressionisti, ci presenta una tranche de vie, un evento, come avevano fatto Manet e Monet,
Renoir e Sisley. Ma comprendiamo subito che Seurat si è impegnato in una sorta di
scommessa: affermare i diritti del quadro, e della rappresentazione, per dimostrare che è
possibile, nello stesso tempo, far valere i diritti, fondamentali, della pittura, della lingua della
pittura .Egli è sorretto, cioè, da una esigenza sistematica quasi del tutto estranea agli artisti
che gli abbiamo posto a confronto ed è interessato non tanto alla realtà, nelle sue forme finite,
e nemmeno al procedimento percettivo, istantaneo e bruciante, che era alla base dell’opera di
Monet,
quanto
all’analisi
degli
elementi
linguistici
di
base
e
alle
regole
della
loro
organizzazione: il quadro sembra perdere di peso, si assottiglia, lasciando intravedere, in
trasparenza, la griglia strutturale della pittura.
Il procedimento di Seurat si configura quindi come una operazione tipicamente analitica,
scomponibile in tre tempi:1) una ricognizione sul motivo e la stesura di un taccuino di appunti;
2) una rielaborazione dei dati sulla base di una teoria della pittura; 3) l’esecuzione materiale,
condotta sempre in atelier, intesa come puro trasferimento dell’idea sulla tela. Si tratta di
un’operazione essenzialmente mentale, già chiaramente individuata dagli artisti e dai critici
dell’epoca…
Nel processo di astrazione sistematica, cui la pittura è sottoposta da Seurat, il ruolo
dell’esecuzione perde progressivamente di peso e in questa sua riduzione coinvolge
necessariamente la stessa pennellata, alla quale la pittura tradizionale (non esclusa quella
18
degli impressionisti) aveva sempre attribuito un valore fondamentale tanto da identificare in
essa la qualità del dipinto. Il fatto è che il trasferimento della esecuzione sul piano di una
semplice applicazione sul supporto di un sistema di segni e di regole stabiliti in anticipo al
livello della teoria, dell’idea, non può non recare con sé l’assottigliamento del valore espressivo
della fattura …, e quindi della pennellata e del segno grafico…
Seurat ha posto in termini straordinariamente espliciti la questione della formalizzazione
dell’arte. Egli si rende subito conto, infatti, che una teoria linguistica dell’arte (e della pittura)
non può non tendere alla istituzione di un sistema e che la forza del sistema dipende dal grado
di invarianza delle unità di base e delle regole combinatorie. Con l’apporto della cromatologia
di Chevreul e di Rood, Seurat stabilisce le regole di organizzazione sintattica delle unità
cromatiche ottenute mediante la divisione del tono: egli si serve di un disco cromatico, ripreso
dagli studi di Rood, disponendo su di esso i colori dell’iride, collegati tra loro mediante una
serie di tinte intermedie. Viene individuato, così, un sistema costituito da unità distinte per
differenza e opposizione: per differenza, grazie alla serie delle tinte intermedie; per
opposizione, in virtù del contrasto dei complementari. Un procedimento analogo viene
impiegato per quel che riguarda il sistema delle linee sulla base delle ricerche di Charles Henry.
Lo stesso Seurat enuncia chiaramente questo proposito sistematico ponendo l’interrogativo se
non sia possibile, dopo aver ottenuto una classificazione rigorosa del colore, scoprire “un
sistema egualmente logico, scientifico e pittorico” relativo alla organizzazione delle linee.
3.8 Cultura materiale – Antropologia
La nozione di cultura materiale richiama l’attenzione sui materiali e gli oggetti concreti della
vita delle società, privilegia lo studio delle masse a scapito delle individualità, dei fatti ripetuti
(consuetudini, tradizioni) piuttosto che degli eventi. Gli oggetti tuttavia portano con sé altri
segni inerenti le arti, la religione ecc. ed è dalla considerazione di questo complesso che si può
individuare lo stato di una società e la sua evoluzione. La cultura materiale tende quindi a
creare un collegamento con l’immaginazione dell’uomo e la sua creatività e a considerare
proprie tre componenti fondamentali: lo spazio, il tempo e la socialità degli oggetti.18
18
vedi J. Bucaille, J.M.Pesez, Cultura materiale, in Enciclopedia Einaudi vol. IV°, Torino 1978
19
Ipotesi di ricostruzione di una capanna dell’insediamento magdaleniano di Pincevent
Gli scavi di Pincevent
Il sito preistorico di Pincevent, vicino a Fontainebleu, ha rivelato i resti di un accampamento di
cacciatori di renne del periodo magdaleniano, circa 12.300 a.C.
E’ stato scoperto nel 1964 e vi sono stati condotti scavi sotto la direzione di Andrè Leroi
Gourhan che ha applicato una metodologia di meticolosa e sistematica analisi e classificazione
di
tutti
i
manufatti con
un
approccio
interdisciplinare
che
utilizza
la
classificazione
computerizzata e la tassonometria. E’ stato così possibile ricostruire le tende, i focolari,
l’ambiente domestico come pure la stagione di caccia e alcuni modi di cucinare.
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Esercitazioni da inserire nel Forum
1) Riflessioni sul punto 1 (Storia dell’arte / Educazione alla visione) o 2 (La valutazione
qualitativa / Il giudizio estetico) o 3 (La lettura dell’opera) in 10/15 righe.
2) Preparare una scheda di lettura di un autoritratto presente nella mostra “I volti dell’arte –
Autoritratti – dalla collezione degli Uffizi” attualmente in corso a Ca’ Farsetti (Istituto Veneto di
Scienze, Lettere ed Arti) a Venezia, che andremo a visitare nella prossima lezione in presenza
il 15 marzo. Gli specializzandi presenti alla lezione del 13 febbraio hanno avuto ciascuno una
fotocopia di un ritratto da analizzare; a coloro che non erano presenti vengono rispettivamente
assegnati:
Angelo Lidia - Raffaello “Autoritratto”, 1506,olio su tavola, 47,3 x 34, 8 cm
Caleari Marta – Filippino Lippi
“Autoritratto”, 1485, affresco su embrice,50 x 31cm
Carone Alessandro – Marietta Robusti detta la Tintoretta“Autoritratto”, 1580, olio su
tela, 93, 5 x 91, 5 cm
De Marchi Emanuela – Jacopo Robusti detto il Tintoretto,“Autoritratto”1585
olio su tela, intero 72, 5 x 57, 5 cm,parte originale 39 x 32, 5 cm
Fabretto Valentina – Guido Reni “Autoritratto”, 1630, olio su tela, 45, 4 x 34 cm
Ferrarini Giuliana – Gian Lorenzo Bernini “Autoritratto”, 1635 olio su tela, 62 x 46 cm
Martinato Antonella – Diego Rodriguez de Silva y Velàzquez “Autoritratto”, 1643
olio su tela, 103, 5 x 82, 5 cm
Mascella Roberto – Rembrandt Harmenszoon
Van Rijn (?) “Autoritratto”, 1655,
olio su tela, 76 x 61 cm
Pellegrini Roberta – Antonio Canova “Autoritratto”,1792, olio su tela, 68 x 54, 5 cm
Santoro Gabriella – Giovanni Fattori “Autoritratto”, 1884, olio su tela, 58 x 49 cm
Tripodi Rita – Giovanni Boldini “Autoritratto”, 1892, olio su tela, 56 x 36 cm
Zuliani Lorenza – Giacomo Balla “Autocaffè”, 1928, olio su tavola, 63, 5 x 42,5 cm
Nel caso non fossero in grado di reperire una riproduzione dell’autoritratto indicato, trovino un
altro autoritratto dello stesso autore o di un autore il più possibile simile per stile e periodo.
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