Educazione alla visione
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Educazione alla visione
Laboratorio di didattica di Storia dell’Arte Docente Renata Maccato 1. Storia dell’arte – Educazione alla visione 1.1.Educazione al Patrimonio artistico I beni culturali sono l’eredità di una civiltà, sono le tracce che ha lasciato, rendono possibile capire la sua evoluzione storica e quindi la sua identità presente. L’Italia in particolare possiede una altissima quota del patrimonio artistico mondiale. Gombrich ebbe ad affermare che studiare storia dell’arte è più importante per gli italiani che per chiunque altro. In Italia i beni culturali sono diffusi, fanno parte dell’ambiente in cui viviamo quotidianamente. Compito educativo primario è dunque stabilire un contatto con questi beni, rendere pienamente consapevoli della loro presenza e del loro valore, usare la loro capacità formativa a livello personale e sociale. Si deve educare ad una specifica sensibilità di fruizione attiva e di rispetto del bene artistico che sia insieme acquisizione del significato spirituale-estetico e del significato di documento storico. 1.2.Ruolo della scuola A conclusione di una inchiesta sistematica, condotta con A. Darbel, sul pubblico dei musei europei, le sue caratteristiche sociali e scolastiche, i suoi atteggiamenti rispetto al museo, le sue preferenze artistiche, il sociologo P.Bourdieu così sintetizza le condizioni sociali della democratizzazione della cultura: ” L’azione della scuola è il mezzo più efficace per accrescere la pratica culturale” e, a proposito della frequenza dei musei, argomenta:“ Si può stabilire scientificamente che solo il prolungamento della durata degli studi e l’accrescimento del posto riservato nei programmi all’insegnamento artistico permetterebbero da soli di spezzare il vicolo cieco entro il quale sono imprigionate tutte le tecniche di azione diretta, dall’animazione culturale alla pubblicità attraverso la stampa, la radio o la televisione”1 Bourdieu motiva la necessità di una valida formazione scolastica per condurre ad apprezzare le opere d’arte :” Dal fatto che l’opera d’arte non esiste in quanto tale che nella misura in cui è percepita, vale a dire decifrata, si deduce che le soddisfazioni legate a questa percezione… sono accessibili soltanto a coloro che sono preparati ad appropriarsele perché accordano loro valore, essendo inteso che possono accordare loro valore soltanto se dispongono dei mezzi 1 Bourdieu,Darbel ,L’amore dell’arte, Firenze,1972 1 per appropriarsele. Di conseguenza, il bisogno di appropriarsi di beni che, come i beni culturali, esistono come tali solo per chi ha ricevuto dal proprio ambiente familiare e dalla scuola i mezzi per appropriarsene, non può manifestarsi che presso coloro che possono soddisfarlo e può soddisfarsi nel momento in cui si manifesta. Ne segue che “il bisogno culturale”, a differenza dei “bisogni primari”, si accresce come bisogno colto man mano che si soddisfa, poiché ogni nuova appropriazione tende a rafforzare la padronanza degli strumenti di appropriazione e, suo tramite, le soddisfazioni connesse a una nuova appropriazione”…2 1.3.La Storia dell’arte Nel convegno “Quale storia dell’arte” che si svolse a Napoli nel 1976, G. C. Argan ebbe a dichiarare:“Nelle pochissime ore di cui ora dispone la storia dell’arte, l’insegnante non può dare nemmeno un compendio, il più sommario, dello sviluppo storico dell’arte italiana, ma non è motivo per destoricizzare l’insegnamento e quindi vanificarlo, essendo la storia l’unica disciplina che spieghi i fenomeni artistici.” Argan, infatti, ritiene che “le arti sono modi del pensiero, componenti essenziali della cultura, che fanno storia e vanno studiate storicamente”. Nello stesso tempo Argan marca la differenza rispetto alla storiografia del passato:” ….non si fa più la storia delle personalità e dei capolavori, si studiano i contesti culturali e la loro dinamica. Non si parla più di arte ma di arti, cioè delle tecniche di quella cultura materiale, che è dentro la vita quotidiana e non sopra. Ma bisogna guardarsi dal materialismo volgare: la storia delle arti non collima con quella delle tecniche se non nella misura in cui è la storia della ricerca di un tipo particolare di valore, la qualità, e lo studio di essa, nel quadro generale dei valori, non può farsi se non facendo la storia dell’arte. E questa, poi, è la storia del lavoro, non come servitù ma come liberazione del lavoro stesso dalle sue negatività sociali : l’arte è rivendicazione di classe anche quando, con le sue prestazioni, serve al potere religioso o politico.…in un paese dove la storia dell’arte fosse studio obbligatorio e conoscenza diffusa non ci sarebbe la degradazione ecologica oltre la tolleranza biologica, lo sfruttamento dello spazio urbano e del territorio oltre ogni limite economico, la dispersione del patrimonio artistico”3 Intervenendo nella discussione sulla riforma della scuola, al tempo della “commissione dei saggi” convocata dall’allora ministro L. Berlinguer, Cesare De Seta tentò una mediazione tra Storia dell’arte e le altre discipline storico-umanistiche : “ Nelle scuole superiori in cui si insegna la Storia dell’arte (o meglio dire l’ educazione storicoartistica), essa racimola poche ore che sono del tutto impari alla necessità di offrire cognizioni e consapevolezza di un Paese che è per eccellenza la culla dell’arte. Non è certo mia intenzione rivendicare spazi didattici a danno di altre discipline come la letteratura italiana o la storia; piuttosto è mio debole parere che dovrebbe essere interesse di tutti pervenire ad un coordinato disegno in cui l’insegnamento delle discipline storiche si configuri come un insieme in dinamica 2 3 Ibidem De Seta (a cura di ), Quale Storia dell’Arte, Atti del Convegno del 6-8 maggio 1976, Napoli,1977 2 continuità, in modo che si possa trascorrere dalla storia letteraria alla storia delle arti, alla storia politica al fine di delineare i tratti fondanti di una civiltà. Il problema è sempre quello di far quadrare il cerchio delle ore di insegnamento che sono sempre poche se si vuol dare ragione a tutti con le vecchie metodiche nozionistiche. Qualche esempio potrà essere utile per spiegare quanto intendo dire più di qualunque formulazione generale o generica: infatti senza che suoni offesa a nessuno si può sostenere che non aver letto l’Adone del Cavalier Giovan Battista Marino non è una perdita irreparabile, al contrario dovrebbe essere impensabile non conoscere le Sette opere della misericordia di Caravaggio o la Fontana dei fiumi di Bernini. La stagione romantica non può prescindere da Manzoni e Leopardi, ma di Hayez o Dalbono se ne può fare senza. I programmi dovrebbero essere configurati adottando una metodica comparativa tra le discipline e tra diversi ambiti nazionali. La scuola italiana è estranea a tutto ciò: la cultura impartita è comunque fortemente sperequata a tutto danno della cultura artistica, intesa come coscienza collettiva del mondo materiale che ci circonda, costituita da un insieme di prodotti che compongono nella loro interezza il patrimonio storico e artistico del Paese. Patrimonio da conoscere in primo luogo per poterlo conoscere e tutelare…. Dobbiamo far sì che la storia dell’arte si trasformi in una sorta di educazione civica. Difendere i paesaggi reali dipinti da Piero della Francesca è altrettanto importante che difendere le sue tele, allo stesso modo educare i giovani a intendere l’uno e l’altro è una forma di assicurazione affinché quel paesaggio umbro e quel dipinto di Piero possa essere un’eredità di bellezza da trasmettere alle future generazioni. Preservare e restaurare il patrimonio monumentale di una città o di un paese, salvare Pompei o la Valle dei Templi è un’impresa prioritaria per la sopravvivenza della nostra civiltà e della nostra identità … la storia non può prescindere dalla storia dell’arte che ha il vantaggio di svolgersi in presenza dell’evento di cui narra. Essa è parte integrante e essenziale della nostra civiltà che si configura come spazio storico-artistico.”4 1.4.Studiare il territorio di appartenenza Perché l’educazione al patrimonio culturale sviluppi il senso di appartenenza, l’interesse, il rispetto, la consapevolezza della propria e dell’altrui cultura è bene che sia innanzitutto conoscenza del proprio territorio, che scandagli la vitalità del tessuto urbano e rurale, che evidenzi la continuità della sedimentazione e stratificazione dell’opera di umanizzazione condotta nei secoli, che valorizzi la globalità delle testimonianze presenti. La necessità di questa impostazione metodologica è alla base del supporto teorico di A. Emiliani al progetto dell’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, dispiegato nel libro “Una politica dei beni culturali”. Emiliani afferma che il censimento, attuato dall’Istituto con finalità divulgazione conoscitive, deve prendere costantemente forma attraverso un’opera di e la partecipazione interattiva di gruppi sociali e di esperienze diverse, e nell’accelerazione spontanea di un processo di partecipazione popolare al problema della 4 C.De Seta, articolo su Corriere della Sera del 21 ottobre 1997 3 conservazione e della gestione del patrimonio culturale. La scuola, afferma Emiliani, ha un ruolo insostituibile di vera protagonista dell’enorme spazio didattico-educativo creato dal patrimonio locale, perciò l’Istituto dovrà fornire gratuitamente copia dei materiali, attraverso un catalogo periodicamente diffuso e aggiornato comprendente schede, fotografie e audiovisivi per fornire informazioni e suggerimenti circa la dimensione spazio-temporale del luogo di insegnamento.5 1.5.Educazione alla visione Siamo avvolti da immagini, forme e segni grafici sempre più elaborati. Viviamo in una ”iconosfera” nella quale il codice di comunicazione che più utilizziamo, per rapportarci agli altri o per definire le nostre azioni, è proprio quello visivo. Eppure la scuola continua ad abbandonare alla casualità un approccio più responsabile nei riguardi della “funzione estetica” e delle innumerevoli forme attraverso le quali transitano i prodotti. Considerato che ancora oggi non in tutte le scuole superiori è presente nel curricolo la materia e, anche dove si insegna Storia dell’arte, tutti i problemi della cultura visiva e progettuale contemporanea dovrebbero essere concentrati ed “esauriti” in un quadrimestre dell’ultimo anno, si comprende come la sfida sia impari alle possibilità didattiche e come nei giovani domini un’accettazione acritica delle immagini del nostro tempo. E’ urgente fornire gli strumenti per lasciare che le immagini ci parlino, superando un handicap culturale che risale al Medioevo, quando l’ Occidente ha scelto la parola come via al sapere e ha inteso l’immagine come complemento o decorazione alla parola detta o scritta. Perciò l’abbondanza di immagini rischia di tradursi oggi in superficialità di relazione culturale. M. Bettetini, in un suo recente libro, mette in guardia dalla presenza di una nuova forma di iconoclastia perché:” le nuove immagini sono talmente voraci da distruggere incessantemente le vecchie”6 2. La valutazione qualitativa – Il giudizio estetico 2.1.La relazione con l’opera Entrare in relazione con l’opera non vuol dire fare esperienza estetica. Il livello del “gusto” ( mi piace, non mi piace) non introduce gerarchie di valori. Rimane aperto il problema del giudizio estetico. Kant definisce bello ciò che piace senza concetto, ossia ciò che piace oggettivamente. La bellezza è oggettiva ma non è riconducibile a regole prefissate. Kant vuole sottolineare che la connessione tra il sentimento e il giudizio non si riferisce mai all’oggettività della natura o 5 6 Emiliani, Una politica dei beni culturali, Torino 1974 M. Bettetini, Contro le immagini. Le radici dell’iconoclastia, Roma-Bari 2006 4 dell’arte, bensì a ciò che il soggetto prova in sé nel momento in cui riconosce finalità e bellezza. Il gusto, in ogni caso, si educa mediante un percorso che si muove attraverso l’arte stessa, intensificando le ore di storia dell’arte a scuola e frequentando più assiduamente il museo. 2.2.La percezione attiva Per superare la banalità insita in un approccio superficialmente sensoriale, Dorfles raccomanda: “Si deve costituire un intervallo che si frapponga tra opera e opera, tra opera e spettatore, in maniera da permettere che l’opera possa venir accolta attraverso un tipo di ascolto diverso da quello con cui si percepiscono suoni, rumori, immagini an-artistiche, in modo da eliminare l’ “ascolto disattento” (ben sottolineato da Adorno), che costituisce di solito la condizione più frequente in cui il pubblico si pone di fronte all’opera d’arte. E’ indispensabile una presa di coscienza da parte di chi ascolta o di chi osserva, e non una ricezione passiva, meramente sensoriale, disgiunta da ogni componente critica, speculativa, analitica….. Questo non significa bandire ogni approccio immediato all’opera, ma soltanto renderlo più consapevole e più specialistico. Restituire una zona diastematica, un intervallo, all’opera non deve significare isolare l’arte dal contesto in cui è immersa, e neppure farne un’entità privilegiata che sfugga ad ogni “commercio” con le attività pratiche dell’uomo; significa piuttosto realizzare una funzione che non può identificarsi del tutto con altre funzioni non artistiche e soltanto consumistiche, mercantili, edonistiche. Non solo, ma significa postulare la presenza d’un elemento di intervallo anche nel contesto stesso d’ogni opera, che permetta la messa in rilievo d’ogni suo singolo settore, togliendola da quel magma indifferenziato in cui così spesso oggi viene a trovarsi soffocata.”7 2.3.Il giudizio estetico Si può parlare di esperienza estetica quando il rapporto con l’opera mi ha fatto scoprire chi sono e non ha semplicemente riconfermato ciò che di me già sapevo. Perché si attui l’esperienza estetica , le più recenti teorie, in contrasto con quelle ottocentesche, considerano necessaria la mediazione della conoscenza. Importante, riconoscendo il codice artistico come codice debole, è conoscere il contesto di origine dell’immagine, della tradizione iconografica, stilistica, tecnica in cui è radicata. Senza dubbio si può ammettere che l’esperienza interiore, come capacità di risposta emozionale alla connotazione dell’opera d’arte, costituisca una delle chiavi dell’esperienza artistica. Ma la sensazione o l’affezione che suscita l’opera ha un diverso valore a seconda che costituisca il tutto di una esperienza dell’opera d’arte ridotta al possesso di ciò che si può 7 Dorfles, L’intervallo perduto, Torino 1980 5 chiamare la sua espressività, o a seconda che si integri nell’unità di una esperienza adeguata, che si riporti ad un contesto storico di riferimento. Si può concludere che la prassi didattica dovrebbe indirizzarsi ad un equilibrio tra rigore e intuito. Il docente deve partire dalla considerazione che l’arte è forma primaria di pensiero: intendendo, evidentemente, il pensiero come un’attività che si forma, nella persona singola come nell’umanità intera, a partire dall’esperienza sensibile e dal rapporto con la natura interna ed esterna a noi. L’arte è testimonianza dell’unità di un’esperienza, affermava Dewey, che non si può frammentare in aspetti mentali, corporei, affettivi, senza tradirla almeno in parte; e ancora seguendo Dewey, l’arte in quanto comunicazione non è un dono mistico, ma “il fiore ultimo di una lunga, conquistata storia di esperienze individuali e sociali”.8 La prassi intuitiva che presiede a ogni creazione artistica, in ogni caso, sa essere più rivelatoria e più rivoluzionaria di ogni discorso centrato sulla logica. L’esperienza più completa di fruizione dell’opera dovrebbe ricreare questa conoscenza totale. 2.4.L’interpretazione dell’opera L’opera d’arte è ambigua per definizione, perché è polisemica. Non può essere completamente “aperta” perché è anche comunicazione e deve quindi fare riferimento ad un codice, sia pure “debole”.9 “L’inesauribilità del “messaggio” fa sì che la ricchezza della “ricezione” dipenda innanzi tutto dalla competenza del “ricettore”, cioè dalla capacità di dominare il codice del “messaggio”. …Quando il messaggio supera le possibilità di apprendimento dell’osservatore, costui non arriva a coglierne la “intenzione” e si disinteressa di ciò che gli appare come un groviglio di pennellate senza capo né coda, come gioco di macchie di colore senza necessità. Altrimenti detto, posto davanti a un messaggio troppo ricco per lui e, come dice la teoria dell’informazione, “sovraccarico”, si sente “sperduto” e non indugia oltre….”10 Percepire l’opera d’arte in modo propriamente estetico, vale a dire in quanto significante che non significa niente altro che se stesso, non vuol dire considerarla “senza legarla a niente altro che a se stessa, né emozionalmente né intellettualmente”, in breve abbandonarsi all’opera appresa nella sua irriducibile singolarità, vuol dire invece coglierne i tratti stilistici distintivi mettendola in relazione con l’insieme delle opere, e con queste soltanto, che costituiscono la classe di cui essa fa parte. 8 J. Dewey, Arte come esperienza e altri scritti, Firenze 1995 Per la nozione di opera aperta vedi U. Eco, Opera aperta, Milano 1976 10 Bourdieu, Darbel, 1972 9 6 2.5.Il significato e il valore G. C. Argan , ancora una volta nel ribadire la necessità di un approccio di contestualizzazione storica dell’opera, così distingue significato e valore: “Allo storico interessa il significato, al conoscitore il valore. Una cosa non vale in astratto, ma per qualcuno. Per il conoscitore la definizione del valore collima con l’attribuzione dell’opera a una personalità artistica; è questo che la rende accetta ( in termini di mercato, collocabile) presso un ceto sociale in cui quello che conta è la personalità del singolo, che sovrasta la massa e la dirige. Per i grandi collezionisti le opere d’arte sono titoli di potere. E’ logico che il conoscitore metta in evidenza , nella fruizione dell’opera, tutto ciò che è espressione della personalità : non la tecnica ma lo stile, non la tipologia o l’iconografia ma la singolarità d’invenzione, non la tettonica dell’oggetto ma la sua “qualità”. La nozione di valore sembra più vasta ed è più ristretta di quella di significato. Nel campo dell’arte tutto significa, tutto è artistico. Non è riduzione metodologica ma decurtazione dell’area storica quella che preliminarmente discrimina le opere d’arte assolute dalla ressa delle minori, dei tanti prodotti dell’artigianato e dell’industria artistica, che pure hanno il loro peso, non piccolo, nel bilancio delle relazioni di quantità e qualità e cioè nel vero quadro dei valori di una cultura. Anche le materie, le tecniche, i supporti, gli schemi tipologici o iconici significano, comunicano informazioni che il conoscitore trascura e interessano lo storico. Rivelano infatti il rapporto dell’artista con la tecnologia, la strumentazione, l’organizzazione del lavoro; e spiegano come l’arte, i cui vertici toccano i sommi livelli del pensiero speculativo, in tutto il suo corso sia il nesso vitale che unisce le due sfere del lavoro manuale e della cultura.”11 3. La lettura dell’opera 3.1. Guida didattica alla lettura La didattica della lettura di un’opera d’arte deve iniziare dai “dati”. Lo studente viene invitato a prendere atto del nome dell’autore, del titolo dell’opera, della data di esecuzione, del luogo per il quale è stata concepita e di quello in cui attualmente si trova, del materiale e della tecnica con cui è stata eseguita, delle sue dimensioni. Il docente lo guiderà nell’approfondimento delle considerazioni storiche ed estetiche che si possono ricavare da queste notizie. La seconda fase riguarda la lettura iconografica, più o meno approfondita a seconda dell’età degli studenti, del loro livello di preparazione, del tipo di scuola e quindi delle competenze che si possono richiamare dallo studio di altre discipline (storia, letteratura italiana, latina, greca, progettazione e laboratorio di architettura, tessitura, oreficeria, fotografia ecc. ). La terza fase analizza l’uso degli elementi propri del linguaggio artistico: luce, uso del colore, plasticità, linea, spazio, movimento, composizione per opere di pittura e/o scultura o 11 G.C.Argan, Riscoprire il ruolo del museo, in Corriere della sera del 6 aprile 1975 7 assimilabili; strutture, analisi della facciata, della pianta, dell’interno (focalizzando l’uso della luce, le direttrici spaziali, l’unità o molteplicità statica o dinamica della composizione), relazione con l’ambiente circostante per quanto riguarda l’architettura. 3.2. Polisemia dell’opera Per essere tale l’opera d’arte deve essere “ineffabile”, esperienza totalizzante che esige un atteggiamento attivo, creativo, da parte del fruitore. L’esperienza emotiva è importante ma deve essere accompagnata, supportata, dalla conoscenza di quante più possibili notizie di tutta la rete di relazioni di cui l’opera è frutto. Conoscenza dunque della biografia dell’artista, del committente, dell’ambiente storico – geografico, della società coeva. In sede didattica, il docente sintetizzerà questo panorama culturale, privilegiando di volta in volta gli elementi che ritiene più importanti per focalizzare il senso di quell’opera in quel periodo. Resta basilare tracciare, all’interno della storia dell’arte, il legame che unisce, per continuità e/o per desiderio di cambiamento, l’opera alle altre opere dello stesso artista, per percepire il significato della sua ricerca, e alle opere degli altri artisti, in senso diacronico e sincronico attraverso l’analisi comparata. Varie sono le metodologie che storicamente si sono definite nella critica d’arte e che possono essere proficuamente applicate se riteniamo che possano maggiormente illuminare di senso l’analisi dell’opera.12 Di seguito vengono proposte, come esempi, letture di opere secondo le varie metodologie. 12 per la storia della critica d’arte del Novecento vedi: G.C. Sciolla, La critica d’arte del Novecento, Torino 2003 8 3.3. La psicologia della visione E’ l’analisi dei movimenti psicologici e delle componenti del processo visivo che partecipano alla creazione come alla fruizione dell’opera13 Pablo Picasso, Pesca notturna ad Antibes, Museum of Modern Art, New York Da: Arnheim, Verso una psicologia dell’arte,Torino 1969 pp.313-317 “…in un quadro riuscito, il significato essenziale viene espresso direttamente nelle caratteristiche della forma visiva. Il dipinto di Picasso è composto da tre zone principali. Il pannello verticale a sinistra presenta la città e il castello medievale di Antibes e prosegue come un filo verticale di rocce, che fanno da cornice all’acqua del porto. Vi è poi il medaglione centrale dei due pescatori nella barca, circondati da luci e da pesci. Infine il pannello di destra mostra due fanciulle su un molo di pietra. Nel piano proiettivo frontale della tela, i pescatori tengono il centro di una composizione approssimativamente simmetrica. Nello spazio tridimensionale, siamo condotti diagonalmente dal lontano castello in alto a sinistra, attraverso la scena di pesca, fino al molo in primo piano, più vicino a noi e con noi in diretta relazione mediante la salda fondazione dei muri sulla base della cornice. Dopo aver viaggiato per il quadro da sinistra a destra, veniamo catturati e trattenuti in compagnia delle fanciulle che, con le loro biciclette, il cono gelato, i capelli e il seno prorompenti, sembra rappresentino gli spettatori privi di preoccupazioni, attirati esteticamente. Noi stessi siamo argutamente caratterizzati dalla compagnia in cui restiamo. La base di osservazione in primo piano serve 13 vedi R. Arnheim, Arte e percezione visiva, Milano 1971 9 pure da repoussoir: priva i pescatori nella barca di parte della comunicazione diretta con l’osservatore, comunicazione che essi avrebbero monopolizzata se la loro posizione centrale fosse stata dominante senza contestazione come accade, per esempio, nella Pesca miracolosa di Raffaello in Vaticano. Picasso presenta la scena centrale come qualcosa cui si guarda, più che come qualche cosa che è. Nondimeno il tema dei pescatori ha un peso considerevole, non soltanto per la dimensione e la posizione centrale, ma anche per la sua stabilità quasi architettonica, la quale fa sì che gli affaccendati uomini sulla barca instabile appaiano, paradossalmente, quasi più saldamente fondati delle costruzioni in pietra a destra e a sinistra. Nelle forme della città, simili a macigni, si evitano le verticali e le linee parallele: i cubi e le piramidi si affastellano in un disordine enfatico. Similmente, l’ampio cubo del molo a destra devia dal reticolo stabile in tutte e tre le dimensioni e si inclina obliquamente verso il fondo. Anche nelle due fanciulle la verticale è giocata in sordina ed è incrociata da forme possenti, che rappresentano forse il gioco di luci ed ombre. In confronto la scena centrale possiede la frontalità e la piattezza di una facciata. La figura ritta svolge la propria azione senza alcun impedimento e l’uomo accovacciato, sebbene un po’ di scorcio, si sviluppa pure liberamente dai piedi alla testa. Nello stesso tempo, questa costruzione centrale è, per così dire, scritta sull’acqua. Anziché trovare nella cornice una solida base, essa galleggia sulla mezzaluna della barca, circondata dall’acqua immateriale, come un’apparizione. Questo senso di irrealtà è rafforzato dalla distribuzione cromatica. Le calde ombre purpuree sono riservate prevalentemente alla periferia, mentre il gelo e la lontananza dei blu quasi monopolizzano il centro. La stranezza dell’apparizione è ulteriormente esaltata, e spiegata, se notiamo una differenza paradossale tra le figure dei due pescatori. L’uno, a sinistra, chino fuori bordo, guarda nell’acqua. Sebbene il suo sguardo sia intento, egli è passivo, contemplativo. L’altro, a destra è più attivamente impegnato nel trafiggere il pesce. Tuttavia, se ora guardiamo alle forme mediante le quali sono rese le due figure, osserviamo che la distribuzione tra immobilità e movimento è rovesciata. La figura dell’uomo in piedi è inserita nelle direzioni spaziali più statiche: le orizzontali del corpo e del capo, col parallelo del braccio sinistro, e la verticale della gamba, del braccio destro e della fiocina costituiscono una costruzione stabile, trave-pilastro. L’orientamento spaziale equilibrato del braccio sinistro e l’angolo retto che distacca il braccio dalla fiocina privano il colpo della sua energia. Dall’altro lato, il compagno fisicamente inattivo è vivo di tutta l’inquietudine delle forme attive. La sua posizione è capovolta, oscillante, con i piedi tesi nell’aria, lungo un asse obliquo, sia sul piano frontale che nello spazio tridimensionale. Ma l’asse non è esplicitamente indicato. Non vi è alcun sistema di linee fondamentali che sostenga o lo scheletro interno della figura o i suoi contorni esterni. Il corpo è spezzato in curve corte, fortemente piegate, che si intercettano irrazionalmente. Una simile contraddizione paradossale tra la natura dell’azione rappresentata e la dinamica delle forme che la rappresentano non è rara in arte: spesso esprime il contrasto tra il comportamento fisico e il suo significato spirituale. Così nella Resurrezione di Piero della Francesca, la figura del Cristo sorgente è inserita in una cornice serena di verticali e di 10 orizzontali presentate frontalmente, mentre i dormienti, immobili, sono disseminati e disposti secondo le diagonali più inquiete, irrazionalmente sovrapposte. A qual fine tale espediente viene impiegato nella Pesca notturna ad Antibes? Sembra legittimo rammentare qui che il quadro è stato eseguito nell’agosto del 1939, quando già oscurava l’orizzonte la seconda guerra mondiale imminente. In questa luce minacciosa, l’uccisione dei pesci, rappresentata nel nostro quadro, acquista un significato particolare. Guardata con disimpegnata curiosità dalle ragazze, che sembrano creature di piacere e lussuria, la prospettiva del massacro appare irreale, paralizzata nella sua violenza dalla distanza, dall’incompatibilità della violenza con il gaio impianto di un porto mediterraneo. L’apparizione sulla barca a forma di mezzaluna galleggia a qualche distanza, piatta e fredda, separata dallo spettatore da una striscia d’acqua; e chi guarda è connesso visivamente e così associato simbolicamente col molo di pietra, il luogo proprio degli spettatori lieti. Il compagno contemplativo del pescatore ritto in piedi serve da ponte tra chi guarda e l’immagine minacciosa e irreale. Sporgendosi in avanti, questo secondo uomo non è contenuto nel remoto piano frontale ma si protende verso di noi. Ed è sempre lui che incontriamo per primo quando entriamo nel quadro dall’angolo inferiore sinistro, incespicando sul granchio e sulle rocce. Mentre i tratti del viso dell’uomo in piedi sono contratti in una concentrazione restrittiva, gli occhi dell’uomo che si sporge sono aperti e assai distanziati, ed il naso giunge come una proboscide scandagliante fin dentro l’acqua, che sembra vuota ma può nascondere qualsiasi cosa. La pregnanza dell’acqua è familiare allo studioso dei sogni, che parla dell’acqua come di un simbolo materno. In confronto con la tridimensionalità del pescatore, che scruta inutilmente il futuro, tutto il resto perde la sua realtà. L’uomo della fiocina è bloccato in un gesto raggelato, le pietre del castello storico recedono, le ragazze si appiattiscono. Il presagio di cose violente, ma sconosciute, che verranno, emerge come il tema dominante del quadro. Gli elementi percettivi che sono stati menzionati in questa analisi potrebbero facilmente venir delucidati in termini più tecnici. Spero che i rapidi riferimenti che ho dato illustrino a sufficienza l’unità fondamentale tra percezione ed espressione. Il significato di un’opera d’arte visuale è contenuto nelle proprietà delle sue forme e colori: non vi è senso per tali forme e colori, al di fuori del significato che esse proclamano.” 11 3.4. Iconologia Ricerca dei valori simbolici, allegorici, metaforici delle immagini14 Caravaggio, Bacco, Galleria degli Uffizi, Firenze Da: Maurizio Calvesi, Caravaggio, in Art Dossier n.1 aprile 1986 pp.28-30 “Il Bacco degli Uffizi, non è certamente privo di colte e intellettualistiche allusioni al Cristo o, ancora, allo sposo del Cantico. Il mito di Bacco, il greco Dioniso (morto e risorto), poteva esser valutato nei suoi significati più profondi come una prefigurazione o un annuncio misterico del Redentore. Per Marsilio Ficino, campione del neo-platonismo rinascimentale, Bacco impersona il primo grado del furor divino, quello sacerdotale, pertinente ai misteri sacrificali. Pico della Mirandola scrive:” Rivelandoci i segni invisibili di Dio nei suoi misteri, vale a dire nei segni invisibili della Natura, Bacco ci inebrierà dell’abbondanza della casa di Lui; nella quale la santissima teologia, sopravvenendo, ci animerà di un duplice furore”. Ficino e Pico, infine, giocando sull’omonimia con “Dionysus”, battezzano “Dionysus cristiano” San Dionigi Aeropagita, che attinse la visione dei sacri misteri, ovvero “mysteria dionisiaca”, “nell’ebbrezza di questo vino dionisiaco”. Per altro San Dionigi Aeropagita era confuso con San Dionigi vescovo di Parigi, patrono della Francia, e la chiesa di San Luigi de’ Francesi, nella quale il Caravaggio eseguirà la sua prima grande commissione pubblica procuratagli dal cardinal Del Monte, era dedicata proprio anche all’Aeropagita. Il Bacco fu probabilmente dipinto 14 vedi E. Panofsky, Studi di iconologia, Torino 1975 12 per lo stesso Del Monte, che era un rappresentante italiano della nazione francese e vantava discendenti dal re di Francia: quello del “Dionysus” cristiano non poteva quindi che essere un tema a lui caro. In Francia era di gran moda del resto il neo-platonismo di derivazione figiana: una forma di pensiero cui possono riportarsi lo stesso codice caravaggesco della luce, la tematica spirituale dell’Amore e, più in generale, quella raffinata cultura ermetica che cristianizzava i simboli pagani, o l’alchimia, di cui il Del Monte era un cultore. Ma l’ermetismo neo platonico, nei suoi ambigui riferimenti ai “mysteria dionisiaca”, non faceva che riprendere quel tema della “ubriachezza spirituale” che è un motivo già elaborato dai Padri della Chiesa proprio nei loro commenti al Cantico dei Cantici, laddove la Sposa e lo Sposo profferiscono frasi come queste:” Il tuo ombelico è una coppa tornita, ove non manca mai vino”; “Ho bevuto il mio vino e il mio latte; mangiate anche voi, amici, bevete e ubriacatevi”. Espressioni che concordemente i teologi ricollegavano al passo del Vangelo:”Poi, preso il calice, lo diede loro dicendo: Bevetene tutti, poiché questo è il mio sangue dell’alleanza”…. Infine Cesare Ripa, autore nel 1593 di un manuale di “Iconologia” che contiene un elogio del cardinale Del Monte, e che definisce Bacco “simbolo del divino intelletto” scrive alla voce “Grazia”, richiamando la frase dello Sposo:”La tazza denota la Grazia secondo il detto del profeta Calix meus inebrians quam praeclarus est. Vi si potranno scrivere quelle parole: Bibite, et inebriamini, perché chi è in grazia di Dio, sempre sia ebbro delle dolcezze dell’amor suo; perciocché questa ubriachezza è sì gagliarda, e sì potente, che fa scordar la sete delle cose mondane”. Le fattezze effeminate del Bacco sono state naturalmente considerate un documento delle propensioni pederastiche del Caravaggio. Ma sulla sua divina androgenia, valgono le stesse considerazioni che abbiamo già fatto per il Fanciullo della Borghese; e nel Cantico dei Cantici potremo trovare descrizioni dello Sposo particolarmente rispondenti: ” Le sue chiome riccie sono grappoli di palma, nere come un corvo”; “le sue braccia sono un oro tornito, il suo busto è d’avorio”. Con un dito della mano sinistra, annodato da un fiocco, il giovane indica il proprio ombelico (“nodo”, ovvero centro, “onfalo”, neoplatonicamente “nodus mundi”) e con la destra porge il calice di vino, quasi a sottolineare la relazione suggerita dal Cantico (“Il tuo ombelico è una coppa tornita, ove non manca mai vino”), e visualizzando il suo invito all’ubriachezza. Il luminoso vino è riproposto nella tersa ampolla di vetro toccata magicamente dalla luce, di nuovo accanto alla canestra con le uve (che cingono anche il capo), i pomi, i fichi e le melagrane, ovvero i frutti del Cantico. La delicatissima sospensione di silenzio creata dalla luce sigla il clima sacrale dei “mysteria dionisiaca”. 13 3.5. Psicanalisi Considera l’opera d’arte come strumento capace di liberare tensioni inconsce nell’artista e quindi di rivelarne elementi della personalità15 Leonardo, Sant’Anna, la Vergine e il Bambino,Louvre, Parigi Da: Sigmund Freud, Leonardo, Torino 1975 Sant’ Anna con la figlia e il nipote è un tema di rado trattato nella pittura italiana; in ogni caso, la raffigurazione di Leonardo si scosta per molti versi da tutte quelle che ci sono note …Nel quadro di Leonardo, Maria, protesa in avanti, siede sulle ginocchia di sua madre e tende le braccia verso il figlioletto, che gioca con un agnellino trattandolo persino un po’ male. La nonna ha l’unico braccio visibile appoggiato sul fianco e guarda entrambi con un sorriso felice. La disposizione certo non è priva di artificio. Ma il sorriso che brilla sulle labbra delle due donne, per quanto sia evidentemente lo stesso del quadro di Monna Lisa, ha perduto il suo inquietante ed enigmatico aspetto; esprime tenerezza e silenziosa beatitudine…In questo quadro è 15 E. Gombrich, Freud e la psicologia dell'arte. Stile, forma e struttura alla luce della psicoanalisi, Torino, 1967 14 tracciata in sintesi la storia della sua (di Leonardo) infanzia; le particolarità ch’esso presenta si spiegano in base alle più personali impressioni di vita di Leonardo. . In casa di suo padre egli non trovò solo la buona matrigna Donna Albera, ma anche la nonna, madre di suo padre, Monna Lucia che, ammettiamolo pure, non sarà stata meno tenera verso di lui di quanto sogliono essere le nonne. Questa circostanza gli suggerì forse di rappresentare un’infanzia protetta dalla madre e dalla nonna…Sant’ Anna, la madre di Maria e nonna del Bambino, che dovrebbe essere una matrona, è qui raffigurata forse un tantino più matura e severa di Santa Maria, ma è ancora una giovane donna di non sfiorita bellezza. In realtà Leonardo ha dato due madri al bambino, una che tende le braccia verso di lui, un’altra sullo sfondo, dotandole entrambe del sorriso beato della felicità materna… L’infanzia di Leonardo fu singolare come lo è questo quadro. Egli aveva avuto due madri, la prima, la sua vera madre, Caterina, alla quale fu strappato fra i tre e i cinque anni e una giovane e affettuosa matrigna, la moglie di suo padre Donna Albera. Combinando questa circostanza della sua infanzia con quella accennata prima, la presenza di una madre e di una nonna, e condensandole in un’unità composita, prese forma la triade di Sant’ Anna. La figura materna più distante dal bambino, vale a dire la nonna, corrisponde sia nell’aspetto che nel suo rapporto spaziale col bambino, alla prima e vera madre Caterina. Sotto il sorriso beato di Sant’ Anna l’artista ha celato e smentito l’invidia che la poverina provò quando dovette cedere alla più nobile rivale, prima l’uomo e poi anche il figlio. 15 3.6. La Sociologia Valutazione dell’opera d’arte come documento al centro dell’interazione dei rapporti tra artisti, committenti, pubblico nella realtà sociale del periodo storico.16 Raffaello, L’incendio di Borgo, appartamento pontificio, Città del Vaticano Da: Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte,Torino 1956 pp.377-379 L’arte del primo Cinquecento è interamente mondana; anche nelle scene sacre essa realizza il suo stile ideale non già contrapponendo realtà naturale e realtà trascendente, ma creando fra le cose stesse della natura una distanza, che nella sfera dell’esperienza visiva suggerisce distinzioni di valore simile a quelle che esistono nella società tra l’aristocrazia e il volgo. La sua armonia riflette l’utopistica immagine di un mondo da cui ogni lotta è esclusa, non perché vi regni un principio democratico, ma al contrario uno autocratico. Le sue creazioni rappresentano una realtà superiore, più nobile, sottratta al caduco e al quotidiano…. Fra tutti i fattori dell’arte cinquecentesca quello più strettamente legato al tempo e alle condizioni sociali è l’ideale della Kalokagathia. Nessun altro rivela con altrettanta evidenza come il concetto di bellezza dipenda dall’ideale umano dell’aristocrazia. L’importanza attribuita all’aspetto fisico non è una novità del Cinquecento, né un segno di mentalità aristocratica – già il secolo precedente, opponendosi allo spiritualismo medioevale, aveva guardato con occhio appassionato all’aspetto fisico dell’uomo – ma è solo nel Cinquecento che la bellezza e la forza fisica divengono espressione perfetta della bellezza e del valore spirituale. Il Medioevo sentiva 16 vedi F. Antal, La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale, Torino 1960 16 come termini antitetici e inconciliabili lo spirito incorporeo e il corpo privo di spiritualità: contrasto più o meno accentuato, ma sempre presente al pensiero degli uomini. Per il Quattrocento l’inconciliabilità di spirito e corpo perde significato; il valore spirituale non è ancora incondizionatamente legato alla bellezza fisica, ma non la esclude. La tensione che tuttavia qui esiste ancora fra doti intellettuali e fisiche scompare del tutto dall’arte del primo Cinquecento. rappresentare Secondo gli le apostoli premesse come di volgari quest’arte contadini appare, o ad semplici esempio, artigiani, inconcepibile al modo del Quattrocento, spesso così gustoso. Santi, profeti, apostoli, martiri sono ormai figure ideali, libere e grandi, possenti e dignitose, gravi e patetiche, stirpe d’eroi di una bellezza piena, matura, sensuale…Nel raffaellesco Incendio di Borgo la portatrice d’acqua è della stirpe delle Madonne e delle Sibille michelangiolesche – umanità gigantesca, dal piglio energico, orgogliosa e sicura. Tale è l’imponenza di quelle figure, che possono anche comparire svestite, nonostante l’antica avversione nobiliare per il nudo; esse non perdono nulla della loro grandezza. 3.7. Lo strutturalismo E’ la lettura dell’opera secondo il carattere sistematico della realtà linguistica, partendo dal principio che l’arte è comunicazione e si affida quindi al linguaggio.17 Georges Seurat, Une dimanche à la Grande Jatte, Art Institute of Chicago, Chicago 17 vedi U. Eco, Segno, Milano 1973 17 Da: Filiberto Menna, La linea analitica dell’arte moderna, Torino 1975 pp.10-14 “Quando Seurat costruisce il quadro della Grande Jatte, ricorre a un procedimento tipicamente analitico e scompone il tono nelle sue componenti elementari (nelle sue unità atomiche) e organizza queste unità sulla base di relazioni e dipendenze interne fondate su regole costanti; con lo stesso procedimento, scompone la continuità dello spazio in unità elementari (linee verticali, orizzontali, diagonali, zone puntiformi di colore) e organizza queste unità di base in un insieme fortemente solidale, in una struttura, dove ciò che conta non è la corrispondenza tra interno ed esterno, tra il quadro e le apparenze fenomeniche, ma più semplicemente e coerentemente la relazione interna di quelle unità. Il procedimento tende a ritrovare delle invarianti di base del linguaggio pittorico e delle regole che presiedano alla organizzazione dei dati elementari su fondamenti essenzialmente sintattici. Naturalmente, a Seurat interessa l’atto individuale del fare pittura, il momento concreto della costruzione del quadro (di quel determinato quadro); ma interessa anche, e direi soprattutto, assicurare ai singoli atti espressivi un fondamento più oggettivo, un modello costante di riferimento, in definitiva, un sistema, il sistema della pittura. Riportandoci a quel lontano-vicino pomeriggio domenicale alla Grande Jatte, constatiamo che Seurat ha voluto esplicitamente lasciare al quadro una sua presenza documentaria, una indubbia referenzialità. Così in quel pomeriggio di sole, i parigini celebrano il loro tempo libero, si sdraiano sulla verde pelouse, passeggiano lungo il fiume e affidano alla brezza le vele dei canotti. L’artista riprende, puntigliosamente, l’intero universo scoperto e celebrato dai pittori impressionisti, ci presenta una tranche de vie, un evento, come avevano fatto Manet e Monet, Renoir e Sisley. Ma comprendiamo subito che Seurat si è impegnato in una sorta di scommessa: affermare i diritti del quadro, e della rappresentazione, per dimostrare che è possibile, nello stesso tempo, far valere i diritti, fondamentali, della pittura, della lingua della pittura .Egli è sorretto, cioè, da una esigenza sistematica quasi del tutto estranea agli artisti che gli abbiamo posto a confronto ed è interessato non tanto alla realtà, nelle sue forme finite, e nemmeno al procedimento percettivo, istantaneo e bruciante, che era alla base dell’opera di Monet, quanto all’analisi degli elementi linguistici di base e alle regole della loro organizzazione: il quadro sembra perdere di peso, si assottiglia, lasciando intravedere, in trasparenza, la griglia strutturale della pittura. Il procedimento di Seurat si configura quindi come una operazione tipicamente analitica, scomponibile in tre tempi:1) una ricognizione sul motivo e la stesura di un taccuino di appunti; 2) una rielaborazione dei dati sulla base di una teoria della pittura; 3) l’esecuzione materiale, condotta sempre in atelier, intesa come puro trasferimento dell’idea sulla tela. Si tratta di un’operazione essenzialmente mentale, già chiaramente individuata dagli artisti e dai critici dell’epoca… Nel processo di astrazione sistematica, cui la pittura è sottoposta da Seurat, il ruolo dell’esecuzione perde progressivamente di peso e in questa sua riduzione coinvolge necessariamente la stessa pennellata, alla quale la pittura tradizionale (non esclusa quella 18 degli impressionisti) aveva sempre attribuito un valore fondamentale tanto da identificare in essa la qualità del dipinto. Il fatto è che il trasferimento della esecuzione sul piano di una semplice applicazione sul supporto di un sistema di segni e di regole stabiliti in anticipo al livello della teoria, dell’idea, non può non recare con sé l’assottigliamento del valore espressivo della fattura …, e quindi della pennellata e del segno grafico… Seurat ha posto in termini straordinariamente espliciti la questione della formalizzazione dell’arte. Egli si rende subito conto, infatti, che una teoria linguistica dell’arte (e della pittura) non può non tendere alla istituzione di un sistema e che la forza del sistema dipende dal grado di invarianza delle unità di base e delle regole combinatorie. Con l’apporto della cromatologia di Chevreul e di Rood, Seurat stabilisce le regole di organizzazione sintattica delle unità cromatiche ottenute mediante la divisione del tono: egli si serve di un disco cromatico, ripreso dagli studi di Rood, disponendo su di esso i colori dell’iride, collegati tra loro mediante una serie di tinte intermedie. Viene individuato, così, un sistema costituito da unità distinte per differenza e opposizione: per differenza, grazie alla serie delle tinte intermedie; per opposizione, in virtù del contrasto dei complementari. Un procedimento analogo viene impiegato per quel che riguarda il sistema delle linee sulla base delle ricerche di Charles Henry. Lo stesso Seurat enuncia chiaramente questo proposito sistematico ponendo l’interrogativo se non sia possibile, dopo aver ottenuto una classificazione rigorosa del colore, scoprire “un sistema egualmente logico, scientifico e pittorico” relativo alla organizzazione delle linee. 3.8 Cultura materiale – Antropologia La nozione di cultura materiale richiama l’attenzione sui materiali e gli oggetti concreti della vita delle società, privilegia lo studio delle masse a scapito delle individualità, dei fatti ripetuti (consuetudini, tradizioni) piuttosto che degli eventi. Gli oggetti tuttavia portano con sé altri segni inerenti le arti, la religione ecc. ed è dalla considerazione di questo complesso che si può individuare lo stato di una società e la sua evoluzione. La cultura materiale tende quindi a creare un collegamento con l’immaginazione dell’uomo e la sua creatività e a considerare proprie tre componenti fondamentali: lo spazio, il tempo e la socialità degli oggetti.18 18 vedi J. Bucaille, J.M.Pesez, Cultura materiale, in Enciclopedia Einaudi vol. IV°, Torino 1978 19 Ipotesi di ricostruzione di una capanna dell’insediamento magdaleniano di Pincevent Gli scavi di Pincevent Il sito preistorico di Pincevent, vicino a Fontainebleu, ha rivelato i resti di un accampamento di cacciatori di renne del periodo magdaleniano, circa 12.300 a.C. E’ stato scoperto nel 1964 e vi sono stati condotti scavi sotto la direzione di Andrè Leroi Gourhan che ha applicato una metodologia di meticolosa e sistematica analisi e classificazione di tutti i manufatti con un approccio interdisciplinare che utilizza la classificazione computerizzata e la tassonometria. E’ stato così possibile ricostruire le tende, i focolari, l’ambiente domestico come pure la stagione di caccia e alcuni modi di cucinare. 20 Esercitazioni da inserire nel Forum 1) Riflessioni sul punto 1 (Storia dell’arte / Educazione alla visione) o 2 (La valutazione qualitativa / Il giudizio estetico) o 3 (La lettura dell’opera) in 10/15 righe. 2) Preparare una scheda di lettura di un autoritratto presente nella mostra “I volti dell’arte – Autoritratti – dalla collezione degli Uffizi” attualmente in corso a Ca’ Farsetti (Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti) a Venezia, che andremo a visitare nella prossima lezione in presenza il 15 marzo. Gli specializzandi presenti alla lezione del 13 febbraio hanno avuto ciascuno una fotocopia di un ritratto da analizzare; a coloro che non erano presenti vengono rispettivamente assegnati: Angelo Lidia - Raffaello “Autoritratto”, 1506,olio su tavola, 47,3 x 34, 8 cm Caleari Marta – Filippino Lippi “Autoritratto”, 1485, affresco su embrice,50 x 31cm Carone Alessandro – Marietta Robusti detta la Tintoretta“Autoritratto”, 1580, olio su tela, 93, 5 x 91, 5 cm De Marchi Emanuela – Jacopo Robusti detto il Tintoretto,“Autoritratto”1585 olio su tela, intero 72, 5 x 57, 5 cm,parte originale 39 x 32, 5 cm Fabretto Valentina – Guido Reni “Autoritratto”, 1630, olio su tela, 45, 4 x 34 cm Ferrarini Giuliana – Gian Lorenzo Bernini “Autoritratto”, 1635 olio su tela, 62 x 46 cm Martinato Antonella – Diego Rodriguez de Silva y Velàzquez “Autoritratto”, 1643 olio su tela, 103, 5 x 82, 5 cm Mascella Roberto – Rembrandt Harmenszoon Van Rijn (?) “Autoritratto”, 1655, olio su tela, 76 x 61 cm Pellegrini Roberta – Antonio Canova “Autoritratto”,1792, olio su tela, 68 x 54, 5 cm Santoro Gabriella – Giovanni Fattori “Autoritratto”, 1884, olio su tela, 58 x 49 cm Tripodi Rita – Giovanni Boldini “Autoritratto”, 1892, olio su tela, 56 x 36 cm Zuliani Lorenza – Giacomo Balla “Autocaffè”, 1928, olio su tavola, 63, 5 x 42,5 cm Nel caso non fossero in grado di reperire una riproduzione dell’autoritratto indicato, trovino un altro autoritratto dello stesso autore o di un autore il più possibile simile per stile e periodo. 21