Notebook Architetture di Passaggio a cura di

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Notebook Architetture di Passaggio a cura di
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Architetture
di Passaggio
Sguardi
sull’architettura
dal Ticino
a cura
di Alberto Alessi
Arassociati
Milano
Andrea Bassi
Ginevra
Buzzi e Buzzi
Locarno
Durisch+Nolli
Lugano
Luca Gazzaniga
Lugano
Giraudi-Wettstein
Lugano
Testi critici
Alberto Alessi
Gian Paolo Torricelli
Alberto Dell’Antonio
Roman Hollenstein
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Architetture
di Passaggio
Sguardi
sull’architettura
dal Ticino
a cura
di Alberto Alessi
Arassociati
Milano
Andrea Bassi
Ginevra
Buzzi e Buzzi
Locarno
Durisch+Nolli
Lugano
Luca Gazzaniga
Lugano
Giraudi-Wettstein
Lugano
Testi critici
Alberto Alessi
Gian Paolo Torricelli
Alberto Dell’Antonio
Roman Hollenstein
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Indice
Testi critici
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Sguardi sul Ticino
Alberto Alessi
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Architetture
di Passaggio: verso
un progetto di città
Gian Paolo Torricelli
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Spazio ed Identità
Alberto Dell’Antonio
20
Razionalità e
Sensualità
Roman Hollenstein
Interviste
27
Arassociati
31
Andrea Bassi
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Buzzi e Buzzi
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Durisch+Nolli
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Luca Gazzaniga
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Giraudi-Wettstein
Profili
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Alberto Alessi
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Gian Paolo Torricelli
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Roman Hollenstein
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Testi critici
Alberto Alessi
Gian Paolo Torricelli
Alberto Dell’Antonio
Roman Hollenstein
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Sguardi sul Ticino
Alberto Alessi
Stills dal video
di passaggio. Ticino
Alberto Alessi 2006
“Con una media di oltre 2300 ore di sole all’anno, il Ticino è noto per un clima insubrico molto mite. Lungo ca. 100 km, copre il 7% del territorio svizzero, ed è suddiviso
in quattro regioni: Bellinzona e Alto Ticino, Regione del Lago di Lugano, Regione del
Lago Maggiore e Mendrisiotto. Il Ticino è noto per i suoi contrasti naturali unici in
Europa e per un paesaggio molto variegato. In pochi km si passa dalle montagne
imponenti con nevi eterne e ghiacciai della Regione del S.Gottardo e dalle vallate
solcate da fiumi e torrenti impetuosi fino alle rive dei laghi Maggiore e Ceresio a
carattere mediterraneo.” (1)
Unico cantone svizzero completamente a sud delle Alpi, il Ticino è geograficamente e climaticamente l’ultima propaggine settentrionale della pianura padana. Storicamente parte del territorio lombardo e del Ducato di Milano, dal ‘500 entra nella
sfera di influenza dei cantoni svizzeri tedeschi. Nel 1803 aderisce a pieno titolo alla
Confederazione Elvetica. Fino al 1878 la capitale si sposta ogni 6 anni da Lugano, a
Locarno e a Bellinzona, che solo da quella data ne diviene la capitale permanente.
Il Canton Ticino ha una superficie di 2.812 km2 di cui circa 3/4 sono considerati
terreno produttivo. Vi vivono oggi 315.000 abitanti, con una densità di 112 ab/km2.
La sua economia odierna si basa principalmente sul turismo e sulla produzione di
servizi e terziario rivolti soprattutto al nord Italia.
“Qui splende il sole più frequentemente e più caldo. La mentalità svizzera, altrove
riservata trova qui un colorito felice. Arte e architettura sono lombarde, e Milano
è molto più vicino di Zurigo, ad esempio. Lo charme delle valli al meridione del
Gottardo e del San Bernardino, i boschi di castani, i laghi dai molti bracci, i paesi
pittoreschi, e le città piene di vita attirano ogni visitatore nel loro mondo. Lo stesso
fa l’inimitabile cucina ticinese. Perché andare più lontano? Il merlot, il minestrone e
la polenta non sono così saporiti come in un Grotto sul lago.” (2)
Il Ticino è un luogo di passaggio. Passaggio geografico, economico, culturale. Lungo la dorsale valliva che collega il nord con il sud delle Alpi, il Mediterraneo con
l’Europa, il Ticino è un luogo che si percorre attraversando parti discontinue ed
eterogenee di paesaggio naturale e costruito, ma sempre chiaramente delimitato
dall’orizzonte dei monti, anche nel centro delle città.
“In un paese come il Ticino bisogna tener conto delle distanze, perché il Ticino è
come una sola grande città, dove al posto della metropolitana si prende l’autostrada.” (3)
Un tessuto esteso caratterizzato dal suo essere spazio di confine, ricettacolo morenico di influssi convergenti da luoghi lontani.
“Il barista aveva un accento inglese. Il suo modo di storpiare l’italiano si mischiava
alla cadenza slava dei due ragazzi all’ingresso e all’inflessione tedesca di Meienberg… ne risultava uno strano idioma, una specie di lingua ibrida. Invece Franchi,
l’uomo che aspettava nella saletta di là, parlava quasi soltanto dialetto. Questa è la
Svizzera, questo è il Ticino, pensò Meienberg appoggiandosi al banco del bar.” (4)
Già da prima dell’apertura del tunnel del Gottardo nel 1882, ma da allora in poi
inequivocabilmente, il Ticino viene inteso come luogo di passaggio, e i paesi e le
città da sempre si stendono lungo le sue principali strade di comunicazione, come
centri abitati di un Far West alpino. Le sue caratteristiche topografiche ne facilitano
la lettura come spazio interno, come stanza paesaggistica continua. Non a caso
viene definito Sonnenstube (salotto soleggiato) della Svizzera. Sul Ticino si riversa
lo sguardo interessato di molti, che vi proiettano il loro immaginario sognato.
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Da nord si cercano le palme, le piazze, la gastronomia; da sud le prealpi, le montagne, la neve. I turisti vi hanno portato il mediterraneo, e vi mantengono la polenta.
“Indecisi tra una nordica placidità e lo spirito latino, i giovani Ticinesi durante l’estate si sentono ai Tropici.” (5)
“l’identità si dà solo per necessità, perché necessariamente si hanno le stesse conoscenze e interessi.” (6)
Per il Ticino gli interessi sono molteplici. Guardare al Ticino oggi permette di leggere gli effetti di un processo di identificazione, di una proiezione di volontà. Il Ticino
diviene una camera di compensazione, un Heimat artificiale, un luogo di proiezione
di aspettative contrapposte fra nord e sud. Il Ticino vive un rischio costante di Disneylandificazione.
“AI primo impatto il sud sembra ancora lontano, eppure inizia poco dopo l’uscita
dalla galleria del San Gottardo, nella Val Leventina, quando si comincia già a respirare aria di vacanze. La natura si rivela ancora alpina, ma il sole è già più caldo!
Le case in pietra emanano tutto il loro charme. I castagneti fanno da ambasciatori
delle prelibatezze della cucina ticinese. Nelle vicinanze di Bellinzona, che merita
una sosta prolungata, la valle si apre in direzione del Lago Maggiore, le cui rive
sono bordate da una miriade di fiori. Un passo, il Monte Ceneri, divide il Ticino in
due emisferi, uno settentrionale e l’altro meridionale e questo sia dal punto di vista
naturalistico e climatico sia della mentalità. Così, gli abitanti del nord ritengono che
al di là del monte, nel Sottoceneri, siano la società, l’economia e il turismo a caratterizzare la vita; mentre la gente che abita nella parte meridionale pensa che al di
qua del monte, nel Sopraceneri. Gli abitanti siano irriducibili tradizionalisti, legati
tenacemente alla cultura e ai valori del passato. Ebbene: comunque sia, entrambe
le regioni hanno senza dubbio un loro proprio fascino. Quindi, chi vuole conoscere il
Tìcino farà bene, dopo un soggiorno nella zona dove nasce il fiume Ticino, a varcare
il Ceneri e a tuffarsi nell’ambiente mondano dell’attraente Lugano.” (7)
“Domenico Fontana, Carlo Maderno e in particolare Francesco Borromini, la cui
effigie figurava sulla banconota svizzera da 100 franchi, crearono a Roma, quali
architetti, opere immortali del Rinascimento e del Barocco, soprattutto in San Pietro. Domenico Trezzini concepì, per incarico degli zar, la struttura della città di San
Pietroburgo. I “maestri” comacini, in gran parte ticinesi, crearono già 500 anni fa
la fama della nostra regione, dell’identità e della geniale creatività della sua gente.
Gli architetti ticinesi contemporanei, con Mario Botta in testa quale loro eclettico
rappresentante, interpretano il loro lavoro anche come un proseguimento di questa tradizione. Oggi è quindi possibile ammirare numerose loro opere, esclusive e
indicative, sia a livello mondiale sia in particolare in alcuni luoghi del Ticino. Fate
diventare il vostro soggiorno in Ticino un piacevole “Architour” (prospetto presso
Ticino Turismo).” (8)
La narrativa ufficiale raccorda le storie dell’ieri con quelle dell’oggi, cercando continuità spesso immaginate. Ma come viene decisa la definizione di un’appartenenza?
Chi la attribuisce? Una riflessione sulla ticinesità dell’architettura ticinese può far
emergere i meccanismi di attribuzione di significato ed identità visibile, che oggi
vengono utilizzati per comunicare ed appropriarsi della realtà. Cosa si intende oggi
per architettura ticinese? È quella fatta dagli architetti ticinesi (ovunque nel mondo) o semplicemente quella fatta in Ticino (da chiunque)? Quali aspettative vi si
proiettano, quali coerenze vi si cercano? Cosa fa considerare ricerche progettuali
molto diverse fra loro, come quelle esposte in questa pubblicazione, tutte quante
architettura ticinese? Cosa le accomuna? È la dislocazione geografica, il periodo
storico, il linguaggio, la nazionalità dell’autore, il marketing culturale? Oggi si parla
di architettura ovunque e comunque, tutto pare essere attinente all’architettura e
viceversa, senza soluzione di continuità, dall’embrione alla virtualità. Ed è questo
un modo per neutralizzarla, per toglierle la capacità di leggere e interpretare la
realtà, facendola coincidere con essa. Si dice architettura, e si intende invece la vita.
Ma l’architettura sono le architetture, come ci ricorda giustamente Aldo Rossi. E le
architetture le fanno gli architetti. E gli architetti li forma una società. E la società
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cambia nel tempo. È importante il dove e il da dove delle cose. Dove si fanno e da
dove si fanno. E quando. Domandarsi quali siano le architetture ticinesi e chi siano
gli architetti ticinesi di ieri come dell’oggi, significa anche interrogarsi costantemente su cosa sia la società ticinese di cui questa architettura dovrebbe essere
il risultato. Discutere di architettura ticinese significa perciò cercare, denotare o
proiettare una specificità qualitativa.
L’architettura in Ticino c’è da sempre, come ovunque. L’immagine storica dell’architettura ticinese “tradizionale” emerge invece nel ‘500, quando il Ticino diviene
territorio di conquista della Svizzera tedesca, e perciò le sue costruzioni appaiono
esotiche all’immaginario dei vincitori. Queste architetture non sono tuttavia una
evoluzione coerente nel tempo di un linguaggio sedimentato. Ricordando ancora
Virgilio Gilardoni, si deve capovolgere l’assunto della volgata ufficiale già citata:
l’architettura ticinese nacque dal contributo degli emigranti di quei secoli lontani,
che ritornando a casa dai cantieri in Italia e altrove portavano da fuori nuove forme,
nuove visioni.
A distanza di alcuni secoli, anche lo “Stile” moderno in Ticino viene portato da
fuori, ma questa volta in modo meno spontaneo. I primi costruttori di un nucleo
di architetture volutamente moderne sono, alla fine degli anni ’20 del novecento,
gli architetti nordici della cosiddetta Scuola di Ascona. Questi architetti non scendevano in Ticino per la cultura del luogo, ma per godere e celebrare la sua natura.
Programmaticamente, in una pagina del libro di Eduard Keller “Ascona Bau-Buch”
(Ascona, libro del costruire), Max Bill mette a confronto due immagini: una vista
di una grande finestra moderna aperta sul paesaggio montano, intitolata “punto
focale dello straniero”, è giustapposta alla fotografia di un gruppo di uomini riuniti
attorno al camino in una stanza fumosa, definito “punto focale degli indigeni”. Intendendo con ciò far emergere la maggior consapevolezza di chi viene da fuori su
ciò che si può trovare in un luogo, rispetto alla routine di chi vi abita da sempre. I
nordici vengono in Ticino alla ricerca dell’Arcadia, come testimonia anche la comunità che negli stessi anni realizza e abita il Monte Verità. Con questi presupposti
idealistici e di distacco dal contesto culturale, non è perciò un caso che questi “predecessori” moderni siano stati sostanzialmente rifiutati quali padri dagli architetti
e dalla cultura ticinese, che li hanno visti come un episodio isolato, un artificio non
integrato nella società locale. E non è un caso che il Ticino ufficiale cerchi piuttosto
di rappresentare un’immagine della propria architettura moderna e contemporanea
come continua ai maestri comacini e agli architetti barocchi e neoclassici.
Se si vuole invece ricercare una fondazione autonoma dell’architettura moderna in
Ticino, questa può essere fatta risalire agli anni ’40 e ’50 del secolo scorso, con i
lavori di Rino Tami, Peppo Brivio e poi Tita Carloni. Si assiste poi negli anni ’60 ad
una appropriazione e diffusione della continuità con le ricerche dei maestri internazionali, Le Corbusier in particolare. Quindi negli anni ’70 si sviluppa fortemente
una riflessione sul rapporto fra forma e luogo, complici anche gli studi di Kenneth
Frampton su un regionalismo critico (causa ed effetto di questo sviluppo). In questi anni il Ticino sale alla ribalta della scena architettonica internazionale con una
ricerca attenta, sapientemente in bilico fra contesto e astrazione. Sono presenti in
varie sfumature, molte delle correnti che animano le vicende dell’architettura del
novecento, con una coerenza di intenti altrove smarrita: dal contestualismo logico
di Carloni al purismo poetico di Snozzi, dal minimalismo aureo di Vacchini al figurativismo simbolico di Botta, dal particolarismo ludico di Gianola all’internazionalismo raffinato di Campi e Pessina, dal pitagorismo astratto di Durisch al geometrismo umano di Galfetti, fino al linguaggio metaforico di Reichlin e Reinhardt. Negli
anni ’80 si assiste all’approfondimento delle ricerche individuali da parte di questi
nuovi “maestri”, che negli anni ’90 arrivano sovente alla monumentalizzazione del
loro fare.
Come ha scritto acutamente Jacques Lucan, l’architettura in Ticino si trova divisa
fra “la riduzione o l’eccesso linguistico” (9). Questa visione ha portato l’architettura
ticinese a dibattersi continuamente fra la seduzione del manierismo locale e la
seduzione del radicalismo avanguardistico. Questo è spesso vero ancora oggi, ed
in gran parte ciò è dovuto alla specificità del Ticino nella geografia fisica e culturale
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dell’Europa del novecento, che l’ha visto passare velocemente da un’idealizzazione
quale luogo della purezza primitiva e selvaggia, ad una celebrazione quale spazio
spurio di passaggio, fino a farne un luogo di incontro fra diversi pensieri.
Architetture di
Passaggio: verso un
progetto di città?
Gian Paolo Torricelli
Oggi siamo ad un momento di svolta. Per la prima volta dagli anni ’60 una nuova
generazione sta trasformando il paesaggio ticinese. Una generazione che non si
richiama solo al lavoro di chi li ha preceduti (e che continua ad operare), quanto
piuttosto al dato di fatto di lavorare in un dato luogo, in date condizioni economiche,
topografiche e materiali. Ma con una grande apertura culturale. Una generazione
che cerca e trova in Ticino e oltre i suoi punti di riferimento. I sei studi di architettura
“ticinesi” selezionati per questa lettura sono stati scelti per questo carattere al contempo consapevolmente radicato e culturalmente internazionale del loro fare.
Ho accettato volentieri l’invito di redigere un testo critico su queste Architetture di
Passaggio. Tuttavia premetto che non sono un architetto e nemmeno un urbanista,
soltanto un geografo il cui compito non è mai stato il costruire, e forse nemmeno
il progettare e il pianificare. Partirò dunque dalla prospettiva che mi è propria che
è la rappresentazione del territorio, ovvero dello spazio modellato e trasformato,
e per finire fatto proprio sul piano simbolico da una comunità (o da una società).
Da qualche tempo mi sto occupando di osservazione territoriale1; questo lavoro
di valutazione dei problemi, delle opportunità e degli effetti delle politiche di incidenza spaziale mi ha fatto riflettere sul senso della geografia come descrizione del mondo. Sembra banale, ma il territorio per diventare patrimonio collettivo
– ossia parte di una identità – deve prima materializzarsi simbolicamente nei testi
che lo descrivono e nelle immagini (e nelle mappe) che lo raffigurano, ossia deve
diventare rappresentazione condivisa di uno spazio di appartenenza. Senza queste
rappresentazioni, senza immaginario spaziale condiviso non c’è verosimilmente
capacità collettiva di proiettarsi nel futuro; ed è proprio ciò che manca al Ticino di
oggi. Per spiegare questa “lacuna” si possono invocare molte ragioni, dagli squilibri
provocati da uno sviluppo certamente troppo rapido negli anni ’70 e ’80, acuiti con
la crisi economica degli anni ’90, alle immagini e rappresentazioni del territorio,
sempre più specializzate e frammentate dagli steccati disciplinari, spesso tra loro
in opposizione se non in contraddizione. Malgrado ciò, o forse proprio perché è
necessario un recupero dell’immaginario collettivo del nostro spazio di vita, vorrei
cercare in questa breve riflessione di tirare un filo, di gettare un ponte tra lo spazio
urbano del Ticino di oggi e gli stimoli offerti da questi sei contributi.
Apparentemente in maniera paradossale, anche la creazione dell’Accademia di Architettura di Mendrisio e dell’Università della Svizzera Italiana sta contribuendo al
cambiamento: creando un perno culturale di forte attrazione, ben oltre il Ticino, si
inverte il percorso di formazione consolidato, apportando nuove aspettative, permettondo nuove letture, svelando nuove visioni.
Costruire la città
Citazioni
Testo tratto dal website di Ticino Turismo, 2005
(2)
Carta turistica La Svizzera, pluralità nell’unità,
Lega Svizzera contro in Cancro, 2003
(3)
Andrea Fazioli, Chi muore si rivede,
Armando Dadò Editore, 2005
(4)
Andrea Fazioli, Chi muore si rivede,
Armando Dadò Editore,2005
(5)
Andrea Fazioli, Chi muore si rivede,
Armando Dadò Editore,2005
(6)
Intervista a Virgilio Gilardoni, in Dieter Bachmann
e Gerardo Zanetti, Architektur des Aufbegehrens, 1985
(7)
Carta turistica My Holiday Map Tessin,
Hallwag International, 2004
(8)
Carta turistica My Holiday Map Tessin,
Hallwag International, 2004
(9)
Jacques Lucan, La lezione del Ticino, in Peter Disch,
Architettura recente nel Ticino, 1996
Ci sono almeno tre pensieri ricorrenti, benché espressi in forme diverse, che appaiono con forza nelle architetture presenti in questa esposizione. Essi si richiamano all’ambizione di contribuire a costruire la città, a trasformarla attribuendole
nuove qualità e nuove spazialità. Tutti associano, in primo luogo, l’architettura al
progetto, ciò malgrado il rifiuto pressoché unanime di riconoscersi nella scuola
ticinese, nella “tendenza” degli anni ’70 e ’80, considerata superata, oramai quasi
storia. In secondo luogo l’emozione, o l’architettura emozionale o la capacità emozionare emergono come esigenza costante del costruire e poi dell’abitare la città.
Infine le architetture che ci sono presentate si vogliono capacità di organizzare
lo spazio, quindi potenzialmente in grado di “creare” il luogo, dialogando con il
paesaggio. Vedo quindi un’architettura che dichiaratamente ricerca un suo ruolo
esplicito nella costruzione del territorio, che ne modifica le forme per cercarvi nuovi
equilibri (e nuove emozioni). Ma cosa significa oggi costruire la città o il territorio in
Ticino? Esiste qualcosa in particolare che lo differenzia dall’altrove?
(1)
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Ogni epoca, ogni cultura, ha avuto le proprie città, le proprie immagini e le proprie
rappresentazioni della città. Perché mai dunque non potrebbe essere così per il
Ticino? Esiste o cosa può essere allora la città Ticino? Alla base si può definire la
città come un crocevia, un punto di incontro e di scambio culturalmente riconoscibile, una sorta di coincidenza geografica, come ebbe a dire il geografo Giuseppe Dematteis, di significati formali e sociali. I due termini latini da cui provengono città e
urbano, “civitas” e “urbs”, ci indicano i limiti di questa coincidenza, anche sul piano
semantico. Città è da un lato un insieme di regole e di norme di vita in comune nelle
quali gli abitanti di un luogo si riconoscono e si identificano. In questo senso è una
forma di unione consensuale tra individui che si sentono uniti, in primo luogo, da
un domicilio comune. Città è però anche uno spazio formale costruito, diverso dallo
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Nel quadro del progetto di Osservatorio dello sviluppo territoriale, quale strumento di
verifica e di controllo del Piano direttore del Cantone Ticino.
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spazio circostante (non edificato): è concentrazione fisica di edifici e monumenti,
di vie di piazze, di punti di incontro esteticamente e culturalmente riconoscibili,
insomma la base materiale per le interazioni di persone e di attività, generatrici di
scambi, di interessi, di emozioni, di idee e di innovazioni.
lo spreco di suolo, laddove lo spazio è raro: troppi comuni, troppo piccoli, troppe
zone edificabili e aree industriali troppo estese, e per finire tanti, troppi interessi di
parte da soddisfare. Corollario di tutto ciò fu l’indebolimento dei centri urbani principali, e una mobilità quasi imposta, parossistica, da effettuare quasi soltanto con
l’automobile. Vista così la città Ticino non è sostenibile, tuttavia il rilievo è sempre
stato un ostacolo all’estensione dello spazio costruito, che resta tutto sommato
ridotto. Occorre ricordare che appena il 14% della superficie cantonale si situa al
di sotto dei 500 metri, ossia è costituito da terreni di fondovalle più facilmente insediabili. Secondo le statistiche della superficie, l’edificato in Ticino copre meno di
150 kmq sugli oltre 2800 kmq della superficie cantonale, il 5% o poco più (si veda
la figura qui sotto).
La città di passaggio: il territorio della mobilità
Il Ticino non è proprio un crocevia, ma è da molto tempo, dal XIII secolo almeno,
una terra di passaggio tra grandi città a nord e a sud delle Alpi. Dunque potenzialmente almeno potremmo vederlo in quanto città di passaggio, ossia soprattutto
in quanto città fondata sul movimento, sui flussi e sulla mobilità. Tutte le civiltà si
sono svolte materialmente nelle città: la loro fondazione o la loro conquista, il loro
declino o la loro distruzione ne hanno dettato ritmi e tempi storici. L’ultima tappa di
questo sviluppo sono le città mondiali, le “World Cities” o piuttosto le “World-CityRegions” (l’espressione è del geografo californiano Allen Scott) di questo inizio di
XXI secolo: regioni-città nelle quali si concentrano sempre più le capacità decisionali, ovvero l’esercizio del potere, mentre sul piano formale si attua l’espansione, la
diffusione a macchia d’olio di uno spazio edificato spesso senza qualità.
Negli anni ’90 la città Ticino si espande ancora, ma se la crisi economica non rallenta il processo di estensione del costruito, finisce per concentrare ulteriormente
ricchezze, risorse umane e capacità decisionali nell’agglomerato di Lugano.
Sul piano formale, il risultato è però spesso un gioco di giustapposizione di edifici,
di infrastrutture, di quartieri abitativi in parte incassati lungo il fondovalle, in parte
arroccati sulle colline e sui versanti delle vallate principali. La città Ticino è una città
filamentosa, se la guardiamo dall’alto, che si sviluppa là dove si può passare, ossia
dove c’è possibilità di mobilità, di passaggio. E’ forse questo anche il significato
della mostra, tuttavia questo primo indizio resta ancora una spiegazione abbastanza evidente di per sé, dettata dal rilievo, come nella figura qui sotto che ci mostra
l’uso del suolo alla fine degli anni ’90. Cerchiamo allora di dire qualcosa in più, sulla
base di alcune valutazioni recenti dell’urbanizzazione in Ticino2.
Questo contrasto tra diffusione del costruito e concentrazione del potere è certamente il caso dell’orribile città diffusa della Pianura padana che apparentemente
ritroviamo a scala ridotta anche nei nostri fondovalle. Ma questo è il riflesso al
suolo, è una sorta di proiezione territoriale dei cambiamenti economici contemporanei, in primo luogo della tanto discussa globalizzazione. Ed è proprio come
terra di passaggio tra due regioni-città, tra la “megalopoli padana” (il termine è di
Jean Gottmann e fu poi ripreso da Eugenio Turri) e la “metropoli svizzera” (immaginata inizialmente da Michel Bassand) che va o che andrebbe oggi visto il Ticino
contemporaneo.
L’uso del suolo in Ticino (1997)
Il Ticino è quindi uno spazio montano attraversato dalla città. Ma quale città è mai
questa? Come si è realizzata?
Alla fine dell’Ottocento, all’arrivo della ferrovia e dei lavori del primo traforo del
S.Gottardo, il Ticino difficilmente avrebbe potuto essere pensato come città, e non
soltanto al di fuori dei tre principali centri di Lugano, Locarno e Bellinzona. La città
Ticino, tuttavia, inizia allora, proprio contemporaneamente alla costruzione della
linea ferroviaria del Gottardo, che unirà il sud e il nord del Cantone e che imprimerà,
a scala locale e regionale, la trama lineare degli insediamenti. La storia del territorio
ticinese è realmente marcata dal passaggio e dalla mobilità e può essere descritta
attraverso gli effetti dettati dalla successione dei mezzi e delle infrastrutture di trasporto che hanno segnato questo spazio nel corso del tempo. Dalle strade maestre
alla ferrovia, alla rete delle strade cantonali all’autostrada, la città Ticino si sviluppa
e cresce proprio sulla base dell’accessibilità, ovvero della facilità di raggiungere o
di essere raggiunti.
Se passeggiamo in questa città incassata, se percorriamo l’autostrada come ha
fatto il curatore della mostra, allora ci accorgiamo che gli spazi urbanizzati sono
soprattutto il frutto della trasformazione della struttura fondiaria precedente, fondamentalmente rurale, a partire da una rete di strade secondarie dettate dalle necessità dell’economia agricola (per quel poco di agricoltura che si poteva praticare
nel fondovalle). Dopo gli anni ’60, con la formazione degli agglomerati urbani, i
criteri funzionali ed economici prevalsero rispetto a quelli urbanistici. Qui non si
vuol dire che tutto ciò che fu fatto lo fu male, ci sono anche degli eccellenti controesempi, in particolare nei centri principali. Tuttavia fuori, nel fondovalle e sulla collina, la struttura fondiaria e viaria che fa da supporto allo sviluppo urbano odierno
non fu realmente ripensata rispetto al suo primo uso agricolo. Molto spesso i nuovi
insediamenti si svilupparono in maniera apparentemente caotica e dispersiva, anche perché l’ente pubblico non ebbe la forza di contenere l’estensione delle aree
edificabili.
Ancora possiamo trovare dei contro-esempi, ma nelle zone di più recente urbanizzazione, ossia nelle aree peri-urbane, ai margini degli agglomerati, sono ancora
molto rari i casi in cui lo spazio stradale viene considerato dai comuni un’occasione
per intervenire sulla qualità e sulla struttura del costruito, quale trama per lo sviluppo dell’insediamento. Senza contare che la strada denota spesso una scarsa
considerazione per le esigenze della mobilità lenta, dei pedoni e dei ciclisti.
Alla fine degli anni ’80 la città Ticino raggiunge la completezza e sembra fatta soltanto per gli spostamenti in auto. E’ il “Ticino autostradale”, in pratica l’ultima fase
(in ordine di tempo) dell’instaurazione definitiva della città di passaggio. Essa si
manifesta come insediamento sparso, al di fuori dei centri, apparentemente spontaneo, senza ordine né piano.
La città Ticino, passaggio tra la
megalopoli padana e la metropoli
svizzera
Questo potrebbe apparire come una sorta di imitazione della città diffusa della Pianura padana, ma non è veramente così. Questa città di passaggio è anche figlia di
una situazione istituzionale ereditata dal passato, situazione che ha di fatto favorito
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Proprietà e qualità dello spazio urbano in Ticino: trasformazioni recenti, Dipartimento
del territorio, Divisione dello Sviluppo territoriale e della mobilità, Salvioni Arti grafiche,
Bellinzona.
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Ora in Ticino, oltre i centri storici, come del resto in gran parte della megalopoli
padana, le tipologie architettoniche sono spesso molto povere: zone di collina e
di fondovalle in cui si sommano e si giustappongono casette, grandi contenitori e
infrastrutture di vario genere. Chiunque può vedere che mentre nel fondovalle ha
preso piede la tipologia del grande contenitore standardizzato (più concretamente
del capannone che oggi è l’antro del centro commerciale), sulle colline e nelle zone
residenziali dominano le case (casette) unifamiliari, che sorgono in mezzo a particelle in origine agricole, in genere chiuse verso lo spazio pubblico stradale tramite
siepi o recinzioni, con il quale spesso non si instaura alcun dialogo (si vedano le
due foto presentate alla fine). C’è di più. Tutto ciò che vediamo in queste fotografie
è stato accuratamente pianificato, o meglio tutto è stato per cosi dire elaborato entro le norme del Piano regolatore. Cosa significa? Che la città non si può costruire
solo giustapponendo spazi e norme edilizie, concatenando edifici e infrastrutture.
Ma soprattutto, a mio modo di vedere, significa che le idee e i progetti dell’architettura sono (ancora) deboli per modificare le tendenze della costruzione del territorio, e per l’instaurazione di un dialogo esplicito tra il costruito e il non costruito.
Il territorio nel suo insieme è retto da altre logiche, ovvero dalle relazioni funzionali,
dagli imperativi dell’economia che negli scorsi decenni hanno giocato in favore di
una città di passaggio molto spesso banale, dal punto di vista urbanistico e architettonico e anche, da una prospettiva più generale, poco o non sostenibile. Proprio
il contrario di quanto ci viene proposto dai contributi di questa esposizione. Ma ne
siamo veramente sicuri? Il problema infatti può essere rovesciato, ossia è proprio
da questo paesaggio ibrido del fondovalle che scaturisce la necessità di intervenire
per cambiare gli equilibri, per ricondurci al progetto, all’emozione e alla qualità dell’abitare, come ci propongono gli interpreti di queste Architetture di Passaggio.
Un progetto di città
Se riprendiamo i pensieri comuni citati all’inizio, possiamo ora riassumerli con tre
associazioni di concetti territoriali: architettura/progetto; passaggio/mobilità; città/territorio, che verosimilmente potrebbero rappresentare un triangolo sul quale
ripensare e ricostruire la città Ticino. Questa città esiste formalmente, ma fa fatica
a realizzarsi sul piano dell’identità. Ci sono molte ragioni, storiche e culturali che
ho qui solo abbozzato, tuttavia ciò che manca, molto probabilmente, non è propriamente una cultura della città, ma un progetto collettivo. Un progetto non solo di architettura, ma di società. Lavorare su queste tre associazioni potrebbe permettere
così, almeno in parte, di colmare la lacuna culturale di cui si diceva all’inizio, ossia
portarci verso una migliore appropriazione simbolica del territorio, sviluppando
quel senso di appartenenza che manca ormai da troppo tempo.
Ma soprattutto permetterebbe di trasformare la città Ticino in un progetto collettivo
per il XXI secolo. Sarebbe forse un punto di partenza per sanare le ferite inflitte dalla pura logica economica. La nuova generazione di architetti, quella che trasforma
le periferie e rinnova i centri, che ben rappresentano le Architetture di Passaggio,
può dare la prima opportunità culturale e nello stesso tempo il primo contributo
concreto a questa ricostruzione.
Foto: G.P. Torricelli/
L. Bottinelli
Foto: B. Pellandini
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Uno scorcio della Piana del Vedeggio
(Manno, Agglomerato di Lugano)
La stessa area, vista dall’alto
Spazio ed Identità
Alberto Dell’Antonio
Un’inquadratura statica del paesaggio che scorre via, una ripresa video da una
macchina lanciata in corsa lungo l’autostrada, un discorso di architettura in sottofondo. Nell’arco di tempo necessario per attraversare il Ticino da Airolo a Chiasso, vengono così illustrate le posizioni degli architetti di sei studi sul loro modo
di fare e vedere l’architettura. Qual miglior metafora per sintetizzare l’obiettivo di
questa mostra sugli sviluppi dell’architettura contemporanea ticinese che quella
dello sguardo dall’autostrada1. Oltre ad essere un manufatto emblematico per la
cultura di questo cantone, essa rappresenta uno dei motori di sviluppo insediativo,
sviluppo che da decine di anni sta trasformando in modo irreversibile il territorio.
Nonostante il cantone sia attraversato per intero, questo modo di percepirlo non è
in grado di rendere una visione completa del Ticino.
Altrettanto specifico è da considerare lo sguardo rivolto, tramite questa mostra,
all’architettura del Ticino, non mirato a catturare il panorama completo della produzione architettonica, ma piuttosto indirizzato a quel segmento che già in passato
da autorevoli critici è stato paragonato ad un “laboratorio”. Le considerazioni degli
architetti, alle quali è riservato ampio spazio in questa rassegna, rendono possibile un’osservazione di questo laboratorio da due prospettive opposte: dall’esterno
come pure dall’interno stesso. Da questi sguardi reciproci e dalle riflessioni che ne
seguono emerge uno degli argomenti cardine in architettura: quello relativo alla ricerca d’identità. Mentre ogni formazione d’identità avviene quasi impercettibilmente in sottofondo, la presa di coscienza di questo processo a lungo termine spesso
avviene in maniera brusca. Così come avviene nel caso della trasformazione del
territorio lungo l’autostrada dove si può avere l’impressione di una realtà urbana
mutata di colpo, mentre ad essere cambiato improvvisamente è solo il nostro modo
di vederla.
Gli sguardi sull’architettura dal Ticino sono sguardi finalizzati ad una nuova percezione della propria identità che viene sottoposta ad un processo di ridefinizione
continua e mirata ad affrontare la sfida della contemporaneità.
L’eredità della tendenza
In termini generazionali, i sei studi d’architettura esemplificati in questa mostra
possono essere considerati i “nipoti” dei protagonisti della Tendenza2. Dalle loro
prese di posizione durante le interviste ne traspare un rapporto ambiguo. Sebbene
questa parentela sia ben percettibile e dal loro lavoro emergono chiari aspetti di
continuità con i temi dell’architettura ticinese degli anni ’70 e ’80, si rivelano delle
rotture inequivocabili con alcuni dei temi chiave della Tendenza. Di fronte al quesito
sull’identità, se esista o no oggi un’architettura ticinese, nel dare risposta essi non
sembrano esitare a fare riferimento agli architetti di quel periodo - quasi come la
personificazione dell’architettura ticinese - per sottolineare in seguito, con altrettanta fermezza, la loro autonomia progettuale, affermando che per la loro generazione che ha potuto godere di esperienze culturali extraterritoriali, l’identificazione
con un pensiero ticinese comune, abbia perso ogni significato.
Vista dall’esterno, la tematica di continuità più esplicita dei lavori esposti è forse
individuabile nel trattamento volumetrico degli edifici, nel quale sembra persistere
una preferenza per i volumi primari compatti. Preferenza degli architetti ticinesi che
Jacques Lucan nel suo saggio intitolato “La lezione del Ticino”3 identifica come
una specie d’ossessione per il prisma e che in seguito interpreta come rifiuto ad
abbandonarsi alla frammentazione della forma architettonica, caratteristica dell’architettura vernacolare locale. Nelle opere esposte colpisce l’attenzione prestata
nell’elaborare la materialità e la spazialità dei fabbricati messe in risalto dalle loro
semplici volumetrie. In particolare il trattamento dello spazio interno come materia
di lavoro primaria ha subito nell’ultimo ventennio un approfondimento notevole che
lo vede oggi protagonista dei progetti. Questa consacrazione del loro lavoro ad un
valore essenziale della disciplina, tramite l’articolazione dello spazio architettonico
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guardi dell’urbanismo. A testimoniare questo interesse risvegliato ci sono vari studi
fatti recentemente sul territorio svizzero5 con l’obiettivo di individuarne le determinanti e i tratti fisionomici. Agli occhi degli architetti incominciano così a stagliarsi i
nessi che, fino ad alcuni anni fa, si presentavano come caotici e indecifrabili. Al di là
di questo nuovo modo di vedere i fenomeni che ormai da decenni stanno mutando
il territorio, subentrano nuove dinamiche che condizionano la struttura del Ticino
individuato come uno dei punti cruciali nel ritratto urbanistico svizzero. È caratterizzato, infatti, da un’insieme di problematiche particolari, correlate alle regioni del
Norditalia e al loro sviluppo in ambito europeo.
Oggi, il ruolo dell’architetto sulla scena della pianificazione è drasticamente cambiato rispetto ai tempi della Tendenza. Da quello di figura quasi eroica con ambizioni di protagonista a quello di uno fra più attori impegnati sulla scena. Esso assume
oggi piuttosto il ruolo dell’osservatore attento, sensibile agli sviluppi indotti dalle
molteplici forze agenti all’interno della collettività ed impegnato a tradurle in forma
progettuale. Se esiste questa nuova consapevolezza in grado di individuare più
concretamente i meccanismi di queste dinamiche esiste di conseguenza il presupposto per una nuova concezione dello spazio urbano contemporaneo. Come
lapidariamente decretato nel titolo dell’opera epocale “Spazio, Tempo ed Architettura”6, ogni epoca richiede una propria interpretazione dello spazio.
Concentrandosi sulle regole della disciplina, gli architetti ticinesi indirizzano il discorso dell’architettura verso lo spazio senza per questo privarlo della sua dimensione multidisciplinare che risulta invece sintetizzata all’interno della disciplina
stessa in un valore autonomo e superiore alla somma delle discipline che lo costituiscono. Questa è la materia nella quale essi da generalisti si possono riconoscere
specialisti. Svolgendo i loro compiti progettuali su varie scale, essi lo plasmano in
stretta sintonia alle esigenze locali di un contesto territoriale ampliato. Nella sfida
lanciata attraverso la riorganizzazione della regione ticinese giace a mio avviso il
potenziale per un pensiero comune degli architetti coinvolti in questo processo
inteso come identità che viene a costruirsi a pari passo con l’interpretazione che
essi danno al “loro” spazio contemporaneo.
interno, trova conferma nella dichiarazione degli intervistati di volersi dedicare ai
valori fondamentali ed universali dell’architettura. Nella sua immaterialità lo spazio
risulta essere complementare, in senso fisico e metaforico, al costruito. Attraverso
il suo concetto astratto, esso forma una sintesi in grado di condensare le molteplici
discipline che compongono l’architettura.
Nonostante le affinità formali dei “nipoti” con le preferenze volumetriche della Tendenza, la scelta del prisma assume per questi ultimi un significato differente. Se
per i maestri questa preferenza rappresentava un rifiuto ad abbandonarsi al pittoresco, il prisma nei progetti contemporanei rispecchia un interesse dei giovani
architetti per i valori classici e atemporali della disciplina. Valori che si rivelano
universali, se interpretati ed applicati in chiave contemporanea.
Introversione e sconfinamento
Rispetto a trent’anni fa, la prassi operativa professionale dei giovani architetti in Ticino è fortemente cambiata. A differenza degli esponenti della Tendenza che dopo
gli studi accademici si sono formati soprattutto presso gli studi professionali locali, gli esponenti di questa rassegna hanno raccolto buona parte del loro bagaglio
culturale esercitando la professione presso gli studi d’architettura in diversi paesi
del mondo. Se gli intervistati parlano di “un superamento dell’architettura ticinese
intesa come stile” o di “un orientamento ad un mondo culturale senza confini”,
viene evidenziato come il loro bisogno di evadere la cultura architettonica locale
e di assoggettarsi a stimoli distanti necessiti sull’altro piatto della bilancia una ridefinizione d’identità che li metta in grado di posizionarsi di fronte ad un mondo
globalizzato.
Essenzialmente, l’esercizio della loro professione sembra quindi essere teso tra
due poli: lo sconfinamento nella globalizzazione culturale alla quale fanno spesso
riferimento da una parte e dall’altra l’atteggiamento di carattere introverso, rivolto
ai valori intrinseci della disciplina stessa. Entrambi i poli di natura apparentemente
opposta sono correlati dal denominatore comune di un contesto ampliato.
Per quanto incisivi possano essere gli effetti della globalizzazione nella loro capacità di trasformare fino alla trasfigurazione le tematiche di base dell’architettura
ticinese del periodo del dopoguerra, non credo siano in grado di eliminarle. Come
si è potuto constatare nel caso della metamorfosi subita dal significato del prisma,
anche altre tematiche cardinali per la Tendenza, come quella del contesto e del
territorio, sono state sottoposte ad un processo di trasformazione indirizzato ad
estenderne il significato.
Visto in un’ottica globale, l’ampliamento del contesto ha portato ad un livellamento
della produzione architettonica ticinese in quanto più sintonizzata con un linguaggio architettonico internazionale mentre, se si passa ad un’ottica locale, si può constatare che le esperienze professionali pluriculturali hanno contribuito piuttosto a
rendere più eterogenea la scena ticinese degli architetti.
Mario Botta, Per Rino Tami, in:
Rino Tami, Segmenti di una biografia
architettonica, Zurigo 1992.
2
Martin Steinmann und Thomas Boga,
Tendenzen: neuere Architektur im Tessin,
Zurigo 1975.
3
Jacques Lucan, La lezione del Ticino, in:
Architettura recente nel Ticino, Peter Disch,
Lugano 1996.
4
Rem Koolhaas, What Ever Happened to
Urbanism? in: Small, Medium, Large,
Extra-Large, Rem Koolhaas
and Bruce Mau, New York 1995.
5
Angelus Eisinger, Stadt-Land Schweiz,
Basel 2003.
Die Schweiz, Ein Städtebauliches Portrait,
ETH Studio Basel, Institut Stadt der
Gegenwart, Basel 2006.
6
Sigfried Giedion, Spazio, Tempo ed
Architettura, Cambridge 1941
1
La sfida dello spazio urbano
Se dalla considerazione dello spazio interno trattato dagli architetti in maniera intima e introversa si passa allo spazio esterno, il peso del contesto locale assume un
rilievo ancora maggiore. Ulteriormente complessi e molteplici si profilano i meccanismi che regolano lo spazio urbano e in maniera specificamente locale, s’impongono le costellazioni di problematiche che ne definiscono le misure da adottare su
scala urbanistica.
Per quanto nell’ultimo decennio lo spazio interno e quello imminentemente prossimo all’edificio siano stati assiduamente approfonditi, non è avvertibile altrettanto
interesse nei riguardi dello spazio su grande scala4. In Ticino, forse più che altrove,
le giovani generazioni soffrono delle limitate possibilità di accedere a grosse committenze, anche perchè gran parte delle infrastrutture pubbliche sono state realizzate all’epoca della Tendenza. A questa ristretta possibilità di potere intervenire a
livello urbanistico viene ad aggiungersi anche una certa diffidenza nei confronti di
questo tipo di progetti essenzialmente dovuta alla perdita di controllo sui dispositivi che determinano una realtà costruita, sempre più alienata rispetto agli ideali
della pianificazione.
Assistiamo oggi a chiari segnali di una crescente attenzione degli architetti nei ri18
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Razionalità
e Sensualità
Roman Hollenstein
Uno sguardo sull’architettura attuale in Ticino
Negli scorsi decenni lo sviluppo edilizio selvaggio ha trasformato vaste aree del
Ticino in un anonimo agglomerato urbano – e questo nonostante già negli anni
Sessanta protagonisti della «Scuola ticinese» come Rino Tami avessero voluto affrontare l’incontrollato boom edilizio con un approccio progettuale. Di conseguenza, con severi edifici di cemento Aurelio Galfetti, Luigi Snozzi, Livio Vacchini e ben
presto anche Mario Botta o Ivano Gianola posero in questo guazzabuglio informe
dei segnali, che non frenarono il fenomeno dell’insediamento poco controllato, ma
nel migliore dei casi riuscirono a estetizzarlo. Ciò nonostante, la loro opera, assurta
quasi da un giorno all’altro agli onori internazionali grazie alla mostra «Tendenza»
del 1975 a Zurigo, fu alla base di un regionalismo molto rispettato negli anni della
popolarizzazione postmoderna dell’architettura. Se questa architettura per architetti era da principio imperniata su modelli di pensiero, ben presto al centro dell’interesse si è trovato il costruire. E così è stato fino a oggi; la giovane generazione
di architetti, infatti, non si preoccupa tanto dell’etica e della resistenza di una volta,
quanto piuttosto di realizzare edifici le cui facciate plastiche mirano a trasmettere
atmosfera e bellezza.
Cultura edilizia e speculazione
Sono trascorsi quasi trent’anni da quando la Svizzera di lingua italiana sorprese il
mondo con un’architettura della rivolta e ormai dieci anni dalla fondazione dell’Accademia d’architettura di Mendrisio. Nonostante i successi di Botta, Gianola, Snozzi
e Vacchini, tuttavia, l’interesse per la vicenda architettonica ticinese è diminuito.
Perfino nella Svizzera italiana, l’architettura di alto livello qualitativo si trova in una
situazione difficile, per quanto le autorità regionali del turismo la commercializzino
in modo mirato. Nuove costruzioni in posizioni di prestigio vengono realizzate da
studi mediocri, come dimostra per esempio il progetto, del tutto sproporzionato,
del Palazzo Mantegazza di Giampiero Camponovo sul lungolago di Lugano Paradiso. Qui risultano evidenti non solo il clientelismo e la scarsa cultura architettonica
degli investitori, bensì anche un sensorio carente – in ambito sia architettonico che
urbanistico.
Per quanto riguarda l’interesse urbanistico per la città, già gli esponenti della Tendenza ticinese avevano delle difficoltà. Con la loro architettura delle «forme forti»
riuscivano sì a costruire dei luoghi e quindi a collocare dei segnali nel paesaggio, ma la città, con i suoi complessi riferimenti storici e sociologici, rimaneva loro
pressoché estranea. Dagli anni Settanta soltanto Snozzi ha trovato, grazie alla sua
critica a Monte Carasso, una teoria dell’urbanistica. Ancor oggi, questo sobborgo
di Bellinzona è – insieme ad Iragna dove Raffaele Cavadini ha saputo consolidare
il tessuto urbanistico con alcuni interventi precisi – l’unica località che lasci intuire
come avrebbero potuto svilupparsi meglio i paesi e le città ticinesi nei decenni
passati. Ma al diffuso disinteresse degli architetti per l’urbanistica si affianca un’altrettanto grave mancanza di volontà politica in un cantone frammentato in piccolissimi comuni, dove architetti mediocri amano fare il sindaco. E così in Ticino non si
fa urbanistica, ma si continua a espandere la distesa della Città diffusa. Invece di
criticare questa situazione, architetti come Aurelio Galfetti esaltano come espressione della vita contemporanea la proliferazione suburbana che si estende lungo
l’autostrada dalle porte di Como fin quasi al Gottardo.
Ultimamente in questo mare di case informi si sviluppano però alcuni nuclei di
cristallizzazione come il max Museo di Durisch e Nolli inaugurato nel 2005 a Chiasso. Nello stesso tempo, Lugano tenta di rinforzare le sue qualità urbane: la rovina
del Grand Hotel «Palace» sarà presto trasformata in un centro con museo d’arte,
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teatro e sala concerto su progetti di Ivano Gianola; ed è in corso la valorizzazione urbanistica secondo le idee di Gino Boila ed Enzo Volger della zona intorno
al porto turistico alla foce del Cassarate. Galfetti ha di recente saputo realizzare,
sempre a Lugano, un masterplan esemplare per il nuovo campus dell’università. Ne
ha affidato la costruzione – a eccezione dell’Aula Magna ideata da lui e da Jachen
Könz – ad architetti più giovani, come Giorgio e Michele Tognola oppure Giraudi e
Wettstein. Si è così realizzato un luogo in cui la nuova architettura ticinese potesse
manifestarsi nella sua attuale varietà espressiva in modo analogo a quanto accaduto un tempo con l’architettura della Tendenza nel programma edilizio scolastico
degli anni Settanta.
Costruire in situazioni ristrette
Non sono dunque gli esponenti della Tendenza, di fama internazionale, a rappresentare un ostacolo per le nuove leve. In un paese piccolo, che solo raramente ha
incarichi di prestigio da assegnare, esse soffrono piuttosto dei complessi equilibri
politici, economici o sociali, che hanno già intralciato lo sviluppo della generazione
di mezzo. Perciò solo di rado ci si imbatte in edifici che illustrano un proseguimento
critico degli ideali della Tendenza mediante l’essenziale minimalismo di Cavadini e
Michele Arnaboldi, il rigore ascetico di Roberto Briccola o il razionalismo raffinato
dei fratelli Tognola.
Senza dubbio anche i giovani ticinesi si sentono radicati nel loro cantone: ma non
vogliono più parlare di costruire in situazioni ristrette. Come i loro colleghi più anziani, hanno studiato per lo più all’ETH di Zurigo. Ma mentre questi tentarono di
trasferire il più rapidamente possibile alla propria situazione il discorso architettonico italiano un tempo dominato da Aldo Rossi, essi hanno fatto la loro esperienza
dopo la laurea tra Siviglia e Tokyo. Finora, tuttavia, solo pochi ticinesi hanno messo
radici fuori dalla loro patria: il primo è forse stato il locarnese Eraldo Consolascio,
oggi cinquantottenne, che insieme a Marie-Claude Bétrix ha realizzato da Zurigo
importanti edifici a Salisburgo, ma anche nella Svizzera tedesca. E dopo di lui Andrea Bassi è andato a Ginevra e Massimo Scheurer e Michele Tadini a Milano. In
quanto membri di Arassociati, Scheurer e Tadini hanno lavorato a progetti come
il Tiscali Campus a Cagliari; e proprio adesso è in via di completamento a Zurigo
una zona residenziale da loro concepita, fortemente influenzata dal loro maestro
Aldo Rossi e dai solenni palazzi milanesi del Novecento di Muzio e Portaluppi. Più
leggero e sereno risulta invece il minimalismo di Andrea Bassi, come illustrano non
solo diverse eleganti ville vicino a Ginevra e nel Ticino, ma anche nuove opere più
importanti, come la variopinta scuola elementare di Neuchâtel, rivestita di pannelli
traslucidi in materiale plastico.
Dopo gli studi, tuttavia, quasi tutti i colleghi di Bassi, Scheurer e Tadini hanno fatto
ritorno in Ticino. Sono infatti convinti che qui, grazie alla loro conoscenza della
situazione e alle loro relazioni, avranno la possibilità di ridare impulso alla cultura
architettonica. Hanno senza dubbio familiarità con i temi trattati dalla Tendenza
– dal dialogo critico con il territorio, all’idea di costruire la località e al percorso
problematico tra «poesia e maniera» –, ma, nel costante confronto con il dibattito
attuale, la loro espressione architettonica si è fatta più raffinata, più internazionale
e più anonima, pur continuando ad attribuire grande importanza all’integrità del
calcestruzzo a vista. In ogni caso hanno difficoltà a creare un linguaggio che sia
all’altezza della Tendenza ma adeguato alle ultime correnti architettoniche, anche
perché il loro campo di attività è sovente ridotto alla commessa privata, che si
esaurisce per lo più in ristrutturazioni o nella realizzazione di ville.
La costruzione di villini nell’angusto Ticino accelera la distruzione del paesaggio,
ma porta anche sempre a soluzioni interessanti. Basti citare l’essenziale corpo in
calcestruzzo di Casa Grossi, portata a termine nel 2004 a Monte Carasso, dove
Giacomo e Riccarda Guidotti hanno saputo rendere drammaticamente l’equilibrio e
al tempo stesso sviluppare in modo brillante le conseguenze delle idee di Snozzi.
In un mondo globalizzato in cui l’architettura può farsi ascoltare quasi solo attraverso opere spettacolari, con miniature simili diventa però sempre più difficile anche
solo essere notati. Soprattutto quando un’architettura dominata dal divismo non
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lascia quasi più spazio a posizioni che si confrontano con le particolarità storiche,
topografiche o architettoniche di un territorio.
Grazie a uno scambio di idee promosso dai media e alle possibilità che il computer
offre nella progettazione, un nuovo tipo di internazionalismo emerge dunque anche qui – come in tutte le roccaforti del regionalismo, dalla Catalonia alla Svizzera
tedesca e alla Stiria. Esso si esprime ora in forme edilizie piegate cubisticamente
o che fluiscono in modo organico, nelle quali ci si imbatte sempre più di frequente
anche nella Svizzera meridionale accanto alle rigide case di cemento tipiche, per
esempio, dei Guidotti. Ne consegue che l’architettura ticinese si distingue sempre
meno da edifici realizzati altrove. In casi come l’opera di Giorgio e Giovanni Guscetti, questa evoluzione è evidente: mentre nella loro realizzazione del centro di Airolo,
accentuata da una torre severa, quasi romanica, echeggiano riflessioni urbanistiche di Snozzi, la torre da roccia ricurva, che spunta come un periscopio dai prati di
Ambrì, testimonia un’apertura in senso internazionale.
zante definizione «Architettura di Passaggio». A ciò si aggiunge, di pari passo con
un’apertura a dibattiti internazionali, la predilezione per il calcestruzzo, che si manifesta da Arassociati come struttura razionalista, da Buzzi e Buzzi o da Giraudi e
Wettstein come scultura minimale e da Durisch e Nolli come rapporto tra struttura e
spazio. L’aspirazione alla semplicità, che un tempo aveva un fondamento etico, pare
cedere sempre più a una nostalgia di bellezza e di glamour. Come altrove, tuttavia,
anche in Ticino l’architettura è in evoluzione. È dunque lecito essere curiosi di come
la prima generazione di architetti formati all’Accademia di Mendrisio risponderà a
questo estetismo architettonico.
Traduzione a cura di Francesca Gimelli
Immagini e atmosfere
Si nota che per gli architetti ticinesi la massima virtù non è più un atteggiamento
intransigente. E nello stesso tempo hanno preso le distanze dalla mentalità da
tabula rasa della vecchia guardia. Lo mostra per esempio la restaurazione di una
casa medievale di pietra eseguita da Durisch e Nolli a Mendrisio. Con l’idea del
luogo, la sua storia e la sua atmosfera, questi architetti di Lugano si sono poi confrontati anche nel progetto del Max Museo a Chiasso, ricavandone un’architettura
delle immagini e delle atmosfere. Anche Buzzi e Buzzi di Locarno hanno esercitato
la costruzione nella continuità, integrando una struttura in legno minimalista nel
cadente involucro esterno di un rustico. Ma in una delle loro ultime progettazioni,
una casa a Ronco sul Lago Maggiore, inserita nei vecchi muri a secco e cubisticamente tortuosa, hanno trovato un linguaggio formale sorprendentemente alla
moda. Lo padroneggia anche il luganese Luca Gazzaniga, come dimostrano, nel
segno del dibattito architettonico attuale, i suoi progetti di Davos o la casa Cedrini
di Muzzano, pervasa da aperture organiche. Le sue ville squadrate sono collocate
nel verde come mobili eleganti, quasi che volesse con questo respingere le «forme
forti» diffuse dalla Tendenza.
Radicata nel paesaggio e da esso ricavata è invece la nuovissima abitazione di Giraudi e Wettstein sul versante ovest del Monte Brè a Lugano. Questo grazie a quel
raffinato gioco di linee, ora geometrico, ora libero, che distingueva già il loro nuovo
edificio dell’università di Lugano e la Passerella della stazione ferroviaria di Basilea
concepita insieme a Cruz e Ortiz, e sviluppato ulteriormente nel loro progetto vincitore del concorso per la ristrutturazione della facciata principale del Palazzo dei
congressi di Lugano. Questa convincente opera, come altri progetti di concorsi in
Ticino, attende però ora l’attuazione. In altri grandi concorsi, come quello del Centro
Turistico Culturale di Ascona o della ricostruzione dell’area Campo Marzio a Lugano, i giovani studi ticinesi non sono tuttavia neppure riusciti ad affermarsi.
Estetismo architettonico
Da tutti questi edifici e progetti risulta chiaro che la nuova architettura ticinese non
conosce una linea unitaria, né sotto il profilo programmatico né sotto quello formale. Ciò non sorprende, perché già all’epoca della Tendenza i singoli protagonisti
coltivavano un proprio linguaggio, solo che allora vi si sovrapponeva un atteggiamento sociopolitico combattivo. Tra i giovani ticinesi è tuttavia possibile individuare
anche delle affinità. Per loro – diversamente che in Italia, dove il dibattito teorico
svolge ancora un ruolo importante – la pratica continua a essere centrale. Inoltre,
hanno trasformato l’architettura della ribellione in un’architettura delle sensazioni e
delle atmosfere, in cui confluiscono fantasia mediterranea, razionalità latina e una
funzionalità e accuratezza nei dettagli di ispirazione svizzerotedesca.
Se oggi si parla dunque ancora di un’architettura ticinese, lo si fa in primo luogo riguardo a questa mescolanza di atteggiamenti cisalpini e transalpini e dello
scambio di idee tra nord e sud, per il quale Alberto Alessi ha saputo trovare la cal22
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Interviste
Arassociati
Milano
Andrea Bassi
Ginevra
Buzzi e Buzzi
Locarno
Durisch+Nolli
Lugano
Luca Gazzaniga
Lugano
Giraudi-Wettstein
Lugano
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Arassociati
1. Come definite l’architettura? Cosa vuol dire fare architettura oggi?
L’Architettura è un bene collettivo ed è un’espressione culturale di una società.
Ci piace perciò pensare che, per quanto difficile oggi possa essere definire qualsiasi cosa in modo univoco, siano ancora valide quelle definizioni lasciate dai “maestri” e ci poniamo in continuità con quelle proprio perchè crediamo nell’Architettura
che parte dalla costruzione di un’idea, di un edificio, di un luogo.
Possiamo quindi definire l’Architettura come testimonianza di un’umana presenza
descritta e localizzata nell’attualità della storia e nella spazialità della geografia,
badando però al suo fine principale che è quello di emozionare.
Per fugare qualsiasi dubbio per emozione intendiamo non tanto quella ricavata
dagli effetti speciali, oggi abbastanza di moda, ma quella ritrovabile nella capacità
di riconoscere i valori ed i sentimenti umani.
E’ proprio in questo senso forse che va interpretata la seconda parte di questa
domanda; ponendola sul fatto emozionale. Che cosa può essere lecito e fino a che
punto coinvolgere l’Architettura con altre arti o viceversa ricercare sempre una separazione dei campi. E’ obiettivamente difficile dare una risposta perchè i linguaggi
si sono moltiplicati e nello stesso tempo impoveriti di precisione nel significato del
loro vocabolario. Oggettivamente questo porta ad una difficoltà di comprensione
ma ciò non vuol dire che non ci sia una possibilità di comunicazione, anzi. Per
essere capiti chiaramente perciò oggi bisogna fare uno sforzo di concisione e di
semplificazione.
Per il resto pensiamo che tutto sommato nell’Architettura i principi Vitruviani, più o
meno, siano rimasti inalterati e regolano ancor oggi gli aspetti della progettazione
mentre sono cambiati i valori che ad essi attribuiamo e questa è la ragione per
cui costruiamo più liberamente ed usiamo più materiali di un tempo. Ma oggi più
che mai per gli architetti la discriminante maggiore sta nella “Venustas” o nella più
malleabile “Concinnitas” dell’Alberti ovvero nel rapporto etico ed emotivo con il
decoro e la bellezza.
2. Esiste un’architettura ticinese? In che senso se ne può parlare?
Cosa la caratterizza?
Ci sembra che le domande implichino naturalmente un sì, ma sarebbe riduttivo
qualificare con aggettivi di luogo le caratteristiche di un architettura.
Esiste un’architettura dei “luoghi forti” a cui certamente appartiene il Ticino e che
non è solo circoscritta ad un ambito cantonale. Piuttosto è interessante capire le
piene potenzialità di un luogo forte di carattere ed in grado di essere nel contempo
limite e tramite di culture diverse proprio per mezzo della propria identità ed esperienza; viceversa è facile ricadere in un ambito vernacolare e di tradizionalismo, non
trascurabile in quanto esistente ma che può risultare davvero limitante.
E’ una differenza sostanziale, perchè molti sono i luoghi ma pochi hanno la capacità
di avere una cultura d’influenza in grado di conservare i valori locali essendo aperta
a quelli universali. Pensiamo ai porti di mare, alle isole, ai valichi o alle valli aperte.
Nel caso del Ticino il limite geografico e morfologico spinge al superamento di se
stesso proprio facendosi tramite di una congiunzione di punti e d’idee. Gran parte
delle manifestazioni della cultura ticinese, quindi anche l’architettura, superano la
stanzialità del localismo e diventano luogo di confronto di idee e mondi tra loro
diversi, come quello germanico e latino, ma uniti da molti valori e quindi modi di
intendere le cose.
Un esempio di questa vitalità è il Festival del Cinema di Locarno che nel tempo ha
promosso una sua identità vivace ed indipendente inserita nel contesto più allargato delle rassegne di Berlino, Cannes e Venezia.
In quest’ottica si colloca storicamente la matrice comune della scuola politecnica,
il Politecnico di Zurigo e quello di Milano ed ora nell’Accademia di Mendrisio, in cui
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l’influenza prevalente è quella umanistica della costruzione: costruzione di un’idea,
costruzione di un edificio, costruzione di un territorio.
Questo carattere è anche un “modus operandi” universale ma fortemente radicato nell’architettura ticinese ed in grado di dare continuità o addirittura di essere
esportato.
In una visione positivista quindi si potrà sempre parlare di un “modo ticinese”, magari inevitabilmente eterogeneo, ma mai di uno “stile ticinese” perchè nella natura
dei luoghi di passaggio la trasformazione è continua.
3. Nuova, stabile, confortevole, condivisa, riconoscibile, eccitante, bella,…
A quali valori e obiettivi fate riferimento nel vostro fare architettura? Perchè?
Prima di essere architetti siamo individui; premettiamo perciò che, così come per
capire il comportamento degli individui vale conoscere la loro esperienza maturata
nella famiglia d’origine, anche per gli architetti rispetto il loro vissuto vale l’appartenenza ad una corrente di pensiero ed il senso che loro danno alla continuità.
Questo per dire che pur considerando la vita che scorre e gli inevitabili cambiamenti dovuti ad un rapporto conoscitivo non dobbiamo per forza rinnegare, per smania
di originalità, i principi con cui abbiamo appreso il mestiere.
Innanzitutto siamo un gruppo e la nostra opera vale come risultato del confronto tra
più persone, anche se questo talvolta può rappresentare un cammino più difficile.
Lo studio è composto da due architetti svizzeri (ticinesi), un architetto milanese ed
un architetto triestino, per lungo tempo legati ad Aldo Rossi ed, attraverso la sua
esperienza, alla scuola di Tendenza a cui egli apparteneva.
La nostra formazione però, passa anche attraverso altre influenze dettate proprio
dalle nostre origini. Una sorta di melting-pot di interessi, riferimenti, città e architetture uniti da affinità elettive, oltre che da un grande maestro, e che come obiettivo
principale hanno la ricerca del moderno attraverso la continuità.
Rifacendoci alla prima risposta, il nostro atteggiamento non può prescindere da ciò
che l’Architetto è; quindi per quanto forte possa essere la sua creatività o anche il
suo ego personale non deve mai dimenticarsi che costruisce per gli altri e non per
se stesso. Lavorando in un gruppo questo principio viene di continuo ricordato ed
è un punto di partenza da non sottovalutare. Ancor più, lavorando spesso in contesti internazionali, per noi è importante allargare questo confronto anche con altri
architetti e gruppi di progettazione.
Si può intuire quindi fin dalla prima risposta che il nostro è un atteggiamento abbastanza riluttante alle mode del momento ed allo stesso tempo attento a capire la
contemporaneità sebbene ciò può significare rimanere un po’ ai margini o pagare
un pegno in termini di popolarità. Insomma non ci interessa essere originali per
forza ma intuire la strada che permette di dare origine o riconoscere l’origine di una
cosa attraverso il fare architettura.
Ecco, il pensare l’architettura come un tramite è un’altro principio irrinunciabile.
Testimoniare non vuole dire solo ammonire o accusare, significa anche portare un
annuncio, una promessa: essere ambasciatore piuttosto che teste; in modo da promuovere un dialogo all’interno delle tante influenze che i temi ed i contesti oggi
propongono. Rimane implicito che per stabilire un buon rapporto di dialogo il modo
migliore è quello di saper vedere ed ascoltare.
Ecco perciò la necessità di aderire a strumenti con cui promuovere questo dialogo:
il rapporto con la città ed il territorio, le forme ed idee analoghe, la modificazione
dei tipi riconosciuti, l’adeguatezza del materiale come introduzione ad un linguaggio possibile. Sono tutti termini che infine ricadono in quel concetto generale individuabile nella “costruzione”, nel quale nonostante le implicite differenze tutti noi ci
riconosciamo, almeno finché saremo sottoposti alle leggi fisiche di questo mondo.
La nostra non vuole essere l’utopia dell’esperanto e nemmeno l’imposizione di un
idioma sugli altri: in tempi di “globalizzazione” ci interessa lavorare su una visione
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che permetta di riconoscere dei valori universali attraverso l’incremento del valore
dato dall’unicità dei singoli luoghi e dei temi. Perciò nei progetti cerchiamo un confronto con pochi ma chiari elementi lasciando la porta aperta a successive modificazioni o progetti complementari di altra natura. Nella casa unifamigliare di Cagliari, fortemente legata al contesto storico e morfologico, è stata fatta propria la
varietà delle viste panoramiche per promuovere la frammentazione del volume monolitico in pietra con una progressiva differenziazione degli ordini loggiati. La casa
insomma riporta nella sua architettura le trame ed i segni della città, interpretando
il tema di un luogo unico fatto per vedere ed essere visto. Un tema completamente
opposto, sempre a Cagliari ma di un contesto assolutamente libero di una zona di
nuova urbanizzazione in cui il piano orizzontale è prevalente, è stato da noi trattato
tramite il progetto del nuovo Campus di Tiscali proponendo una lettura analogica
della città di fondazione con edifici in cui il ritmo implica la modificazione tipologica
e la mutua partecipazione per rendere diverso il carattere degli spazi. Edifici come
navi arenate sulla spiaggia, attraversate da percorsi preordinati ed integrati da un
programma complementare di landscaping-art utile a dare significato contemporaneo al paesaggio sardo.
Viceversa nel concorso per la riqualificazione urbana dell’Area Müller-Martini a Zurigo è stata la città esistente a fornire la regola di costruzione perchè il tema predominante da noi individuato è stato quello derivato dalla capacità ordinatrice della
struttura urbana ottocentesca esistente modificato nella sua tipologia. Lo spazio
interno degli alloggi è stato esteso all’esterno nelle corti dell’isolato tramite un
architettura aperta fatta da loggiati che si contrappone a quella austera della città
lungo i suoi fronti pubblici.
Di questi esempi è chiaro l’intento propositivo e rispettoso nel contempo del carattere delle preesistenze; questo atteggiamento pensiamo sia riconoscibile anche in
progetti e temi tra loro molto diversi per localizzazione, tipo di costruzione ed usi
ma che come intento comune hanno quello di non essere autoreferenziali richiudendosi in se stessi.
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Andrea Bassi
1. Come definite l’architettura? Cosa vuole dire fare architettura oggi?
Il mio sguardo sull’architettura cerca la continuità. Penso alla percezione come lo
strumento di lettura di un’opera e sono convinto che il nostro mestiere sia un lungo
percorso al quale solo una ricerca paziente e personale può dare un senso.
Il campo dell’architettura mi sembra diventare sempre più denso, non per forza più
vasto. La questione centrale di concepire degli spazi per l’uomo resta immutata.
Lo spessore culturale si estende senza interruzione ed ho il sentimento che solo
l’accettazione di un’attitudine di umiltà, di concentrazione e d’intendere il proprio
pensiero come un punto di vista specifico sia possibile. Quello che conta è cercare
la profondità del proprio percorso, le regole della percezione, quelle della forma
prima del segno, costituiscono lo sfondo collettivo indispensabile.
Gli strumenti che utilizzo per costruire mi paiono convenzionali. Credo nelle qualità
intrinseche di un sito, non solo vi riconosco le prime informazioni per il progetto
ma anche desidero un dialogo critico, spesso in una forma di riconciliazione. Cerco
sempre di interpretare il programma funzionale di un edificio per dargli un senso
contemporaneo. La forza del volume, la forma forte, sono per me indispensabili all’architettura. Gli spazi che dobbiamo creare sono meno una questione di tipologia
e forse più di carattere. La questione della costruzione è centrale e intimamente
legata a quella della materialità, anche in questo caso la verità costruttiva mi pare
meno interessante di un’accettazione della complessità del processo edificatorio.
L’ultimo strato in superficie, la pelle, è l’elemento determinante per forgiare il carattere, la Stimmung, l’atmosfera di un edificio. Cerco sempre una dimensione concreta e tangibile delle cose utilizzando gli strumenti specifici del costruire. Desidero
restare il più vicino possibile al reale. La soluzione elegante e idealmente poetica è
ciò che intimamente sogno di raggiungere.
Quando progetto faccio sempre riferimento ad un’idea di urbanità. La città, l’agglomerazione, il territorio, il paesaggio fanno da tela di fondo. Penso sempre ad
una forma di densità, di generosità e di calma proprie alle architetture a mio senso
urbane.
Progettare è per me un percorso non lineare. Le cose e le idee hanno un rapporto
di distanza e autonomia, meno di causa a effetto, dove la ragione si confronta con
l’emozione. “Le idee sono alle cose quello che le costellazioni sono ai pianeti”, è un
aforisma di Walter Benjamin, citato da Alessandro Baricco, in cui credo profondamente. La nozione di distanza e di autonomia delle parti vi è intrinseca come quella
di un oggetto concreto confrontato con un insieme leggibile solo da un punto di
vista specifico. In questo senso la ricerca paziente ed intima permette di resistere
ad una realtà generale sempre più rapida e forse precipitosa.
2. Esiste un’architettura ticinese? In che senso se ne può parlare?
Cosa la caratterizza?
Mi sembra difficile pensare ad un’architettura ticinese. Preferisco il momento della
ricerca aperta a quello della consacrazione e penso che attualmente la nuova architettura ticinese si situi in un periodo di ricerca. Come per la generazione passata mi sembra di riconoscere, fra gli architetti, diverse ricerche personali piuttosto
che delle attitudini comuni ad un gruppo di pensiero. Non siamo una generazione
direttamente dipendente dalle ricerche della « tendenza » ticinese, anzi penso che
le esperienze dell’architettura svizzero-tedesca ci siano più vicine. Appunto in questo senso la dimensione fenomenologica, cioè della percezione e in particolare
gli scritti di Martin Steinmann, mi sembrano più pertinenti che la questione di un
regionalismo critico o di un razionalismo storico. Effettivamente mi riconosco nella
tendenza ticinese piuttosto per la volontà di costruire un luogo e magari nel fatto
di riconoscere che l’architettura sono le architetture (A. Rossi), dunque la volontà di
concentrarsi innanzitutto sulle regole proprie alla disciplina.
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Buzzi e Buzzi
3. Nuova, stabile, confortevole, condivisa, riconoscibile, eccitante, bella,…
A quali obiettivi fate riferimento nel vostro fare architettura? Perché?
L’utilizzo di aggettivi mostra la dimensione fenomenologica alla quale oggi mi sembra che la nostra generazione, e molta critica architettonica attuale, facciano riferimento. Mi sembra che i progetti presentati si orientino spesso verso una soluzione
elegante, sia volumetricamente che per gli spazi o i materiali. Tendenzialmente
precisa piuttosto che radicale.
I progetti mi sembrano avere un’attitudine ottimista, dunque piuttosto positiva,
non mi paiono come architetture ciniche o dure. Vi trovo spesso una dimensione
sensuale e tattile piuttosto che razionale e astratta. Le architetture presentate mi
paiono essere relativamente condivise, non consensuali né reazionarie, trattano
di concetti, o meglio idee, concrete piuttosto che astratte. Sono sempre progetti
eminentemente contemporanei che trovano le proprie radici nella realtà concreta e
non nella storia ufficiale o nella tradizione vernacolare.
Vorrei fare un’architettura che si indirizzi a colui che la abita, creare degli spazi che
abbiano un valore d’utilizzo ma anche un carattere preciso apprezzabile anche e
soprattutto dai non professionisti. Come un grado zero del messaggio o meglio
un messaggio collettivo. Desidero ritrovare una forma di riconciliazione con il nostro habitat. La città moderna alla quale apparteniamo è molto giovane, penso che
oggi si possa allontanarsi dai dogmi degli esordi per riavvicinarsi alla realtà che ci
circonda, cercare di capirla e di costruire un dialogo positivo. La nozione di città diffusa mi sembra interessante poiché sembra tematizzare il bisogno di una risposta
specifica ad ogni progetto.
Quando progetto cerco innanzitutto di costruire un luogo, l’oggetto costruito fa parte di questa globalità.
Credo nella contemporaneità, vorrei che i miei progetti siano estremamente ancorati al loro tempo. La storia ci aiuta a capire le questioni attuali ma non a dare
delle risposte. Il lungo momento del progettare è sempre rivolto al presente, mai
ai fantasmi del passato.
1. Come definite l’architettura? Cosa vuole dire fare architettura oggi?
Se all’ inizio, come dice Luciano Fabro, “un’attività professionale nasce da una spinta emotiva” - frutto della nostra esperienza personale - che man mano organizziamo
dandogli un senso, alla fine nell’opera questa emotività scivola in secondo piano,
nell’architettura permangono solo concetti e motivazioni, linee e volumi, materiali.
In questo processo, non ci possono essere regole né convenzioni che garantiscano
il risultato, ma bisogna continuamente sperimentare per dare spessore, per dare
ragione al proprio lavoro.
Ogni progetto nasce per noi da questa costante ricerca di ridefinizione del ruolo
dell´architettura nel contesto contemporaneo: il contesto materiale – il sito e il suo
territorio-, ed il contesto immateriale – le idee, la storia, la società, l’economia ecc..
Un metodo di lavoro non può che nascere dalla relazione con questi due contesti e
da una visione personale dello stato delle cose.
Anche se non è facile dare una risposta coerente a questo contesto ibrido e complesso, questa sfida ci appassiona.
Progettare significa per noi porsi delle domande e tentare una risposta per forza di
cose non definitiva, ma che evolve con il tempo, insieme agli errori ed ai successi.
Significa sperimentare, non fermarsi mai, condividere queste emozioni con chi assieme a noi costruisce: i committenti, gli artigiani, i collaboratori.
I tempi, i luoghi, le persone evolvono; ma ci sono delle certezze che rimangono.
Tra queste certezze crediamo vi sia il materiale stesso dell’architettura, cioè la costruzione, che é poi quello che “si vede”. Infatti la scelta della costruzione di un
edificio, il suo materiale e la sua struttura, hanno un’influenza diretta sull’atmosfera
dei suoi spazi. Il nostro lavoro parte quindi da quest’esperienza diretta, immediata:
dalla percezione del carattere emozionale degli edifici, dalle associazioni che noi
tessiamo con le loro forme ed i loro materiali. A tale proposito non desideriamo
né creare “sensazioni”, né predeterminare la reazione dell’individuo nei confronti
dell’edificio.
Ci piace infatti pensare che gli spazi che creiamo ammettano una molteplicità di
situazioni, di significati, che siano spazi che permettano all’uomo di interpretarli,
lasciando un margine alla vita di svilupparsi in libertà.
In questo senso prediligiamo confini fluidi tra gli spazi e tra interno ed esterno, la
precisione del dettaglio ed un uso controllato e giocoso dell’imprecisione, la giustapposizione di grezzo e raffinato.
Anche se apparentemente produciamo un’architettura essenziale, perseguiamo in
realtà un’architettura concreta, complessa e riccamente associativa.
2. Esiste un’architettura ticinese? In che senso se ne può parlare?
Cosa la caratterizza?
L´architettura ticinese esiste nella misura in cui essa nasce in uno specifico contesto geografico e culturale.
Ticinese - se per ticinese si intende un’architettura derivata dagli epigoni della Tendenza - è relazionarsi con il sito, premessa dalla quale “costruire un luogo” ed
orientare i progetti ad un consumo estetico del paesaggio quale scenografia di
riferimento.
Amiamo però una certa decontestualizzazione della forma forte affinchè i nostri
progetti non si integrino completamente in un contesto preesistente: fare architettura significa implicitamente modificare, porre dei limiti, creare delle distanze,
generare un nuovo equilibrio.
I nostri progetti cercano così di interpretare il luogo, facendo emergere quanto
sia unico e specifico, accettandone e rafforzandone il carattere eterogeneo. Perseguiamo un’architettura alla costante ricerca di un equilibrio tra inserimento nel
contesto periurbano ed espressione di autonomia, tra inclusione di strutture, forme
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del passato e riscrittura di un vocabolario contemporaneo. Un’architettura-paesaggio che integri e includa la natura, che sia come lei ricca e complessa.
La nostra architettura non pone quindi il territorio come tela di fondo, ma cerca di
integrarlo nel suo dna. Il trattamento espressivo e sensuale dei materiali - spesso
evocativo di atmosfere del luogo - contribuisce all´intreccio di una stretta relazione
con il territorio. In tal senso ci piace pensare all’architettura come una trama, una
tessitura che dialoga con la terra, con la città.
Questo atteggiamento empatico verso il paesaggio, la città e la sua periferia accompagna il nostro percorso evolutivo e ciò si capisce facilmente conoscendo la
nostra educazione formativa nel contesto scolastico e lavorativo zurighese e giapponese.
3. Nuova, stabile, confortevole, condivisa, riconoscibile, eccitante, bella,…
A quali obiettivi fate riferimento nel vostro fare architettura? Perché?
Il territorio si sta trasformando in un un grande parco a tema, un Disneyland planetario: architetture di marca facilmente riconoscibili, di stile o meglio di lifestyle
(neomoderna, neorganica, neopop, neopalladiana, neorurale, neoneo, …), e le loro
copie vengono calate sull’intero territorio mondiale senza relazione con il luogo.
Spesso anche la migliore architettura diventa un prodotto di consumo.
Alla banalizzazione crescente ed all’uniformazione visuale di quest´architettura indifferente, del tipo copy and paste pensiamo si debba rispondere con interventi
specifici, operazioni di agopuntura che sappiano tessere un dialogo con lo spazio
pubblico della città.
Se l’architetto mostra cura per il suo territorio, allora la sua architettura diventa un
momento di qualità non solo per chi vi abita ma per la collettività.
Il continuo e paziente riscoprire nuove - vecchie risposte, mettersi in gioco ogni
giorno per trovare la soluzione adatta, affrontare nuove sfide confrontandosi con
nuovi temi senza voltarsi mai indietro è il motore che ci spinge ogni giorno.
Crediamo nell’architettura, nella sua forza che esprime la primordiale condizione
dell’abitare, nella sua capacità di emozionarci e avvolgerci maternamente.
È il nostro obiettivo sul mondo.
È la tela su cui si scrive la vita quotidiana, il mattone che costruisce la città.
È espressione profonda dell’uomo e del suo habitat, della sua anima e del mondo
che lo circonda.
I suoi piccoli-grandi capolavori sono il frutto di persone mature, in genere alla fine
della loro vita che, consce dei propri limiti e di ciò che hanno intensamente vissuto,
dopo un lungo e faticoso cammino di ricerca sono riuscite a donare qualcosa di immenso dimenticando se stessi, raggiungendo il cuore dell’anima di molte persone,
parlando della natura del mondo. Fare architettura significa immergersi nella vita,
proiettarsi nel presente fino in fondo.
1. Come definite l’architettura? Cosa vuol dire fare architettura oggi?
Architettura è un termine complesso, dai significati molteplici. L’architettura è l’ambiente costruito dall’uomo per le proprie necessità, in contrapposizione all’ambiente naturale. L’architettura risponde ad un’esigenza primaria del uomo, quella di
darsi un rifugio, spazi capaci di rispondere alle sue esigenze, divenute sempre più
complesse col passare del tempo. È la capacità di organizzare lo spazio in cui vive.
Architettura è l’arte del costruire.
Fare architettura significa, ed ha sempre significato, costruire l’ambiente in cui si
vive. Significa intervenire su un equilibrio esistente modificandolo in modo irreversibile. Ogni costruzione comporta un intervento in un determinato luogo e in
una determinata situazione storica. La qualità di un’architettura dipende dalla sua
capacità di creare un rapporto significativo con le preesistenze.
Riteniamo questi concetti universalmente applicabili a tutte le epoche della storia
dell’uomo. Oggi è invece cambiata in modo massiccio, anche solo rispetto agli anni
’70 del secolo scorso, la complessità del contesto nel quale ci troviamo ad operare.
Come contesto intendiamo le condizioni ambientali, sociali,economiche e culturali,
la densità e la complessità del costruito, sopratutto in Europa, le possibilità tecnologiche, le normative, la complessità tecnologica degli edifici.
2. Esiste un’architettura ticinese? In che senso se ne può parlare?
Cosa la caratterizza?
Se parlare di Architettura ticinese significa l’identificazione di uno stile, la risposta,
oggi, non può che essere negativa. Nella seconda metà del secolo scorso, negli
anni ’70 e ’80, molti architetti, anche in Ticino, hanno creato uno stile. Oggi riteniamo il concetto di stile un concetto superato. Un concetto arbitrario, superato dagli
eventi.
Oggi in architettura tutto è possibile, tutto è fattibile. Le tendenze non sono più
regionali, ma globali. In un mondo che si fa sempre più globale, il locale assume un
valore diverso, particolare.
La differenziazione è data dal contesto in cui si opera e in cui si vive, dalle condizioni
quadro. La particolarità del contesto ticinese è quella di rappresentare, usando un
termine insiemistico, un’intersezione tra l’universo mediterraneo e quello germanofono, o come direbbe Loos, tra la cultura mediterranea e quella anglosassone.
Già la “Tessiner Tendenz”, il movimento architettonico che ha fortemente caratterizzato l’architettura degli anni ’70, era scaturita, a nostro modo di vedere, da questa
realtà “biculturale”, riuscendo a coniugare in modo ottimale il pragmatismo e la precisione Svizzera tedesca con la creatività e la fantasia latina. Sono le componenti
essenziali che costituiscono l’Architettura: razionalità e sensualità.
A parte queste considerazioni, pensiamo che stia a chi ci vede dall’esterno valutare
se esista o meno, oggi, una specificità dell’architettura ticinese.
3. Nuova, stabile, confortevole, condivisa, riconoscibile, eccitante, bella...
A quali valori e obiettivi fate riferimento nel vostro fare architettura? Perché?
Riflettere sul nostro modo di fare architettura significa riflettere sul nostro modo
di vivere. Dal 1986 il nostro lavoro è caratterizzato da questo confronto dialettico
che porta a meglio approfondire e giustificare quello che si fa e si progetta insieme. Diversi pensieri si fondono in modo complementare favorendo l‘equilibrio del
progetto.
Di fronte ad un progetto constatiamo nel nostro lavoro due tipi di pensiero che
interagiscono tra loro, facendo scaturire delle immagini.
Il primo è dato dallo sforzo di vedere tutto come novità, assorbendo con l’aiuto
dell’immaginazione tutti gli impulsi derivanti dal luogo e dalle preesistenze, senza
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pregiudizi, come se un determinato problema si affrontasse per la prima volta, con
l’entusiasmo tipico dei bambini.
Il secondo è dato dalla nostra conoscenza professionale che abbiamo acquisito
nel tempo e dai materiali ammassati nella memoria: l’esperienza, l’evoluzione, la
tradizione.
In tutti i nostri pensieri attorno all’architettura ritroviamo la centralità del luogo rispetto al pensiero architettonico. Come luogo si può intendere di volta in volta il
paesaggio, l’edificio, uno spazio, un oggetto, una superficie: il contesto in cui si
interviene.
Alla base di ogni progetto sta il riconoscimento dell’unicità del luogo e la comprensione delle caratteristiche essenziali che lo determinano. Costruire significa
intervenire su un equilibrio esistente modificandolo in modo irreversibile.
Si tratta di cogliere l’essenzialità del luogo per creare un nuovo equilibrio, condensando un’idea, concentrandola e riducendola all’essenziale in modo da formare
una nuova realtà che dia la sensazione di riposare in se stessa, che abbia una
propria naturalezza (“Selbstverständlichkeit”), in modo da ricollegarsi alla memoria
collettiva.
L’applicazione degli stessi criteri architettonici ci porta ad affrontare con lo stesso
spirito i compiti più svariati. La modernità è allo stesso tempo classicità, vale a dire
capace di ricollegarsi ad una memoria collettiva, e quindi alla cultura.
La nostra ricerca consiste essenzialmente nella definizione di equilibri, fatti di contrasti e abbinamenti, su diversi livelli: spazio, luce, materiali, superfici, funzione.
È con queste proprietà specifiche, messe in relazione con immagini e atmosfere
della memoria e del luogo, che cerchiamo di materializzare l’architettura che andiamo cercando.
Con la sovrapposizione sensata e l’intreccio equilibrato di queste proprietà, l’architettura acquista forza e spessore.
Analogamente alle nostre opere, il nostro pensiero architettonico è frutto del contesto nel quale siamo cresciuti e nel quale viviamo e lavoriamo.
Come contesto non intendiamo un’entità legata ad un determinato luogo vissuto,
come il Ticino, i Grigioni o Zurigo, ma l‘intero bagaglio biografico fatto di relazioni,
incontri, impressioni e immagini.
Non può mancare, in questo senso, il confronto con il mondo, con il contemporaneo; come, viceversa, non può mancare il peso del contesto locale.
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1. Come definite l’architettura? Cosa vuol dire fare architettura oggi?
Oggi l’architettura non ha una definizione chiara e unica.
L’architettura è piuttosto un atteggiamento, una strategia, che consiste nella capacità di accogliere e amalgamare cose passate, cose presenti e cose che non sono
ancora state inventate, e farle diventare un progetto. Forse proprio in questa parola
sta tutto il significato dell’architettura, perché di architettura si può parlare solo
quando dietro una realizzazione o un disegno esiste un vero progetto, nel senso
più ampio e profondo del termine. L’architettura non è semplice costruzione, che
generalmente viene fatta ad un livello soddisfacente senza gli architetti. A prima
vista l’architettura non è più la diretta espressione concreta dello spazio di vita
dell’uomo; si potrebbe allora dire che sia inutile. Questo svuotamento in realtà le
dà un nuovo e più importante valore, un ulteriore significato; architettura è fare
diventare culturale un gesto apparentemente spaziale. Pur restando fatto concreto,
materiale, economico, tecnico, oggi l’architettura è dunque per eccellenza un fatto
puramente intellettuale. “Progetto” significa che, prima di essere, “fare” l’architettura è “pensare”; solo cosi si può essere in grado di trattare l’evoluzione della vita,
in un luogo dato e con un programma dato, in maniera plausibile, conseguente e
programmatica. Per fare ciò si deve avere conoscenza e sensibilità per operare
all’interno del vasto inventario di condizioni disponibili, e per essere in grado di
interpretare ogni volta la situazione specifica e portare una risposta più possibile
pertinente e poetica. Gli architetti non sono né tecnici puri (ci sono gli specialisti),
né creativi puri (ci sono gli artisti), ma con la giusta cultura e intelligenza possono
avere un ruolo centrale, quale persona di riferimento e aggregazione del sapere
della scienza e della cultura nella costruzione del nostro futuro.
Architettura può essere allora intesa come la formulazione attuale e concreta dei
bisogni, dei valori, delle aspettative e dei sogni della società e dell’uomo contemporaneo, dunque manifestazione generica e collettiva, ma anche espressione di
aspetti assolutamente unici, specifici e individuali. Lo spazio che oggi la società
lascia all’architetto è poco e preciso, bisogna saperlo riconoscere ed avere le capacità per occuparlo. La prima operazione è dunque quella di cercare e definire il
proprio ruolo nel meccanismo, ogni volta diverso, della progettazione e della costruzione. In secondo luogo bisogna porsi il problema del tema specifico del progetto. Dapprima siamo confrontati con il tema dato dal committente, solitamente
concreto e pragmatico, a cui si deve rispondere in modo accurato e preciso. A volte
si deve avere la forza di mettere in discussione alcuni parametri dati dalla committenza, anche perché spesso esistono delle esigenze e delle aspirazioni nascoste,
e dunque non espresse, che l’architetto deve sapere cogliere, interpretare e sviluppare nel progetto. Questo primo tema può comunque diventare un alibi, perché
ad esso si affianca un secondo tema, reale, profondo, non necessariamente legato
al primo, che l’architetto deve individuare da solo. Questa ricerca è a volte quella
più difficile per l’architetto e importante per il progetto; in pratica è la formulazione
chiara di tutte le problematiche e di tutte le domande a cui si deve rispondere con
l’architettura. Per esempio, legato al luogo o alla funzione, questo tema parallelo di
lavoro è inizialmente nascosto, quasi segreto, ma presto diventa il senso stesso del
progetto, e sarà decisivo per la sua riuscita.
Mi piace credere che ogni luogo possegga una grande quantità di energie che si
manifestano sotto le forme più svariate, fisiche e metafisiche, positive e negative,
leggere e violente. Attraverso l’architettura si può scegliere di lasciarle continuare
ad esprimersi liberamente, di deviarle o di interromperle; il progetto stabilisce un
nuovo equilibrio delle energie di un luogo. La connessione dell’uomo con queste
energie è la sua percezione, positiva o negativa, dell’architettura, sia in modo cosciente che in modo inconsapevole. Se fare architettura è dare una nuova carica di
energia a un luogo modificando quella che era la sua vita propria, allora l’emozione
che un’architettura trasmette è data solo in parte dalla sua forma, e va oltre il fatto
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Giraudi-Wettstein
estetico e formale. Fare architettura oggi, ma forse è sempre stato così, significa
soprattutto essere contemporanei del proprio tempo. Nel mondo succedono molte cose, tra le quali bisogna sapere scegliere, grazie a una capacità diagnostica
permanente. Essere moderni significa essere capaci di fare costantemente questa
diagnostica nel modo più attuale e contemporaneo possibile, essere attenti e ricettivi, per trovare un punto preciso tra passato e futuro. Credo che quello che oggi la
società chiede all’architetto è di trovare proprio questo, un equilibrio tra la sicurezza
del conosciuto e lo stimolo del nuovo. Un bilanciamento preciso con da una parte
la valorizzazione del passato e della memoria, la nostalgia e la ripetizione; e con
dall’altra il gusto dell’avventura, il piacere della scoperta, la soddisfazione di creare
nuove connessioni. Apparentemente alcuni progetti sono un lavoro sullo spazio, altri sulla superficie, altri sul materiale, altri sulla struttura, altri sul territorio, altri sulla
forma, altri sulla tecnica, altri sulla luce, o su altro ancora; in realtà tutti i progetti
sono soprattutto un lavoro sull’uomo.
2. Esiste un’architettura ticinese? In che senso se ne può parlare?
Cosa la caratterizza?
Non credo che oggi esista un’architettura ticinese, intesa come un’architettura con
tratti comuni. Sicuramente il concetto degli anni ’70-’80 di “scuola ticinese” oggi
non ha più valore, in quanto l’influenza dei “maestri” che a questa scuola potevano
essere riferiti è dopotutto limitata dalla distanza critica (un paio di generazioni)
e dal fatto che oggi è molto più facile avere riferimenti e stimoli anche da realtà
lontane. Penso che il regionalismo critico di cui parlava Kenneth Frampton a proposito della realtà ticinese abbia lasciato il posto a una globalizzazione culturale; gli
architetti della nostra generazione hanno formazioni, e culture diverse che dipendono dalle loro esperienze personali. Per esempio, nel mio caso, le mie esperienze
all’estero professionali e editoriali hanno avuto sicuramente più influenza nella mia
cultura architettonica, e dunque nel mio fare, che non il vivere in Ticino. Trovo che
in questo senso, il titolo di questa iniziativa “architetture di passaggio” sia appropriato, in quanto il Ticino diventa il “passaggio” o meglio il luogo di stazionamento,
di architetti ognuno un proprio bagaglio culturale. Il fatto di cercare l’apertura verso
l’esterno, che mi sembra che accomuni gli architetti scelti per questa esposizione,
tratto questo d’altronde tipico delle culture “ristrette” come la nostra, è di per sé la
dimostrazione di quanto penso. Il fatto di cercare altrove è in parte dovuto al fatto
che il nostro territorio è fantastico dal punto di vista naturale e topografico ma è
molto carente di sostanza storica e di tradizione di architettura moderna, come
per esempio troviamo in ogni grande città. Come ho detto in precedenza, essere
architetto è prima di tutto accumulare esperienze, non necessariamente specifiche
professionali ma anche semplicemente di vita, dunque ci sono anche piccoli fatti,
casuali incontri, e brevi esperienze, ovviamente uniche e personali, che diventano
significative. Capita che mi senta architettonicamente più vicino a colleghi lontani che non a quelli della porta accanto, forse perché i problemi che l’architettura
deve risolvere sono generalizzabili, anche se è innegabile che il fatto di lavorare e
vivere principalmente in un luogo è motivo di affinità tra architetti, soprattutto nel
modo di lavorare, che dipende dalla realtà in cui si opera, più che per pura cultura
architettonica.
3. Nuova, stabile, confortevole, condivisa, riconoscibile, eccitante, bella...
A quali valori e obiettivi fate riferimento nel vostro fare architettura? Perché?
Rispondo con una frase di Karl Kraus:
“Chi aggiunge parole ai fatti deturpa la parola e il fatto. Quelli che non hanno nulla
da dire, poiché il fatto non ha parola, continuino a parlare. Chi ha qualcosa da dire
si faccia avanti e taccia”.
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1. Come definite l’architettura? Cosa vuole dire fare architettura oggi?
L’architetto oggi è confrontato soprattutto con la complessità. E’ fondamentale
comprendere le priorità di questa complessità alla ricerca del reale significato dello
spazio per l’uomo, nuovo o consolidato ma soprattutto mai scontato.
Compito dell’architetto è la ricerca del filo conduttore, oltre ogni vincolo reale, inteso quale anima del progetto. La traduzione formale del proprio pensiero, a cavallo
fra ideali e limiti concreti, converge in una sintesi che porta l’architettura a raggiungere la propria autonomia nei confronti della complessità, a fare apparire semplice
ciò che fondamentalmente è complicato.
Nel nostro primo approccio all’architettura abbiamo ascoltato le parole di Louis
Kahn legate all’ordine inteso quale forza creativa. Abbiamo fatto nostro il termine
“silenzio”, quale momento all’origine di tutte le manifestazioni artistiche, quale momento di gioia che precede ogni pensiero espressivo. Ci interessa il paragone con
le composizioni musicali di Mozart, pure progetti, esercizi di ordine intuitivo.
Nel lavoro concreto abbiamo approfondito la stretta relazione che esiste fra ordine
e creatività. Ci piace cercare in ogni realtà che ci circonda la sua matrice d’ordine
come ci interessa introdurre e provocare nuove relazioni in risposta a problemi
concreti.
Desideriamo credere che un disordine apparente può a volte celare delle percezioni molto intense e determinanti.
L’architettura è una continua sperimentazione, una costante ricerca delle emozioni
che animano lo spazio dell’uomo.
Ci piace un pensiero di Alejandro de la Sota quando scrive: “è più importante quello
che si vuole dire e non come si scrive”.
2. Esiste un’architettura ticinese? In che senso se ne può parlare?
Cosa la caratterizza?
L’architettura ticinese, in virtù di “tendenza”, è esistita marcando le generazioni che
ci hanno preceduto. Il pensiero comune che legava le figure principali del movimento aveva una base solida e determinante nell’approccio al progetto. Questa base è
sicuramente parte del nostro bagaglio culturale anche se il nostro modo di lavorare
e di esprimere un pensiero architettonico è autonomo. Nel nostro cammino, in un
mondo culturale senza confini, fondato sulla mobilità e su un’informazione diffusa,
ci siamo confrontati con più esperienze anche oltre confine o basate su priorità
differenti. Il nostro approccio al progetto, a lato di ricerche individuali in continuna
sperimentazione e appartenenti a ogni architetto, è quindi il risultato di una ricerca
plasmata da stimoli legati a esperienze più singole e eterogenee. Il processo personale di elaborazione di queste esperienze, differente per ognuno di noi, porta
inoltre a manifestare un maggiore individualismo.
3. Nuova, stabile, confortevole, condivisa, riconoscibile, eccitante, bella...
A quali valori e obiettivi fate riferimento nel vostro fare architettura? Perché?
E’ impossibile immaginare un’opera architettonica in perfetta armonia con il contesto e il tempo nella quale si situa. Determinare attraverso un aggettivo il grado di
armonia di questa relazione significa di principio evidenziarne un conflitto dove il
termine che utilizzeremo o sarà generico o eccessivamente specifico.
L’uomo contemporaneo, in una società dove tutto è presente nonché accessibile,
dove regna quindi un disorientamento sia spirituale che culturale, necessita soprattutto di emozioni. L’emozione, nella sua espressione formale radicale e forte, indica
la strada per ritrovare l’equilibrio dell’uomo contemporaneo.
Ci piace parlare unicamente di architettura emozionale, un termine che ci orienta
immediatamente al senso del nostro spazio di vita.
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Profili
Nel nostro lavoro ci interessa trovare il giusto equilibrio fra l’opera architettonica,
con un contenuto specifico da interpretare, e il luogo. Fondamentalmente pensiamo che l’uno diventi parte dell’altro e che in ultimo esista unicamente un luogo
trasformato.
Il luogo è importante sin nei nostri primi pensieri perché può sorprendere anche
senza essere costruito. L’architettura che si inserisce in un luogo deve quindi stupire per come lo trasforma.
L’interpretazione del programma è un altro momento importante del nostro lavoro.
Trasformare in spazi un programma non significa rispondere unicamente a esigenze funzionali. A volte la ricerca del filo conduttore che lega le funzioni, un filo
conduttore non quantificabile o concreto, porta al vero senso dell’architettura.
Ci interessa pura la ricerca della forma, non come fine semplicistico per distinguere
la propria architettura, ma come strumento importante di sintesi dei nostri pensieri
e di tutti gli aspetti coinvolti in un progetto, una sintesi che porta l’architettura a
manifestarsi indipendentemente dai fattori reali, a raggiungere la propria autonomia. La sintesi permette di trovare l’anima del progetto e soprattutto del luogo
trasformato.
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Alberto Alessi
Gian Paolo Torricelli
Alberto Dell’Antonio
Roman Hollenstein
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Alberto Alessi
Nasce nel 1964 a Caravaggio.
Studia architettura al Politecnico di Milano,
laureandosi nel 1989, e perfezionandosi poi all’ETH
Zurigo e all’Ecole d’Architecture Paris-Villemin.
Nel 1995 apre il proprio studio di architettura, lavorando su progetti alle differenti scale di intervento:
dall’allestimento espositivo e museale, alla residenza
pubblica e privata, fino al progetto urbano.
Attualmente sta realizzando due ville sul lago di Lugano. Numerosi progetti sono stati premiati in
concorsi internazionali, pubblicati su riviste ed esposti
in mostre.
Dal 1995 è professore di Progettazione presso l’Istituto Europeo di Design. Dal 1998 al 2004 ha insegnato
presso le cattedre di Progettazione e di Teoria
dell’Architettura dell’ETH di Zurigo, e dal 2005 insegna
all’Accademia di Architettura di Mendrisio.
Attualmente è Visiting Professor alla Cornell University. Ha tenuto conferenze e partecipato a seminari
internazionali in molte università, fra cui Syracuse
University, ETH Zurigo, TU Delft, TU Berlino, Tsinghua
University Pechino.
Le sue pubblicazioni includono una monografia sul
lavoro di Heinz Tesar; un libro-dialogo con Jo Coenen,
e numerosi articoli apparsi su riviste di architettura
quali Domus, Abitare, Trans, Der Architekt, WA. Dal
1999 è redattore della rivista di architettura
Il progetto.
Nel 2005 ha curato Italy now? una esposizione su
quanto avviene in architettura oggi in Italia, tenutasi
presso la Cornell University di Ithaca, NY, e nel 2004
ha ideato a Roma la manifestazione internazionale
Costruire Identità? Architettura, città, musica, parole
negli immaginari nazionali europei.
Ha iniziato le serie di dialoghi internazionali di
architettura MittelArchitetture fra architetti austriaci e
italiani, e Transalpinarchitettura fra architetti svizzeri
e italiani, ed è co-fondatore dell’IsAM Istituto per
l’architettura mediterranea. Attualmente sta curando
Spaziarte, una serie di colloqui internazionali
sul rapporto fra architettura e arte contemporanea.
Vive a Zurigo.
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Gian Paolo Torricelli
Nato a Lugano nel 1957, geografo, dottore (PhD)
in scienze economiche e sociali presso l’Università
di Ginevra, libero docente di geografia (qualificato
come professore delle università presso il ministero
francese dell’educazione nazionale).
Ha insegnato nelle Università di Ginevra, di Buenos
Aires, di Grenoble e di Milano (Università degli Studi),
ateneo di cui è tuttora professore di geografia politica
ed economica.
Dopo il conseguimento del dottorato è stato capo
progetto/direttore aggiunto dell’Istituto di Ricerche
Economiche (IRE – Università della Svizzera italiana),
dove ha coordinato e contribuito alla realizzazione di
diverse ricerche nazionali e internazionali sull’organizzazione territoriale delle aree montane e di frontiera,
in Europa e in America del Sud.
Nel 2002/2003 è stato chiamato a realizzare l’Osservatorio dello sviluppo territoriale, uno strumento di
monitoraggio e controllo delle politiche territoriali, nel
quadro della revisione del Piano direttore cantonale
presso il Dipartimento del territorio del Cantone
Ticino.
E’ autore di numerosi saggi e ricerche di geografia
economica, urbana e dei trasporti, in particolare sulle
regioni montane e di frontiera, e sulla cartografia ed i
sistemi informativi per la ricerca regionale e la pianificazione del territorio.
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Alberto Dell’Antonio
Nato a Trieste nel 1962.
Studia al Politecnico Federale di Zurigo presso le
cattedre di Mario Campi e di Fabio Reinhart.
Si laurea con Fabio Reinhart nel 1988.
Dopo la laurea partecipa a numerosi concorsi nazionali ed internazionali. I suoi progetti sono esposti
in numerose mostre, fra le quali “Analoge Architektur” del 1988 presso l’Architekturforum di Zurigo,
“Paris-Architecture et Utopie, Projets d‘urbanisme
pour l‘entrée dans le 21ème siècle” del 1989 presso
il Pavillon de l’Arsenal di Parigi, “The Modern City in
Europe 1870-1996” del 1996 presso il Museum of
Contemporary Art, Tokyo.
Delle sue recenti realizzazioni fanno parte una villa
con darsena sul lago di Lugano, un edificio abitativo
nel Veneto, uno studio per film digitali a Zurigo e uno
studio di registrazione del Centre Cinématographique
Marocain a Rabat.
Associa all’attività professionale di architetto un’attività
didattica che svolge al Politecnico Federale di Zurigo
presso la cattedra di Ivo Trümpy 1989 - 1992 e
al Politecnico Federale di Losanna presso la cattedra
di Inès Lamunière 1994 - 1996. Dal 1996 partecipa
a seminari e conferenze ed è regolarmente presente
come critico invitato presso diverse istituzioni ed
università, quali l’Architekturforum di Zurigo l’Architekturforum di Friborgo, la Royal Academy of Fine Arts
di Copenhagen, il Politecnico Federale di Losanna,
il Politecnico Federale di Zurigo e l’Accademia di
Mendrisio.
Dal 2003 è docente di Progettazione e di Tecnologia
delle Costruzioni alla Facoltà di Architettura della
Hochschule Liechtenstein.
Tra le sue pubblicazioni figurano articoli e saggi sulle
opere di Takamitsu Azuma, Hans Kollhoff, Miroslav
Sik e Valerio Olgiati.
Vive e lavora a Zurigo.
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Roman Hollenstein
Nato nel 1953, studia storia dell’arte e dell’architettura
all’Università di Berna.
Dopo soggiorni di studio a Roma, Parigi e Londra
e alcuni lavori come critico d’arte e di architettura,
ottiene nel 1983 il dottorato presso Eduard Hüttinger
all’Università di Berna.
Successivamente lavora come Assistente scientifico
presso la collezione del Principato del Liechtenstein a
Vaduz e Vienna.
Dopo una collaborazione volontaria al Kunstmuseum
di Basilea, insegna presso l’Università di Berna e la
Schule für Gestaltung di Zurigo.
Dal 1987 al 1990 dirige la sezione di Storia dell’arte
dell’Istituto Svizzero di Scienze dell’Arte a Zurigo
e cura la mostra “Frank Buchser” presso il Kunstmuseum di Soletta.
Dal 1990 lavora come redattore alla Neue Zürcher
Zeitung di Zurigo, per la quale inizia il supplemento
dedicato al mercato dell’arte e arricchisce quello di
architettura. È responsabile dell’architettura, del
design, della tutela dei monumenti e dell’arte ebraica
e islamica.
Accanto ai testi e critiche per la NZZ, scrive e si occupa di arte del 1800, di arte contemporanea
internazionale e svizzera, di architettura svizzera ed
internazionale contemporanea, di architettura dei
musei, di architettura ebraica ed israeliana.
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ISR -Spazio Culturale Svizzero di Venezia
Campo S. Agnese - Dorsoduro 810
I-30123 Venezia
Telefono +39 041 241 18 10
Fax +39 041 244 38 63
E-mail [email protected]
www.istitutosvizzero.it
Fondazione
Svizzera
per la Cultura
Pro Helvetia
ISR - Centro Culturale Svizzero di Milano
Via Vecchio Politecnico 3
I - 20121 Milano
Telefono +39 02 76 01 61 18
Fax +39 02 76 01 62 45
E-mail [email protected]
www.istitutosvizzero.it
Ufficio Federale
delle Costruzioni
e la Logistica
Istituto Svizzero di Roma
Via Ludovisi 48
I-00187 Roma
Telefono +39 06 481 42 34
Fax +39 06 48 90 40 76
E-mail [email protected]
www.istitutosvizzero.it
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Ufficio Federale
per la Cultura
21.09-28.10.06
Enti Finanziatori
11.05-24.06.06
Istituto
Svizzero
di Roma
Centro
Culturale
Svizzero
di Milano
Spazio
Culturale
Svizzero
di Venezia
16.02-26.03.06
Segreteria di Stato
per l’educazione
e la ricerca
Canton Ticino
Partner
Banca del Gottardo