intervista a vittorio gregotti
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intervista a vittorio gregotti
INTERVISTA A VITTORIO GREGOTTI 39 Nello Luca Magliulo Riflettendo sulla “materia” in architettura e sul rapporto di questa con il reale non poteva mancare il necessario riferimento al pensiero di Vittorio Gregotti che, più di altri, si è soffermato, anche di recente, su tali temi. Ho quindi ritenuto opportuno interrogarlo in proposito ritenendo che la sua opinione possa essere sicuramente utile e preziosa per gli architetti. N.L.M. L’attuale progresso tecnologico mette in gioco materiali sempre più innovativi, e tecniche costruttive sempre più lontane da quelle tradizionali. A ciò si aggiunge la maggiore complessità dei problemi cui devono rispondere gli edifici, per cui sembra venir meno il ruolo dell’architetto in favore dell’engineering. Che l’architetto sia ormai una figura inutile? N.L.M. Lei definisce il suo studio una “officina” e l’idea dell’officina richiama un modo di “fare architettura” molto vicino a quello di un procedimento manuale di modellazione dove l’uso della materia sembra essere un punto fondamentale. Quanto questa idea è presente nel suo modo di lavorare? Quanto resta di questo nella cultura architettonica attuale? V.G. La progressiva lateralità della figura dell’architetto come progettista è dettata soprattutto dai meccanismi economici, finanziari e burocratici sempre più complessi e dall’indifferenza di clienti interessati soprattutto alla possibilità degli usi di mercato dei manufatti ed alla transitoria calligrafia pubblicitaria delle facciate degli edifici. V.G. L’interesse per i materiali è per me di interesse per la loro antichità come elemento dell’opera di architettura in quanto metafora di eternità. Oggi, invece, quello che conta è la novità e la transitorietà, non la durata. L’interesse per il nuovo, e quindi per i nuovi materiali e le loro possibilità sono i benvenuti se sono offerti alla modellazione dell’architettura, non all’esibizione del nuovo. N.L.M. L’atto progettuale oggi sembra spingersi verso il superamento delle geometrie euclidee, anche grazie all’uso di software in grado di sostituire la mano e la stessa immaginazione dell’uomo. A ciò corrispondono nuovi sistemi di produzione che rendono i materiali più flessibili. Non ritiene che ciò abbia mutato anche il senso ed i modi della “costruzione”? V.G. È la solita confusione tra mezzi e fini. Le geometrie hanno costituito nel tempo diverse ipotesi strumentali importanti: nessuna da scartare. Il software è anch’esso strumento utilissimo ma l’immagine dell’uomo ha il compito di scegliere strumenti adatti ai propri scopi, fondamenti, speranze, tentativi ideali che si configurano nel nostro caso come forme dell’architettura. Il software resta uno strumento come il righello o la squadra, non deve diventare un fine ideologico, cioè della propria falsa coscienza. Peraltro senza “software” gli architetti europei del XVIII secolo si sono inventati strutture spazialmente molto complesse. N.L.M. Nel suo libro “Contro la fine dell’architettura”, Lei parla del sottrarsi dell’architettura alle proprie responsabilità di fronte al “reale” a causa di un’eccessiva “estetizzazione”. Non pensa che tale fuga sia dovuta anche alla complessità dei problemi che non rientrano nella scala locale cui si offre di solito la costruzione? Insomma, se l’architettura non modifica il mondo non le resta forse solo il tratto estetizzante? V.G. Il problema della forma delle cose se è dotata di intima necessità ideale non è mai inutile. La sua “estetizzazione” è costituita dal suo asservimento alla cultura del capitalismo finanziario globalizzato ed al passivo rispecchiamento dei suoi valori. N.L.M. Di recente, Maurizio Ferraris, ha scritto della necessità di rivolgersi al “reale” il quale permane oltre le definizioni. Lei è stato membro del “gruppo 63”, con l’attenzione al linguaggio, ed estimatore di Gianni Vattimo secondo cui “non ci sono che definizioni”, tanto che la Sua teoria della “modificazione” è stata riferita al circolo ermeneutico dell’Heidegger vattimiano: ha cambiato idea? Qual è la “realtà” per l’architettura e come vi si manifesta? V.G. Ho scritto di recente sul “Corriere della sera” un commento al libro di Ferarris in cui ho sottolineato che ciò che importa per noi è la costituzione di una distanza critica dalla realtà come un materiale del progetto che ci permetta di passare ad una possibile forma di relazione tra verità, libertà e giustizia. N.L.M. Lei ha avuto esperienze progettuali in Oriente. La cultura orientale è nota per la breve vita che hanno gli edifici a differenza che in Europa dove si è sempre costruito pensando alla continuità dell’architettura nel tempo. L’affidarsi dell’architettura alle nuove tecnologie, le quali conoscono evoluzioni veloci ed il mutevole interesse capitalistico sui suoli possono condurre ad un modello simile a quello orientale, ovvero ad una valenza effimera della costruzione? V.G. Errore; la tradizione della grande cultura cinese (non quella genericamente orientale che ne comprende molte altre diverse) ha un vivo senso del tempo della storia con un’idea di lentezza nelle trasformazioni profonde. L’idea di città e delle regole del suo disegno è durata quasi tremila anni. È solo l’autocolonialismo nei confronti dei valori attuali della cultura occidentale (tecnologia, denaro, provvisorietà, ecc.) che sta corrompendo quella cultura.