Ci è cara questa Repubblica
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Dialoghi01-14-1-71_Dialoghi4/04p1-77 11/03/14 11.31 Pagina 2 EDITORIALE Ci è cara questa Repubblica di Piergiorgio Grassi 2 e cronache dei media hanno registrato negli ultimi tempi fatti di ordinaria follia, di antisemitismo e di perdurante xenofobia, sino a forme esplicite di razzismo. Si registra anche il ritorno della violenza, verbale e fisica, sulla scena della politica. Fatti di ordinaria follia: da rari sono divenuti quotidiani, così frequenti da rischiare l’assuefazione anche se colpiscono la dignità delle persone, il bene comune, la convivenza democratica. Tra i tanti episodi, alcuni appaiono particolarmente emblematici, da non sottovalutare in quanto segnali di pericolo e di derive ritenute impensabili sino a qualche tempo fa. Basti ricordare quelli del gennaio scorso, a cominciare dall’avventura drammatica dei quattro clochard che a Genova, sotto i portici della centralissima piazza Piccapietra, sono stati aggrediti e feriti gravemente. «In quattro, cappucci delle felpe calati in testa e spranghe in pugno hanno aggredito persone slovacche che dormivano: una coppia in tenda, gli altri due distesi su vecchi cartoni. Gli hanno rotto le costole e le mani, fatti neri gli occhi, con la volontà di punire»: così un quotidiano locale ha raccontato l’episodio che ha colpito una umanità “marginale”, trattata come materiale di smaltimento. In precedenza, a Brescia, mentre si svolgeva un convegno nell’auditorium della parrocchia di San Barnaba alla presenza del ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge, circa duecento persone, contrarie alle pur blande politiche sull’immigrazione proget- L dialoghi n. 1 marzo 2014 tate dal governo, hanno protestato lungamente all’esterno dell’edificio, venendo a contatto con i cordoni di polizia che presidiavano l’entrata. Sui siti web si sono susseguiti insulti pesanti verso il ministro, anche da parte di chi occupa delicati incarichi istituzionali, dimentichi di quell’articolo della nostra Costituzione repubblicana (il n. 3) che proclama la pari dignità dei cittadini italiani davanti alla legge, quale che sia il sesso, la razza, la lingua, la religione, l’appartenenza politica, «le condizioni personali». Organi di stampa, poi, hanno reso noti gli appuntamenti pubblici del ministro: un invito, nemmeno troppo velato, a continuare nella dura contestazione, in tempi e in luoghi diversi. Forme di razzismo nemmeno tanto mascherate, se si leggono con attenzione i dati offerti dal rapporto Censis del 2013, al capitolo che porta il titolo, a mo’ di interrogativo, «Stiamo diventando razzisti?». La risposta non è per nulla tranquillizzante: sono pochi gli italiani (il 17 per cento) che cercano di comprendere e di accogliere con amicizia gli immigrati, mentre negli altri prevalgono diffidenza, indifferenza o aperta ostilità perché ritengono ormai eccessivo il numero degli immigrati in Italia. Migranti e rifugiati trattati come “pedine dell’umanità”, come merce lavoro a basso costo, scarsamente tutelata e soggetta a discriminazioni di ogni genere, mentre prosperano gli «imprenditori della paura», che strumentalizzano ed enfatizzano a fini partitico-elettorali il disagio e le inevitabili difficoltà della coesistenza. Altrettanto sconcertante, a Roma, due giorni prima della Giornata della Memoria e a poche ore dall’inizio del giorno dello Shabbath, la scoperta di tre pacchi contenenti teste di maiale, indirizzate rispettivamente alla Sinagoga di Roma, alla sede dell’ambasciata israeliana e al Museo della storia a Trastevere, in piazza Sant’Egidio, dove era in corso una mostra dedicata alla Shoah, il genocidio che ha duramente colpito la comunità ebraica romana, decimata dalle deportazioni indiscriminate ad Auschwitz-Birkenau e in altri lager. Uno sfregio alla memoria della immane tragedia che ha segnato il “secolo breve”; il disprezzo verso una fede religiosa aggravato dall’apparizione di scritte sui muri della capitale che presentano la Shoah come una colossale e ben architettata menzogna. La rissa, infine, scoppiata in Parlamento, dopo la votazione della conversione del discusso decreto su Imu e Banca d’Italia, ha alimentato un avvilente spettacolo mediatico ripreso dalle televisioni del mondo intero. All’ostruzionismo si è sostituito il blocco della Camera con aggressioni fisiche e verbali, sino al punto di indicare i nomi dei giornalisti che avevano censurato le intemperanze. E poi l’insulto dialoghi n. 1 marzo 2014 PIERGIORGIO GRASSI Dialoghi01-14-1-71_Dialoghi4/04p1-77 11/03/14 11.31 Pagina 3 3 Dialoghi01-14-1-71_Dialoghi4/04p1-77 11/03/14 11.31 Pagina 4 CI È CARA QUESTA REPUBBLICA EDITORIALE 4 come arma per colpire e distruggere l’avversario. Una vera sconfitta per la politica. Chi ha modo di frequentare il mondo della Rete osserva con sgomento che è saltato l’accordo tra libertà di manifestazione del pensiero e rispetto della dignità delle persone; emerge, al contrario, «un fondo limaccioso, un misto di aggressività, violenza, risentimenti, fine di ogni rispetto per l’altro che rivela che cosa sia diventata la società italiana». Le osservazioni sono del giurista Stefano Rodotà, il quale ha chiesto che «non siano resi accoglienti per il linguaggio degradato, i luoghi della nuova comunicazione»: non attraverso forme di «censura preventiva», ma con «l’immediata e pubblica condanna dei linguaggi oltraggiosi». È giunto davvero il tempo di introdurre normativamente il principio di legalità e il principio di responsabilità anche on line. Non può consolare quanto scrive Marc Lazar, docente a SciencesPo di Parigi e alla Luiss di Roma, secondo cui fenomeni analoghi si riscontrano al di là delle Alpi, in tutti i paesi d’Europa. Gesti antisemiti e razzisti si stanno infatti moltiplicando, in particolare in Francia dove gli insulti nei confronti di ebrei e musulmani vanno di pari passo con quelli scagliati contro esponenti delle istituzioni, originari di altri continenti, come nel caso di Christiane Taubira, ministro della Giustizia e francese della Guyana. La preoccupazione per quanto accade è grande, perché in tal modo vengono messe in discussione le basi delle società democratiche dell’Occidente. Per Lazar, nella scia di altri analisti, fattori diversi spiegano fenomeni così regressivi. A cominciare dall’interruzione traumatica della crescita economica, dalla incontenibile piaga della disoccupazione (soprattutto giovanile), dalla forbice delle disuguaglianze che si allarga, generando ripiegamenti identitari e ricerca affannosa di capri espiatori contro cui infierire. Diventano tali gli stranieri poveri, resi ancora più poveri dalla grande crisi, i rom, gli islamici, gli ebrei; lo sono pure le istituzioni dell’Unione europea che «appare lontana e intrusiva» e guidata da burocrazie cieche e da lobby potenti, ritenuta non in grado di assicurare benessere e protezione a tutti. Le istituzioni nazionali sembrano, a loro volta, aver perso un collegamento con i problemi reali e aver sostituito la politica degli annunci a quella delle iniziative concrete, delle riforme tante volte invocate e promesse, ma raramente realizzate. In questo contesto prosperano partiti e movimenti che da una parte intercettano la protesta e chiedono il voto agli elettori, dall’altra non tutti intendono assumere responsabilità conseguenti all’interno dei parlamenti. Come in Italia, ciascuno di essi vuol rimanere «un outsider che dialoghi n. 1 marzo 2014 infrange le regole, che sopprime i tabù e ostenta permanentemente la propria diversità, rifiutando di considerarsi partito simile agli altri». Si rivendica, inoltre, una forma vaga di democrazia diretta mentre la democrazia rappresentativa, espressa dai partiti e dalle grandi organizzazioni, viene derisa come anacronistica e non funzionante, essendosi rotto l’equilibrio tra i due principi fondativi sostanziali: la partecipazione dei cittadini e l’agire dei governi. Emergono i populismi quando i governi e i “mediatori” si staccano dalla società e appaiono lontani e ostili; ma anche quando il mondo sembra procedere senza regole, in preda ad una globalizzazione non governata, perché le strutture di controllo inventate nel secondo dopoguerra del secolo scorso appaiono ormai usurate e prive di potere effettivo. Come in altri drammatici frangenti storici i credenti hanno una responsabilità precisa, che si radica nella fede professata, vale a dire hanno il dovere di contribuire, con la loro elaborazione culturale, con l’apporto di un ethos interessato a rinnovare e ripensare lo Stato democratico, che non è un dato definitivamente dato, ma che va continuamente reinventato come “casa di tutti”. Stato che si trova a vivere costantemente il paradosso formulato dal costituzionalista e filosofo del diritto Ernst-Wolfgang Böckenförde secondo cui lo Stato democratico secolarizzato «vive di presupposti che non può garantire. Questo è il rischio che esso si è assunto per amore della libertà». Lo Stato democratico può continuare a vivere solo grazie agli impulsi e alle energie capaci di creare vincoli sociali di solidarietà, compresi quelli che la fede religiosa trasmette ai cittadini. Si tratta quindi di comprendere lo Stato, nella sua laicità, «non più come qualcosa di estraneo e nemico della fede», bensì come «l’opportunità della libertà che è anche compito dei credenti preservare e realizzare». Lo stesso discorso vale per l’Europa che, tra poco tempo, con le elezioni di maggio, si troverà ad affrontare nuove e difficili sfide: non ultima quella di «ridemocratizzare le proprie istituzioni». dialoghi n. 1 marzo 2014 PIERGIORGIO GRASSI Dialoghi01-14-1-71_Dialoghi4/04p1-77 11/03/14 11.31 Pagina 5 5