La ragazza senza nome

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La ragazza senza nome
Recensioni cinema e film | Persinsala.it
Edoardo
Ribaldone
26 ottobre 2016
Un dramma intenso e vibrante, con un’ottima protagonista ed
una regia consapevole ed efficace. Severo e coerente nelle scelte
espressive, è uno migliori esempi di cinema degli ultimi anni.
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A Liegi, la giovane dottoressa Jenny Davis rifiuta d’aprire il suo studio
medico ad una ragazza che ha suonato dopo l’orario la chiusura. Il giorno
seguente, Jenny viene a sapere dalla polizia che poco lontano dallo studio
è stato ritrovato il cadavere senza documenti di una ragazza, che le
riprese della telecamera di sorveglianza rivelano essere colei che aveva
suonato alla sua porta. Jenny decide allora d’indagare per scoprire chi
fosse la sconosciuta e quale ne sia stata la causa della morte.
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Il cinema dei Dardenne è uno dei più conseguenti nell’applicare le teorie di
Bazin sul cinema come arte del reale. Infatti, in questo film come negli
altri, la scelta di regia dominante è quella del piano sequenza e della
ripresa continua. Su 106 minuti di durata (sette in meno della versione
presentata a Cannes lo scorso maggio), si contano meno d’un centinaio
d’inquadrature, ognuna delle quali dura quindi all’incirca un minuto: un
tempo lunghissimo, se pensiamo che nel cinema contemporaneo questa
durata si riduce a tre o quattro secondi e spesso anche a meno di uno. Si
privilegia così la continuità spaziale e temporale del reale, giacché l’azione
che si svolge in continuità davanti alla macchina da presa non viene
segmentata, quindi spezzata, dal montaggio. Tale messinscena non ha
però nulla di virtuosistico, né vuol essere uno sfoggio di tecnica: i
movimenti di macchina, infatti, sono semplici e sempre subordinati a
seguire gli spostamenti dei personaggi nello spazio. Lo stile dei registi
sottopone dunque il film ad un processo di spoliazione che sfiora l’ascesi,
tant’è rigoroso e conseguente. Va in questa direzione la scelta di non
utilizzare una partitura musicale, foss’anche diegetica: nel film non si ode
mai alcun tipo di commento musicale, al contrario di quanto avviene
solitamente. La musica al cinema vale a stabilire o a corroborare il tono
d’una sequenza, la sua atmosfera; o, più semplicemente, a sollevare dalla
stanchezza lo spettatore; infine, più raramente, può venir adoperata una
partitura dissonante rispetto alle immagini che veicoli sensazioni ed
emozioni diverse. Sempre, però, costituisce un elemento fondamentale
nella costruzione dell’opera e diviene tutt’uno con le immagini che è
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chiamata a valorizzare. Scegliere, come qui avviene, di rinunciarvi in toto,
significa caricare le immagini di un peso e di un valore superiori a quanto
normalmente accade, giacché si trovano esse sole ad esprimere il senso
dell’intero film. Alla spoliazione alla quale, come si diceva, viene
sottoposta l’opera in ogni suo aspetto, non sfugge nemmeno la
recitazione degli attori che, come la regia, lavora di sottrazione e rifiuta
ogni enfasi melodrammatica per improntarsi ad una semplicità e ad una
naturalezza estreme. Scegliere una protagonista della bellezza di Adèle
Haenal (molto nota in Francia- ha interpretato, fra gli altri, Naissance des
pieuvres e L’Apollinide– ma sconosciuta in Italia) e metterla in scena
priva di qualunque alloure conferma quanto qui sostenuto sulla scelta
estetica che informa l’opera. Struccata, spesso coi capelli legati nella coda,
avvolta in un ruvido cappotto a quadri e con indosso abiti semplici e per
nulla femminili, la protagonista attraversa il film contando solo sulla forza
della sua tenacia e della sua determinazione: in una parola, del suo senso
morale. La ricerca dell’identità della ragazza morta diviene così
un’enquête nel lato oscuro ed inconfessabile della coscienza umana, dove
si nascondono segreti che i personaggi preferiscono celare, a se stessi in
primis, per timore di veder sconvolta la propria esistenza. Alla fine, però, la
perseveranza e la forza della protagonista spinge i personaggi coinvolti
nella sparizione a confessare e ad alleviare così il peso che gravava sulla
loro coscienza. La consapevolezza d’aver causato, sia pur
involontariamente, la morte di un essere umano, spinge la protagonista ad
intraprendere un’indagine che la porta non solo a scoprire, pur fra ostacoli
pericoli non da poco, la verità, ma anche a scoprire la sua autentica
vocazione ad aiutare gli ultimi: i vecchi, i malati, gli abbandonati. A tal
proposito, si può suggerire un accostamento fra questo film ed Europa
‘51 di Rossellini: in ambedue, una protagonista femminile, in seguito alla
morte di un personaggio di cui si sente responsabile, scopre gli ultimi,
coloro che non possiedono nulla, e si avvicina al loro mondo, venendo
spesso ostacolata in tale processo d’avvicinamento. In ambedue, poi, al
linguaggio cinematografico viene imposta quella castità espressiva di cui
si diceva. Qui, però, il finale vede la protagonista, dopo aver scoperto la
verità al termine della sua ricerca ed aver alleviato così l’angoscia del
senso di colpa nei diversi personaggi che incontra, di nuovo in pace con se
stessa e pronta a seguire la sua vocazione d’aiutare gli altri, specie chi è
costretto a vivere oppresso dalla sofferenza e dal dolore. Come si vede, si
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tratta di un’opera lontanissima dalle modalità di rappresentazione del
cinema contemporaneo e che sceglie invece di ricollegarsi a quel cinema
della realtà, dell’aderenza al dato materiale non adulterato dal montaggio,
per il quale, a parte simili eccezioni, sembra non esservi più posto.
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Titolo originale: La fille inconnue
Regia: Jean-Pierre, Luc Dardenne
Soggetto e sceneggiatura: Jaen-Pierre, Luc Dardenne
Fotografia: Alain Marcoen
Montaggio: Marie-Hélèn Dozo
Scenografia: Igor Gabriel
Costumi: Maïra Ramedhan Levi
Interpreti: Adèle Haenal, Olivier Bonnaud, Yannick Renier, Louka Minnella, Christelle Cornil, Olivier
Gourmet, Pierre Sumkay, Fabrizio Rongione
Prodotto da Jean-Pierre e Luc Dardenne, Denis Freyd
Genere: drammatico, giallo
Durata: 106 minuti
Origine: Belgio/Francia
Anno: 2016
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