Don Primo Mazzolari - Chiesa Cattolica Italiana

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Don Primo Mazzolari - Chiesa Cattolica Italiana
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Don Primo Mazzolari,
missionario tra gli
emigranti italiani
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on Primo Mazzolari (1890-1959), è una delle figure
più significative del clero italiano del Novecento come ha ricordato Benedetto XVI nell’udienza generale del 1 aprile 2009.
Il Santo Padre, dopo aver sottolineato che “il cinquantesimo anniversario della
morte di don Mazzolari sia occasione opportuna per riscoprirne l’eredità spirituale e
promuovere la riflessione sull’attualità del pensiero di un così significativo protagonista del cattolicesimo italiano del Novecento”, ha aggiunto: “Auspico che il suo profilo
sacerdotale limpido di alta umanità e di filiale fedeltà al messaggio cristiano e alla
Chiesa, possa contribuire a una fervorosa celebrazione dell’Anno Sacerdotale, che
avrà inizio il 19 giugno prossimo”.
Don Primo Mazzolari è “un prete della Chiesa cremonese”, come ricordava il
vescovo Enrico Assi in una lettera ai sacerdoti che porta la data di aprile 19891. Non si
sentiva fuori dalla sua Chiesa, ma dentro di essa: avvertiva profondamente i passaggi
della storia della sua terra2, le tensioni politiche, le sofferenze dei poveri, i dubbi dei
lontani, le attese dei giovani. Al tempo stesso, dalla sua Chiesa e dalla sua terra, don
Primo apriva gli occhi sulla Chiesa nel mondo, con uno sguardo profetico che sa coniugare l’adesso e il domani.
Dentro la sua Chiesa, la sua parrocchia (prima Cicognara e poi Bozzolo entrambe
nella provincia mantovana), nella sua terra e sugli argini del Po, Mazzolari rilegge in
diverse occasioni e a più riprese “la Parola che non passa”, la parola evangelica, recuperando dentro alcune parabole, ma anche da alcuni gesti di Gesù alcune sollecitazioni che segnano profondamente il “travaglio della sua coscienza”3 e alcune su scelte:
sotto il segno dei chiodi.
Nell’ascolto della Parola, Mazzolari rilegge “la più bella avventura”, quella del perdono di Dio al figliol prodigo e del giudizio del fratello maggiore. La rilettura di questa avventura del perdono di Dio sarà l’inizio delle sue disavventure: il volume La più
bella avventura (1934) sarà condannato per l’esposizione di idee erronee. Per don
Primo il volume segna l’inizio di un dialogo con chi è lontano, di una distinzione tra
errante ed errore, di una riproposizione della tolleranza. La Chiesa viene indicata da
don Primo come ‘la casa’4, dove Dio ritorna ad amare continuamente l’uomo, dove
di mons. Giancarlo Perego, Direttore Generale Fondazione Migrantes
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s’impara che, come scriverà sul baldacchino dell’altare della chiesa parrocchiale di
Cicognara, “Dio è amore”.
In una concezione di Chiesa aperta, attenta in ascolto non c’era spazio né per
forme di clientelismo – come il fascismo voleva – né per forme rinnovate di clericalismo – come rischiava di presentarsi una parte del mondo del laicato cattolico italiano.
Nella Lettera sulla parrocchia (1937) Mazzolari ritorna a parlare della parrocchia come
di una “casa”: “nella parrocchia la chiesa fa casa con l’uomo: la sua missione gerarchica dottrinale carismatica vi s’inizia e vi si fissa, e l’uomo, l’uomo concreto – nome,
volto, cuore, fragilità e destino eterno – s’innesta e rifluisce nel corpo mistico del
Cristo, di cui segna gli aumenti temporali ed eterni”5. E in questa casa “il parrocchiano
ha diritto d’incontrarvi il suo travaglio, la sua passione, la sua fatica quotidiana; non
solo come spesso accade, attraverso l’asprezza del pulpito o del bollettino, ma nella
verità del giudizio cristiano, il quale mentre dà il criterio di ciò che dovrebbe essere, dà
pure la forza di superare certe posizioni incomplete e false. Anche gli errori dell’epoca
vi hanno voce poiché la chiesa, pur condannandoli, rispetta ogni rettitudine di ricerca
e ricapitola ogni briciola di verità”6.
I segni dei tempi: l’emigrazione
E in parrocchia e dalla parrocchia don Primo affronta i tempi e i ‘segni dei tempi’,
come lo avevano abituato a fare i suoi vescovi, Geremia Bonomelli (1830-1914) prima
e Giovanni Cazzani (1867-1952) poi, con il linguaggio della carità, indicato chiaramente nei due scritti del 1938: Il samaritano, I lontani. Nella carità e nei poveri Mazzolari
vede due segni del nostro tempo che interpellano la credibilità della Chiesa. Nel 1957
Mazzolari scrive il volumetto La parrocchia in cui rilegge, già nelle prime righe, la parrocchia a servizio dei poveri: Una parrocchia senza poveri cos’è mai?Una casa senza
bambini, forse anche più triste. Purtroppo ci siamo così abituati a case senza bambini e
a chiese senza poveri, che abbiamo l’impressione di starci bene. I bambini scomodano,
i poveri scomodano”7.
Tra “i segni dei tempi” che don Mazzolari ha saputo incontrare e leggere da giovane prete - anche grazie al suo vescovo Geremia Bonomelli8, fondatore dell’Opera
per gli emigranti in Europa che alla sua morte sarà a lui intitolata -, c’è sicuramente il
fenomeno dell’emigrazione italiana.
La missione italiana ad Arbon (Svizzera)
Arbon è una cittadina in Turgovia, cantone nella parte nord-est della Svizzera. Gli
emigranti italiani erano giunti alla fine dell’Ottocento e lavoravano soprattutto nell’agricoltura, nell’industria metallurgica e nell’edilizia. Molte ragazze erano anche impegnate nel lavoro tessile. Nel 1904 troviamo ad Arbon il primo missionario: don Cesare
Tresoldi di Cassano d’Adda, diocesi di Cremona, inviato dal vescovo Bonomelli. Don
Cesare, affiancato poi da tre religiose aveva realizzato un pensionato per ragazze e
alcune attività di patronato, scontrandosi con il gruppo di anarchici presenti sul territorio. Nel 1909 arrivava ad Arbon don Zaccaria Priori, sempre della Diocesi di
Cremona, che oltre ad Arbon seguiva tutto il Cantone Turgovia e nel Basso Sangallese
(Rorschach, Steinach, St Margrethen, ecc.). L’attivita pastorale di don Priori fu molto
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intensa: istituì un Patronato sociale che seguiva oltre 500 pratiche all’anno, cicli di
incontri con gli operai in fabbrica, la scuola serale per i lavoratori. Nel 1910 don Priori
fonda la corale italiana, la società di Mutuo soccorso, e a Rorschach il Circolo filodrammatico e la Società di beneficenza. Dal 1 aprile 1911 al 31 dicembre 1913 arrivano
come missionari ad Arbon, in aiuto a don Priori, don Luigi Rusca e don Pietro
Donadio. Quest’ultimo si trasferirà poi in Alsazia come missionario tra gli emigranti.
A sostituire don Priori dal 1 gennaio 1914 al 1 febbraio 1916 arriva don Mario
Chiodelli. Don Chiodelli era nato a Fengo (CR) nel 1885. Frequenta il seminario a
Cremona, dove viene ordinato nel 1907. Vicario a S. Lucia in città, nel 1909 si mette al
servizio dell’Opera Bonomelli, succedendo come missionario di Arbon a don Priori nel
1914. Cappellano militare nel 1916, passerà poi in Lussemburgo come missionario tra
gli italiani. Nel 1929 lo ritroviamo come cappellano del lavoro allo stabilimento
Viscosa. Nel 1934 mons. Cazzani, vescovo di Cremona, lo nomina parroco di S.
Sigismondo in città, trasferendolo, poi, nel 1937, alla parrocchia di Fontanella, dove
rimarrà fino alla morte, avvenuta il 25 novembre 19549.
Don Mazzolari ad Arbon
Don Primo Mazzolari aveva conosciuto don Mario Chiodelli dal 1902, quando era
entrato in Seminario a Cremona, dove aveva completato gli studi. Ordinato sacerdote
nella chiesa parrocchiale di Verolanuova dal vescovo di Brescia Gaggia, il 25 agosto
1912, lo ritroviamo da quell’anno vicario cooperatore a Spinadesco e al Boschetto,
insegnante di lettere nel ginnasio del seminario di Cremona. Nel corso dell’estate del
1914 don Mazzolari è ad Arbon, paese sul lago di Costanza in Svizzera, per assistere
gli emigranti italiani, raccogliendo forse l’invito anche di Mons. Tranquillo Guarneri,
rettore del seminario, e di don Emilio Lombardi, già segretario di Mons. Bonomelli e
parroco di S. Agostino a Cremona. Don Mazzolari si trova a vivere con gli emigranti
italiani il dramma dell’espulsione dalla Svizzera, allo scoppio della prima guerra mondiale. Alcune pagine del suo Diario, recentemente pubblicato nell’edizione critica a
cura di Aldo Bergamaschi10, sono una testimonianza straordinaria di questo drammatico momento della storia dell’emigrazione italiana che incrocia anche la morte di
mons. Geremia Bonomelli, apostolo degli emigranti italiani in Europa.
31 luglio 1914. Venerdì
Improvvisamente sono partito per Arbon dove vado a sostituire don Chiodelli. Non
ho avuto neppur tempo di far una corsa a casa e prendere commiato. Ho scritto una
lettera: ma è troppo poco per mamma. Alle 10,30 scendo a Chiasso e mi presento
all’ospizio Bonomelliano. Rigurgita di emigrati. C’è un’inquietudine strana, un’ansia,
un’incertezza che si sfoga, italianamente, facendo del chiasso. Ma le notizie sono cattive. È la dichiarazione di guerra tra Germania e Russia. La Germania ha chiuso i confini. La Svizzera mobilita per salvare la sua neutralità.
D. Rossi11 − una simpatica figura di missionario instancabile − sale su di una panca e
arringa gli operai, mostrando la gravità della situazione e persuadendo al ritorno. V’è
chi accetta le sue ragioni e sono i più assennati, quelli che vanno all’estero per necessità di lavoro; altri, i più giovani, i probabili richiamati di domani vogliono tentare l’ignoto ugualmente. Speriamo che la notte porti miglior consiglio.
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Vado a riposare anch’io al vicino albergo della Croce Rossa, non troppo tranquillo
e sicuro di partire. La mia passeggiata è in via di diventare interessante. Vedremo.
1 agosto 1914
Alle sette ho già celebrato nella piccola cappella dell’ospizio. Scendo alla stazione,
affollata di italiani in attesa di notizie. I giornali di Milano confermano quelle della
sera e ne aggiungono di più gravi.12
La notte sembra aver calmato gli animi e dischiuse le menti alla riflessione. Ora è
possibile ragionare e farli persuasi. La maggior parte è disposta a ritornare; mentre io
parto col diretto delle 8,50 per Zurigo, essi attendono il treno che li deve ricondurre ai
propri paesi. Sono le prime vittime della guerra.
Il viaggio diviene interessantissimo. La dichiarazione di guerra è caduta come un
fulmine in questo pacifico e quasi sornione paese che attendeva al suo lavoro principale, lo sfruttamento del forestiero. Ora è un fuggi fuggi generale. Ad ogni stazione
s’accalca la folla cosmopolita che ingombra il treno di valigie, di cappelli e di bionde
bellezze. Lo spettro della guerra è su ogni volto, in ogni parola, vorrei dire su ogni
cosa perché da mille finestre, ove fino a ieri sorrideva occhieggiando il geranio, spoltriscono al sole le loro muffe giubbe e pantaloni militari. Fasci di fucili e di baionette
salgono pure sul treno nelle piccole stazioni e i richiamati intonano mestamente le
prime canzoni. La guerra per la Svizzera è una necessità senza entusiasmo, senza
onore. Anche la neutralità ha i suoi sacrifici.
Il paesaggio che attraverso è incantevole; il lago di Lugano, dei Quattro Cantoni,
Zurigo. Ma chi ha tempo e volontà di badarci. Sembra aver perduto ogni attrattiva,
assorbito anch’esso dal terribile dramma umano che si prepara.
Alle 4 sono a Zurigo, da Zurigo Romanzorn ad Arbon. Sono le sette. Il buon parroco m’accoglie con la solita cordialità tedesca, troppo fredda anche quando è la più
calorosa. Mi ritiro presto in camera perché sono stanco morto.
2 agosto 1914. Domenica
Celebro alle 6. Alle 7 è la messa degli italiani. All’Evangelo vado in pulpito. Ho una
commozione nuova, porto il saluto della Patria lontana, le ultime parole del Vescovo
morente, l’augurio della pace. Pace in terra agli uomini. Poveri fratelli! Mai ho vissuto
meglio in comunione di patria e di fede. Più tardi, accompagnato dal parroco tedesco,
fui a visitare l’asilo dove si raccolgono duecento giovani italiane che lavorano nei
diversi laboratori di merletti. M’hanno accolto festosamente: uno dei soliti ricevimenti
che le suore insegnano nei loro collegi - canto - poesia ecc. e che servono indistintamente per l’onomastico della superiora, come per la venuta del Vescovo. Ma erano
sincere quelle voci italiane, quegli sguardi: affettuose tutte. Ho risposto nell’effusione
più calda del mio cuore, trattenendo a fatica le lagrime. Domani, pensavo, che ne sarà
di questo sciame allegro e buono di laboriosità italiana? Forse... e allontanavo il pensiero doloroso con uno sforzo che non riusciva però a togliermi di dosso una tristezza
piena di presentimento. Alle tre, prima della benedizione, ho tenuto un altro piccolo
discorso, su S. Francesco d’Assisi, essendo la festa del perdono. Ho goduto nel dire di
questo santo così italiano e mi pareva, parlando di certi episodi, che ne sorridesse
anche la navata di questa severa chiesa teutonica, che non conosce le dolci pazzie
dello spirito francescano.
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3 agosto 1914. Lunedì
Quasi tutta la giornata in ufficio del segretariato, dove ho presa sommaria visione
dei registri e delle pratiche da sbrigarsi. Le notizie sono di ora in ora più gravi. La
dichiarazione di guerra tra Francia e Germania è già un fatto compiuto.13 omani si
chiudono quasi tutti gli stabilimenti. Molti operai che sono già da tempo senza lavoro
sono venuti in ufficio per essere rimpatriati. Nell’incertezza, ho scritto al console di
Zurigo perché mi mandi istruzioni.
4 agosto 1914. Martedì
Non ho avuto tutt’oggi un momento libero. Sono stato bloccato in ufficio da una
continua processione di operai che volevano notizie e schiarimenti sulla situazione che
si oscura sempre più. La chiusura degli stabilimenti ha dato l’ultimo colpo, gettando
negli animi un panico che i commenti insensati aggravano. Ho distribuito − in mancanza di meglio − una quantità di buone parole, calmando e mostrando come non vi
possa essere nulla a temere per noi italiani, avendo l’Italia proclamato la neutralità
nell’immane conflitto. Verso sera mi arriva un telegramma del console il quale mi dice
di prendere accordi con le ferrovie svizzere per il pronto rimpatrio. Parlo col capo stazione e ci accordiamo per un treno speciale, a Giovedì sera.
I giornali portano la notizia della morte di Mons. Bonomelli avvenuta ieri14.
Quantunque temuta di ora in ora mi colpisce dolorosamente. Anche gli operai l’accolgono con un senso di visibile rincrescimento. Proprio un anno ed egli era qui in Arbon,
di mezzo ai suoi figlioli che lo veneravano e rispettavano come un padre. E fu padre
nella larga bontà del suo spirito che non conosceva confini e tutti abbracciava per
tutti consolare. Povero Vescovo! Qualche cosa muore in me con la sua dipartita.
Oramai egli era entrato nella mia vita spirituale come il sostegno migliore e mi bastava pensarlo nei momenti più inquieti perché subito, sotto quel venerando sguardo
d’illuminata bontà, l’anima s’acchetasse riprendendo il suo ritmo normale. Ora egli è
morto! Ma nell’anima memore il ricordo affettuoso non muore, e il suo esempio mi
sarà di conforto nell’ore più dubbiose.
5 agosto 1914. Mercoledì
Ho celebrato la Messa a suffragio di Monsignore. C’era un accoramento doloroso
nella voce delle giovani italiane dell’asilo che per l’ultima volta assistono in comune al
sacrificio Divino. Questa sera partiranno. L’incontro di queste due sventure non è
senza significato. Sembra che una sovrumana pietà abbia voluto sottrarre il buon
padre a questo spettacolo miserando di odio che travolge e fa piangere tanta umanità. Avrei parlato volentieri; ma sentivo che non avrei potuto trattenere le lagrime,
aggravando così la pena dolorosa che già troppo ci attenaglia. C’è bisogno in questi
momenti di fortezza per sostenere e incoraggiare. Domani piangeremo.
Il piccolo ufficio del segretariato ha veduto passare quasi tutta la colonia italiana.
Chi domandava di partire, chi di restare, chi veniva per consiglio, chi per liberare il
magro mobilio dalle unghie d’un creditore spietato. Ho dovuto improvvisarmi giudice
di pace, fare da console e da diplomatico. Per l’occasione ho dovuto tirar fuori tutte le
mie cognizioni, anche quelle che avevo appreso qua e là leggendo giornali e che
avevo inconsciamente, quasi per abitudine, messo in un angolo della memoria, come
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stracci che non sarebbero mai occorsi. Erano cognizioni di procedura di diritto internazionale, di reclutamento militare, di politica. Sì anche di politica, perché tratto tratto
dovevo intrattenermi coi più saputi e impersuasibili, fare un’esposizione dei vari raggruppamenti politici, del posto che ha l’Italia, dei suoi impegni, del significato della
sua neutralità. È proprio vero che la necessità se non crea acuisce l’organo, che almeno
nella necessità dà l’inaspettato. Non credevo di saper tanto e di poter tanto. Qualche
volta mi meravigliavo di me medesimo. Non sapevo di possedere certe cognizioni e
d’avere − io tanto timido − tanta audacia.
Parte l’asilo. Fui a salutare le giovani poco prima della partenza. Chi non piangeva
aveva già pianto. Ho detto due parole d’addio sforzandomi d’essere lieto. Ma quando
fui solo, in riva al lago, ho pianto lungamente.
6 agosto 1914. Giovedì
Questa sera si parte. E piove, una pioggia spessa, insistente, e quei poveri stracci
sembrano avere anche la collera del cielo... − Ma ecco che verso le cinque il cielo si
rischiara su dai monti di Preghez e il più bel sole asciuga l’aria, i campi, le strade,
dando un colore meno triste al lago. Alle sette il viale della stazione è pieno di italiani.
Rinuncio a descrivere la scena così caratteristica e così dolorosamente italiana. Bauli
colossali, involti di dove sogghigna la miseria, un riso stridulo di pianto come una
maledizione alla guerra, la guerra che rigettava in patria senza pietà, senza sostegno,
una turba di lavoratori che nel paese ospitale hanno portato o s’erano creati una
famiglia, una casa, una discreta tranquillità d’esilio.
I più lieti, gli unici lieti, sono i bimbi, che non hanno mai visto l’Italia se non nella
nostalgica parola dei genitori, e che vanno ora verso il dolce ignoto che li attrae, li
avvince forse per una risonanza profonda che la patria esercita sulle anime ingenue.
Ma le mamme piangono lagrime che sanno, nel presentimento misterioso della sensibilità materna, più l’angoscia dell’avvenire ignoto, angosciosamente ignoto, che il
distacco presente. Vanno in patria. Tornano, forse, al piccolo paese dove tante volte
sono venute col pensiero memore e affettuoso e dove sognarono poter ritornare un
giorno, nella letizia d’una vita meno dura, di un pane più abbondante, d’una piccola
casa, quella piccola casa, là, sul pendio, o in riva al fiume. Ma così − senza pane pel
domani, senza casa, senza nulla oh! così non è un ritorno, è una fuga. È la guerra, la
guerra!!! Maledetta la guerra! Ma nessuno impreca. Il momento è troppo solenne,
quasi sacro, sacro a un dolore che non ha colpa di soffrire così, che dell’innocenza ha
l’aureola simpatica e confortante. Ed entrano a gruppi di famiglie entro il recinto
della stazione guardata da soldati con la baionetta innestata, come se queste povere
vittime della guerra avessero spiriti bellicosi. Tutti sono d’una calma rassegnata, stanca, incapace di un qualsiasi movimento di ribellione... V’è un ubriaco che non vuol salire e deride la moglie che piange e lo scongiura. M’avvicino, gli parlo buono, egli mi
ascolta. Sento nella mia anima tutto il dolore che vedo diffuso negli sguardi, che singhiozza negli addii, che si sfoga nei baci più lunghi e amorosi: e diventa un bisogno
grande di bontà, affettuosa e tenera, quasi un desiderio di donazione completa.
Vorrei poter baciare tutta quella sofferenza italiana e trasformarla in letizia. E dicono
che la patria è una irrealtà, una finzione ideologica! La patria è qui nel cuore, qualche
cosa di palpabile, di vero, di sacro, di eterno: è il prolungamento di un affetto che ha
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un nome, mamma; di una cosa, la casa. Son tutti in treno. Dico le ultime raccomandazioni, e passo di vagone in vagone per l’addio. Mani callose e adunche, mani tenere e
sottili, delicate e forti, si allungano dai finestrini e mi stringono, così che sento passare
nel mio sangue come una febbre d’affettuosità dolorosa che deve rilucere stranamente nello sguardo, perché vedo che tutti mi raccolgono nell’intimità del loro addio
come un amico, come un fratello. E non li vedrò più. Il treno è pronto, un fischio, un
cigolio secco come uno schianto e parte. Mille mani si protendono e fazzoletti umidi
di lagrime s’agitano, vessilli di miseria e di dolore, un saluto forte della folla che guarda; poi silenzio”.
Don Mazzolari chiude le sue pagine di Diario da Arbon con una considerazione
che già anticipa il suo cammino di “obiezione di coscienza alle armi”, maturata forse
anche nel confronto con don Priori e don Rossi – due preti cremonesi che al loro rientro in Diocesi di Cremona subiranno un processo di antipatriottismo perché condannavano l’entrata nella prima guerra mondiale dell’Italia -, oltre che con l’esperienza successiva come cappellano militare: “Il treno era già lontano; rimanevo col fazzoletto in
mano, guardando ancora lungo le ghiaie la scia di quella grande miseria che la guerra
rigettava senza misericordia, e ora piangevo”.
Note
E. Assi, Don Primo Mazzolari, prete della Chiesa, Piemme, Casale Monferrato, 1990, pp. 68-72.
P. Mazzolari, Cara terra, Pisa, Edizioni del Crivello, 1946..
3
B. Bignami, Mazzolari e il travaglio della coscienza, Dehoniane, Bologna, 2007.
4
Molto bello è il testo di G. Sigismondi, La Chiesa. Un focolare che non conosce assenze (Edizioni
Porziuncola, Assisi, 1993), che ricostruisce il pensiero ecclesiologico di don Primo Mazzolari attorno al
simbolo della casa, coniugato in cinque modi: La Chiesa casa del Padre, la Chiesa casa della redenzione, la Chiesa casa della libertà, la Chiesa casa dei poveri, la Chiesa casa della testimonianza.
5
P. Mazzolari, Lettera sulla parrocchia, Dehoniane, Bologna, 1979, p.19.
6
P. Mazzolari, Lettera sulla parrocchia, cit., pp. 44-45.
7
P. Mazzolari, La parrocchia, La Locusta, Vicenza, 1957, p.7. La quarta edizione del 1963 sarà
dedicata a Giovanni XXIII, ‘parroco del mondo’.
8
Interessante è il profilo di Bonomelli che scrive don Mazzolari: P. MAZZOLARI, Il mio vescovo
mons. Bonomelli, Vicenza, La Locusta, 1971
9
Per la storia delle missioni in Svizzera cfr. R. Ferrarese,M. Schiamone (a cura), Storie di italiani
nella Svizzera Orientale, S. Gallo, Università S. Gallo, 2001.
10
P. MAZZOLARI, Diario (1905-1915), I, Bologna, EDB, 1997, pp. 649-656.
11
Si tratta di Don Emanuele Rossi (1859-1954), sacerdote cremonese, già cappellano
dell’Ospedale di Cremona e poi instancabile animatore di opere sociali a Cremona.
12
Il 1° agosto la Germania, alle ore 19,30, dichiara la guerra alla Russia, alle 16 in Francia è pubblicata la mobilitazione generale. Primi scontri ai confini franco-tedeschi. I tedeschi entrano nel
Principato di Lussemburgo.
13
3 agosto. Alle 3,50 antimeridiane i tedeschi invadono il Belgio nella provincia di Liegi in tre
punti. Alle 18 la Germania dichiara guerra alla Francia, alle 19 l’Inghilterra dichiara guerra alla
Germania.
14
Mons. Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona, era spirato alle 14,30 del 3 agosto 1914, nella
casa di famiglia a Nigoline (BS), dove era in convalescenza.
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