Festa della mamma. Azalea della ricerca,A mai

Transcript

Festa della mamma. Azalea della ricerca,A mai
Festa della mamma.
della ricerca
Azalea
Come tradizione, in occasione della Festa della Mamma, con
l’Azalea della Ricerca AIRC vi offre un modo unico e ricco
di significati per festeggiare tutte le mamme.
Basta un contributo associativo minimo di 15,00 euro per
ricevere in omaggio una Azalea della Ricerca contrassegnata
dal marchio dell’Associazione.
L’Azalea è da sempre un momento di grande partecipazione
collettiva e il suo successo è dovuto alla generosità dei
cittadini italiani e alla disponibilità degli oltre 20.000
volontari che permettono all’AIRC una distribuzione capillare
delle piante su tutto il territorio nazionale.
I numeri dell’iniziativa:
9.989.040 di euro l’obiettivo di raccolta fondi 665.936 le
piantine distribuite in tutta Italia 25.000 i volontari
coinvolti 3.558 le piazze 15 euro il contributo richiesto
presso tutte le filiali di Intesa Sanpaolo e delle banche del
gruppo per versamenti sul conto corrente intestato ad AIRC –
Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro, utilizzando
il codice IBAN IT14H0306909400100000103528 pressi tutti gli
sportelli bancomat di Intesa Sanpaolo e delle banche del
gruppo aderenti attraverso i servizi internet della banca.
Tutti questi servizi sono esenti da commissioni
Trova le piazze che aderiscono all’iniziativa
www.airc.it
A mai più rivederci
I ricercatori italiani? Non
abitano più qui
Di Francesca Lippi
“L’estero ruba all’Italia i più bravi”. E’ quanto si legge
nella quinta edizione del rapporto stilato dalla Fondazione
Migrantes sugli Italiani nel Mondo. I numeri confermano quindi
ciò che si percepisce già da diversi anni: i cervelli
“fuggono” e raramente ritornano. Secondo il rapporto, infatti,
sono migliaia i ricercatori italiani che vanno a cercare
fortuna fuori del patrio confine. In più gli scienziati con
performance elevate sono in gran parte già emigrati e lavorano
da tempo nelle università e nelle imprese straniere.
Non torno più
Non è disponibile un censimento completo riguardo i
ricercatori italiani all’estero: gli unici dati sono quelli
forniti dalla banca dati “Davinci” (allestita dal Ministero
degli Affari Esteri Italiano e che raccoglie informazioni
sulla comunità scientifica italiana all’estero), da cui
risulta che vi sono ben 2.000 scienziati italiani pressoché in
tutte le più importanti università del mondo e in alcune
imprese. Di questi, solo uno su quattro avrebbe intenzione di
ritornare in Italia. Non sembra dunque che questi ricercatori
sentano la mancanza dello Stivale (né che il Paese si
preoccupi di questa perdita). La maggior parte dei ricercatori
si dice soddisfatta della vita condotta all’estero,
socialmente e lavorativamente. E in Italia vi è poca
sensibilità nei confronti dei connazionali “fuori casa”. La
Fondazione Migrantes mette in guardia: questo “oltre a
generare amarezza, priva il Paese di possibili piste di
rinnovamento indispensabili in questa fase di stallo,
aggravata dalla crisi internazionale”.
Integrato, soddisfatto e ‘maturo’
"Scienza e tecnologia
in cifre 2010"
Quest’anno la Fondazione si è concentrata sull’emigrazione
italiana in Canada, Francia, Regno Unito, Romania e Spagna. In
questi paesi pare che il 67,2% degli italiani intervistati
abbia “un’istruzione secondaria medio-alta, si senta per lo
più integrato nel paese di accoglienza, dove non ha problemi
di lingua, è proprietario di casa e si ritiene soddisfatto del
lavoro che conduce”. Ottime notizie quindi. Peccato che queste
persone non pensino minimamente di far rientro in Italia. I
ricercatori espatriati, però, “ci tengono a precisare che
quanto conquistato è frutto di anni di sacrificio e di un
percorso di vita in cui hanno dovuto affrontare e superare
prove dure e inevitabili”. Insomma, siamo di fronte al
fenomeno di una emigrazione matura e consapevole e questo
anche perché i fuggitivi non sono più giovanissimi. Pare che
il 50% degli scienziati italiani all’estero ha una età
compresa fra tra i 30 e i 39 anni, mentre addirittura un terzo
ha più di 40 anni. E la maggioranza ha dichiarato che, prima
di lasciare l’Italia, non aveva un lavoro. Attualmente costoro
sono impegnati prevalentemente nel settore scientifico e sono
riconoscenti di avere trovato all’estero una maggiore
gratificazione professionale.
Dove vanno i più bravi
L’Istituto di ricerca sull’impresa e lo sviluppo Ceris del
Cnr ha appena pubblicato la seconda edizione di “Scienza e
tecnologia in cifre 2010”, ovvero i dati sui ricercatori
italiani e a livello internazionale. L’opuscolo riporta i
numeri sulle risorse finanziarie ed umane, sugli interventi e
sul finanziamento per Ricerca e Sviluppo in Italia,
nell’Unione e nei Paesi Ocse. Ed emerge che i ricercatori
italiani che operano nel Belpaese sono inferiori alla media
europea. Gli impietosi numeri snocciolati dal Ceris-Cnr
avvalorano le parole del Presidente della Repubblica. Secondo
quanto detto da Giorgio Napolitano in occasione della Giornata
Internazionale del Migrante “a lasciare il nostro Paese
definitivamente, sono spesso brillanti laureati e
ricercatori, tecnici, imprenditori, personale altamente
qualificato”. Il Presidente parla di una vera e propria
“emorragia di talenti” che –dice- rappresenterebbe “una
perdita per il nostro paese e un segnale di debolezza del
nostro sistema scientifico e produttivo, della sua capacità di
mettere a frutto risorse umane, di selezionare e promuovere
in base al merito”. Infatti i dati del 2007 sul personale di
ricerca impegnato in Italia, indicano che i ricercatori in
rapporto a mille unità di forza lavoro sono appena 8,43. Al di
sotto della media dell’Unione quindi (con 9,97 ogni mille
unità).
Risultati preoccupanti si hanno anche dalla graduatoria Top
Italian Scientists, da cui risulta che l’Italia ha i suoi
migliori scienziati oltr’Alpe. La prova provata la danno i 12
italiani insigniti del premio Nobel in chimica, fisica e
medicina. Fra questi solo Giulio Natta – che ottenne il
prestigioso riconoscimento nel ’63- condusse le sue ricerche
in Italia.
Biologia fai-da-te
George M.Church
Di Francesca Lippi
Non si tratta di un nuovo passatempo e neppure di una
eccentrica moda momentanea. Il DIYbio, ovvero “Do it yourself
Biology” è una rete mondiale di amatori (non professionisti)
che si cimentano nella ricerca scientifica a costi ridotti. I
più diranno saranno convinti che si tratti di una cosa
ridicola, mera attività ludica, ma così non è.
L’evoluzione del piccolo chimico?
Non si tratta di un gioco, ma di veri e propri progetti di
ricerca svolti fuori dai laboratori convenzionali. DIYbio,
infatti, è una vera e propria organizzazione con lo scopo di
rendere la ricerca in biologia accessibile non solo agli
scienziati ed ai biologi, ma anche ai tecnici ed ai cittadini.
Jason Bobe, co-fondatore di DIYbio.org spiega che lo scopo è
contemporaneamente la condivisione dei risultati e la
sicurezza della ricerca, creando “un quadro per le migliori
pratiche a livello mondiale”. Il tutto ovviamente seguendo
“codici etici, norme di buona pratica e risorse condivise che
promuovano il successo della comunità e gli individui”. L’idea
è “di aumentare le conoscenze e le competenze dei tecnici
amatori; incrementare l’accesso a una comunità di esperti, lo
sviluppo di un codice di deontologia e di controllo
responsabile”. In realtà la “biologia fai-da-te” non c’entra
nulla con il bricolage della domenica, ma scaturisce dalla
stessa volontà da cui è nato l’open source informatico,
configurandosi infatti come open science. Questi tecnici,
infatti, non saranno “professionisti”, ma sono in grado di
fare ricerca scientifica anche dentro a garage e scantinati
producendo risultati interessanti ed innovativi. Per esempio,
grazie al progetto Bioweathermap, gli stessi cittadini possono
partecipare all’analisi delle minacce ambientali che degradano
la qualità di vita delle nostre città. Fra gli esempi più
clamorosi c’è il caso della ventiquattrenne Kay Aull, laureata
al MIT, che con soli 300 dollari è riuscita ad “istituire” un
laboratorio di ricerca nel suo armadio analizzando parte del
suo genoma.
Il kit di Kay Aull, che
con soli 300 dollari è
riuscita ad analizzare
parte del suo genoma
Dati condivisi, risultati accelerati, costi contenuti
Fra i progetti interessanti vi è sicuramente il Personal
Genome Project, che si propone di sequenziale il genoma di
circa centomila volontari e di pubblicarlo in forma
accessibile da parte di tutti. A dirigere il progetto è George
M. Church, docente di genetica presso la Harvard Medical
School di Boston, che ha all’attivo anche la collaborazione
nella produzione di Polonator, un sequenziatore di Dna
ovviamente open source che ha la particolarità di poter essere
costruito da chiunque. In una intervista apparsa su Le
Scienze, Church spiega che la open science “incoraggia la
partecipazione alla ricerca, favorendone la comprensione e
coinvolgendo attivamente i non addetti ai lavori”. Secondo lo
studioso statunitense questo servirebbe per “rendere possibile
e incoraggiare la condivisione di dati che gli scienziati , da
soli, farebbero fatica a elaborare”. Il concetto è molto
semplice: i risultati condivisi possono far arrivare alla
soluzione in tempi più brevi, riducendo sensibilmente i costi
della ricerca.
E i guadagni?
Ovviamente c’è chi teme che fare ricerca in questo modo possa
dare qualche problema alle istituzioni scientifiche. E’ vero?
“Certo –dice ironicamente Church- la scienza rischia di avere
una nuova vitalità e di finire sotto i riflettori molto più di
quanto accada ora, e rischia di essere obbligata a occuparsi
di come rendere il nostro mondo un posto migliore”.
Sicuramente se la “genomica personalizzata e fai-da-te seguirà
il cammino dei personal computer, ci potrebbero essere
conseguenze economiche significative”. Però i guadagni
ricavati dai brevetti sulle innovazioni scientifiche non
diminuiranno. Anzi, lo studioso americano è convinto che
questi potrebbero aumentare “creando un ambiente più
innovativo e produttivo, che però potrebbe rendere alcuni
brevetti difficili da commercializzare e sfruttare”. Alla fine
un po’ di sacrificio per il bene dell’umanità ci vuole, no?
Genova, il Festival della
Scienza veste di spettacolo
il mondo della ricerca
Festival della Scienza di
Genova
Di Marco Milano
Genova, la scienza esce allo scoperto. Dal 29 ottobre, fino al
7 novembre, si alza il sipario su uno dei palcoscenici più
significativi nell’ambito della divulgazione scientifica
europea ed internazionale e che ha conquistato negli anni
larghissimo consenso e fama mondiale, il Festival della
Scienza. Con l’ottavo appuntamento annuale, si va confermando
quel rapporto privilegiato tra scienza e pubblico che fa di
questo festival una tradizione culturale per la città ligure e
non solo.
Dopo otto anni, infatti, la scommessa dell’associazione può
già vantare più di duecentomila accessi, registrati nelle
ultime edizioni, alle mostre, laboratori, conferenze e
centinaia di riferimenti su testate di carta stampata,
internet, radio e tv. Una formula già dimostrata, un successo
brevettato: avvicinare il mondo di scienza, ricerca e
tecnologia alle grandi masse, attraverso canali di
intrattenimento e comunicazione non accademica, mantenendo il
rispetto per il rigore e la correttezza dei contenuti. Nel
corso degli anni, tanti sono stati gli strumenti e tante le
idee per aprire le porte di quella che viene spesso vista con
sospetto come una torre d’avorio: mostre scientifiche,
artistiche e interattive, tavole rotonde, conferenze,
spettacoli, exhibit, caffè scientifici. Tutti percorsi
educativi, questi, intesi per dare una nuova immagine
all’universo scienza o per ristabilirne la giusta prospettiva
agli occhi di un pubblico spesso intimorito. Lo strumento
dell’esibizione della scienza, anche attraverso le forme
dell’arte e dello spettacolo, si è rivelato una strategia
vincente e necessaria negli ultimi anni non solo nel nostro
Paese, ma che vede in Italia proprio la città di Genova come
riferimento importante e indiscusso della comunicazione
scientifica – e fonte di ispirazione anche all’estero.
Orizzonti è la parola chiave dell’edizione 2010, a voler
immaginare gli enormi spazi di potenzialità della scienza,
accompagnati da limiti. Gli “orizzonti” del festival si
possono esplorare attraverso 6 percorsi, fili conduttori
pensati per permettere ai visitatori un orientamento coerente
e facilitato attraverso i quasi 350 eventi previsti per
quest’anno: orizzonti dell’uomo, delle idee, della tecnologia,
dell’universo, della luce e della materia, della vita. I temi
proposti hanno a che fare con una visione del futuro, un
percorso già avviato e di cui siamo tutti in qualche modo
protagonisti, a volte inconsapevoli. Il festival offre
l’opportunità di riconquistare questa prospettiva del futuro
attraverso la conoscenza e le sue fascinazioni.
Il 50esimo anniversario dell’accensione della prima luce laser
è solo uno tra i più importanti eventi di spicco di
quest’edizione, ‘contenitori del festival’, spettacoli – che
vedranno protagonisti anche il Teatro della Tosse e il
recentemente discusso Teatro Carlo Felice – mostre,
laboratori, eventi speciali. La dislocazione degli eventi è
frutto di scelte mirate, per facilitare le visite in punti
importanti della città, come Palazzo Ducale, l’Acquario, il
Porto Antico, la Biblioteca Berio, Palazzo Rosso, suddivisi in
8 ‘poli’.
Il Festival quest’anno si accompagna inoltre alla Biennale del
Mediterraneo, ospitando una selezione di eventi – ad esempio
la mostra su come si è formato il mediterraneo da parte
dell’Istituto di Geovulcanologia e Geofisica o il Science
Garden in cui è possibile passeggiare tra isole della
biodiversità – sviluppando temi legati alle potenzialità del
Mediterraneo, alla sua cultura scientifica.
L’accoglienza e la guida lungo i percorsi genovesi è a cura
dei tantissimi giovani animatori, anche quest’anno reclutati
durante i mesi di preparazione, che rappresentano, in qualche
modo, una delle più solide garanzie di successo: la scienza
raccontata da neo laureati in materie scientifiche o
ricercatori, conquista l’attenzione di tutte le fasce d’età e
stimola inaspettate curiosità, così come testato nelle
edizioni precedenti. La presenza e la continuità di
quest’evento è una fortuna non solo per Genova, ma per il
Paese tutto. Una realtà che vuole accorciare le distanze tra
cultura tecnico scientifica e linguaggio comune deve essere
consolidata ancora di più, se possibile, e applaudita, perché
indica la direzione giusta in tempi assai incerti.
Il sodalizio con Genova non è forse casuale, considerando un
certa predisposizione della città ad una sensibilità
culturale, anche tecnico scientifica. Un esempio forte che ha
già visto forme di emulazione, ma che non bastano ancora a
riempire quell’odioso gap culturale che ha allontanato troppo
e per troppo tempo la scienza dall’immaginario e linguaggio
d’abitudine. Con le responsabilità di entrambe le parti.
Per info:
http://www.festivalscienza.it/site/Home.html
http://www.festivalscienzalive.it/site/Home.html
Che paura la crisi economica
La Grande Depressione del
'29
Di Francesca Lippi
La notizia è di pochi giorni fa: fine della recessione.
L’incubo quindi dovrebbe essere terminato anche se le masse
non riescono ancora a vedere i risultati. Possiamo farci
passare il ‘mal di pancia’?
Chi lo dice e come mai?
Innanzitutto a decretare il termine della crisi più lunga dopo
la Grande Depressione del ‘29, è stato il National Bureau of
Economic Research (Nber), l’istituto di ricerca statunitense
dedicato alla promozione della conoscenza dell’economia. Su
che base, però? E che metodo utilizza per stabilirlo? In primo
luogo la definizione del Nber non si basa unicamente sul
Prodotto interno lordo, poiché tiene conto del “calo
significativo dell’attività economica diffusa in tutta
l’economia, del reddito reale, dell’occupazione, della
produzione industriale, e della vendita all’ingrosso e al
dettaglio”. Ovviamente poi l’ufficio calcola l’attività
economica basandosi sulle statistiche mensili e non unicamente
sulle cifre trimestrali.
Utilizzando diverse metriche e datando le recessioni di questi
mesi l’Nber è stato in grado di valutare la complessità delle
fluttuazioni delle economie dei paesi. James Poterba, docente
di Economia e Presidente della Nber, spiega che “due trimestri
consecutivi di modesto calo della produzione reale non possono
costituire una significativa diminuzione dell’attività
economica”. Al contrario, prosegue Poterba, “un periodo di
alternanza fra un forte calo trimestrale e alcuni modesti
periodi di ripresa potrebbero rappresentare un significativo
declino di lunga durata dell’attività economica”. Nel valutare
le sfumature del percorso attuale dell’economia, l’istituto di
ricerca ha datato l’inizio della recessione al dicembre 2007.
Il momento è stato stabilito anche se il Pil era leggermente
aumentato durante i primi mesi dell’anno successivo e
nonostante l’occupazione avesse raggiunto un picco proprio a
dicembre 2007. “Oggi –dice Poterba- 15 mesi dopo che
l’economia ha iniziato la sua lenta ripresa, la disoccupazione
resta di molto superiore alla sua media storica, il che
suggerisce che vi sono ancora notevoli risorse sottoutilizzate
nella nostra economia”. Questo non sembra contraddittorio al
direttore dell’Nber che conclude dicendo che “è possibile per
l’economia il fatto di essere su una traiettoria di lento
miglioramento anche quando il tasso di disoccupazione è ben al
di sopra della sua media storica. La distinzione fondamentale
risiede tra il livello di attività economica e il tasso di
cambiamento che può essere positivo, nonostante il livello
economico sia basso, come avviene attualmente”.
I soldi non danno la
felicità; senza si guarisce
dal cancro?
UE: se la crisi fa bene alla salute
Intanto in Europa arrivano buone nuove per la salute:
incredibile ma vero, la crisi potrebbe aiutare a combattere il
cancro. Non si tratta di uno spot di fantasia né di una
canzone di Enzo Jannacci. Sembra proprio che con la riduzione
dei costi ottenuta grazie all’adozione di abitudini di vita
più sane, si potrebbero aiutare le persone ad evitare alcuni
tipi di tumore. Lo European Journal of Cancer (Ejc, la rivista
ufficiale dell’Organizzazione europea del cancro) riporta che
all’interno dell’Unione l’incidenza di questa malattia è
aumentata circa del 20% dal 2002 al 2008. In uno degli studi
presentati nel EJC, José M. Martin-Morena dell’università di
Valencia ha affermato che l’attuale crisi economica in Europa
potrebbe avere degli effetti sull’incidenza di questa malattia
in moltissime aree. L’idea di Martin-Morena è che i Governi e
le aziende farmaceutiche potrebbero essere spinte a ridurre
drasticamente i budget per la ricerca e lo sviluppo. A questo
si deve aggiungere il rischio di crollo delle donazioni alla
ricerca contro il cancro e il probabile incremento
dell’esposizione sul posto di lavoro alle sostanze
cancerogene. Questo per esempio avverrebbe perché “sia le
aziende private che i Governi tendono a prendere delle
scorciatoie nei controlli di sicurezza sul lavoro durante i
periodi di crisi economica”. Eppure il ricercatore spagnolo è
convinto che la prevenzione dei tumori potrebbe essere
migliorata proprio durante questi momenti bui per i mercati.
La riduzione dei costi ottenuta grazie all’adozione di
abitudini di vita più sane potrebbe infatti aiutare molti a
evitare il cancro. “Anche i governi potrebbero fare la loro
parte – è stata la conclusione di Martin-Moreno- potrebbero
infatti cogliere l’opportunità per imporre tasse più elevate
su tabacco, alcol e altri prodotti malsani come i grassi
insaturi o gli zuccheri raffinati e per incanalare le entrate
così ottenute verso la creazione di posti di lavoro nella
prevenzione e nei programmi di benessere sociale”.
Panel di 150 scienziati per
valutare la rete scientifica
del Cnr: buoni i risultati
Di Federica Ricci
Si è conclusa ieri con la conferenza stampa tenutasi nella
sala Marconi del CNR, la valutazione della rete scientifica
del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Un panel di oltre 150
scienziati, dei quali 60 stranieri, presieduto dal prof.
Giancarlo Chiarotti dell’Università di Roma “Tor Vergata” ha
valutato per la prima volta i 107 Istituti del Cnr attraverso
uno screening individuale con valutatori esterni.
La valutazione degli istituti del CNR si è resa necessaria al
fine di individuare i punti di forza e di debolezza degli
Istituti; giudicare l’opportunità della loro attuale
collocazione all’interno dei Dipartimenti; vagliare possibili
aggregazioni; stabilire un ranking di massima.
In particolare per ogni istituto sono state valutate: la
produzione scientifica e brevettuale, le attività di
technology transfer, le attività educative, i progetti e
contratti, le infrastrutture, i materiali e le risorse di
personale della rete scientifica del Consiglio Nazionale delle
Ricerche dal 2004 al 2008.
Parametri che hanno permesso in seguito di classificare la
rete scientifica in due sezioni: A (Scienze, Medicina,
Ingegneria, Economia), composta da 87 Istituti di 8
Dipartimenti, e B (Scienze Umanistiche, Sociali, Giuridiche),
che comprende 20 Istituti di 3 Dipartimenti.
L’eterogeneità
disciplinare
“ha
comportato
una
certa
difficoltà comparativa specie tra aree culturali diverse”,
conclude il prof. Chiarotti. “Per questo, nella relazione
finale, gli Istituti sono stati ordinati per Dipartimento,
dove le affinità scientifiche permettono una migliore
valutazione comparativa”.
I risultati ampiamente positivi e apprezzati dalla componente
europea del panel, hanno confermato il livello internazionale
del Cnr.
La valutazione media risultante dai Panel ha raggiunto un
punteggio di circa 73/100 per gli Istituti della sezione A e
di 82/100 per quelli della sezione B. “La differenza tra
questi due valori”, spiega il Panel generale, “non è
significativa, essendo associata principalmente a differenze
nel metro di valutazione”.
49 Istituti della sezione A (il 56%) e 8 Istituti nella
sezione B (40%) si sono classificati con un punteggio pari o
superiore alla media, mentre 20 Istituti della sezione A
(ossia il 23%) e 12 Istituti della sezione B (33%) hanno
ottenuto un punteggio finale maggiore o uguale a 80,
collocandoli in un’area che può considerarsi di assoluta
eccellenza.
Riguardo la capacità di attrazione di risorse esterne da parte
degli istituti del Cnr (definita come rapporto tra fondi
esterni e fondi totali, inclusi i costi del personale) è
risultata pari al 30% per la sezione A e al 17% per la sezione
B, permettendo al Cnr di conquistare il primo posto in Italia
e il quinto a livello europeo
tra gli Enti pubblici di
ricerca dell’Ue.
il “I risultati complessivi”, sottolinea Luciano Maiani,
presidente del Cnr, “sono ampiamente positivi, in particolare
quelli stilati dalla componente europea del Panel, che hanno
evidenziato il livello internazionale dell’Ente.
I panelisti stranieri sono rimasti sorpresi nel constatare lo
stato della ricerca nei nostri Istituti: migliore di quella
descritta dai giornali scientifici stranieri. I nostri
Istituti hanno la capacità di svolgere un ruolo di leadership
nel campo della ricerca italiana e questa valutazione sarà
un’importante base di partenza per pianificare le strategie
future e un incentivo per i soggetti finanziatori (Ministeri,
Regioni e imprese) a investire nel Cnr”.
Concludendo il Panel generale ha ribadito la necessità di
rendere il CNR non solo il motore della ricerca nazionale, ma
anche promotore di interventi in settori strategici che
coinvolgano anche Università e organizzazioni industriali e
territoriali.
L’esame ha messo infine in evidenza il problema del sostegno
alla ricerca di base, per la quale il Panel generale
suggerisce di ricorrere, almeno inizialmente e nelle aree
riconosciute come prioritarie, al sistema degli overhead: cioè
al prelevamento di una parte degli introiti ricavati dai
contratti esterni. Tale sistema è largamente diffuso a livello
internazionale e ha dato in generale ottimi risultati.