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ANALISI DELLA TELEVISIONE
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UGLY BETTY E LE ALTRE.
Modelli femminili in alcune serie televisive contemporanee.1
0. Le fiction, favole di oggi.
La semiotica trova un campo privilegiato di analisi nelle serie televisive dato che ha affinato i propri
strumenti proprio nello studio di fiabe e racconti. Pare per altro indubbio che le cosiddette fiction2
costituiscano, assieme ai brevi racconti della pubblicità, le fiabe di oggi. Le affabulazioni
pubblicitarie, tuttavia, data la forma breve che le contraddistingue, hanno caratteristiche specifiche
che non coincidono se non in minima parte con quelle delle serie televisive. Queste ultime
presentano storie molto più articolate che hanno a loro volta solo in parte delle affinità con i
cosiddetti romanzi di consumo (rosa, giallo, fantascienza, ecc.) prima di tutto per la propria sostanza
audiovisiva e in secondo luogo perché tendono a ibridare i generi.
La fiction contemporanea è un oggetto di studio estremamente interessante anche perché,
nell’ultimo decennio, si è registrato in tutto il mondo un deciso accrescimento del suo rilievo in
quanto fenomeno mediatico e sociale. La funzione sociale della fiction si espleta non solo in
televisione, su reti generaliste e su canali satellitari, ma anche su altri media, come la stampa
dedicata, i siti internet, i blog, la circolazione in DVD, ecc. A differenza di tanti altri fenomeni
sociali, come ad esempio i comportamenti di consumo, difficilmente circoscrivibili in corpora da
analizzare, la fiction mantiene il vantaggio di essere costituita da testi distribuiti su vari piattaforme
mediatiche ma comunque circoscritti in unità precise, siano esse puntate o stagioni.3 Inoltre, mentre
per le altre analisi di tipo socio-semiotico è difficile trovare una forma di verifica, la misurazione
quantitativa dell’ascolto e dell’apprezzamento dal parte del pubblico è costantemente monitorata
dalle case di produzione, non solo, ma se ne ha oggi il “polso” anche guardando i commenti
pubblicati sulla rete, a volte in siti e blog dedicati specificamente a una determinata serie. Anche se
non sono al centro della nostra ricerca, più focalizzata sul prodotto, i dati di ascolto e di gradimento
rimangono preziosi perché ci permettono di formulare delle ipotesi su quanto una comunità socioculturale si sia rispecchiata e riconosciuta in una storia. Virtualmente, i racconti televisivi hanno la
possibilità di diventare altrettante rappresentazioni dei sogni, degli incubi, dei traumi, delle
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Alcune considerazioni su Sex and the city, Desperate housewives e Mujeres contenute in questo saggio si possono
ritrovare in Pozzato 2008. La parte su Ugly Betty è invece totalmente inedita.
2
In questo saggio userò “fiction” e “serie” come sinonimi, per semplicità. In realtà “fiction” è un termine che si usa
prevalentemente in Italia dove i professionisti del settore lo riservano ai prodotti italiani. La definizione più tecnica
sarebbe quella che distingue i generi scripted, cioè le serie narrative, da quelli unscripted, cioè l’intrattenimento. Certo,
anche l’intrattenimento ha i suoi autori, è sicuramente anch’esso “scritto”, ma in modo diverso quanto a contratto con lo
spettatore. La differenza fra lo unscripted e lo scripted mi sembra interessante proprio perché sposta la definizione da
una prospettiva referenziale (/realtà vs finzione/) a una enunciazionale (/Io-Tu vs Egli/).
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Naturalmente si intende qui per “stagione” la serie di puntate di una data fiction prodotte e trasmesse in una unità di
tempo, che di solito coincide con un anno. Anche nella distribuzione commerciale delle serie in genere i cofanetti
comprendono le puntate di ogni singola stagione.
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memorie di una comunità socio-culturale e dell’immagine che si dà di se stessa. Un enorme
successo o un flop sono ottimi indizi sui valori estetici ed etici del pubblico, sulla sua adesione o
meno ai modelli patemici e alle forme di vita proposte nelle serie. Quindi la fiction, con le cautele di
cui si dirà, diventa una lente attraverso cui scoprire qualcosa di più sui gruppi socio-culturali a cui si
rivolge.
1. La figura femminile nelle fiction.
1.1 Il taglio tematico.
Si possono fare diversi tipi di tagli per costituire il proprio corpus d’analisi nell’ambito delle serie
televisive. Quello che ho scelto in questa occasione è un taglio tematico dal momento che ho
raggruppato due fiction statunitensi molto note, Sex and the city e Desperate housewives, più una
fiction spagnola meno diffusa internazionalmente e meno nota, Mujeres, e infine uno dei casi più
globalizzati degli anni recenti, Ugly Betty. Le protagoniste di queste quattro serie sono donne e, per
quanto riguarda le prime tre, gruppi di donne legate da profondi legami di amicizia o di parentela.
L’antesignana è Sex and the city, serie pluripremiata trasmessa dalla rete HBO a partire dal 1998 e
sviluppatasi in sei stagioni per un numero complessivo di novantaquattro episodi. La prima stagione
si ispirò al romanzo omonimo di Candace Bushnell ma poi il creatore della serie televisiva, Darren
Star, si sganciò da questa origine e procedette autonomamente fino alla sesta e ultima serie, che
venne trasmessa negli Stati Uniti nel 2004. Sex and the city è stata indicata generalmente come la
prima serie in cui delle amiche-donne parlavano liberamente di sesso e mostravano di vivere una
vita sentimentale e sessuale molto disinibita nella New York a cavallo fra il vecchio e il nuovo
millennio. Un'altra caratteristica che è spesso stata considerata molto specifica della serie è la moda:
le quattro protagoniste, Carrie Bradshow, brillante pubblicista; Samantha Fox, affermata p.r.;
Miranda Hobbes, avvocato ricco e affermato; e Charlotte York, gallerista, vestono di regola abiti
firmati e mises studiatissime tanto che, sul sito ufficiale di Sex and the city, un link è dedicato
proprio all’illustrazione dettagliata dei capi indossati dalle protagoniste nei vari episodi. Insomma,
se si fa un giro in Internet, o si leggono i vari articoli dedicati a questa serie, quello che esce di
regola è il ritratto di una New York cosmopolita, dove le donne si affermano, vivono esistenze
divertenti frequentando club alla moda ma stentano a trovare una grammatica sentimentale
soddisfacente, a causa di una crescente inintelligibilità fra i sessi. Il legame fra le quattro amiche
forma una solida alleanza pratica e psicologica, destinata a controbilanciare la carenza di certezze
sul piano sentimentale.
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La seconda serie sembra nascere in qualche modo in connessione con la prima non solo perché la
prima puntata venne trasmessa dalla ABC television nell’ottobre 2004, proprio quando finiva Sex
and the city, ma anche perché il creatore e produttore di Desperate housewives, Marc Cherry, si
dice un grande fan di Sex and the city. Desperate housewives è tuttavia molto diversa da
quest’ultima sia per collocazione geografica, essendo ambientata in California, sia per la statuto
delle sue quattro protagoniste, Susan Meyer, Lynette Scavo, Bree Van De Kamp e Gabrielle Solis
che, a differenza delle amiche newyorkesi, hanno invece aderito pienamente alla tradizione
sposandosi in giovane età e adeguando (almeno apparentemente) il proprio modello di vita a quello
tranquillo e convenzionale di un sobborgo americano alto-borghese. Anche questa serie è stata
molto premiata e ha avuto un’ampia diffusione essendo stata trasmessa in ben centocinquantatré
diversi paesi. I commentatori hanno sottolineato il fatto che la serie si presenta come trasversale dal
punto di vista delle caratteristiche di genere: qualcuno, in rete, ha parlato di melting pop per indicare
quel mix di indagine poliziesca, sitcom comica e commedia sentimentale che contraddistingue le
prime quattro stagioni di Desperate housewives. L’aspetto di questa serie che è stato colto con
maggior frequenza, per esempio dalla stessa first lady americana, Laura Bush in una celebre
intervista televisiva, è il carattere liberatorio e trasgressivo con cui queste casalinghe upperclass
denunciano i drammi e le crepe della loro “perfetta realizzazione sociale”. Il legame fra le quattro
amiche fa da argine ai disastri famigliari in cui sono coinvolti non solo i mariti ma anche i figli. E se
fra alcune delle quattro casalinghe disperate sembrano sorgere a volte alcuni conflitti, di regola poi
l’amicizia si rinsalda e si rivela insostituibile nella difficilissima economia delle loro vite.
Mujeres, la terza serie che prenderò in considerazione, è costituita da una sola stagione di tredici
puntate di cinquanta minuti ciascuna, andate in onda a partire dal settembre del 2006 sulla Rete 2
della televisione spagnola e, in Italia, su Rai Sat a partire dal 6 ottobre 2006. Nel caso di questa
serie, i debiti sembrano essere sostanzialmente due: quello verso la cinematografia di Pedro
Almodòvar che, assieme al fratello, l’ha prodotta (si pensi a film come Donne sull’orlo di una crisi
di nervi o al più recente Volver, entrambi incentrati su rapporti fra donne); e quello verso la serie
americana Desperate housewives poiché, come hanno affermato i creatori di Mujeres, Felix Sabroso
e Dunia Ayaso, questa serie ha inteso costituire la “risposta mediterranea alle casalinghe disperate”.
L’ambiente è il barrio Hortaleza di Madrid e le quattro protagoniste sono, questa volta, parenti
strette: un’anziana, Palmira, che vive con la propria figlia rimasta recentemente vedova, Irene, e le
due figlie di lei, più o meno ventenni, Julia e Magda. La famiglia vive modestamente anche se non
nell’indigenza, dato che Irene gestisce una bella panetteria-pasticceria nel quartiere. Fra le quattro
donne insorgono forti conflitti che vengono però sempre risolti all’interno di un registro al tempo
stesso realistico e umoristico. Alla fine, questa coalizione fra donne-parenti, rafforzata da un
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importante contorno di amiche, dimostra tutta la sua efficacia contro le durezze della vita, dagli
acciacchi della vecchiaia ai lutti, dalle dipendenze da droga e alcol alle delusioni sentimentali
Questa serie non è comparabile alle altre due per sviluppo, constando di una sola stagione; né per
budget, in quanto sia Sex and the city che Desperate housewives sono grosse produzioni a
diffusione internazionale mentre qui ci troviamo di fronte a un prodotto molto curato da un punto di
vista autoriale ma a basso costo. Come si è detto, in Mujeres vi sono, oltre alle quattro protagoniste,
amiche di contorno molto importanti, come ad esempio Susana, una sorta di versione tutta
almodovariana delle spregiudicate protagoniste di Sex and the city. Ma nella serie spagnola il
nucleo femminile forte è infra-famigliare, racchiuso nelle mura di casa; così come in Desperate
housewives è inter-famigliare, cioè mantenuto sullo sfondo delle relazioni matrimoniali e di
vicinato di ciascuna delle protagoniste; infine, in Sex and the city, l’amicizia fra le donne è transfamigliare, senza alcun riferimento ai nuclei famigliari d’origine delle quattro protagoniste nonché
collocato sullo sfondo di una realtà socialmente globale e magmatica come quella di Manhattan.
Totalmente diverso è il caso di Ugly Betty, che tratterò a parte più avanti e che è interessante non
tanto per come dipinge la relazione fra donne quanto per il modello in sé di una femminilità forte e
difforme dalla norma. Lo straordinario interesse di questo prodotto è anche dato dal fatto che esso è
circolato in molte versioni diverse (reversioning di una serie), tutte ispirate al prototipo colombiano
ma anche adattate ai paesi che compravano il format: quindi abbiamo una Betty spagnola, una Betty
statunitense, una Betty tedesca, ecc. che condividono con la loro antesignana solo alcune
caratteristiche e solo in parte il destino. In Italia invece abbiamo visto la Ugly Betty statunitense,
ambientata a New York e interpretata da America Ferrera. Sarebbe interessante capire se ci siano
delle ragioni culturali, oltre che commerciali, che spieghino il fatto che non si è proceduto a una
“traduzione” italiana di questa ragazza intelligente e bruttina. Forse, in un contesto nostrano, dove
impera la “velinomania”, sarebbe apparso troppo assurdo che una ragazza di questo tipo avesse un
suo spazio e godesse di qualche credito?
Quando si trattano comparativamente più serie, un problema metodologico che si pone è quello
di stabilire dei piani di confrontabilità.4 Che cosa vuol dire che le serie in oggetto sono per certi
versi analoghe e per certi altri costituiscono invece trasformazioni posizionali all’interno di uno
stesso quadro di riferimento?
1.2. Come varia una serie di stagione in stagione.
L’unità-serie fa problema già in sé non solo per il grado di reciproca autonomia degli episodi ma
perché, da una stagione all’altra, a volte le serie cambiano sensibilmente. Per esempio Sex and the
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Proprio per rispettare un criterio di confrontabilità, non prenderò in considerazione in questo lavoro le stagioni di
Desperate housewives e di Ugly Betty prodotte e andate in onda dopo il 2008.
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city nella sua prima stagione appare meno psicologica, più esplicita e più cruda in materia di sesso
rispetto alle stagioni successive. Se ci collocassimo entro un paradigma funzionalista alla Jakobson,
potremmo dire che, di stagione in stagione, la serie cambia la sua funzione nel senso che in un
primo momento si proponeva di stupire e di scandalizzare ma poi si è evoluta prefiggendosi un altro
scopo: quello di far identificare profondamente le spettatrici offrendo loro delle “storie esemplari” a
cui ispirarsi. Da questo punto di vista è quindi difficile affermare che Sex and the city costituisca,
nello sviluppo delle sue sei stagioni, una serie unitaria.
Un po’ al contrario, Desperate housewives, nonostante il suicidio di Mary Alice e l’omicidio della
signora Huber, mantiene nella sua prima stagione un clima da soap, e le famiglie appaiono ancora
tutto sommato unite e contente del loro american way of life. La serie diventerà invece sempre più
noir nelle stagioni successive, con il moltiplicarsi dei delitti, dei divorzi, delle devianze
delinquenziali anche dei personaggi più irreprensibili, come ad esempio l’algida Bree che nella
seconda stagione lascia freddamente morire il fidanzato per omissione di soccorso.
Mujeres, avendo conosciuto un’unica stagione, è più compatta delle altre due anche se si può
forse rilevare un crescendo di paradossalità dalla sua nona puntata in poi a scapito di un maggior
realismo delle primissime puntate.
Altre variazioni interne alle serie sono quelle legate ai personaggi. Le quattro protagoniste
costituiscono altrettante declinazioni di possibili realizzazioni di valori entro un quadro comune: per
esempio, in Sex and the city, queste declinazioni sono intensive sul piano della vita sentimentalsessuale poiché per esempio Samantha è la più disinibita, Carrie la più fragile nei sentimenti,
Charlotte la più tradizionalista, Miranda la più disincantata; in Mujeres le declinazioni sono
generazionali, poiché vanno dall’adolescente alla donna anziana; in Desperate housewives sono sul
piano della realizzazione matrimoniale poiché si va dalla sposatissima Lynette alla divorziata
Susan, passando attraverso matrimoni problematici come quelli di Gabrielle e Bree.
Ognuna delle tre serie ha diversi piani di confrontabilità con le altre due. Per esempio, è ovvio che
alcuni aspetti realistici delle prime puntate di Mujeres entrano in consonanza con il realismo
psicologico delle ultime puntate di Sex and the city; o, parlando di personaggi, che la disinibita
Samantha di Sex and the city potrebbe fare tranquillamente amicizia con Susana, l’arrembante
amica di Irene in Mujeres. Anche se ciascuna delle tre serie trova il proprio baricentro semantico in
uno specifico aspetto della contrapposizione fra maschile e femminile, come vedremo più avanti,
alcuni aspetti secondari dell’una richiamano aspetti fondamentali dell’altra, e viceversa. Per
esempio, anche in Mujeres c’è un piccolo giallo legato all’uccisione di un malavitoso locale, ma
questa linea narrativa è quasi del tutto irrilevante mentre gli aspetti gialli e investigativi sono
centrali in Desperate housewives. O ancora: anche in Desperate housewives le donne vestono bene
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e amano gli oggetti di lusso, ma come status symbol; mentre la moda, in Sex and the city, è
fondamentale nella complessa e delicata rappresentazione culturale del corpo sessuato delle
protagoniste.
1.3. Generi narrativi.
Le tre serie giocano in modo diverso la carta del genere. Per quanto riguarda il grado di aderenza
alla realtà, gli autori di Mujeres dichiarano di aver voluto fare una fiction realistica, ed
effettivamente le protagoniste sono a volte mostrate nei momenti più minuti della loro vita
quotidiana, persino in bagno, mentre siedono sul wc. Tuttavia, per altri versi, questo realismo non
sembra trovare conferma: gli ambienti sono ricostruiti in studio, comprese piazze e strade; le varie
vicende sono spesso esilaranti e arrangiate in modo paradossale, costituendo una specie di pochade
dove tutto è esagerato. Da questo punto di vista Mujeres si avvicina più al “realismo” della Reality
Tv (eccessi, colpi di scena, spettacolarizzazione paradossale del quotidiano comune) che non
all’allegorismo fantastico di certa filmografia spagnola.
Non è realistico, né pretende di esserlo, Desperate housewives. Questa serie non mostra affatto
“personaggi comuni in situazioni eccezionali”, come recitano in Internet alcune schede che la
riguardano. Le protagoniste non sono infatti personaggi a tutto tondo ma caratteri molto costruiti e
stereotipati, quasi da commedia dell’arte: l’iperordinata, l’imbranata, la mamma in carriera, la rubamariti, ecc., sono simpatiche e riuscite proprio perché incarnano alla perfezione dei prototipi.
Sono invece piuttosto realistici molti episodi dolenti di Sex and the city, una serie che non trascura
temi difficili come ad esempio il cancro. I personaggi di questa serie hanno spessore psicologico,
soffrono, temono, sono incerti sul da farsi e soprattutto non sono facilmente collocabili entro
coordinate stereotipate. Ogni schema di prevedibilità viene puntualmente sovvertito: Samantha in
fondo è fragile, Charlotte sa essere disinibita, Miranda si rivela la più buona e Carrie, forse, è la più
forte.
A quali generi appartengono dunque queste tre serie? Si potrebbero coniare dei neologismi:
Sentimental drama per Sex and the city; Reality comedy per Mujeres; Wasp noir per Desperate
housewives, ma questo non aggiungerebbe molto alla nostra comprensione. Potrebbe essere più
fecondo andare alla ricerca di divergenze e somiglianze con generi affini, di cui si conoscono
abbastanza bene le caratteristiche, come ad esempio il romanzo rosa. Se partiamo dal fatto che il
matrimonio è centrale in tutte e tre le serie, possiamo utilmente rievocare un concetto lévistraussiano, quello di atomo di parentela (Lévi-Strauss 1973). Esso è costituito da marito, moglie,
figlio/a, e parente che si assume il compito di cedere una donna della propria famiglia come moglie
a un uomo di un’altra famiglia. Nelle nostre culture, tradizionalmente è il padre che “dona” in sposa
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la figlia al genero. In tutte e tre le serie che stiamo considerando invece abbiamo un’assenza totale
di padri e una proliferazione di madri devastanti: in Mujeres tutte, a parte la giovane Magda, sono
madri di qualcuno e sempre madri che non mollano, come la vecchia Palmira che adotta il giovane
Gabriel e si oppone al matrimonio di lui con Mariana. In Desperate housewives si affacciano, anche
se per poco, le madri intriganti, violente o semplicemente nevrotiche di Susan, del defunto marito di
Bree, del suo nuovo marito Orson, della figlia illegittima del marito di Lynette. Anche in Sex and
the city, in cui le protagoniste sono sradicate completamente dalla famiglia d’origine, abbiamo però
le madri dei partner: la madre snob di Big, la prepotente madre scozzese del primo marito di
Charlotte, la simpatica ma invadente madre ebrea del secondo marito di Charlotte, e soprattutto la
madre del marito di Miranda, che finirà addirittura per convivere con la coppia. Questo proliferare
di madri-suocere, in totale assenza di padri, sconvolge il tradizionale atomo di parentela: c’è una
matriarca che non cede il proprio figlio, o lo cede molto malvolentieri. Sotto questo aspetto, le serie
che stiamo considerando sono altrettanti casi di anti-rosa poiché il genere rosa prevede al contrario
una generale assenza delle madri delle eroine, puntualmente morte prima dell’inizio della storia, e
quindi una struttura patriarcale pura.
1.4. Tipologia dell’intreccio.
C’è del mitismo nelle tre serie, nel senso lévistraussiano del termine? Sono, in altri termini, delle
narrazioni in grado di conciliare sul piano immaginario delle contraddizioni reali? Le protagoniste
di Mujeres vivono insieme per ragioni economiche: se ognuna di loro fosse giovane, sana e
indipendente, probabilmente le loro vite sarebbero molto meno simbiotiche. La costrizione
ambientale fa emergere però una solidarietà intergenerazionale. La serie pacifica quindi una
contrarietà evidente fra generazioni ognuna delle quali ha i suoi ritmi, le sue aspirazioni, i suoi
problemi ma alla fine tutto trova una composizione in chiave affettivo-familistica. In questo senso
Mujeres è una sorta di favola a lieto fine. Desperate housewives, come tutti i noir che si rispettino,
mostra invece una progressione peggiorativa delle situazioni. La contrapposizione fra un apparente
eden socio-economico e una degenerazione criminosa latente non trova composizione ma anzi, a
mano a mano che le stagioni si susseguono, è difficile mantenere anche solo il ricordo della
situazione idilliaca da cui si era partiti. Sex and the city finisce, nella sua ultima stagione, con
l’accasamento felice di tutte e quattro le sue protagoniste. La contrapposizione fra i regimi patemici
e valoriali del maschile e del femminile è superata nelle ultimissime puntate grazie al più classico
degli happy end. L’amore stabile e corrisposto si afferma come il vero Valore, con l’abbandono di
uno stile di vita più libero e individualistico. Sex and the city si avvicina in questo, e solo in questo,
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al romanzo rosa dove il violento scontro polemico fra uomo e donna viene risolto puntualmente in
chiave romantica.
Quindi vediamo che anche dal punto di vista della risoluzione narrativa, le tre serie si
differenziano molto: Mujeres è ottimista come una fiaba; Desperate housewives pessimista come
una tragedia; Sex and the city consolatoria come un feuilleton poiché l’affresco sociale rimane
negativo e il riscatto riguarda solo le eroine.
1.5. I motivi ricorrenti.
Un altro aspetto delicato da trattare è quello legato alla presenza o meno di motivi ricorrenti che
possono far considerare le tre serie un corpus coerente da qualche punto di vista che non sia quello
banale della tematizzazione /amicizia fra donne/, o quello empirico-commerciale di /serie che si
sono influenzate a vicenda/. Secondo Joseph Courtés (1986), perché un elemento ricorrente possa
essere chiamato “motivo” esso deve avere una consistenza di tipo figurativo-metaforico. Per
esempio, in tutte le fiabe europee, la frutta secca, e in particolare le nocciole, appaiono connesse ai
riti propiziatori della fecondità e quindi a storie di fidanzamenti e matrimoni. Anche la cassa per il
corredo, prosegue Courtés, ricorre in questo tipo di storie ma non è un motivo bensì un cliché
socioculturale poiché il fatto che la sposa riponga il suo corredo in una cassa fa parte delle storie di
fidanzamento-matrimonio ma non c’è nulla di metaforico in tutto ciò.
Se ci atteniamo alle definizioni di questo studioso di etnoletteratura, quindi, nemmeno il
matrimonio può essere considerato a rigore un motivo in quanto non metaforizza nulla ma semmai
figurativizza, nel senso di dotare di spessore concreto, una unità semantica più astratta come quella
di /contratto/. Per tornare alle nostre tre serie, i cliché socioculturali più evidenti sono: i figli che
litigano con i genitori e che non obbediscono alle stesse regole di questi ultimi in Mujeres e in
Desperate housewives, mentre la stessa problematica è pressoché assente in Sex and the city; il tema
della moda, del vestire, della seduzione tramite beni di tipo materiale (marchi famosi, chirurgia
plastica, beni di lusso, stili di vita agiati) presente in Sex and the City e in Desperate housewives ma
assente in Mujeres, ecc. Si potrebbe continuare a lungo, individuando fra i tre prodotti un lungo
elenco di “somiglianze di famiglia”. In realtà, ciò che a mio avviso appare veramente costante in
tutte e tre le serie è un difficile rapporto fra uomo e donna: generalizzando grossolanamente, perché
l’uomo in Mujeres è gay, in Sex and the city è un narcisista, in Desperate housewives è un violento.
Vediamo in questo modo, a una distanza che toglie la percezione di tutti i particolari per lasciare
emergere solo le grandi ricorrenze, che in fondo le tre serie articolano rispettivamente tre grandi
tematiche inerenti al rapporto fra i sessi: la potenziale estraneità del maschile al femminile
(omosessualità); la potenziale svalorizzazione del femminile da parte del maschile (narcisismo,
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strumentalismo sessuale dell’uomo verso la donna); la potenziale pericolosità del maschile per la
donna e i suoi figli (omicidio, istigazione al suicidio, pedofilia). Questi temi sono presenti in realtà
in tutti e tre i prodotti ma con valenze e pesi diversi.
Vediamo per prima l’omosessualità. In Sex and the city non è un problema, i gay sono fra i
migliori amici delle protagoniste; costituisce invece un problema in Desperate housewives, dove il
figlio omosessuale di Bree vive la sua diversità in un contesto di inganno, ribellione e devianza
criminale. Questo tema è infine cruciale in Mujeres dove Julia rimane incinta di Jaime che però la
lascia per un uomo. È importante non generalizzare: è solo all’interno del nostro corpus che
l’omosessualità risalta per la sua contrapposizione al femminile. Se si prendessero in considerazione
serie interamente centrate sull’omosessualità, come ad esempio The L word o Will & Grace, o
Queer as Folk, le considerazioni cambierebbero totalmente.
Vediamo ora il secondo tema, quello della svalorizzazione strumentale del femminile: essa è
sempre in agguato in Sex and the city inquinando il valore della faticosa indipendenza delle
protagoniste; è irrilevante nell’universo iper-regolamentato di Desperate housewives, dove le donne
non si fanno sfruttare ma si fanno sposare e, in caso di divorzio, mettono in ginocchio i mariti; la
svalorizzazione della donna sembrerebbe apparentemente irrilevante anche in Mujeres dove però
troviamo in Palmira, la nonna ancora ‘desiderante’, una figura di femminilità degradata che
meriterebbe approfondimento.
Infine, il terzo tema, quello della violenza: psicologica in Sex and the city, dove soprattutto Carrie
è spesso sopraffatta dal maltrattamento sentimentale degli uomini; violenza fisica in Desperate
housewives, dove le donne sono vittime di omicidi e o di suicidi indotti dagli uomini; violenza
“presente in absentia” in Mujeres, dove il marito ormai morto di Susana viene descritto come un
tipaccio che la picchiava. La solidarietà fra donne, tema costante delle tre serie, gioca adesso un
ruolo più chiaro: le donne solidarizzano in contrapposizione ai tre schemi polemici
dell’omosessualità, del narcisismo e della violenza maschili.
Capiamo anche meglio, dopo queste considerazioni, da che cosa sia determinato in profondità il
genere delle tre serie: la dominante noir è richiesta, in Desperate housewives, dalla tematica
soggiacente della violenza delittuosa; la componente consolatoria del finale è richiesta, in Sex and
the city, dal tentativo di superare il sospetto di degradazione sessuale della donna con una sua
rivalutazione della stessa sul piano sentimentale; il carattere di pochade di Mujeres appare infine
legato al tema delle identità sessuali ambigue, da sempre connesso nella nostra cultura con i regimi
carnevaleschi del travestimento, della pantomima, del paradosso.
Come rileggere, alla luce di queste ultime considerazioni, la manifesta caratteristica matriarcale
delle tre serie in oggetto? Perché dietro questi uomini violenti, omosessuali, narcisisti c’è sempre
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una madre terribile? Senza voler sconfinare in considerazioni psicoanalitiche, ma limitandoci a
rilevare quelle che sono le componenti ricorrenti di queste storie, si può concludere che l’alleanza
amicale e tutta al femminile fra le protagoniste delle tre serie non si oppone semplicemente a un
maschile ostile ma a un maschile reso ancora più ostile dalla presenza di una donna che non cede il
figlio, per ritornare all’atomo di parentela di Lévi-Strauss. Nelle scene di matrimonio che costellano
tutte queste serie, le donne vanno significativamente all’altare da sole, non vengono cioè mai
accompagnate da un padre o da un qualsiasi altro uomo che le cede al futuro marito. Questo non è
affatto banale poiché in ogni soap che si rispetti la sposa va invece all’altare a braccetto del padre.
Esistono studi sulla rappresentazione, nei telefilm, della progressiva disgregazione delle famiglie
statunitensi nel corso degli anni Novanta.5 Cfr. Alberto Sigismondi “La breccia nello schermo. La
rappresentazione della società americana nei telefilm” in AAVV 2007. Del resto, anche le fiction italiane
mettono in scena ormai da tempo famiglie aperte, allargate o semplicemente disgregate. L’aspetto
interessante sta nella diversa modulazione del problema a seconda del prodotto. Nelle tre serie che
stiamo considerando, l’assenza dei padri appare correlata alla solidarietà fra donne e questo sembra
un tratto molto caratterizzante.
1.6. Il dialogo fra le tre serie.
Come ho detto nelle presentazione iniziali, le tre serie sono nate e hanno vissuto in una situazione di
relativa contiguità spaziale e temporale: spaziale, in quanto sono tutte state trasmesse da importanti
reti televisive (Mujeres, in patria, dal secondo canale della TVE) e rientrano quindi nel campo dei
grandi network; temporale perché, come si è detto, si sono succedute come punto di inizio e
parzialmente sovrapposte nelle varie stagioni.6 La collocazione spazio-temporale è sempre stata
considerata importante all’interno dell’antropologia strutturale e della semiotica della cultura. Si
pensi all’idea di Jurij Lotman di diversi sistemi o testi che ad un certo punto “entrano in contatto”
fra loro nella Semiosfera; o alla fondamentale ipotesi di Lévi-Strauss secondo cui i valori culturali
dei gruppi umani si definiscono in rapporto, e spesso per contrasto, rispetto ai valori delle comunità
limitrofe. È in particolare nel saggio “Come muoiono i miti” (Lévi-Strauss 1971) che l’antropologo
francese si pone il problema di come le storie evolvano fino a stravolgersi e deteriorarsi, e questo
“non nel tempo ma nello spazio”. La dimensione è quindi sincronica, come nel nostro caso, dato
che la rapida successione temporale delle tre serie non può far pensare a una evoluzione ma semmai
a una riarticolazione sincronica, a una sorta di ripresa e trasformazione anche perché, a livello di
5
Cfr. Alberto Sigismondi “La breccia nello schermo. La rappresentazione della società americana nei telefilm” in
AAVV 2007.
6
Le puntate che prendiamo in considerazione in questo lavoro, come si è detto, sono quelle comprese nelle seguenti
stagioni: Sex and the city, 1998-2004; Desperate housewives, 2004-2008; Mujeres, 2006.
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fruizione, il prodotto televisivo circola ben oltre le date della sua programmazione originale,
estendendosi in periodi successivi ad altri pubblici, nella versione in DVD per esempio, o
riproponendosi in repliche televisive negli stessi paesi d’origine. Possiamo quindi supporre che le
tre serie si siano influenzate in successione (Sex and the city → Desperate housewives → Mujeres)
dal punto di vista produttivo ma che, circolando anche successivamente in contemporanea nella
Semiosfera, si ri-influenzino l’un l’altra ripetutamente quanto a letture. Queste continue ricontestualizzazioni della loro fruizione, assieme all’intertesto mediatico che le riguarda (articoli di
stampa, Internet, riprese varie in media diversi) hanno finito per fare, delle protagoniste delle nostre
tre serie, altrettante eroine mediatiche, per riprendere il termine che Gianfranco Marrone ha
felicemente coniato per il commissario Montalbano (Marrone 2003). Per esempio, in una puntata di
Ugly Betty, serie di cui tratteremo poco più avanti, a un certo punto la redazione della rivista di
moda va in subbuglio perché sta per piombarvi, alla ricerca di un abito originale, Sarah Jessica
Parker, ovvero l’attrice che impersona Carrie Bradshow in Sex and the city. In un miscuglio
vertiginoso di piani di finzione e di realtà, in Ugly Betty viene così attribuita a Sarah Jessica Parker
la caratteristica di fashion victim propria di Carrie Bradshow. Il fatto che Parker, e non Bradshow, si
rechi alla redazione di Mode, crea ovviamente un effetto di realtà per quanto riguarda il mondo di
Ugly Betty.
L’idea di una “morte dei miti” mi sembra interessante per il caso che stiamo trattando. LéviStrauss dice che “un mito che si trasforma passando da una tribù all’altra e da ultimo si estenua
senza peraltro scomparire.” (Lévi-Srauss 1971, p. 308 tr. it) È senz’altro problematico comparare
una fiction a un mito ma se, come credo, alla base di queste tre fiction, nate a breve distanza
temporale e circolanti in contiguità spaziale, c’è un motivo-base costante, potrebbe essere non
banale considerare le tre fiction come altrettanti adattamenti, da parte di tre diverse comunità socioculturali, di una stessa contraddizione mitica di base. Così, Sex and the city parlerebbe delle
difficoltà emergenti nella grande metropoli globalizzata dove i rapporti uomo- donna non sono più
grammaticalizzabili; Desperate housewives, esprimerebbe l’urto fra i sessi all’interno di una società
iper-regolamentata da una tradizione che ormai di solido mantiene solo la facciata; Mujeres,
metterebbe in scena le inquietudini femminili all’interno di una società europea ex-cattolica, che
teme il rovescio della medaglia del suo stesso nuovo libertarismo.
1.7. Le serie sono “sintomi” sociali?
L’ipotesi appena tratteggiata è che le serie in oggetto rilevino malesseri presenti nel sociale. La
valenza rappresentativa della fiction contemporanea nei confronti della società è stata più volte
sottolineata dagli studi sociologici dedicati a questo campo. Quello però che il semiotico si chiede è:
144
chi rappresenta che cosa e per chi? Già sostituendo il termine “società” con quello di “spazio sociale
di rappresentazione” (Landowski 1989), si mette in discussione una concezione sostanzializzata del
sociale a favore di un oggetto di studio diverso: una serie di pratiche e di testi prodotti, assunti,
interpretati da una collettività mutevole, che definisce le proprie identità rispetto a fattori e a
occasioni sempre più fugaci e in trasformazione. Sicuramente non viviamo più in società “fredde”
che tendono a difendersi da ogni trasformazione. Probabilmente, come suggeriscono, a distanza di
quasi mezzo secolo l’uno dall’altro, sia Claude Lévi-Strauss che Umberto Eco, le società attuali
sono un misto di società fredde e di società calde, tendono cioè a unificare progressivamente i
caratteri tipici di entrambe facendo convivere elementi di trasformazione ed elementi di
conservazione se non di retrocessione. (Lévi-Strauss 1960; Eco 2006)
La semiotica da sempre è molto prudente di fronte a ciò che “effettivamente succede” nel sociale.
Tuttavia, come si è detto all’inizio di questo lavoro, la serialità televisiva dà un’opportunità in più di
verifica. Lasciamo quindi da parte, per il momento, Mujeres e interroghiamoci sul successo di
Desperate housewives e di Sex and the city: a parte l’indubbio pregio di confezione delle due serie,
la loro diffusione e la loro longevità fanno pensare ragionevolmente a un’esperienza di
rispecchiamento da parte del pubblico. Vi sono forti analogie con il folclore inteso come selezione,
da parte di una comunità socio-culturale, di alcuni elementi a scapito di altri: come affermano Pëtr
Bogatyrëv e Roman Jakobson nel loro saggio “Il folclore come forma di creazione autonoma”
(Bogatyrëv, Jakobson 1929), le formazioni culturali popolari non sono frutto della creazione
spontanea di una collettività omogenea, come vuole la tradizione romantica. Il folclore, come viene
descritto in questo saggio, appare piuttosto come il risultato di un lavorìo traduttivo, di un filtraggio
attraverso rifiuti e accoglimenti collettivi di stimoli che provengono da ambiti diversi: “La vita di un
tema folclorico in quanto tale incomincia solo dal momento in cui è stato accolto da una data
comunità ed esso esiste solo in quanto questa comunità l’ha fatto proprio.” (Bogatyrëv, Jakobson
1929, p. 60 tr. it) Vediamo un esempio degli autori: perché le versioni popolari dei romanzi lasciano
cadere, di questi ultimi, le lunghe descrizioni? Perché “non piacciono”, dicono gli autori. Ci sarebbe
in altri termini una “censura preventiva della comunità” che sancisce la nascita stessa di un fatto
folclorico. Ed è esattamente quello che avviene oggi con la fiction: si fanno delle puntate-pilota, o
delle prime stagioni esplorative, e poi si vede se vale la pena o meno di continuare la produzione.
Addirittura, nel caso delle sitcom, il pubblico presente nello studio-teatro sancisce direttamente, con
applausi o risate, la battuta divertente e, se non lo fa, la scena viene cambiata.7 In questo modo il
pubblico diventa a sua volta autore, indirizza la produzione, la ri-elabora a colpi di “sì” e di “no” a
quanto gli viene proposto. Il concetto stesso di autorialità in questo modo viene messo in
7
Cfr. Antonio Visca, ‘Come nasce una puntata”, in AAVV 2007.
145
discussione. Come dicono Bogatyrëv e Jakobson, “per la scienza delle tradizioni popolari ciò che
conta non è l’origine e l’esistenza di fonti esterne al folclore, ma la funzione del prestito, la scelta e
la trasformazione della materia mutuata.” (op. cit. p. 64 tr. it.) In altri termini, quando si tratta di
folclore, si deve abbandonare l’atteggiamento filologico e analizzare il risultato senza tracciare una
barriera netta tra produzione originaria e remake perché anche nella riproduzione c’è una valenza
creativa, l’opera viene “reinterpretata in modo nuovo” e persino gli aspetti formali che sembrano
essersi conservati possono in realtà aver cambiato funzione nel nuovo contesto.
Un altro tema molto interessante sia per il folclore che per la fiction è quello del grado di
omogeneità culturale di chi produce e di chi fruisce del prodotto. Negli anni Venti, quando gli
autori scrivevano questo saggio, veniva riscontrata l’esistenza di uno stesso ricco e vivace repertorio
folclorico fra contadini molto diversi tra loro per costumi, ideologia e appartenenza socioeconomica. Ed è quello che succede esattamente anche oggi poiché le fiction hanno uno
straordinario successo, sia come ready made sia come prodotto di reversioning, presso realtà
culturali diversissime. Si pensi al caso, che vedremo, di Ugly Betty, format colombiano che ha fatto
il giro del mondo in tante versioni locali. Se vediamo la fiction come un caso di neo-folclorico,
siamo indotti a pensare che prodotti come Desperate Housewives e Sex and the city riescano ad
avere successo in tanti paesi diversi non perché propongano temi universali ma è perché contengono
al loro interno una ricca serie di sfaccettature, e forse anche di incoerenze, così da poter risultare
gradite a pubblici radicalmente diversi. Sono, in altri termini, dei dispositivi traduttivi, che
disseminano al loro interno le chiavi per una diversa lettura locale. Così, per azzardare degli esempi,
è probabile che, nell’America puritana, Sex and the city abbia svolto la funzione di rompere dei tabù
e Desperate Housewives abbia dato voce alle inquietudini di una borghesia femminile bianca troppo
stretta nella morsa del perbenismo sessuofobico. In Europa molto probabilmente le stesse serie non
hanno avuto successo per questi motivi ma, forse, la prima per lo humour newyorkese e l’eleganza
della vita sociale a Manhattan; la seconda, per il sarcasmo con cui viene dipinto un certo stereotipo
della vita d’oltreoceano. Sono ipotesi del tutto inverificabili ma le espongo solo per suggerire che i
diversi pubblici delle fiction, come nel caso del folclore, con tutta probabilità trattengono e lasciano
cadere cose diverse costruendo il prodotto folclorico a partire da un prototipo che però questa volta
non è un prodotto di poesia o di letteratura “alte”, come negli esempi di Bogatyrëv e Jakobson, ma
una vera “macchina narrativa” globale costruita appositamente per produrre fruizioni folcloriche
locali.
Come si concilia questa ipotesi con quella, più strutturale, sui temi-base delle tre serie?
Collocandole su due piani diversi. Un conto sono i motivi per cui le fiction incontrano o non
incontrano i gusti dei pubblici; un altro sono i motivi profondi che articolano. Questi fanno parte di
146
un aspetto antropologico, di più lunga gittata e di più ampia contestualizzazione: nessun ritorno
all’universalismo, ma difesa dell’idea che comunque vi siano piani di strutturazione della vita
culturale che non possono essere ricondotti ai gusti del momento. Questa idea la troviamo
ovviamente in Lévi-Strauss ma anche in Lotman: c’è un fondo culturale da cui emergono le
formazioni semiotiche più specifiche, un tutto che controlla le parti. O, come forse direbbe LéviStrauss, dei miti di partenza che poi si riarticolano, circolano, e infine muoiono.
1.8. Problematiche di genere, problematiche di gender.
Un’altra questione riguarda le modalità di testualizzazione delle tre serie. La regia delle due serie
statunitensi mostra una singolare uniformità, segno che esiste ormai protocollo da serie tv, uno
standard abbastanza preciso modulato sulle routines produttive e sui tempi televisivi, interruzioni
pubblicitarie comprese. Un discorso a parte, andrebbe senz’altro dedicato alle sigle delle tre serie
dove l’omogeneità registica di cui si è detto viene meno, e risaltano modalità espressive molto
interessanti e diversificate, rese ancora più pregnanti dalla forma “breve”. Non c’è lo spazio, qui,
per analizzare tutte le sigle delle serie in oggetto ma si può vedere, in questa stessa raccolta di saggi,
l’analisi della sigla di Sex and the city, che dovrebbe far capire l’importanza e la pregnanza di questi
elementi paratestuali nella serialità televisiva contemporanea.8
Nelle scene interne alle fiction il montaggio è veloce, le scene si alternano spostando l’attenzione
dello spettatore, nel giro di secondi, da una storia all’altra dentro l’episodio, con stacchi narrativi e
tematici rapidi e continui. I campi medi, che danno l’idea dell’ambiente, si alternano velocemente a
campi più ravvicinati, fino al primissimo piano per le sottolineature patemiche. Spesso si indulge in
inquadrature in primo piano anche di oggetti, in Desperate housewives per dare indizi che
permettano di far avanzare o risolvere il giallo, in Sex and the city per sottolineare un elemento di
tipo estetico. Un po’ più filmiche le modalità di Mujeres, ma di un filmico molto intrecciato a
modalità teatrali, come nella prima filmografia almodovariana, con lunghi dialoghi in interni, e
inquadrature a camera fissa, alternata a primi piani.
Questo aspetto registico delle tre serie andrebbe indagato più approfonditamente ma ho il sospetto
che eventuali differenze o somiglianze stilistiche fra le serie americane e quella spagnola abbiano
più a che vedere con differenze di budget che con intenzioni espressive specifiche. Più interessanti
mi sembrano invece le modalità di enunciazione perché, come noto, le vicende di Desperate
housewives sono puntualmente commentate dalla voce fuori campo di Mary Alice, l’amica che si
suicida nella prima puntata della prima serie; mentre Sex and the city ha una ripresa metalinguistica
da parte di Carrie, che costruisce i suoi articoli di costume sulla base delle storie vissute da lei e
8
Infra, “Forme brevi e serialità televisiva: la sigla di Sex and the city.”
147
dalle sue amiche. Anche in questo risalta il diverso grado di realismo delle due serie, soprattutto a
livello psicologico. I personaggi di Desperate housewives e le loro vicende sono talmente
stereotipaci e irreali da poter essere commentati da una morta. Entrambe le serie americane però
sentono il bisogno di questa ripresa commentativa delle vicende, con voce femminile, dimostrando
in questo un’analoga struttura didascalica, come se la storia si proponesse di fornire, alla fine, una
morale o comunque una conclusione condivisibile. In questo Mujeres è molto diversa perché non vi
è nessuna voce commentativa o metalinguistica ma tutto si gioca nei dialoghi e in questo modo
viene rappresentata in Mujeres una comunità che riesce ad autoregolarsi a livello collettivo.
Se si riscontri, in queste tre serie, una scrittura di gender è difficile da dire, anche senza voler
evocare il fatto empirico che i loro principali ideatori sono uomini. Il punto di vista, in tutte e tre i
casi, è fortemente ancorato ai personaggi femminili, il mondo è visto con i loro occhi, i problemi
sono i loro problemi. In questo senso le tre serie sono “al femminile” ma non mi sembra si possa
dire che questo comporti una qualità specifica di scrittura e di regia. Sicuramente, per tornare al
discorso della fiction come prodotto neo-folclorico, l’apprezzamento da parte di un pubblico
femminile può essere considerato una ri-enunciazione al femminile delle serie che stiamo
considerando. Come risulta dall’intervista di Fabio Guarnaccia a Fabrizio Salini di Fox Italia, (in
AAVV 2007), il canale Fox Life, che ospita primariamente Desperate Housewives, nasce in Italia
come canale tematico definito su un target femminile. Vediamo come la riflessione sul folclore
sposti anche la discussione da una autorialità femminile singolare (per altro assente in queste serie)
a una sorta di soggetto femminile collettivo che, in quanto pubblico, ha modalità sue proprie di
selezionare e ri-creare il discorso di fiction, tarandolo su specificità di gender.
2. Il caso Ugly Betty
2.1. La bruttezza come forma culturale.
In questa parte del lavoro affronteremo il problema della modellizzazione del femminile nella
fiction partendo da due questioni: la prima riguarda la definizione culturale della bruttezza, tema
centrale della serie Betty la fea/Ugly Betty; la seconda riguarda le modalità in cui oggi si afferma e
si traduce, a livello internazionale, uno scripted format seriale. In entrambi i casi, si tratta di
considerare come il contesto culturale determini in profondità il significato di un oggetto. La mia
attenzione sarà focalizzata soprattutto sul prodotto statunitense, che ho potuto studiare più
attentamente, con alcuni confronti con le versioni messicana, spagnola e tedesca.
Nel suo libro intitolato Storia della bruttezza (Eco 2007), Umberto Eco afferma che il giudizio su
ciò che è bello e su ciò che è brutto è relativo alle epoche e alle culture ma che, al contempo, si è
148
sempre cercato di definirli rispetto a un modello stabile. Nietzsche per esempio, nel Crepuscolo
degli idoli, dice che l’uomo considera bello tutto ciò che gli rimanda la sua immagine in modo
integro mentre considera brutto ogni sintomo di degenerazione di questo tipo ideale di sé. Altri,
come Karl Rosenkrantz, traccia una Estetica del brutto (1853) in cui si distinguono vari tipi di
bruttezza: il brutto di natura, il brutto spirituale, il brutto nell’arte, l’assenza di forma, l’asimmetria,
la disarmonia, lo sfiguramento, la deformazione. Tutte le varie forme del brutto provocano una
reazione unanime di disgusto se non di violenta repulsione, mente per il bello c’è una reazione di
apprezzamento.
Fermiamoci un momento per considerare come alcune di queste categorie possano essere
applicate alla bruttezza della nostra Betty. Fin dalla puntata pilota dei vari prodotti di reversioning
del format originario, si insegna allo spettatore che dovrà considerare brutta la protagonista e questa
istruzione viene passata mostrando a più riprese le reazioni che gli altri personaggi hanno vedendo
per la prima volta Betty. Nella prima puntata della serie messicana, per esempio, non vediamo la
protagonista per tutto il primo quarto d’ora perché l’inquadratura mostra solo le reazioni orripilate
delle persone che Betty incontra sulla sua strada andando a un colloquio di lavoro. Queste forti
reazioni di sorpresa e disgusto le troviamo anche nelle prime puntate delle altre versioni di Betty la
fea che ho visionato, fra cui quelle statunitense, spagnola e tedesca. La sensazione di bruttezza di
Betty è accresciuta dall’accostamento più o meno diretto con donne bellissime, siano esse candidate
concorrenti per il posto di lavoro, proprietarie della testata, o impiegate e modelle già in forze
presso la rivista di moda. Nella versione statunitense questa opposizione fra bellezza e bruttezza e
fra apprezzamento e repulsione viene modulata in modo più complesso. La bellissima Alexis,
sorella del protagonista Daniel e direttrice della rivista dalla seconda stagione, ha in realtà una
bellezza “freak” dato che la ragazza era un uomo e ha subito degli interventi chirurgici per cambiare
sesso e aspetto. Molti personaggi, soprattutto uomini, mostrano più repulsione per la bellezza
artificiale di Alexis che per la bruttezza di Betty che se non altro è naturale. Anche la bellezza di
Wilhelmina Slater, la “cattiva” della serie, è ottenuta chirurgicamente: la perfida e controversa
direttrice creativa di Mode non solo si fa periodicamente ringiovanire ma, un po’ alla Michael
Jackson, ha anche rinnegato progressivamente la sua appartenenza etnica facendosi sbiancare la
pelle e occidentalizzare i lineamenti. Possiamo calcolare esattamente l’entità del cambiamento
quando, nella seconda stagione, un flashback ci mostra questo personaggio da giovane, chiamato
con il nome originario, Wanda, e con capigliatura, colori, lineamenti decisamente afroamericani.
Quindi, se in molte versioni, realizzate in paesi latini e non, la bruttezza di Betty viene a trovarsi
in opposizione secca con la bellezza eclatante di altre donne, nella serie statunitense essa viene
collocata accanto a bellezze dallo statuto controverso.
149
Nella serie Ugly Betty viene messa in discussione anche l’idea, sottolineata da Eco, che tutti
apprezzino la bellezza per una sorta di piacere estetico puro, senza secondi fini: Daniel, il
protagonista maschile nonché datore di lavoro di Betty, è un malato di sesso, non riesce a resistere
al richiamo delle modelle che gli girano attorno e per lui la bellezza femminile diventa un vero e
proprio agente patogeno. La bellezza è causa di malattia anche per la telefonista Amanda, come per
molte modelle di Mode, accomunate da disturbi alimentari che le portano a negarsi il cibo o ad
abusarne, a seconda dei momenti e degli stati d’animo.9 In tutto questo turbinio di bellezza freak o
patogena, Betty appare, pur nel suo aspetto poco canonico, rassicurante.
Ma guardiamo un po’ dentro a questa controversa bruttezza: Betty, almeno nella versione
statunitense, è bassa di statura. E già questo, in un modo di modelle, è un difetto irrimediabile.
Elemento comune a tutte le versioni10, Betty porta un vistoso apparecchio ortodontico che però, a
differenza della statura, ad esempio, è una bruttura reversibile perché artificiale. In un certo senso,
l’apparecchio ortodontico è esattamente questo, un segnale di reversibilità della bruttezza di Betty:
finalizzato a migliorare la forma della sua dentatura, promette che il brutto anatroccolo, se non
proprio in cigno, si trasformi prima o poi almeno in un’anatra accettabile. L’apparecchio ha anche
una connotazione adolescenziale, suggerisce un fisico in evoluzione migliorativa. Quindi, se nel
presente abbruttisce indiscutibilmente l’aspetto di tutte le Betty, esso è anche il segnale e la garanzia
di un miglioramento dell’aspetto della ragazza.
Nessuna delle Betty che ho potuto osservare appare del resto intrinsecamente brutta e deforme.
Sia che abbia il volto devastato dai tic, come la Betty messicana; sia che nasconda i begli occhi
azzurri sotto lenti spesse e frange esagerate, come la Betty tedesca; sia che vesta come una
suffragetta nemica di ogni femminilità come la Betty spagnola; sia che sposi un look etnico-kitsch
come la Betty statunitense, la sua è per lo più una difformità sociale. Betty appare brutta perché non
si uniforma all’estetica del gruppo. Per quanto riguarda la Betty statunitense, impersonata
magistralmente dall’attrice America Ferrera, originaria dell’Honduras e di famiglia messicana nella
finzione, l’appartenenza a un gruppo sociale diverso da quello wasp non è per lei né fonte di
problemi né motivo di orgoglio. La diversità è accettata e mantenuta, senza che diventi una
bandiera.11 Si potrebbe dire che la ragazza è semplicemente fedele ai suoi gusti e non si fa un
9
Questo tema non è tuttavia mai trattato in modo serio o drammatico. Le abbuffate di Amanda sono spesso, anzi, scene
decisamente comiche. Il registro comedy di Ugly Betty non permette che i momenti drama durino a lungo senza essere
interrotti da elementi più leggeri se non decisamente umoristici. Tuttavia, a differenza delle patologie alimentari,
l’alcolismo della madre di Daniel e la sessuomania di Daniel stesso sono trattati in modo più serio, atto a sottolineare
anche il disagio e la sofferenza dei personaggi.
10
In quanto elemento comune a tutte le versioni, l’apparecchio ortodontico è definibile, nei termini degli studi sul
folclore, un motivo. Proprio la sua costanza deve metterci in guardia: evidentemente veicola significati importanti.
11
In realtà di Betty, lavorando a Mode, appartiene contemporaneamente a due mondi, quello del Queens e quello di
Manhattan, come verrà detto più avanti. Questa co-appartenenza culturale è probabilmente uno degli elementi-base del
successo della serie.
150
cruccio né del proprio fisico né della propria estetica. Betty sa di essere diversa ma quando, per
ragioni mondane o sentimentali, tenta una versione migliorata di sé, non si affida agli stilisti di
Mode bensì a Hilda, la sorella parrucchiera, che ne fa una caricatura di bellezza ispanica. Quindi
Betty, almeno nelle prime due stagioni, al più intensifica il proprio modello senza mai tentare di
assumere l’altro modello, quella della fashion culture ufficiale a cui pure si dedica
meravigliosamente ma solo dal punto di vista organizzativo, prendendo appuntamenti con
personaggi famosi del mondo della moda, intrattenendo bizzose star, convincendo modelle sedotte e
abbandonate a perdonare Daniel, ecc. Insomma Betty non è incompetente rispetto alle regole
estetiche del gruppo, ma è consapevolmente e deliberatamente difforme12. Questa scelta fa sì che la
vicenda della Betty statunitense sia molto diversa da quella di Cenerentola, fiaba alla quale il
format è stato tante volte equiparato. Cenerentola è una vittima, Betty non lo è mai. Per questo la
sua storia non può essere quella di un riscatto perché Betty il suo riscatto ce l’ha dall’inizio, sotto
forma di un’accettazione totale di sé e del proprio ambiente di origine. E non è solo una forza
interiore, la sua. Fin dall’inizio, la protagonista fa innamorare di sé diversi ragazzi ed è ricambiata,
ha una normale vita sessuale, è consapevole del proprio fascino e non soffre di nessun complesso. A
volte si legge che il personaggio di Betty segnerebbe il trionfo della bellezza interiore sulla
bruttezza esteriore. Secondo me questa interpretazione è invece fuorviante, almeno per la Betty
statunitense che si piace e quindi piace, e lo si vede da come sorride, da come guarda, da come si
muove in mezzo alla gente senza mai l’ombra di un imbarazzo, anche se si trova a un party di gente
famosa o in un elegante ristorante di Manhattan. Sarebbe ugualmente sbagliato leggere la storia di
Betty come una semplice storia di evoluzione dalla bruttezza verso la bellezza, modello “brutto
anatroccolo”. In molti prodotti di reversioning del format questo accade, c’è effettivamente un
miglioramento fisico della protagonista.13 Ma gli autori della versione statunitense, di cui più
strettamente mi occupo, hanno deciso di trasformare la struttura del prodotto da serie, con
risoluzione finale, a serial14 con un prolungamento indefinito della storia che non prevede un happy
end ravvicinato. Dalla terza stagione, la costumista diventa Patricia Field, la stessa di Sex and the
city. Da quanto si è letto nelle interviste dell’epoca, l’intento programmatico di Field è stato quello
di rendere più originale il look di Betty. Non si tratta di puro gossip ma di indicazioni importanti
sull’evoluzione del personaggio e della serie: dalla terza stagione infatti Betty non sarà tanto “più
12
Approfondirò più avanti la qualità di questa difformità.
Per esempio nell’ultima stagione della spagnola Yo soy Bea la protagonista diventa bella. Sembra che un contratto
avesse addirittura impegnato l’attrice Ruth Nuñez a non mostrasi mai su giornali e televisioni nel suo aspetto normale
ma sempre e solo nel travestimento di Betty, per non rovinare la sorpresa della trasformazione finale. Dopo la
trasformazione però i dati d’ascolto sono crollati, segno che la Betty ‘bella’ non interessa a nessuno!
14
Sulla elasticità attuale dei generi finzionali televisivi, cfr. il contributo di Giorgio Grignaffini “I meccanismi della
serialità. Caratteri, tempi, forme di serie e saga” in Pozzato e Grignaffini (a cura) 2008. Ciò che Grignaffini sottolinea,
fra le altre cose, è che nel caso di formule di successo, come quella di Ugly Betty, si tende a rimandare la risoluzione
finale della storia traducendo così un format iniziale a serie in un serial, potenzialmente infinito (saga).
13
151
bella”, secondo i canoni di Mode, quanto più sicura di sé, sempre e solo secondo i propri canoni
estetici.
Ritorniamo ora alle definizioni di Eco: esse prevedono un brutto in sé (un escremento, una
carogna, un essere coperto di piaghe), un brutto formale (squilibrio delle parti e del tutto) e una
rappresentazione artistica di entrambi, in grado, come pensavano Aristotele e Plutarco, di redimere
il brutto grazie alla maestria dell’artista. La rappresentazione televisiva della bruttezza di Betty non
la redime affatto perché l’aspetto di Betty non è né brutto in sé né brutto formalmente. Esso si ispira
solo a un altro canone, e la sua rappresentazione mediatica sta a quindi a dimostrare, semmai, che il
difforme non è necessariamente deforme: messaggio tanto più prorompente, di questi tempi, rispetto
a quello di favole in cui la bacchetta magica di una madrina, o il bisturi di un chirurgo, sembrano in
grado di dare a chiunque un aspetto conforme ai canoni estetici dello star system.
Consideriamo ora quella che Eco chiama, nel sesto capitolo del suo libro sulla bruttezza, “la
tradizione antifemminile”. L’autore cita lo studio di Patrizia Bettella The Ugly Woman (Bettella
2005) dove si individuano tre fasi nello sviluppo del tema della donna brutta: nel medioevo la donna
brutta è per definizione la donna vecchia, che ha perso la bellezza e la purezza della gioventù; nel
rinascimento invece troviamo una trattazione burlesca della bruttezza femminile con elogio ironico
dei modelli che si discostano dai canoni, mentre nel periodo barocco si ha una rivalutazione positiva
delle imperfezioni femminili. Da questo punto di vista, lo spirito del format di Betty la fea/Ugly
Betty, pur con le grandi differenze nazionali di cui si è detto, sembrerebbe a metà fra una trattazione
burlesca e una rivalutazione barocca della bruttezza femminile.
Ma bello e brutto sono ancora, oggi, in opposizione? Come dice anche Eco nel capitolo finale del
suo libro (“Il brutto oggi”),
Cinema, televisione e riviste, pubblicità e moda propongono modelli di bellezza che non sono così
diversi da quelli antichi, tanto che potremmo immaginare i volti di Brad Pitt o di Sharon Stone, di
George Clooney o di Nicole Kidman ritratti da un pittore rinascimentale. Ma gli stessi giovani che
si identificano in questi ideali (estetici o sessuali) vanno poi in visibilio per cantanti rock le cui
fattezze, a un uomo del Rinascimento, sarebbero apparse repellenti. E sempre gli stessi giovani
spesso si truccano, si tatuano, si traforano le carni con spilli in modo da assomigliare di più a
Marylin Manson che a Marylin Monroe. (op. cit. p. 426)
2.2. Ma Betty è brutta o solo camp?
In che direzione possiamo quindi andare se la categorie tradizionali del bello e del brutto sembrano
non essere più applicabili alla sensibilità contemporanea? Forse arriviamo a una risposta
soddisfacente se approfondiamo il discorso su quella che abbiamo chiamato la difformità della
Betty statunitense. Perché nel 2007 una ragazza, pur di origine messicana, dovrebbe presentarsi alla
redazione di un giornale di moda con un incredibile poncho rosso con su scritto, a caratteri cubitali,
“Guadalajara”? È chiaro che Betty non è solo difforme ma decisamente sopra le righe, e questo
152
l’avvicina a una categoria storicamente più vicina a noi, ovvero al cosiddetto camp che, nella
celebre trattazione di Susan Sontag, sostituisce e aggiorna il vecchio concetto di Kitsch.
Fig. 1 Da ugly Betty a camp Betty.
Come sottolinea Fabio Cleto nell’Introduzione a una recente raccolta sull’argomento da lui curata
(Cleto 2008), l’estetica camp è paradossalmente una forma aggiornata di dandysmo che scardina le
dicotomie
stesse
che
sollecita
(alto/basso,
maschile/femminile,
intenzionale/involontario,
serio/ludico, mascheramento/esibizione). Ma prima di proseguire su questa strada, vorrei chiarire
che la connotazione camp appartiene solo alla Betty statunitense perché le altre Betty sono anzi agli
antipodi, in questo senso. Il loro look appare quanto di più conforme, triste, fuori moda si possa
immaginare: camicette da suora laica, golfini cascanti verdognoli o marroncini, pettinature crespe
che coprono il viso o trattenute da cerchietti, lineamenti interrotti e deturpati da enormi occhiali
dalle montature pesanti. Queste Betty appartengono alla sfera della /non-moda/, in quanto
aderiscono in maniera acritica e passiva ai dettami di un stile passatista (per lo più anni SessantaSettanta), ponendosi così al di fuori dell’aggiornamento essenziale al fenomeno del fashion. La
Betty statunitense invece, a mano a mano che le stagioni si susseguono, realizza sempre più con il
proprio look quello che Cleto definisce
un processo dinamico, una relazione indiscreta fra oggetto e sguardo che improvvisa uno spazio di
performance […], un effetto insomma della frizione tra il senso comune e una percezione
“traversa”, scatenata da un impianto testuale - intenzionale o meno che sia – all’insegna di eccesso,
improbabilità, virtuosismo. (ibidem)
Si noti per esempio come Betty non tema mai il ridicolo: in occasione di feste e manifestazioni,
radicalizza una tendenza al travestimento che è sempre presente nel suo look. Non disdegna così le
mises più strane e paradossali che la trasformano in ortaggio o le fanno spuntare enormi farfalle
sulla testa. In queste occasioni si conferma un lato stravagante, performativo, individualista e
153
soprattutto teatrale che è proprio dell’estetica camp.15 Da questo punto di vista, Betty non è molto
diversa da dive pop-camp come Cher, Madonna o la più recente Lady gaga; e il suo look da stili
come quelli proposti da stilisti come John Galliano e Jean-Paul Gaultier.
Per questo la Betty della serie della ABC non incarna la /non moda/, come le altre Betty, bensì la
sovranità assoluta di poter essere o non essere alla moda, passando attraverso una libera
contaminazione di stili.
2.3. Reversioning e valori profondi: è lo stesso format?
Le questioni evocate sino a qui sono importanti in quanto sono cruciali per l’economia valoriale
profonda della serie.16 La Betty statunitense è diversa dalle altre in quanto portatrice di valori che
ri-orientano il significato di questo prodotto rispetto a quello del format originario.17 La
declinazione culturale specifica della sua “bruttezza” e del suo look in generale, ne fanno un’eroina
forte, vincente, in grado di veicolare una storia di integrazione culturale più che di riscatto di una
fanciulla romantica sfavorita dalla sorte.
A questo punto però come si fa ancora a sostenere che il format è lo stesso? E, per la stessa
ragione, come si fa a sostenere che “questo stesso format” ha avuto successo in tantissimi paesi
diversi? Non sono in grado di dare risposte definitive su questo perché, anche se le varie versioni
appaiono abbastanza diverse fra loro, è indubbiamente vero che l’idea centrale contenuta del format
colombiano originale è stata in grado di avviare una serie di reazioni a catena. L’estensione del
reversioning ai cosiddetti generi scripted è abbastanza recente, e proprio il fenomeno Betty la fea è
stato determinante per inaugurarla. Come afferma Benedetta Galbiati:
Nelle ultime quattro stagioni televisive qualcosa è cambiato. La saturazione del genere reality e la
nascita di fenomeni mediatici come quello di Betty la fea (telenovela colombiana adattata con
successo dalla Germania all’India agli Stati Uniti) ha generato una vera e propria “riscossa” dei
format di fiction, facendo sì che sempre più concept di serie televisive straniere vengano acquistati
in Paesi diversi da quelli d’origine per realizzarne versioni locali. 18
15
Come dice Gabriele Monti nel suo saggio “When fashion goes camp” (in Cleto, a cura, 2008, p. 516), il camp è
“teatralizzazione dell’esperienza, che gioca fra parodia e autoparodia, è fare qualcosa di straordinario, qualcosa che sia
carico di quel potere visivo che appartiene al glamour. Il camp sembra essere irrimediabilmente legato a una
dimensione performativa e può valorizzare alcune convenzioni su altre, senza perdere di vista il loro essere artificiali,
che anzi è proprio ciò che celebra.” Sull’influenza che il mondo di Broadway ha tradizionalmente sulle produzioni
televisive ambientate a New York, cfr. anche Savorelli 2008, p. 124-125.
16
Quanto la semiotica strutturale definisce “profondo” in un testo non è da intendersi come “nascosto”, latente nel
senso freudiano del termine. Per la semiotica è profondo, in un testo, ciò che è portante; e quindi, in quanto portante, se
esso viene modificato, viene modificato l’insieme di tutti gli altri elementi.
17
Accenno solo alla questione. Non è scopo di questo saggio l’analisi completa e approfondita della serie, che
richiederebbe ben altro spazio.
18
Benedetta Galbiati, “Scripted format. Processi di selezione e di adattamento”, in Pozzato e Grignaffini, a cura, 2008,
p. l73.
154
Ma perché alcune “Betty” circolano in versione originale, cioè come ready-made (come è
successo in Italia) e altre invece sono adattate ai contesti locali? Quello sull’adattabilità di un
formato è un giudizio complesso, legato ai contenuti narrativi e alle forme espressive, nonché
vincolato a fattori extratestuali come l’affinità del mercato d’origine con il mercato in cui lo si vuole
adattare, gli ascolti ottenuti, la struttura e la lunghezza della serie.19 L’opinione di Benedetta
Galbiati, suffragata anche dalla sua esperienza professionale di responsabile del settore Scripted
format di Endemol Italia, è che il format colombiano di Yo soy Betty, la fea si sia “rigenerato di
Paese in Paese dando vita a un vero “personaggio socio-semiotico”, quello della protagonista, in
grado di mantenere la sua enorme empatia in tutti i contesti culturali in cui è stato proposto.” (op.
cit., p. 181). Galbiati riassume in questi termini il concept originale del format:
Betty, ragazza tanto brutta quanto dolce e intelligente, viene assunta dalla più importante casa di
moda del Paese come segretaria del giovane presidente dell’azienda, Armando. […] Dapprima
Armando la corteggia per puro interesse, ma finisce per innamorarsi di lei. La serie si conclude con
il matrimonio dei due, con Betty che nel frattempo è fuggita ed è ritornata nei panni di una donna
bellissima, finalmente consapevole del suo valore. (op. cit., p. 182)
Rispetto a questo concept originale, la versione statunitense avrebbe modificato e adattato le
strutture narrative e i ritmi a quelli della comedy ma non avrebbe sostanzialmente modificato le
caratteristiche comuni a tutte le versioni e cioè “che Betty è brutta, competente, intelligente,
generosa, diversa; i colleghi invece sono belli, incompetenti, stupidi, egoisti, omologati.” (ibidem)
Questa opinione è difficile da contestare. Rimane tuttavia da decidere se ingredienti così esigui e
generici possano decretare un simile successo e in tanti contesti socio-culturali diversi.
Se, come fa Antonio Savorelli, si analizza Ugly Betty non come fenomeno di reversionig ma nel
contesto della comedy statunitense, ne emergono degli aspetti interessanti che ne fanno una sorta di
prodotto-ponte fra la tradizione latino-americana delle telenovela e quella nord-americana della
soap opera:
Della telenovela riprende lo sfondo delle disparità sociali e in particolare il tema della lotta di un
unico soggetto (di solito un’eroina positiva) contro un ambiente ostile. Dalla soap opera derivano i
temi della saga familiare, della dissolutezza, dell’inconsistenza dei valori.20
Questo format, quindi, facendo entrare in contatto due mondi ben distinti come quello ricco e
patinato di Manhattan e quello degli immigrati ispanici del Queens, metterebbe in relazione anche
due generi televisivi, la telenovela latinoamericana e la soap opera statunitense. Savorelli sottolinea
però la presa di distanza dei personaggi di Ugly Betty da entrambi questi tipi di prodotti televisivi: la
televisione è sempre accesa in casa della famiglia Suarez i cui vari componenti però guardano
19
Galbiati, op. cit., p.178. La necessità di adattamento crescerebbe nelle serie di prime time, nelle sitcom, nelle
telenovelas e nelle soap operas, ovvero nelle produzioni che prevedono un alto numero di puntate. Ovviamente con le
dovute eccezioni.
20
Savorelli 2008, in particolare “cap. 6. Ugly Betty”, citazione a p.125.
155
distrattamente se non con fastidio la telenovela Vidas de fuego; e i ricconi di Mode non guardano
soap opera in tv ma solo la “soappizzazione” delle loro stesse vite in un canale di Fashion Tv che
trasmette notizie scandalistiche sui personaggi del jet set.
Insomma, dice Savorelli, all’interno di questa comedy si crea un forte effetto di incorniciatura
“meta” dei generi telenovela e soap opera.21 Questo esempio, che potrebbe sembrare marginale, mi
sembra invece interessante perché suggerisce un’ipotesi diversa, in sintonia con quella che si è
suggerita sopra per Sex and the city, Desperates housewives e Mujeres: il successo planetario del
prodotto non è legato, come potrebbe sembrare a una considerazione superficiale e affrettata, alla
presenza di elementi di carattere universale, ma proprio alla moltiplicazione dei piani semiotici,
spesso in competizione fra loro, e in relazione traduttiva reciproca. Il grado di versatilità interna
renderebbe un prodotto maggiormente esportabile: come spiegare altrimenti il fatto che, nonostante
l’identità di lingua, si senta il bisogno di fare versioni diverse di Betty la Fea in Colombia, in
Messico, in Spagna mentre un prodotto statunitense (semplicemente doppiato) può incontrare il
gradimento di moltissimi pubblici, fra cui quello italiano? A parte l’indubbio pregio di confezione
delle serie che ottengono un successo così diffuso22, il gradimento di cui queste serie globalizzate
godono fa pensare ragionevolmente che l’esperienza di rispecchiamento non sia la stessa in tutti gli
spettatori. Qual è a questo punto il grado di specialismo dei produttori? Le professioni della fiction
sono sempre più specializzate, non ci si improvvisa sceneggiatori o registi di serie televisive.
Eppure, per le ragioni che si sono dette, e come nel caso del folclore (dove, al posto delle serie,
troviamo proverbi, ritornelli, stornelli, aneddoti, piccole fiabe orali, rappresentazioni teatrali
improvvisate, ecc.) il pubblico delle serie, e più in generale dei prodotti televisivi, è oggi sempre
fruitore e produttore al tempo stesso.
Se vediamo le serie come prodotti neo-folclorici, siamo indotti a pensare che anche Betty la feaUgly Betty riesca ad avere successo in tanti paesi diversi perché sia i diversi sceneggiatori locali che
i diversi pubblici d’arrivo, come nel caso del folclore, di volta in volta trattengono e lasciano cadere
alcuni degli ingredienti costruendo una miriade di diverse Betty. Come si è detto, il format
originario a questo punto, più che una “bibbia” a cui attenersi, è una macchina per produrre oggetti
folclorici diversificati. Questo avviene a due livelli: nel primo, un format originario dà luogo a una
serie di format derivati (reversioning) che sono a tutti gli effetti dei prodotti neo-folclorici; nel
21
“Avviene, dunque, quello che nei ‘generi’ originali non avverrebbe mai, ossia la replica en abyme di elementi
dell’enunciato primario […] La compresenza di mondi tematici provenienti da generi testuali diversi – anche se affini
per funzione sociale e modalità di enunciazione – potrebbe far pensare a una sorta di schizofrenia del dispositivo di
enunciazione, che si troverebbe alle prese con continui cambiamenti di registro. In Ugly Betty il problema è risolto con
il suo evitamento, ossia con la messa in atto di pratiche di enunciazione insolite per i generi di riferimento […].”
(Savorelli, op. cit., p. 131-132)
22
Basta considerare la ricchezza delle trovate, la qualità dei dialoghi, l’abilità degli attori di Ugly Betty per capire che
siamo di fronte a un’operazione produttiva e a una messa in campo di risorse professionali oggettivamente superiori a
quelle di altre versioni più “artigianali” o comunque a budget più ridotto.
156
secondo, il format rimane lo stesso (ready made) ma cambiano le sue letture locali. In questo
secondo caso, il prodotto neo-folclorico consiste nelle diverse letture che i pubblici locali fanno del
prodotto.
Non escludo che Betty la fea-Ugly Betty incontri il gradimento del pubblico anche per alcuni
motivi profondi, siano essi diversi o costanti nelle varie versioni. L’idea di un’affermazione
femminile che non passi attraverso la bellezza fisica può essere abbastanza innovativa e
interessante per il mondo femminile contemporaneo, anche se poi quasi tutte le versioni di questo
format sentono il bisogno di ritornare alla formula tradizionale che vuole la donna felice in quanto
bella e sposata. La versione statunitense di Betty appare portatrice di valori come la difesa della
propria difformità che altre versioni, già a una visione superficiale, non sembrano sostenere affatto.
Se volessimo fare una considerazione sul format e arrivare ai temi presenti in tutte le versioni,
arriveremmo a opposizioni come /verità vs apparenza/, /svantaggio iniziale vs superamento
dell’ostacolo/, ecc., così generali da appartenere all’universo narrativo di migliaia di intrecci.
Lascerei quindi agli antropologi, o agli psicoanalisti, lo studio di questo “fondo culturale” da cui
emergono le formazioni semiotiche più specifiche. Da quale mito tragga origine la nostra Betty è
molto difficile da dire. Quanto alla conclusione della serie, avvenuta nel 2010, rimane fuori dal
nostro campione e tuttavia appare interessante da evocare en passant, se non altro per come si
allinea alle tendenze tracciate nelle stagioni precedenti e qui considerate: Betty non sposa affatto il
principe azzurro ma se ne va in Europa a farsi una carriera migliore di quella che Daniel le
prospettava sia come redattrice di Mode sia come eventuale signora Meade.