Cara professoressa morta da invisibile

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Cara professoressa morta da invisibile
"Cara professoressa morta da invisibile ecco
perché adesso le chiedo perdono"
!
La palazzina in cui è stata trovata morta Maria Carmela Privitera
Un ex alunno di Maria Carmela Privitera ricorda la donna trovata cadavere in casa a
Roma dopo due anni: "Un mistero per noi ragazzi"
di VALERIO PIPERATA
SONO stato allievo della professoressa Privitera, la donna trovata morta nel suo
appartamento, a Roma, quartiere Ponte di Nona, raccontata su questo giornale da
Francesco Merlo. Ho fatto parte della schiera di studenti che l'hanno presa in giro per
come vestiva, per come parlava, per il suo modo di porsi con noi. Ho riso di lei. La
prima volta che entra in classe ci alziamo tutti in piedi, come facciamo sempre per
qualsiasi professore. È un segno di rispetto e considerazione. Lei va dritta verso la
cattedra, guarda per terra, non dice buongiorno, niente canonico "sono Maria Carmela
Privitera, la vostra insegnante di educazione artistica". Non dice una parola. Ricordo
perfettamente l'espressione del suo viso, piccolo e pallido, come se l'avessi ancora
davanti: austera, severa.
Non ci ha ancora guardato. Posa la borsa sulla cattedra. La mano che spunta dal
cappotto scuro e che porta la borsa sembra quella di una bambina. Lei finalmente alza
la testa e dà la prima occhiata alla classe. Becca subito una mia compagna che sta
ridendo. Le chiede, con un tono di rimprovero: "Che cos'hai da ridere?". È stronza, è
severa, penso io. Mi darà un sacco di problemi perché non sono capace a disegnare.
Ma mi sbaglio. Lei non è niente del genere. Dopo un quarto d'ora che è in aula, non è
più solo una ragazzina a ridere, ma tutti e venticinque gli studenti della 1a B della
scuola media statale Giovanni Verga in via Giovanni Gussone. Me compreso. La
Privitera è strana, porta le scarpe di due numeri più grandi, le calze nere troppo
lunghe, un cappotto nero a settembre e gli occhialoni, è piccola, è bianca latte, parla
strano, parla da sola, non parla mai a nessuno. I ricordi mi si riaccendono nella
mente, prendono fuoco, e rivedo adesso la mia professoressa di artistica, quella
strana, in un modo completamente nuovo.
"Che cos’hai da ridere?" forse, adesso che ci penso, l’ha detto perché sapeva
perfettamente che, tempo dieci minuti, lì dentro qualcuno avrebbe riso di lei, e dietro
a quel qualcuno si sarebbe unita tutta la classe, e non l’avrebbe ripresa più,
perdendola per sempre. Perché la Privitera non somiglia a niente e a nessuno con cui
abbiamo mai avuto a che fare, non somiglia alla preside, a quella di italiano, di
matematica, non somiglia alle nostre madri, alle nostre nonne, può somigliare
piuttosto a una cugina di quarto grado che abita lontano e che non senti neanche per
Natale e pare non se la stia passando tanto bene, ma che vuoi farci.
Perché noi ragazzini delle medie siamo spaventati dalla minaccia di ciò che non ci è
familiare, delle cose e delle persone che ci sembrano diverse. Noi dal diverso
prendiamo cautamente le distanze e ci puntiamo un faro contro. Quando consegni una
tavola, un disegno, sai che il voto sarà “mediocre”, perché lei sembra non conoscere
altri voti. Tutti snobbiamo la sua materia, e tutti siamo mediocri. Eppure un ottimo
pare l’abbia dato. Più di uno. È Ornella, una ragazza che sa disegnare, una che
finalmente sembra avere talento in mezzo a un branco di individui fatti a metà. E la
Privitera che fa? La ignora, le dà il voto che vuole e arrivederci? No. Nel 2000 la
segnala per un concorso di disegno in occasione della mostra di Monet al Vittoriano,
le fa riprodurre donne in giardino. Lei partecipa, vince, e per premio la mandano a
Parigi.
Come insegnante non mi ha fatto amare né odiare la sua materia. Semplicemente l’ho
ignorata, come ho ignorato lei, perché tanto artistica da noi valeva quanto educazione
fisica, forse anche meno. Però adesso io non riesco più a ignorare il suo ricordo. Il
ricordo di quella volta che i miei genitori si presentarono al colloquio di fine
quadrimestre con i professori, mia madre fece per stringerle la mano e lei le diede il
mignolo. All’inizio mia madre non capì, poi si scoprì che lo faceva con tutti. Il
ricordo di quando si regolavano tutti gli orologi all’ora sbagliata, il casino durante i
compiti in classe e la sua faccia d’ostinata assenza e apatia, o quella volta in cui
qualcuno di scuola le squarciò le gomme della macchina, che dentro era piena di
santini e Madonne.
La Privitera se n’è andata dal mondo come se n’è andata dalla nostra scuola: nessuno
aveva saputo niente, e nessuno aveva provato niente, se non un senso di sconforto
perché il professore nuovo è serio e adesso educazione artistica ci tocca farla per
davvero. È per questo che io chiedo ufficialmente scusa per averla ignorata, per non
aver ascoltato mai una lezione, per non aver mai consegnato un disegno, per aver riso
di lei. Stavolta però mi alzo dalla sedia, e col rispetto e la considerazione che ho
mostrato a professori che forse lo meritavano meno di lei, le porgo il mio ultimo e più
sincero saluto: addio, professoressa Privitera.
(Valerio Piperata è autore del romanzo Le rockstar non sono morte , editore e/o, 2014) La morte solitaria di Maria Carmela, la
professoressa che diventò invisibile
In quel condominio della periferia romana nessuno ha voluto accorgersi per due anni
che non dava più segni di vita. Così un'insegnante arrivata dal Sud è scomparsa dalla
vista del mondo
di FRANCESCO MERLO
La morte da sola non puzza così tanto. Ma due anni di indifferenza complice hanno
trasformato il forte e normale cattivo odore di un povero cadavere nell'intollerabile
tanfo di putrefazione di un'intera comunità: carne guasta e anime marce. Al punto che
persino un vecchio cronista di stomaco forte in quel pianerottolo- obitorio si è sentito
rivoltare le budella. Eppure a Roma non ti aspetti "il condominio" alla Ballard che
convive con la morta per due anni e la sigilla, non per nasconderla ma per non
"sentirla" più, per proteggere con il nastro adesivo da imballaggio la propria
indifferenza. Insomma, alle finestre sempre aperte di Roma, ai tetti dipinti dal Mafai,
tra gerani, basilico e stornelli, non si addice la morte di Maria Carmela Privitera,
chiusa e oltraggiata dai vicini, con il fornello che è rimasto acceso per quasi due anni,
accanto a due poveri sofficini che non hanno avuto bisogno dell'acqua bollente per
scongelarsi e imputridire anch'essi.
La professoressa Privitera se n'è andata così, nel novembre 2013 suggerisce il
calendario che teneva in casa, per un qualche malore, con l'acqua sul fuoco appunto,
gli occhialoni da miope sul naso, le stampelle sul divano, con addosso il pigiama di
casa e il pannolone per l'incontinenza, la chiave girata nella toppa.
"Perché era una donna che aveva paura di tutto" dice ora la sua ex preside alla scuola
media Moscati, 1300 alunni, sezioni fino alla lettera "P". Questa gentile ed esperta ex
preside, dallo scorso anno in pensione, vuole rendere omaggio a quella "esile figura
di donna fragile sempre malata, spesso assente, sempre protetta dalle colleghe, dalla
scuola, ma non da se stessa".
Probabilmente, prima di morire, Maria Carmela ha cercato il letto, forse è caduta o
forse si è piegata, sicuramente l'hanno trovata supina, leggermente ricurve le gambe
che aveva malandate, il viso annerito e mummificato. Chissà se ha tentato di
sollevarsi, e quanto tempo ha aspettato, incapace di muoversi, con addosso la paura,
ascoltando ogni minimo rumore che veniva dagli appartamenti accanto, da quello di
sopra e da quello di sotto. "Passano tutti i suoni e tutti gli odori in queste gabbie
separate da pareti sottili che a Roma si chiamano foratelle, veli impietosi sulle
esistenze solitarie" mi racconta il giovane finanziere che abita nel palazzo-sepolcro
ed è compassionevole come un Maigret ancora senza pancia e senza pipa. E forse è
compassionevole proprio perché Maria Carmela non era simpatica agli altri inquilini,
a tutto il condominio che è il dominio comune, il malessere dello stare insieme.
Eppure l'estetica non è quella delle periferie più feroci. Malgrado la loro bruttezza
ordinaria, a Ponte di Nona i palazzi di Francesco Caltagirone, in uno squallido
stradone che si chiama viale Francesco Caltagirone, non sono i condomini londinesi
né les grands ensembles parigine, sono piuttosto l'esasperazione della palazzina
romana, cinque piani con garage, cinque appartamenti a piano, balconi e qualche
aiuola.
Ma arrivarci è un incubo, una distopia urbana dicono gli architetti: un'utopia al
contrario. A 18 chilometri dal centro di Roma, se non vuoi perderti nel traffico della
interminabile Collatina (onomatopeica per via della colla) devi per forza prendere la
bretella dell'autostrada Roma-L'Aquila, un euro e mezzo per andare e un euro e
mezzo per tornare, un'imposta sulla casa, una tassa di soggiorno.
Maria Carmela era nata a Siracusa nel 1952, meridionale come la gran parte degli
insegnanti italiani che sono sempre in esubero al Sud, forse per quell'eccesso di
umanesimo che c'è nelle terre di Croce e Pirandello. Era dunque emigrata e aveva
insegnato, qui a Roma, Educazione Artistica: "Allora non c'era bisogno della laurea"
racconta ancora la ex preside che si consulta con le altre insegnanti che l'hanno
conosciuta e "in tutte noi, anche nella vicepreside che sta al Moscati da sempre, la sua
immagine si confonde sino a fondersi con quella di un'altra fragilissima creatura che
come lei aveva paura di tutto e come lei è stata tanti anni tra noi senza mai lasciarsi
andare, neanche una volta, senza mai assecondare il bisogno di raccontare ad alta
voce ciò che provava. La sola differenza è che Maria Carmela era molto malata
mentre l'altra accudiva una madre molto malata".
Da sempre devota alla Madonna del Santuario di Siracusa, quella del quadro che
pianse nel 1953, quando Carmela aveva un anno, l'inquilina del quarto piano passava
con tutti i santi del Paradiso le sue lunghe giornate, aveva un rosario, e quando
nessuno la vedeva infilava le immaginette sotto le porte, riempiva di Marie i
parabrezza delle auto, ma non voleva che nessun si interessasse a lei, confidando nel
Dio che amava così male. Esistono dappertutto persone così, creature delicate e
infelici, malate anche nel corpo. E davvero si somigliano tutte. Una volta Roma
sembrava inventata per loro, perché era la città madre della dolcezza italiana. E
invece Maria Carmela, congedata dalla scuola nel 2007 per inabilità degli arti
inferiori, è finita, per risparmiare, nella zona più remota della speculazione degli anni
ottanta: quaranta metri quadri di proprietà del capitano Ingrosso, comandante dei
carabinieri di Molfetta. È lui che l'ha sfrattata perché Maria Carmela non pagava più
l'affitto. Il capitano pensava che la morosa si nascondesse per evitare la notifica di
sfratto. Ma qualcuno racconta di averlo visto almeno una volta dietro la porta di
quella casa: "Certo l'odore lo ha sentito anche lui. Di sicuro glielo hanno raccontato,
prima di tutti la sua avvocata".
Certo, il carabiniere padrone di casa è un particolare che piacerebbe a Friedrich Dü
rrenmatt, perché sono i dettagli insignificanti che, infilati nell'ingranaggio di questo
giallo senza omicidio, hanno trasformato la macchina per abitare di Maria Carmela in
una tomba con angolo cottura.
Del resto nel palazzo, al piano di sotto, abita un altro uomo delle forze dell'ordine,
quel militare della Guardia di Finanza di cui dicevamo prima. È lui che martedì è
entrato nell'appartamento insieme alla polizia e all'ufficiale giudiziario che doveva
eseguire l'ordine di sfratto. Ed è lui che ha spento il fuoco in cucina. Il giovane sta
poco a casa. Ma quando ritornava e vedeva Maria Carmela sola come un cane,
avrebbe voluto aiutare "quella donna burbera che girava con le stampelle, parlava con
se stessa, non salutava nessuno e forse qualche volta buttava roba dalla finestra e
allora arrivavano i vigili...". Poi ci pensa: "Almeno così mi hanno detto". Ogni volta
che il finanziere la vedeva avanzare portando i sacchi della spesa che pesavano e la
ingombravano più delle stampelle, immancabilmente le offriva aiuto e
immancabilmente lei rifiutava senza che mai il suo viso pallido sotto i capelli bianchi
perdesse quell'espressione di infinita infelicità. Per tutti era "svitata", "matta",
"strana".
Adesso parlando con gli inquilini si percepisce una sorta di senso di colpa collettivo,
meglio condominiale. I giornalisti suonano ai citofoni e qualcuno si lascia un po'
andare, i più si negano, al primo piano ci sono due medici che dividono lo studio: "Le
scrivevano le ricette". Ora si negano: "Non era una mia paziente" dice l'uno indicando
l'altro. Si scambiano anche i nomi, alla fine non sono riuscito a capire chi era Colella
e chi era Properzi: "Scusate, in due anni non vi siete mai chiesti dov'era sparita la
vostra paziente del piano di sopra? E come fanno due medici a non cercare una
spiegazione a quella terribile puzza di morte?". Ma il dottor Colella (o forse il dottor
Properzi) si inventa che "la polizia mi ha ordinato di non parlare con i giornalisti",
poi si infila nella sua Lancia Ypsilon grigio-topo e scappa via sgommando.
Secondo la polizia non aveva parenti, la professoressa Privitera. Al Provveditorato di
Siracusa dicono che forse - "ma ripeto, forse" - era la figlia di Santino Privitera, un
tipo che mille anni fa vendeva quadri: "Qui di sicuro non ha mai insegnato ". Alla
scuola Moscati parlano di un nipote "o forse una nipote ". Di fronte alla casa-sepolcro
stanno costruendo la nuova Chiesa: siete della ditta Caltagirone? "No. Pessina
costruzioni ". Il parroco, che per ora dice messa nel container, "è in viaggio". Il
geometra lo chiama al telefono. Si chiama don Fabio Corona, è giovane, sta qui da
sette anni, è stato il confessore di Maria Carmela Privitera. Dice: "Rispondo solo al
Vicariato". Maria Carmela ci credeva tanto, ma anche Dio l'ha dimenticata.