Rauschenberg, il classico dell`avanguardia

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Rauschenberg, il classico dell`avanguardia
Corriere della Sera - NAZIONALE sezione: Terza Pagina - data: 2008-05-14 num: - pag: 43
categoria: REDAZIONALE
Protagonisti Scompare a 82 anni uno dei più grandi artisti del '900: la sua opera è un
ponte tra Marcel Duchamp, Man Ray e la Pop Art di Andy Warhol
Rauschenberg, il classico dell'avanguardia
Portò la tradizione europea in America. Ispirandosi a Burri diede nobiltà
alle materie umili
di ARTURO CARLO QUINTAVALLE
L
a vicenda di Robert Rauschenberg, scomparso ieri a 82 anni, è quella dell'arte statunitense
sposata all'europea; storia di un grandissimo inventore ma nello stesso tempo di un
altrettanto grande mediatore fra tradizioni diverse. La esperienza dell'artista si sviluppa sulle
due rive dell'Atlantico, da una parte dunque Parigi, dove studia nel 1948 alla Academie Jullian,
dall'altra il ritorno negli Stati Uniti dove, in quell'anno e nel seguente, studia al Black Mountain
College dove incontra Joseph Albers; da questo protagonista della Bauhaus apprende certo
l'impianto spaziale rigoroso che sarà evidente dalle «White Paintings» in poi e fino alla fine.
Ma restiamo ai viaggi, quello a Roma nel 1953 con Cy Twombly deve essere stato importante
perché gli fa conoscere un artista, Alberto Burri, le cui opere aveva probabilmente conosciuto
in precedenza e che gli suggerirà un modo diverso di costruire lo spazio della pittura. Burri
realizza opere materiche nel 1950, le «Muffe» nel 1951, i «Sacchi» nel 1952; tutto questo
deve avere inciso sulle scelte polimateriche dell'americano che cominciano con opere del 1953.
Già nel 1952 Rauschenberg aveva incontrato John Cage che definisce le «White Paintings»
«orologi dell'ambiente », sottolineando quindi la durata delle opere, il loro diverso impatto.
Ma è il 1953 l'anno della svolta; Rauschenberg prima aveva dialogato con l'Abstract
Expressionism, con De Kooning e Kline, con Motherwell e Guston, ma proprio in quell'anno si
fa dare da De Kooning un disegno e simbolicamente lo cancella, dice, per utilizzare la matita
dall'altro lato, quello della gomma. Adesso è il dialogo con Parigi a farsi intenso: l'opera di
Marcel Duchamp, l'idea che ogni oggetto tratto fuori del contesto possa diventare arte lo
colpisce, ma Rauschenberg ha altri percorsi, quelli del lungo dialogo con la fotografia delle
avanguardie, da Man Ray a Moholy Nagy, come provano una serie di immagini negative
solarizzate che vanno dal 1949 al 1952. Rauschenberg sente che adesso tutto deve
cambiare. E sono i «Combine Paintings»: «la scelta di nobilitare ciò che è ordinario; non voglio
fare emergere la mia personalità ma voglio che i miei quadri riflettano la vita».
Ecco, negli Anni '50 è lui il pittore più rivoluzionario, è lui che getta un ponte fra un lontano
Dada e un dialogo diretto sul reale. Cito pochi capolavori: «Bed» (1955): un letto vero,
cuscino e coperta colorata, colature, interventi forti; eppure dentro c'è il ricordo della madre
intenta al ricamo. L'idea è sempre quella di mettere insieme oggetti ma anche di creare spazi
e nuove dimensioni, come in «Untitled» del 1954, una specie di mobile spalancato con
incollate immagini come finestre sul mondo. Un pezzo, «Coca Cola Plan» (1958) deve avere
tratto in inganno la critica per via delle tre bottiglie di Coca fra due ali di metallo: no, il pittore
non può essere direttamente collegato alla Pop Art. La sua inventiva, il suo uso della pittura, la
densità delle immagini narrano una storia diversa, una tensione, una passione umana che è
sempre della sua ricerca.
Ci sono momenti chiave nell'arte di Rauschenberg, e non semplicemente quelli legati al suo
trionfo alla Biennale di Venezia del 1964 che determina il consenso per la sua arte in tutta
Europa. Vi sono altri e più sottili dialoghi, per esempio con Andy Warhol, che lo aiuta a operare
con la foto e la serigrafia determinando la creazione degli schermi trasparenti, sospesi di
immagini e pronti a costruire, negli Anni '60 e dopo, ambienti interi, dunque eventi.
Osserviamo una «Combine Painting» di Rauschenberg: la griglia che articola i campi di colore
e le foto e persino le colature muovono dall'antico insegnamento di Albers e quindi della
Bauhaus. Proporzioni, rapporti, che ritroviamo in opere come «Gift of Apollo» (1959) o in
«Trophy III (per Jean Tinguely)» e ancora in strutture plastiche come «Inside out» (1962).
Dunque quale è stato il progetto, l'impegno di Rauschenberg appare adesso più chiaro: certo,
l'abbandono dell'Espressionismo Astratto attraverso un recupero della cultura dada europea
ma mediata sempre da una rigorosa, scandita geometria che muove da De Stijl. Nelle opere di
Rauschenberg c'è sempre un forte impatto scenico, sono intense e di lunga durata,
impongono una meditazione, una riflessione che ne ha certo favorito il grande successo, ma
sono anche opere umane, complesse, stratificate, dense di cultura. L'artista ha illustrato la
Divina Commedia, ha operato, come Duchamp, su Monna Lisa, ma sopra tutto ha riflettuto
sulla pittura rinascimentale e seicentesca più alta. Ed è lui, fino in ultimo, a inventare: come in
«Truce», «Scenari» (2003), realizzato dopo l'ictus con acribia e passione. Si spegne dunque
l'artista che ha riportato l'immagine dell'arte europea nella tradizione statunitense. Si spegne il
più rinascimentale, il più classico degli artisti rivoluzionari del '900.
GUARDA La galleria fotografica delle opere su www.corriere.it
Il testimone
Gillo Dorfles: riscrisse l'arte con i
combine-paintings
Il
critico Gillo Dorfles è stato uno dei primi a portare le opere di Rauschenberg in Italia, alla
milanese galleria dell'Ariete di Beatrice Monti. «Rauschenberg — commenta Dorfles — è stato
uno dei maggiori artefici, con Jasper Johns, della trasformazione dell'arte tra gli anni Sessanta
e Settanta perché, più di ogni altro, ha dato vita a quella che sarebbe diventata la Pop Art.
Ritengo che Rauschenberg abbia un'importanza maggiore rispetto ad altri artisti, come
Wesselmann o Lichtenstein, perché si è sempre occupato dei valori pittorici e materici
dell'opera d'arte». L'aspetto più originale dell'opera di Rauschenberg, secondo Dorfles,
consiste nell'aver incluso elementi presi dal mondo circostante: «Le sue opere più importanti
sono i cosiddetti "combine-paintings" dove, oltre all'interesse per la pittura, c'era l'inserzione
di oggetti come bottiglie di Coca-Cola, utensili, barattoli». L'originalità di Rauschenberg si
misura anche dal fatto che «recentemente un grande architetto come Renzo Piano avesse
pensato di inserire un suo affresco nella chiesa di Padre Pio a San Giovanni Rotondo.
Rauschenberg purtroppo fece uno schizzo dove, al posto di un messaggero divino, c'era una
centrale atomica. Giustamente la commissione vaticana lo bocciò. Ma, aldilà di questo, è un
segno della sua influenza sull'arte italiana».
In alto, un ritratto di Robert Rauschenberg del 1990 (Philip Gould/ Corbis).
Qui sopra, Gillo Dorfles e Andy Warhol
Cr. T.
Corriere della Sera - NAZIONALE sezione: Terza Pagina - data: 2008-05-14 num: - pag: 43
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La scoperta
Biennale 1964 L'altra bellezza
di FRANCO CORDELLI
E ra
la prima Biennale che visitassi, la Biennale del 1964, la biennale della Pop Art.
Ignoravo che esistesse una Pop Art, ignoravo i nomi degli artisti, non avevo la minima idea del
tumulto (fu la mia impressione di ragazzo) che mi avrebbe investito. Per me la pittura era la
pittura e i quadri erano i quadri. Forse non sapevo neppure chi fosse Marcel Duchamp.
Davanti alle opere di Robert Rauschenberg rimasi a bocca aperta. Ammirato. Sconvolto.
In questi giorni si è parlato della bellezza. Che cos'è la bellezza? Da Stendhal a Benedetto XVI,
dalla «Promesse De Bonheur» alla celeste armonia. Io, non so. Ma il bello di Rauschenberg è
che quelle sue opere si sottraevano, con immediata evidenza, ad un'idea di bellezza come
ordine, come compiutezza, come felicità. Eppure erano belle, chi avrebbe potuto dubitarne?
Erano belle per quanto sconvolgevano lo spettatore.
Erano belle in quanto disordinate, cioè apparentemente disordinate. Erano belle in quanto
veicoli del caos del mondo. Erano belle, infine, per la forma molteplice che esibivano, per il
senso di possibilità che dischiudevano. La superficie piana non esisteva più.
Non ne esisteva più l'idea. Se si vuole, c'era ancora una cornice, ma in essa c'erano quegli
oggetti, ivi buttati alla rinfusa, o secondo un prestabilito e indecifrabile piano. Più tardi, a poco
a poco, cominciai a capire qualcosa. Il «combine painting» di Rauschenberg era una specie di
diario. Appunti presi non già con una penna o una semplice matita, ma con le mani, con i
pennelli, con la spatola — a volte prima scritti poi cancellati. Appunti «scritti» attraverso
l'accumulo degli oggetti: le cose di tutti i giorni.
I fumetti, le bottiglie di Coca-Cola, le fotografie, le serigrafie. A guardar bene, c'erano anche i
colori, il rosso, i colori erano sopravvissuti.
Erano la spia che Rauschenberg faceva sul serio; c'era, in quelle sue opere strane, in quei suoi
mai visti oggetti, una tonalità tutta sua: la stessa (lo scoprii sette anni dopo) di un altro
texano, Robert Wilson. In Rauschenberg c'era il sentimento dell'abbandono, il sentimento del
deserto, la solitudine di oggi, fissata in quei poveri-lustri oggetti, e il desiderio di ieri, il
desiderio dell'infanzia.

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