robert rauschenberg - Gallery Electa Web

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robert rauschenberg - Gallery Electa Web
comunicato stampa
ROBERT RAUSCHENBERG
TRAVELLING ‘70-’76
a cura di Mirta d’Argenzio
MADRE, Napoli, 22 ottobre 2008 – 19 gennaio 2009
La mostra riunisce una selezione di opere di Robert Rauschenberg provenienti dalle serie
“Cardboards”, “Venetians”, “Early Egyptians”, “Hoarfrosts” e “Jammers”. L’interesse di
Rauschenberg per altre culture e l’esperienza dei diversi viaggi che ha compiuto si riflettono in queste opere che furono create tra il 1970 e il 1976. Per la prima volta dalla loro produzione sino ad ora
per lo più ignorate, stanno ricevendo il riconoscimento che meritano. Alla sua terza tappa, dopo
Porto e Monaco, la mostra è ospitata dal Museo Madre di Napoli dal 22 ottobre, il giorno del
Compleanno dell’artista. Il progetto internazionale, a cura di Mirta d’Argenzio, è stato organizzato
dalla Fundação de Serralves, Museu de Arte Contemporânea di Porto e coprodotta dalla Haus der
Kunst e dal Museo d’Arte Contemporanea Donna Regina di Napoli. Negli anni ’70 i viaggi di
Rauschenberg lo portarono in Italia, in Francia, a Gerusalemme e in India. Le serie qui presentate
che furono create durante o immediatamente dopo questi viaggi mostrano eccezionale semplicità,
vivacità e brillantezza grazie all’uso di nuovi materiali e tecniche. Durante questo periodo
Rauschenberg creò opere fatte di cartone, di stoffa e oggetti ritrovati. In tutte e cinque le serie l’artista si confronta con i classici problemi della pittura, come la composizione, il colore e la struttura,
ma anche con quelli della scultura come il peso, l’equilibrio e la posizione dell’oggetto nello spazio,
il tutto con la sua tipica inventiva.
I Cardboards
In questa serie creata tra il 1971 e il 1972 Rauschenberg utilizzò soltanto pezzi di cartone trovati. La
sua decisione di limitare i materiali al cartone e alle scatole di cartone coincise con il suo trasferimento sull’isola di Captiva nel sud della Florida. Dopo un periodo di grandi successi a New York,
Rauschenberg stava cercando un nuovo modo di concentrarsi; si trasferì nel 1970 ed era alla ricerca di un materiale che si potesse trovare in ogni parte del mondo per la sua nuova serie. “Non sono
mai stato in un posto dove non ci fossero scatole di cartone… persino in Amazzonia” (Rauschenberg
1991). Rauschenberg fu il primo a usare solo il cartone per quadri, sculture e installazioni di ampio
formato senza trattarlo come decoro pittorico o soggiogarlo in qualche modo. Scoprì la qualità
espressiva dei materiali d’imballaggio, unendo il linguaggio dell’astrazione formale a quello della vita
reale, allo stesso tempo mantenendo interamente il carattere del materiale. E fu proprio il cartone,
destinato di solito ad essere scartato, su cui concentrò la sua attenzione: “… Mi è nato il desiderio
di lavorare con un materiale di scarto e morbidezza: le scatole. Qualcosa che dà, come unico messaggio, lo scherzo bonario di una collezione di linee impresse. Nuove forme che rivelano la silenziosa discussione della loro storia. Le scatole. Lavorate in modo comune con felicità”.
I “Cardboards” tendono ad essere monocromatici. Rauschenberg qui prosegue sulla scia dei quadri
in bianco e nero puro dei primi anni. Così le tracce sulle scatole lasciate dall’uso sono fortemente
accentuate: etichette, parole stampate, impronte di suole e dita, così come diversi segni di danneggiamento. Queste tracce si sovrappongono l’una sull’altra e danno informazioni sul passato della
scatola. In quanto materiale universalmente reperibile, le scatole di cartone rappresentano anche il
graduale conformismo del mondo governato dalle condizioni della sovrapproduzione capitalistica.
I Venetians
I “Venetians” furono creati tra il 1972 e il 1973 a Captiva dopo un viaggio a Venezia. Per questa serie
Rauschenberg utilizzò prevalentemente materiali di produzione di massa e oggetti di scarto di uso
domestico: stoffa, corda, legno, pelle, pietra, cavi e fili elettrici, sedie, vasi, cuscini, una vecchia
vasca da bagno, acqua e ferraglia.
I “Venetians” sono più scultorei rispetto ai precedenti “Cardboards” e meno astratti. Caratteristico
è il riferimento all’immaginario veneziano che non è comunque puramente figurativo. Gli oggetti
mantengono la loro indipendenza e identità e le analogie con l’aspetto della città sono soprattutto
formali. Ad esempio l’osservatore trasforma mentalmente l’interno di un tubo rotto nel profilo di una
gondola e un pezzo di legno nel remo di un gondoliere. (“Untitled [Venetian]”, 1973).
Rauschenberg era un assiduo visitatore della Biennale di Venezia a cui partecipò diverse volte. Fu
uno dei primi artisti a rendere il carattere distintivo della città soggetto della sua opera: la sospensione del tempo nella laguna, il fascino intramontabile della città nonostante il graduale declino
della sua bellezza. In questa serie Rauschenberg ritorna ai suoi collage, alla giustapposizione di
materiali e oggetti rinvenuti che una volta caratterizzavano i suoi combine-paintings. Il titolo dell’opera, “Sor Aqua”, (1973) fa riferimento al Cantico di Frate Sole di San Francesco d’Assisi, una
delle prime opere della letteratura italiana. I quattro elementi formano due serie di fratelli: Fratello
Sole e Sorella Luna, Fratello Fuoco e Sorella Acqua. Frate Sole è il simbolo dell’illuminazione attraverso Dio. Nel lavoro di Rauschenberg pezzi curvi di metallo sono appesi sopra una vasca da bagno
piena e si riflettono nell’acqua come nuvole. Anche la luce incidentale si rispecchia nell’acqua.
Gli Early Egyptians
La serie “Early Egyptians” fu creata nel 1973 e 1974. Il cartone è ancora un volta il materiale dominante, anche se il modo in cui viene trattato in questo caso è del tutto diverso: le scatole di cartone non sono appiattite o tagliate, ma quasi sempre usate come elementi costruttivi in queste opere
di grandi dimensioni. Rauschenberg, non senza una certa ironia, ricopre di colla le scatole di cartone e poi le fa rotolare nella sabbia o le avvolge nella garza come mummie. Dipingendo il retro delle
scatole con inchiostro fosforescente crea un alone sul muro come se gli oggetti vi proiettassero
ombre artificiali. “Le cospargo di un materiale speciale come se fosse colla. Poi le ricopro con due
o tre strati di sabbia. Questo è così, quando pensi che siano scatole, ti sembrano pietre. Poi dopo
aver pensato che sono pietre, torni alla prima impressione. Non sono pietre! Pensi di nuovo che
siano scatole. Quest’ambiguità è quello che mi piace. Poi ne dipingo il retro in modo che riflettano
il colore sui muri. Come pietre che si sono addormentate dentro a un arcobaleno”.
Una parte della serie è stata eseguita a Captiva, un’altra parte a Parigi. L’interesse di Rauschenberg
per l’antico Egitto è in parte ispirato da letture e in parte dalle visite al Louvre: l’artista non era mai
stato in Egitto. Mentre i “Venetians” sono leggeri e quasi coreografici, gli “Early Egyptians” richiamano l’idea del peso anche quando ne sono privi. Rauschenberg crea un effetto monumentale e allo
stesso tempo lo mina alla base. In questo modo le opere pongono l’osservatore di fronte al problema della caducità e della continuità.
Gli Hoarfrosts
Per gli “Hoarfrosts”, eseguiti nel 1974 e 1975, Rauschenberg utilizzò i tessuti al posto dei tradizionali supporti in tela. Il titolo fa riferimento all’Inferno di Dante che Rauschenberg aveva già illustrato
negli anni ’50 con una serie di disegni che utilizzava la tecnica del transfer-drawing (“Inferno”,
1958/60). Accompagnato dal poeta Virgilio, Dante discende all’inferno, avvolto nella nebbia e nel
gelo. L’inizio del XXIV canto indica: “quando la brina in su la terra assembra / l’imagine di sua sorella bianca”.
La tecnica e il contenuto di questa serie rimandano a lavori precedenti. Rauschenberg notò che la
garza usata per pulire le lastre di pietra nella litografia manteneva tracce della carta da giornale.
Usando un solvente che consente alle immagini di essere trasferite su tessuto, l’artista creò una
serie di lavori su tessuto trasparente o semi-trasparente e trasferiva le immagini dai giornali su
seta, cotone e chiffon. Nella maggior parte dei lavori diversi strati di tessuto stampato si sovrappongono, creando delicati palinsesti di grande profondità ed eleganza. All’inizio dominano i colori neutri, anche se vengono via via incorporati colori più brillanti. Gli “Hoarfrosts” parlano di disintegrazione e stati di suspense, di occultamento e di trasparenza, “presentando le immagini nell’ambiguità dell’improvviso immobilizzarsi nella messa a fuoco o del disciogliersi alla vista” (Rauschenberg).
I Jammers
Nel 1975 Rauschenberg lavorò per un mese in India in un ashram di Ahmedabad, un centro di produzione tessile. Una volta ritornato a casa eseguì una serie di opere intitolate “Jammers” (1975-76)
che sono vere e proprie esplosioni di colore. “Non mi sono mai concesso il lusso di quei bei colori
brillanti fino a quando non sono stato in India e ho visto la gente andare in giro avvolta in quei colori o trascinarli nel fango. Mi sono reso conto allora che non sono così artificiali”.
I tessuti utilizzati per queste opere sono di forma rettangolare, quadrata e triangolare e i loro colori sono luminosi e intensi. Pendono morbidamente dai muri o sono attaccati a canne di bambù come
veli in uno stato di equilibrio etereo. Il titolo della serie si riferisce al windjammer, un veliero, e i titoli delle opere individuali come “Pilot” e “Sextant” sottolineano il riferimento marittimo. I “Jammers”
richiamano alla mente le vele delle navi, le protezioni frangivento sulla spiaggia, il bucato appeso
ad asciugare nell’Europa mediterranea e in Asia, gli stendardi medievali italiani o le bandiere dei
monasteri tibetani. L’esotico viene accostato a tutto ciò che è vicino e familiare, il sacro al profano.
Così come nel caso della serie veneziana, i “Jammers” mettono in mostra le duplici qualità del riferimento figurativo e dell’astrazione.
Organizzazione e Gestione
informazioni tecniche
Sede
Informazioni
e prenotazioni
Napoli, Museo Madre
Via Settembrini, 79 Napoli
Telefono: 081 19313016
(lunedì – domenica: ore 10.00 – 20.00)
Sito Internet
www.museomadre.it
Orario
dal lunedì al venerdì ore 10.00 – 21.00
sabato e domenica ore 10.00 – 24.00
Giorno di chiusura : martedì
Biglietti
Intero: euro 7.00
Ridotto: euro 3.50
Gratuito tutti i lunedì
Audioguide
euro 4.00
Per Raggiungere il Museo
dall’aeroporto di Capodichino
e dalla Stazione Centrale
Taxi: circa 10/15 minuti
In autobus: Bus 3S (Piazza Garibaldi).
L’AliBus: Partenza ogni 30 minuti scendere alla
Stazione Centrale (Piazza Garibaldi) da qui prendere
la metropolitana Linea 2, scendere alla fermata Cavour
poi a piedi per circa 200 metri.
La mostra rientra nel circuito
CampaniaArtecard - www.campaniartecard.it
Ufficio stampa MADRE
Costanza Pellegrini
tel 081 199 78024
fax 081 19978026
e-mail: [email protected]
Ufficio stampa Electa
Enrica Steffenini
tel 02 21563433
fax 02 21563314
e-mail: [email protected]
Carolina Perreca
tel 081 4297435
fax 081 4297433
e-mail: [email protected]
Organizzazione e Gestione
colophon
ROBERT
RAUSCHENBERG
TRAVELLING ‘70-’76
a cura di Mirta d’Argenzio
MADRE, Napoli, 22 ottobre 08 – 19 gennaio 09
REGIONE CAMPANIA – POR 2007 – 2013
PROGETTO CO–FINANZIATO DAL FONDO EUROPEO PER LO SVILUPPO REGIONALE
Organizzazione e gestione
Porto, Fundação de Serralves,
Museum of Contemporary Art
26 Ottobre 2007 - 30 Marzo 2008
Monaco di Baviera, Haus der Kunst
09 Maggio 2008 - 14 Settembre 2008
Napoli, MADRE Museo d’Arte Contemporanea
Donnaregina
23 Ottobre 2008 - 19 Gennaio 2009
Giovanna Barni
Sergio Di Meo
Marino Niola
Andrea Pacifico
Vice Presidente
Consigliere
Consigliere
Consigliere
Coordinamento Generale
Francesca Maciocia
Maurizio d’Amico
Mostra organizzata dalla Fundação de Serralves,
Museu de Arte Contemporanea, Porto.
Co-prodotta con Haus der Kunst, Monaco di Baviera
e Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina, Napoli.
Servizio organizzazione mostre
Electa
Carlotta Branzanti
Roberto Cassetta
con Maria Francesca Buonomo
MUSEO D’ARTE CONTEMPORANEA DONNAREGINA
Servizio comunicazione e ufficio stampa
Electa
Ilaria Maggi
Valeria Regazzoni
con Carolina Perreca
Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee
Antonio Bassolino
Presidente
Achille Bonito Oliva
Vice Presidente
Enrico Santangelo
Consigliere
Eduardo Cicelyn
Direttore
Comitato Scientifico Fondazione Donnaregina
Achille Bonito Oliva
Rudi Fuchs
Vicente Todolì
Museo MADRE
Eduardo Cicelyn
Mario Codognato
Guido De Rosa
Armando Palmieri
Costanza Pellegrini
Silvia Salvati
Direttore
Curatore
Direttore Tecnico
Conservatore
Ufficio Stampa e
Relazioni Esterne
Coordinamento attività
espositive
Allestimenti
PA.CO. Pacifico Costruzioni
Corrado Cirillo
Francesco D’Agostino
Servizi museali e didattica
Pierreci
Bruno D’Antonio
Francesco Cochetti
Marketing
Pierreci
Ida Fontana
Vigilanza e pulizie
Gamba Service e Nuova Lince
Progetto di allestimento
Studio DAZ
Dumontet, Antonini, Zaske architetti associati
Allestimento delle opere
Bastart di Dimitrios Yannopoulos
Robert Rauschenberg Studio, New York
Thomas Buehler, David White
Gina Guy, Matt Magee
Progetto della mostra
Mirta d’Argenzio
Trasporti
FeirExpo
The Menil Foundation, Inc.
Boxart
Assicurazioni
Hiscox Portugal
Huntington T. Block
Si ringrazia per i prestiti
Robert Rauschenberg Studio, New York
Musée d’Art Contemporain, Marsiglia
The Menil Collection, Houston
The Museum of Fine Arts, Houston
Sonnabend Collection, New York
San Francisco Museum of Modern Art, San
Francisco
Un ringraziamento particolare a
Robert Rauschenberg
Si desidera inoltre ringraziare
Neal Benezra, Direttore, San Francisco Museum of
Modern Art, San Francisco
Jill Sterrett, Direttore di Collections & Conservation,
San Francisco Museum of Modern Art
Marzia Bianchi
Patrizia Dander, Haus der Kunst, Monaco di Baviera
Chris Dercon, Direttore, Haus der Kunst, Monaco di
Baviera
Raffaella Caucci
Francesca Ferian
Sidney Felsen, Gemini G.E.L.
João Fernandes, Direttore, Museu Serralves, Porto
Paula Fernandes, Museu Serralves, Porto
Yona Fisher
Bill Goldston, ULAE
Gianfranco Gorgoni
Pia Gottschaller
Josef Helfenstein, Direttore, The Menil Collection,
Houston
Antonio Homen
Tina Koehler, Haus der Kunst, Monaco di Baviera
Michela M. Langestein
Mira Lapidot, The Israel Museum, Gerusalemme
Jochen Lempert, Matt Magee, Brice Marden
Peter C. Marzio, Direttore, The Museum of Fine Arts,
Houston, Luisa Mensi, Olaf Nicolai
Thierry Ollat, Direttore, Musée d’Art Contemporain,
Marsiglia
Patsy Orlofsky, Darryl Pottorf, Max Renkel
Mayo Thompson, Vicente Todolì
Catalogo a cura di
Mirta d’Argenzio
Ricerca scientifica
Francesca Franco
Rosa Ciacci
Coordinamento generale
Valérie Béliard
Contributi di
Mirta d’Argenzio
Branden W. Joseph
Progetto grafico
AM Newton
Ricerca iconografica
Mirta d’Argenzio
Giovanna Carlotta Infra
Simona Bartolena
Traduzioni
Henry Martin
Valentina Palombi
Stefano Salpietro
In copertina
Robert Rauschenberg, Vow [Jammer], 1976
Studio Robert Rauschenberg, New York,
© Robert Rauschenberg by SIAE
© R. Rauschenberg by SIAE 2008
© 2008 Fondazione Donnaregina
© 2008 Mirta d’Argenzio per il saggio Robert
Rauschenberg: Travelling ’70–’76,
pubblicato precedentemente in Robert
Rauschenberg: Travelling ’70–’76,
Catalogo della mostra, Porto: Fundação de
Serralves, 2007;
e per tutti gli altri suoi testi in catalogo
Una realizzazione editoriale Mondadori Electa
S.p.A., Milano
Tutti i diritti riservati
www.electaweb.com
PROGETTO CO-FINANZIATO DAL FONDO
EUROPEO PER LO SVILUPPO REGIONALE REGIONE
CAMPANIA - POR 2007-2013
saggio dal catalogo
ROBERT RAUSCHENBERG
TRAVELLING ‘70-’76
di Mirta d’Argenzio
“La brevità è l’anima del senno” Shakespeare, Amleto
Nell’opera di Rauschenberg, così come nella Commedia di Dante [1307 ca], sussistono diversi livelli possibili di lettura, contemporaneamente. In tale semplice apparenza consiste uno fra i tanti problemi, non irrilevanti, che l’artista pone all’interpretazione critica, che rimane un punto cruciale per
la sua comprensione. Questo per tornare al problema delle origini di una lingua; non sotto un albero del Quattrocento a parlare di spazio, realtà e prospettiva della pittura; ma anche per citare subito direttamente de Chirico e la Metafisica del 1911, oltre al solito Cubismo, come sembrerebbe inevitabile appena si inizi il discorso su questo periodo di Rauschenberg e sui suoi Cardboards. Come
se fosse questo l’unico sottotesto implicito alle costruzioni di scatole, poi nelle serie successive,
non afferrando in pieno lo spirito di una battuta dell’artista a riguardo.
La loro complessità risiede nella semplice apparenza, sia essa l’impareggiabile eleganza della sintassi secca della terzina, oppure il ritmo diseguale delle sette ombre proiettate dalle diverse garze
pendenti da altrettanti fogli bianchi nella sequenza delle Pyramid Series [1973], che sembrano puntellare al muro, solo con il loro trasparente e mutevole disegno, le due fragili sfoglie di carta in cui
sono pressate, risiede la loro complessità. È una complessità invisibile, o quasi.
Nell’invisibilità apparente è la complessa semplicità. In questo Rauschenberg è come Dante.
L’inganno dell’arte è lo stesso. Trasparente, o quasi. D’ombre. Ma è indubbio che le ombre delle
anime che Dante incontra scendendo nei vari gironi infernali in compagnia di Virgilio, immerse nella
nebbia, viste attraverso un velo di brina, intrappolate dentro tronchi d’albero, rimarranno molto più
reali per Rauschenberg dopo la sua prima impresa di traduzione della Commedia [1958-1960], compiuta creando i primi transfer drawings e senza conoscerne la lingua. Ombre che torneranno ad
emergere e riemergere alla superficie, verso la fine di questa stagione, dopo che la figurazione
scomparirà quasi del tutto per un periodo e la sua ricerca sembra rivolgersi di nuovo esclusivamente alla semplificazione, alla meditazione sul monocromo, alla percezione del colore. Tornando a quei
problemi da cui era partito dal Black Mountain al tempo di Albers. Quando non ha più nulla da dover
dimostrare. Robert Rauschenberg è stato non solo l’artista forse più innovativo, prolifico e influente che gli Stati Uniti abbiano prodotto fra i due secoli; ma senz’altro l’unico statunitense [classe
1925, Port Arthur, Texas] che negli ultimi cinquanta anni, abbia prima abolito i limiti imposti fra arte
e vita; ignorando poi le frontiere geografiche ed ideologiche imposte al pianeta dalla cultura e dalla
politica e lavorando in continuo movimento fra America, Europa, Nord Africa, Israele India e infine
allargando all’intero pianeta, anzi alla luna, il suo raggio di azione. Poiché ha portato alle estreme
conseguenze le premesse di Pollock, agli albori dell’arte americana, quando: “si è distaccata dalla
tradizione del quadro, che per essere contemplato non richiedeva da parte dello spettatore alcun
movimento. Questa è stata la cosa più straordinaria”. Così ha affermato l’artista di recente, aggiungendo con modestia: “Fu Pollock ad iniziare tutto ciò.” Rauschenberg tuttavia è giunto molto oltre.
Giovanissimo, era arrivato oltreoceano, conosceva già ben altro.
Ha scardinato subito la stessa nozione di pittura scultura e disegno, così come tradizionalmente
intesi sin dalla nascita della Maniera moderna, ossia di quella “prospettiva come forma simbolica”
e misura dello spazio; quella lingua messa in crisi da Picasso con il primo Cubismo, verso gli anni
dieci, ed interrogata al tempo stesso, in maniera forse più enigmatica e sottile, dalla pittura del
Grande Metafisico: Giorgio de Chirico. Rauschenberg ha poi ripensato ai fondamenti stessi di quella prospettiva, alla sua lingua perduta, contraddetta da Cubismo e Metafisica, fino al più recente e
terribile dopoguerra, quando venne negata per sempre dopo Guernica [1937]; accettandone le inevitabili conseguenze. Rifiutando inevitabilmente l’ottimismo modernista della Bauhaus di Albers, al
quale non potrà mai sottostare, ma continuando da interrogarsi sempre, a più riprese, proprio sulla
questione, come avverrà in special modo, a partire dal periodo che si vuole nuovamente proporre
ai vostri occhi.
Diciamo subito che il viaggiare di Rauschenberg è un dato di fatto molto reale e niente affatto simbolico, come lo è invece la discesa di Dante negli inferi in compagnia di Virgilio, iniziato, quando
viaggiare non era ancora il passa-tempo sciatto che è diventato. Mi rivolgo alla generazione che
non conosce o ricorda il mondo precedente al cellulare, come se non fosse mai stato possibile un
lungo silenzio. Il mondo inventato e descritto da Dante è del tutto immaginario, ma il realismo della
sua lingua lo rende ancora vivo, vero quasi più del nostro. Il mondo inventato da Rauschenberg è
proprio il nostro [visto, trasferito, riprodotto e trasmesso agli altri], anche se la radicalità della sua
lingua ce lo fa apparire immaginario, enigmatico quasi remoto. Per questo la sua avventura, in particolar modo la stagione che seguirà, quasi tutta ancora da rileggere e comprendere, appare così
misteriosa, come la pittura Metafisica, quando apparve a Parigi, nel 1917, a quei Dada, che per primi
ebbero la fortuna di vedere quelle piazze. Torneremo sull’argomento.
Per ora basti notare che l’artista ha sempre posto l’accento sulla sua ambizione di essere un semplice reporter e l’ambizione non è poi così semplice. Partito come fotografo, fra i migliori seguaci di
Aaron Siskind [il mitico pioniere di Photo League], che pure non fu mai suo maestro, come invece
lo fu Albers. Preferì all’inizio la visione in bianco o nero del primo alla rigida lezione colorata del
severo maestro della Bauhaus, che del modernismo gli fece capire soprattutto la necessità di sfuggire al suo “opprimente ottimismo”. Così le prime figure dell’Inferno sono trasferite dalle illustrazioni di Sport Illustrated con un procedimento forse trovato per sbaglio, nell’intenzione di mantenere
quella aura fantasmatica, che avvolge le anime nel girone dantesco dei dannati. Perché anche lì la
scelta di annullare quasi del tutto il colore confondendolo non è casuale, così come nei Currents
[1969-70] non lo sarà l’idea di Rauschenberg di virare in negativo o positivo ma su un fondo pallido
di colore le stesse immagini, in tre diverse sequenze consecutive, partendo dai collages, che guarda caso ci fanno pensare all’invenzione più geniale di Dante per i suoi dannati, escogitata con il terribile contrappasso che serve alla loro punizione eterna. Quella atmosfera di nebbia che li avvolge
tutti, come brina, titolo di quella serie Hoarfrost [1974-75] dove riappare di nuovo la stessa figurazione a vortici, di corpi e cose in bianco e nero, poi più pallidi e infine solidi colori.
Si potrebbe dire che nel suo viaggiare dall’idea di collaborazione iniziale con i materiali, una meditazione mai interrotta, da cui parte letteralmente [dalla tradizione dell’oggetto trovato e del collage
ereditata da Duchamp e Schwitters, che fra gli anni cinquanta e sessanta porterà all’apoteosi poetica e monumentale con i primi eroici e monumentali Combine-paintings] per via dell’impossibilità di
dipingere un quadro; egli giunga alla sua piena consapevolezza nel senso di una collaborazione con
la lingua della pittura ri-trovata nel mondo ed utilizzata [come materiale e tradizione umani], proprio
durante quel decennio cruciale degli anni settanta, che abbiamo scelto per questo motivo. Molto è
stato detto finora. Ma, nonostante l’infinita possibilità di molteplici e complesse interpretazioni
offerte dalla pittura di Rauschenberg alla letteratura critica [verso la quale il maestro, come è noto
ha nutrito da sempre il più olimpico ossequio espresso con la sua facoltà così sottile di divertirsi, e
con poco, alle nostre spalle], resta il fatto innegabile che la sua opera sembra opporre una sorta di
resistenza passiva ad ogni categorizzazione, proprio grazie alla sua capacità di piegarsi e al tempo
stesso prescindere da ogni eventuale esegesi; nel suo rimanere sempre accessibile ed ostica;
apparentemente aperta e comprensibile a chiunque, di qualsivoglia nazionalità o cultura, voglia
avvicinarvisi di nuovo, oggi, come per la prima volta. Questa complessità è semplice.
Così, almeno, appare. Sono orgogliosa del fatto che l’artista abbia scelto lui stesso come titolo di
questa mostra: “Robert Rauschenberg. Travelling: ’70–’76”, una semplice traccia, in apparenza, che
ho accolto come un dono molto speciale, con grande gioia. L’unico invito possibile è di avvicinarci
alle diverse serie di opere composte da Rauschenberg nel suo rinnovato viaggiare, fra 1970 e 1976
e riunite qui di nuovo insieme, con lo spirito più aperto e semplice possibile, nel tentativo di riuscire ad accedere al loro muto enigma, come l’artista vorrebbe, in modo attivo, senza troppe pretese
intellettuali. Non essere intimiditi dalla loro semplice complessità.
Questo è l’unico modo di entrare: immergendoci più volte nel loro silenzio. Ma entrare attivamente,
attraversando lo spazio, come fosse la scena, percorrendola tutta più volte per acquisire quella
naturalezza di movimento, necessaria per riuscire a reagire ed esserne veramente incuriositi, sorpresi e, specialmente, per non rimanere bloccati davanti alla prima opera come se fosse un singolo quadro; ma andare oltre. Poi, passando di stanza in stanza, tornare a cogliere il diverso ritmo e il
dialogo che gli oggetti, le costruzioni, l’ambiente con le loro diverse ombre, soprattutto le ombre, ci
trasmettono, con il passare dei giorni e con il variare della luce del giorno. Perciò dovremmo muoverci, lasciarci guidare dall’istinto e camminare; saper girare lentamente o più veloci dentro le stanze, vagare prima attorno e dentro ai lati più nascosti di una scatola e poi avvicinarsi ad una delle
tante estremità o cime pendenti, come quella di San Pantalone [Venetian] [1974] per osservare
prima come è stata annodata la noce di cocco e, poi, forse, chiederci, se ne abbiamo voglia, da
dove venga la noce e da dove il santo; quale cordone ombelicale li ancori dolcemente insieme al
suolo; poi tornare indietro per fermarci in un punto qualunque, magari di fronte alla vasca piena
d’acqua di Sor Aqua [1973] da dove sia possibile cogliere il riflesso delle lamiere fermate come
nuvole sopra una barca. Osservare aprirsi la curvatura improvvisa di una delle estremità celesti di
Volon [Cardboard] [1971]. Certo dovremo comportarci come se anche noi fossimo dentro un quadro.Immaginare di essere stati buttati sulla scena, come improvvisati ballerini. Guardare in alto.
Osservare bene le ombre. Oppure, se lo preferiamo, rimanere fermi e fissi come manichini o guanti appesi, accanto a questi grandi scatoloni a misura d’uomo, svuotati. Ma allora sarebbe un altro
quadro, un Interno metafisico di de Chirico o una Natura Morta di Morandi, del 1917 o 1918.
Oggi il pubblico, composto d’individui diversi, ognuno con la sua storia personale, è invitato a partecipare attivamente. Come sempre. Ognuno può completare, come vorrà, la breve storia che si troverà davanti o andare avanti. La lingua è il volgare di tutti. Vale la pena di provare ed entrare. Prima
di tutto dobbiamo ricordare che è l’artista ad invitarci a partecipare senza timore in tale esplorazione, che è un’attività fisica, prima che spirituale. Nel periodo che qui esamineremo, infatti, quello che
dal 1970 giunge al 1976, è compreso un viaggio [e diverse avventure], che, partendo dalle solide
geometrie dei Cardboards [1971-72], giunge agli enigmi trasparenti degli Hoarfrosts [1974-75]; ai
delicati equilibri dei Jammers [1975-76], ai loro brillanti esercizi monocromi. In tale procedere, passando fra le pallide ombre delle Pyramid Series [1974] o fra quelle degli Early Egyptians [1973-74],
molte delle quali colorate e proiettate sulle pareti dalle cose più povere tolte ancora una volta alla
polvere della strada, in rilievo o pendenti come in molti grandi fogli, quali quelli di Scriptures [I- IV]
fatti per “Rauschenberg in Israel” [1974], ritroviamo, meditato più a lungo, il senso di una tale semplice complessità della lingua.
Tutto ciò, nel caso di Rauschenberg, accade: Nel mezzo del cammin di nostra vita, come nel famoso poema, quando appena quarantacinquenne, sembrava già aver esplorato il possibile. Così, almeno, giudicavano alcuni degli intelletti più sottili, per i quali la sua stagione artistica, appariva ormai
superata da tempo. Risponderà a tutti dapprima con il manifesto di Autobiography [1968]. In
quel telegrafico testo a spirale, successivo all’autoritratto del 1964, dove era impressa solo la sua
impronta digitale, cercherà di chiarire alcuni punti. E continuerà a farlo spesso con altre brevi
dichiarazioni, per lo più ignorate, ma soprattutto esprimendosi in ognuna di queste opere.
“To put an antic disposition on”, anche questa nostra variante vuole essere un tributo a Walter
Hopps, leggendario curatore statunitense che a Rauschenberg dedicò la sua seconda maggiore
retrospettiva in America. Abbiamo allargato il campo, in una forma più estesa e distinta rispetto alla
recente mostra di Houston, cercando di stabilire all’interno di quel periodo, compreso fra il 1970 e
il 1976, data del Bicentenario Americano, alcune relazioni indicate subito da Hopps e messe più a
fuoco negli episodi successivi del suo lungo sodalizio con Rauschenberg, come fosse un nucleo
ancora non sufficientemente riconosciuto e da approfondire. La visione di Hopps, in particolar modo
la sua attenzione e abilità tutta rivolta a cogliere i nessi interni al lavoro di Rauschenberg, il suo talen-
to nell’indivi-duarne i problemi nascosti, espressa così lucidamente sin dall’inizio, nella sua capacità
di accostare le diverse immagini di Rauschenberg mi ha sempre profondamente colpito. Un suo suggerimento, il dettaglio ingrandito di un Hoarfrost [1975] dal fondo nero, scelto per la copertina dell’ultimo catalogo, infine, mi ha spinto ad interrogarmi, profondamente, più di tante letture.
Come mai la facciata rinascimentale di un palazzo veneziano, riflesso nell’acqua del Canal Grande,
emerge, sospesa, riflessa nella luce, accanto ad un pezzo di cartone [lì vicino a quella stella marina, dove è nascosto una specie di lemure in agguato]?
Quella finestra è l’unica figura che distinguiamo subito chiaramente, nel fondo nero lucido dove è
immersa e galleggia, dentro quel riquadro di seta chiara stampato come fosse il foglio di un giornale. Mi è sembrato che da quanto era cristallizzato in quel singolo dettaglio, e intorno a quel nucleo
già isolato nel 1976, poi definito in vari approfondimenti successivi, fosse necessario tornare.
Other Side Up, ovvero rigirare, invertire la rotta, cambiare direzione, indica la scritta centrale che
si legge sul frammento di un Cardboard messo su quel velo di un Hoarfrost. Quel velo di Hoarfrost
è una brina che avvolge tutte le cose e sembra neve o così almeno appare, soprattutto d’inverno ai
contadini, prima di dissolversi, al sole, nella luce.
Questa è stata la prima idea. Lawrence Alloway, papà britannico del Pop, fu senz’altro fra i primi a
scorgere nello sviluppo del lavoro più recente di Rauschenberg quella tensione verso “un modo più
esplicito, con una riduzione della complessità interna rispetto al suo lavoro iniziale”, individuando
nei Currents [1969-70] un momento cruciale di riflessione in tale percorso e stacco ed illuminare poi
la sua relazione con Dante: “l’attualità delle immagini citate è dilatata dalla prospettiva temporale
dell’opera nel suo insieme. Questo rappresenta un aspetto fondamentale nella visione del mondo
dell’artista, suggerita, tuttavia in un lavoro più tardo, la serie delle serigrafie dei Currents [1969-70].”
Alloway e con lui Hunter, più di recente, fra i più autorevoli esegeti di Rauschenberg, hanno messo
in luce le analogie fra Currents [1969-70] e le precedenti illustrazioni dell’Inferno di Dante: i Cantos
I - XXXIV [1958-60]. Entrambe le serie furono composte durante un periodo di lungo isolamento,
Cantos, nel ritiro del golfo, in una piccola isola in Florida, scelta dapprima come rifugio per la concentrazione richiesta e la difficoltà della composizione, come sarà poi in seguito anche per Captiva,
scelta per trascorrere parte dell’anno, anche per sottrarsi a New York e a quel mondo che lo avvinghiava troppo “al punto di un’intollerabile distrazione.”
Entrambe le serie sono frutto di una riflessione prolungata e di una pausa, insolita per l’artista. La
prima durata due anni e mezzo. La seconda circa sei mesi [dal settembre al febbraio 1969 da cui
provengono le loro notizie]. La loro lettura ha sempre posto un problema, un equivoco riguarda la
natura del loro linguaggio figurativo e, di conseguenza, l’interpretazione della loro visione contemporanea, in Dante come in Rauschenberg, che per l’ultimo non è stato chiarito.
Tale equivoco nasce della presenza figurativa dei primi transfer drawings, qui Rauschenberg fa una
scelta precisa con la sua traduzione di Dante per immagini. Sbiadire e immergere le anime dannate degli uomini e i loro corpi nella nebbia o congelarli come nella brina. Questo passaggio rimane
ostico. Come gli Hoarfrosts, quadri che riprendono lo stesso problema e lo ampliano in scala, lo
immergono e smaterializzano nel vortice della figurazione, che riappare e si fonde, nella luce, insieme o vicino al monocromo. Il riconoscimento dei primi trentaquattro Cantos [1958-60] fu quasi
immediato, quello dei Currents [1969-70] rimane ancora oggi molto più controverso. Sembra riduttivo affermare il loro status preminente di mere notizie viste come fleeting commodity. Ma è una questione interessante poiché i Currents, come un affresco, creano un disegno lunghissimo composto
di trentasei studi, singoli collages quadrati, fatti utilizzando prima parti e fogli di diversi quotidiani,
con notizie ritagliate o immagini di cronaca intere, sovrapposte o accostate; le stesse immagini poi
saranno virate nelle due visioni alternative in negativo delle edizioni dei Surface e infine dei
Feautures: queste ultime sono composizioni dove le immagini appaiono“in nero su vari fondi di pallidi colori”, poiché, come l’artista ricorda nelle note della sua introduzione manoscritta in catalogo:
PLANNED DRAWING SHOW WALL 51 FT. MAKING DRAWING FOR THAT WALL BECAME MY EXCUSE TO SUBMERGE IN A PERSONAL SOLO ACTIVITY AFTER AN OVERDOSE OF GROUP EFFORTS.
THE WORD CONDITION PERMITTED ME NO CHOICE OF SUBJECT OR COLOR AND METHOD/COMPOSITION. LAIKA+KID HAD 10 PUPS. THE LOVE OF WORK MAKES THINGS POSSIBLE. GIVE THE
WORLD A CHANCE BY CHANGING IT.
Colori meno stridenti di quelli utilizzati da Warhol in quel portfolio, commissionato dal gallerista
Bischofberger, dove apparirà un’unica immagine: la sedia elettrica. È il 1971 e questa sarà l’unica
icona delle fleeting commodity celebrata come eccelsa vanitas più che combattuta come crimine
insostenibile. Una differenza che separa il mondo di Warhol da quello di Rauschenberg.
Rauschenberg aveva osservato che un individuo che legge un solo giornale riceve le notizie diversamente da chi le rilegge attentamente su cinque o sei giornali. Chi legge un solo giornale assorbe
le informazioni e tende a reagire prosaicamente all’afflusso delle notizie, anche delle più penose;
chi confronta più notizie su più giornali. In Currents [1969-70], gli avvenimenti attuali saranno un’unica storia nell’edizione finale, realizzata come una striscia su due ordini, che si snoda lungo le pareti della galleria, utilizzando tutti gli studi preparatori precedenti, da leggere come una storia narrata nei successivi quadri di un affresco medioevale, utile anche per gli analfabeti.
Con questa consapevolezza firmerà la dichiarazione apparsa su Artforum per annunciare la mostra
di Minneapolis, poi ospitata a New York:
“UNA MOSTRA NON PREVISTA, UNA PROTESTA ATTIVA NEL TENTATIVO DI RENDERE
PARTECIPI + COMUNICARE LA MIA RISPOSTA + PREOCCUPAZIONE PER LA GRAVITÀ DI
MOLTI PROBLEMI DEL NOSTRO TEMPO + SPAZIO. L’ARTE PUÒ INCORAGGIARE LA
COSCIENZA INDIVIDUALE. L’INGEGNO PERSONALE DI OGNUNO RAPPRESENTA L’UNICO
VEICOLO CAPACE DI NUTRIRE QUEL SEME DI SAGGEZZA, ESSENZIALE NELLA
COSTRUZIONE + CAMBIAMENTO CHE È IL SOLO A PRODURRE TUTTA LA DIFFERENZA
NEL MONDO R.R. /70”.
Nelle sue composizioni, dai Cardboards [1971-72] ai Jammers [1975-76], dentro i loro angoli interni,
impercettibilmente danneggiati da millimetriche imperfezioni attorno alle loro sagome quadrate
segnate o semitrasparenti quinte di colore, Rauschenberg ci metterà di fronte la sua risposta e proposta alternativa all’assolutismo dell’Omaggio al Quadrato [e relativi dogmi]. Un risultato scaturito
a distanza di anni emana da queste opere, dopo una lunga meditazione sull’Interazione del Colore.
Tutto ciò avviene non solo in termini di ripensamento al monocromo, avendo in mente ben chiara la
lezione del severo maestro del Black Mountain College, come pure ha Rauschenberg affermato talvolta riferendosi a tale problema. In questa stagione l’uso del colore prima scompare quasi del
tutto, tornando allo stesso alfabeto utilizzato nelle Elemental Sculptures [1953 ca] e nelle prime
Scatole [fra Roma e Firenze diventate poi Contemplative] e nei Feticci Personali [1952-53]. Le
Scatole e i primi Feticci Personali erano [inoltre] anche strettamante associati agli arazzi dell’amico e pittore Cy Twombly, “esposti a Firenze in una mostra comune insieme agli eterei feticci sospesi e alle composizioni di minuscole scatoline” fotografate poi a Roma da Rauschenberg insieme,
vicini, come assemblages sospesi alla Pensione Allegri. Entrambe le serie di opere dei due artisti
furono il risultato della loro prima comune esperienza di viaggio in nord Africa, ma sono raramente
collegate alle successive serie degli Hoarfrosts e Jammers di Rauschenberg.
Possiamo guardarle e leggere l’intera successione di queste serie anche solo nei termini complessi di questo problema dove il monocromo arriverà al colore assoluto e brillante [ma mai opaco], un
lusso che l’artista non si era mai concesso prima d’ora.
Una successione che risponde ai sorprendenti arazzi di Twombly, fatti a Tangeri con tessuti di colori vivi usati dai nativi per i loro vestiti; e poi si esprime, in questi passaggi con più stacco, nei suoi
elementi alfabetici semplici, nella sua metrica allungata. Così una visone sempre più profonda e trasparente, è frutto ogni volta di una scelta, conseguita per gradi, dove la retorica è assente. Negli
Hoarfrosts e nei Jammers l’astrazione monocromatica e la figurazione sono sullo stesso piano,
dove persiste un’unica visione profondamente umana, balbettante ma anche dislessica.
“Picasso inganna lo spirito. Voglio dire che per acchiappare i nostri uccelli ha inventato un’uva
degna. De Chirico usa il trompe l’oeil così come un criminale rassicura la sua vittima: ‘Non abbia
paura. Ecco qui c’è il campanello, la finestra è una vera finestra, la porta è aperta, basta chiamare…’”. Così: “Picasso e de Chirico: alla fine degli anni venti Jean Cocteau li mette a confronto indicando con estrema eleganza le qualità stilistiche dei due artisti.” Perché, se da un lato: “Picasso
smonta per riassemblare, de Chirico assembla per smontare. Eppure dietro la loro innegabile lontananza formale e stilistica si nasconde il dubbio da una parte, il mistero dall’altra, della vera sostanza dei fenomeni e dell’esistere.” Come mette in luce Ester Coen.
Allo stesso modo il gioco di scomporre o assemblare oggetti fisici [scatola o feticcio] così da farli
diventare “Contemplativi” è un atto nel quale Rauschenberg emerge come maestro d’assoluta eleganza. È il gioco con il quale inizia e continua a cimentarsi e divertirsi nel periodo della sua raggiunta maturità d’uomo e artista, quando egli aderisce ancora più profondamente a quella stessa consapevolezza di linguaggio che gli è familiare da più di trent’anni. Partecipe di quello stesso mistero
della lingua, da cui parte e cui torna ora, con maggiore chiarezza e consapevolezza. È il caso di
Serita / Blister Pack [Cardboard], Castelli / Small Turtle Bowl [Cardbord] o Gun Tackers / Skin Pak /
Brushes / I.T.T. / Glass [Cardboard], per citare solo tre dei primi e migliori esempi dei primi anni sessanta, in cui è evidente una tale parentela.
Dispone le nuove scatole. Le prepara e poi si occupa della stampa di edizioni cui dedica la stessa
attenzione, forse anche maggior entusiasmo di quanto non dedichi al resto per le improvvisazioni
infinite che gli offre. Abolisce le gerarchie dei generi e dell’oggetto [di mercato] con le sue edizioni
e multipli limitati e illimitati a portata di tutti, ma allo stesso livello qualitativo, forse più preziose talvolta nei materiali, delle opere uniche, con cui si potrebbero confondere. Duplicazioni nelle duplicazioni, ma non solo. Mud Muse [1968-71] sarà l’ultima opera tecnologica, la fatica che chiude
l’epoca sonora degli esperimenti e della collaborazione iniziata con E.A.T. e Oracle [1960-65]. La sua
grande vasca quadrata, sonora, piena di fango, è un’immensa scatola monocroma, che ribolle
all’improvviso. Con il suo suono impercettibile ed inquietante ci annuncia che la nuova stagione del
silenzio è già cominciata. Partendo dal biancore assoluto e radiante di Radiant White [1971], la più
lunga costruzione della serie dei Cardboards, si apre una sequenza, che prosegue con il celeste
quasi immacolato di Volon [1971], in cui passiamo da una zona monocromatica iniziale delle scatole, dove domina quasi esclusivamente la lorodiversa possibilità di accogliere ed è assente quasi del
tutto sia il colore che la figurazione. Appare, come un presagio, l’essenza di un nome: Radiant
White, interminabile, come un urlo muto che non può morire. È quell’ora dell’enigma, in cui vive “la
voce di un dio che si fa sentire”. Ma torna anche la solidità delle prime Elemental Sculptures fatte
di quasi nulla, di mobili incastri, come in particolare quel cubo di balsa trasparente, che così bene
aveva visto Hopps essere accanto alla sorgente degli Hoarfrosts.
Mettiamole idealmente vicine le une alle altre, queste costruzioni e i piccoli contenitori portatili
romani; guardiamole nelle fotografie iniziali di Rauschenberg, accanto alle altre scatole svuotate
dei Cardboards. Forse così sarà più facile capire come la necessità primaria di queste nuove opere,
rispetto alle precedenti, sembrerebbe l’assoluta necessità di silenzio. In tal senso è indifferente che
le scatole diventino poi veli, o lì sotto siano nascoste, schiacciate, confuse, insieme al resto.
Oppure immaginiamoci un dialogo fra Mud Muse [1968-71], quella prima musa di fango, ed una sua
parente più silenziosa: Sor Aqua [Venetian] [1973], molto più estroversa dell’altra e luminosa, anche
lei una vasca da bagno, ma piena d’acqua. Spesso i titoli di Rauschenberg sono il materiale trovato in una conversazione. Hanno un antico suono francescano, come Sor Aqua [Venetian] del 1973,
titolo originale in un italiano duecentesco, troppo intellettuale per essere “inventato” o trovato lì per
caso dall’artista. Quel nome così semplice nel suo suono, forse l’avrà udito pronunciare da Michael
Sonnabend, probabilmente in una bella giornata di quelle trascorse insieme a Venezia, durante una
breve vacanza di assoluto svago, come raramente avveniva. In seguito è stato scelto per quella
costruzione così invisibile, che svetta alta fra tutte le altre di quella serie; tutte molto slanciate, sospese, davvero eleganti. Sedimentato e ricordato fra Venezia e Captiva, poi preso alla fine, quel nome
è stato scelto con grande sicurezza per quella costruzione che è forse l’apparizione più inattesa,
quella che più ci sorprende, rispetto alle altre di questo periodo, fatta dopo, con quello che si trovava, andando in giro in macchina. Ma serviva una vasca da bagno in questo caso ed è lì… Vasca,
prima vista o pensata, poi assemblata e disegnata a Captiva, dopo la vacanza veneziana. Di questo
lavoro, come avvenuto già per Monogram [1955-59], esisterebbe un disegno, fatto dopo, la sua
costruzione.
Sor Aqua, in un verso del Cantico delle Creature [S. Francesco d’Assisi, c. 1224] è uno dei quattro
elementi della natura che seguono accompagnando Frate Sole, nella lode rivolta a Dio per ringraziare di tutte le semplici meraviglie del creato, cose nominate ognuna con il loro nome come per
santificarle ogni volta di nuovo. Questo è quello che avviene in poesia. E allo stesso modo qui nell’arte di Rauschenberg. Mai prima d’ora tale amore per la vita e le povere cose è dichiarato in
maniera così esplicita e diretta, così come pure avverrà nel destruttura-to Franciscan II [Venetian]
[1972], ora al Museum of Modern Art di New York. Ma a nessuno è parso opportuno fare questo riferimento, troppo lontano, troppo povero e spirituale.
La vasca è piena d’acqua vera. C’è dentro una bottiglia galleggiante e, quando il sole entra dalla finestra, se mai entrerà, si potrà riflettere sulle lamiere accartocciate come una nuvola, sospesa sopra il
suo specchio, trattenuta sopra di lei da un filo invisibile. Questo è il solo trucco. Sor Aqua [Venetian]
peserà circa un quintale e quando deve essere messa sotto la nuvola di lamiere, va controllato bene
che queste siano nella posizione giusta, proprio sopra l’acqua, casomai entrasse il Frate Sole. Lo stesso atteggiamento evocativo lo ritroviamo anche nelle altre strutture sospese della serie dei Venetians,
battezzate molto spesso con i nomi di santi e chiese e palazzi della città che galleggia. San Pantalone
[Venetian] [1973] è fra tutti il più divertente, il nostro preferito. Ma forse Sant’Agnese [Venetian], è la
più luminosa. Difficile dire. Ca’ Pesaro [Venetian] in ogni modo, il cui peso è trattenuto in tensione fra
due cuscini, è quel gran palazzo che si affaccia sul Canal Grande. Lì Rauschenberg sarà invitato ad
esporre queste sue serie e in un suo speciale “omaggio a Venezia” [1976], le installerà personalmente, mischiandole tutte insieme senza seguire un ordine strettamente cronologico, vicine le une alle
altre, più nello spirito di environmental pieces di quegli anni. Brice Marden, che nei primi anni settanta non lavorava già più per lui, ma che continuò ad essere sempre molto vicino a Rauschenberg, evocando l’atmosfera di New York in quel periodo ricorda: “La scena dell’arte stava cambiando radicalmente. Il Minimalismo era al suo apice e dominava la scena. Bob espose di nuovo i suoi White
Paintings [1951] allora, per mostrare che erano già stati fatti, molto tempo prima. C’era una nuova
generazione che stava emergendo. Ho sempre pensato per esempio agli anni settanta come al mio
tempo, perché la gente iniziava ad apprezzare il mio lavoro. Ryman e Judd erano già in giro da un bel
po’ di tempo, c’era Andre, e c’era moltissima Earth Work.”
Nel febbraio del 1972, Marden fu uno fra i primi artisti ad essere invitati da Rauschenberg nel suo
studio di Captiva, giunto subito dopo Cy Twombly, lì suo ospite nel 1971 e poi ancora in seguito; a
sperimentare e collaborare insieme nella stampa per Untitled Press Inc. Questo è altro capitolo,
quasi dimenticato ed entusiasmante: la nuova impresa inaugurata dall’artista con l’acquisto della
macchina per le prove di stampa litografica soprannominata “Little Janis”. In quella atmosfera più
rilassata, dopo le prove di stampa, piuttosto improvvisate, eseguite come performances, reagendo
ogni volta in maniera diversa a ciò che gli altri facevano, oltre a numerose edizioni, nascevano
nuovi spunti e si scambiavano idee. Nel caso specifico Cy Twombly usò un tipo speciale d’inchiostro di colori mischiati da Bob Rauschenberg e tre tipi di carta diversi per alcune delle sue litografie. Ma tutto avveniva in modo molto casuale, nell’atmosfera di Captiva, come spiegava
Rauschenberg: “Tutto questo è molto commovente ed è il risultato di ciò che voglio e di ciò di cui
avevo bisogno. Perché tutto l’arco della mia attività è sempre stato rivolto alla collaborazione con
altre persone. Vedi, io personalmente amo l’aspetto sensuale della collaborazione. Le idee non sono
proprietà privata.”
Così ogni volta il titolo e la documentazione di un lavoro o di una grafica, realizzati per Untitled Press
Inc. sono importanti, perché ci parlano di uno stato d’animo, di un momento della felice collaborazione con il materiale, o con gli stampatori e gli artisti, come avverrà sempre più di frequente,
soprattutto per le edizioni, che rappresentano un importante capitolo nella collaborazione, uno fra
i più alti e entusiasmanti nella storia di questo periodo. Così Tares [1972] con il suo doppio gioco linguistico, eseguita in questo periodo a Captiva, sarà una delle edizioni fra le più riuscite, prodotta utilizzando anche le lacrime di Rauschenberg durante la performance di stampa.
Se dapprima è quasi il solo colore del materiale a dominare la scena, pur sempre con qualche
aggiunta o cicatrice, poi apparirà di nuovo anche la fluorescente pittura dietro le scatole; ed i colori che qui si riverberano e si mescolano sulla parete di fondo, un’antica idea. È dello stesso momento, nell’inverno del 1972, durante i mesi trascorsi a Captiva, anche quell’idea che appare la prima
volta dietro l’ultimo dei Cardboards dal titolo Mock Aero Shiled [Cardboard] [1972], una piccola scatola aperta, dipinta sul retro con vernice verde, regalata all’amico e pittore Cy Twombly [il quale
ricambierà con un collage dove appaiono quei coccodrilli che potevano andare in giro nella giungla, a Captiva].
Il dono di Rauschenberg per Twombly anticipa quella che sarà la nota dominante della serie degli
Early Egyptian [1973-74], dove egli approfondirà la luce colorata e la sua consistenza. Sarà questa
l’occasione di proseguire il dialogo fra i due artisti, ispirato allo stesso tema, avvenuto a New York,
quando i due esporranno da Leo Castelli le rispettive meditazioni sull’Egitto. Qui, nell’ ultima mostra
fatta insieme, alternati ai fogli immacolati delle Pyramid Series [1974], c’erano quelli di Twombly
ispirati a Sesostris II [1974], una serie di disegni senza titolo iniziati a Captiva, dopo essersi dedicato alle litografie dai motivi a spirale.
Le quattro scatole quasi identiche, rivestite di sabbia, presa sulla spiaggia vicina, poi dipinte dietro
con la vernice Day-Glo fluorescente, quelle Untitled Sculptures [Early Egyptian] [1974] poste sopra
altrettante basi da Rauschenberg, ci appaiono ora come il senso di un presagio, sfuggito a molti al
tempo. Ancora oggi pochi si sono soffermati a contemplare come la sagoma di quella combinazione più piccola, che tanto assomiglia alla sagoma di un’antica imbarcazione, che si staglia proiettando la sua ombra verso quelle altre impressioni del passato Egitto, sia molto simile a quella di altre
figure, scarabocchiate ed evocate più volte in seguito, segni apparsi, spesso oggetti trovati e nella
pittura e scultura di Twombly. Alcuni degli Early Egyptians furono costruiti a Captiva, altri fatti dopo
a Parigi, con oggetti trovati e scatole ricoperte di due o tre strati di sabbia, poi dipinte con colori
fluorescenti. Spiegava così l’artista:
“LE RICOPRO DI UN MATERIALE SPECIALE, COME FOSSE UNA COLLA. POI LE RICOPRO DI DUE O
TRE STRATI DI SABBIA. COSÌ, QUANDO PENSATE CHE SIANO DELLE SCATOLE, VI SEMBRANO PIETRE. POI DOPO AVER PENSATO CHE SIANO PIETRE, TORNATE ALLA PRIMA IMPRESSIONE. NON
SONO PIETRE! PENSATE DI NUOVO CHE SIANO SCATOLE. QUESTA AMBIGUITÀ È CIÒ CHE MI
PIACE. POI DIPINGO IL LORO RETRO, COSICCHÉ RIFLETTANO IL COLORE SULLE PARETI. COME PIETRE ADDORMENTATE DENTRO UN ARCOBALENO. VORREI CHE DESSERO COME L’IMPRESSIONE
DI ESSERE ILLUMINATE, INDIRETTAMENTE, DA UN PROIETTORE. OGNI PEZZO DOVRÀ DARE L’IMPRESSIONE DI AVERE LA SUA PROPRIA AURA...”.
È molto importante ripetere ora che la scatola di Rauschenberg, così come la sua bicicletta, non è
più solamente una scatola né una bicicletta. La corda, ossia quella cima che esce dalla finestra
aperta dentro la scatola più piccola, quella centrale, a sua volta incastonata perfettamente nella
cavità leggermente più grande dall’altra scatola che la ospita, non è più una cima. Nell’enorme
costruzione luminosa del 1973, studiata a lungo in più varianti, intitolata poi dall’artista Untitled
[Early Egyptian], esattamente come le altre, nello spazio vuoto lasciato libero fra i vari cartoni dipinti, ciascuno con un diverso colore [arancio, blu, rosso, giallo], in quella specie di finestra centrale
sono proiettate tutte le diverse luci che si confondono insieme sulla parete di fondo, formando
un’unica zona di luce diffusa che emana dalle cose. Il secchio non è più solo un secchio. Allo stesso modo in cui non lo è nemmeno l’altro, molto simile, senza titolo e dello stesso anno; ma abbandonato in mezzo alla stanza. Quello ha una corda ancor più lunga dell’altra che esce. Quel secchio
lì ha una di quelle cime molto speciali, grosse come serpenti, di quelle sapientemente arrotolate a
spirale con cura, dalle mani di marinai esperti di antiche imbarcazioni sul Nilo… E dobbiamo ricor-
dare anche lo straccio. Quello blu, che pende dall’altro lato della stessa enorme costruzione di poco
prima, dove è appoggiata anche la famosa bicicletta, ma come fa a reggersi così in verticale sulla
ruota posteriore? Non sarà forse magica la bicicletta di Rauschenberg? Bene, neanche quello è più
lo straccio che era stato un tempo. Come la bicicletta vera, arrugginita, tutta quanta intera, dopo
essere stata messa lì verticale, a sinistra di quella costruzione imponente che abbiamo appena cercato di descrivere, non è ormai più una vera bicicletta. E stavolta questo dobbiamo ammetterlo a
tutti: Rauschenberg non ha mai visitato l’Egitto nella sua vita. Forse avrà fatto visita al Louvre.
Il sasso, dunque, non è più sasso. Il cuscino non è più cuscino. Le sedie non sono più due sedie. Il
bastone di legno, appena posato alla parete, o quello storto che tiene in bilico il vecchio pneumatico di gomma, poi infilza tre scatole in fila, non è più bastone. La vasca, non è più vasca. E la scatola, soprattutto quella, non è più una scatola. Cosa sono diventate, dunque, tutte queste cose?
Tautologie? No, certo. Di fronte a queste scatole di cartone svuotate, fissate al muro o lasciate per
terra, così come fossero state appena raccolte per strada; accanto a queste nuove costruzioni o
davanti ai grandi fogli con i loro velari di stoffa trasparente che emergono, o da cui ciondolano
come code, sarebbe bene soffermarci. Provare ad entrare davvero, per trovarci di fronte all’interrogativo radicale di questi oggetti trasformati [e reagire], prima di tornare in strada. Immaginare di
conoscere la loro lingua, come il maestro ignorante di Rancière, per contemplare il gruppo di lavori su carta intitolati Scriptures [I-VI] del 1974; quei disegni e collages, che l’artista ha realizzato
durante la tragica settimana trascorsa in Israele. Immaginare cosa avveniva oltre trent’anni fa,
quando li guardavano un gruppo di quei ragazzini di Gerusalemme.
Quella carriola laggiù, Untitled [Made in Israel] [1974], quella con i manici lunghissimi, che non finiscono mai, viene da Israele. Per l’esattezza da un cantiere abbandonato, dietro al Museo di
Gerusalemme, dove Rauschenberg, insieme ad Hisachika, era andato a rovistare per cercare di
prendere altri scatoloni, rubandoli dal padiglione degli svedesi, nell’attesa che sdoganassero il
materiale in arrivo dagli Stati Uniti, fermo alla dogana israeliana. Lì nel frattempo, Mayo Thompson,
insieme a Yona Fischer, il curatore della mostra, stavano cercando di sbloccare la situazione. È uno
dei pochissimi lavori superstiti che costituivano la serie delle sei costruzioni, Made in Israel [1974],
che Rauschenberg presentò insieme alle grandi carte di Scriptures, dopo un’avventura cui partecipò, fra agli altri, anche Christine Kozlov raccontata attraverso il bellissimo diario scelto come catalogo della mostra Rauschenberg in Israel, l’unico di questo periodo ad essere stato disegnato e
fatto dall’artista stesso, come un collage di sole immagini.
Il materiale del supporto nascosto, quel compensato incollato sapientemente dietro ai cartoni, così
da farli sostenere e sembrare solidi perfetti, è ancora rivestito con la sabbia di quei luoghi: Tel- Aviv
Beach, Jericho Sand, Ramat-Aviv, Dead Sea Sand, Cesarea Sand, raccolta da Rauschenberg e la
sua truppa in ognuno di quei deserti, intorno a Gerusalemme. Così come racconta il diario di Yona
Fischer, che ricostruisce ogni minimo dettaglio di quei giorni, elencando il titolo di ognuna delle sei
costruzioni di Made In Israel. Sarebbe divertente ascoltare un elenco alfabetico dei titoli, che dal
1970 arrivi al 1976. Fare un’unica storia di giochi di parole e allusioni da Plain Salt a Potato Buds
[Cardboards] [1971-72]; passando per i venezianissimi elementi o francescani santi; poi per la stagione sempre presente dei Senza Titolo di Early Egyptian [1973-74] e per tutti i tipi di Untitled Press;
culmina poi con i collages di Scriptures o le costruzioni di Made in Israel; per arrivare alla fresca
ombra degli Hoarfrosts [1974-75] con la loro raffica di nomi e neologismi inventati con quella stessa aria fresca, che spira anche fra i Jammers [1975-76].
Questo è stato lo spirito che ha contraddistinto alcuni degli episodi di viaggio dell’artista, molti dei
quali conclusi tornando, poi, sulla spiaggia della Florida, a Captiva, vicino all’acqua dove nel frattempo, dal 1970, si era trasferito anche il suo studio. Da qui nascono i lavori più densi di storia e fragilità umana, che ancora emanano un profumo come Capitol [Bones and Unions] [1975] che è stato
scelto come unico esempio di edizione a testimonianza di un’altra straordinaria vicenda.
Rauschenberg, infatti, partirà sempre più spesso da New York, per diverse avventure, in più tappe,
ancora oggi poco note o troppo spesso dimenticate, come quella vissuta a Gerusalemme nella primavera del 1974, così particolarmente intensa; guidando o camminando per i deserti più mitici
d’Israele alla ricerca di carta, sassi, rocce o sabbia o corde, da poter utilizzare nelle sue costruzioni. Per tornare a collaborare, sperimentando, e lavorando sempre più spesso insieme agli artigiani
o maestri nelle varie tecniche artistiche. Adesso ha la sua compagnia, come ai tempi delle tournée
con Merce Cunningham, e con loro va in giro per il mondo. Tutte le opere, senza distinzione, partecipano insieme della stessa natura, hanno la medesima importanza, siano esse edizioni imitate e illimitate, opere uniche, che nell’estrema semplicità della loro sintassi mantengono integra e nascondono una riflessione sulla natura delle cose e dei sentimenti, realizzata in collaborazione con gli
altri. Così avverrà anche in quella serie di edizioni intitolate Bones and Unions [1975], fatte disegnando e modellando quel fango, utilizzato dagli indiani per costruire le loro povere case, al tempo
in cui era ospite nell’ashram di Ahmedabad, fondato da Gandhi. Oppure come avverrà in altri
momenti, utilizzando a caso ritagli di giornale o cartoline, ognuno diverso dall’altro, preparati in anticipo, scegliendo il materiale fra pile di riviste, come racconta Brice Marden.
Così nascono altre serie di edizioni, come quei fogli di Horsefeathers Thirteen [1972-73], ognuno dei
quali è un gioco diverso, dove i vari elementi vengono pazientemente ritagliati prima, poi inseriti
come collages, negli spazi incisi e lasciati vuoti, cosicché ognuna delle singole edizioni è unica.
Raccontano una storia distinta, in una lingua che possiamo incrociare, per caso. Per puro caso ho
visto, in una di quelle variazioni degli Horsefeathers Thirteen, il ritaglio di un quotidiano portoghese, che riportava la cronaca della morte dell’editore Giangiacomo Feltrinelli, avvenuta nel 1972.
Avvenimenti politici o cronache quotidiane, le political news non sono solo fleeting commodity per
chi vuole vedere. Oggi ci appaiono nuovamente, filtrati e sublimati nella loro tragica realtà, che
ricordiamo guardandoli o rileggendoli, diversamente.
Una visione più positiva è stata ormai raggiunta. Una conquista è ormai avvenuta.
Nel 1976 Rauschenberg non esiterà a definirla “The Joy of Art” sulla copertina del settimanale TIME,
che lo celebra come artista per il Bicentenario degli Stati Uniti d’America. La visione del presente è
sempre più incerta e meno ottimista; più storta ed in bilico, ma lui appare smagliante e sorridente.
L’immagine del collage che l’artista ha composto dietro ci appare molto più ironica e al tempo stesso
precisa, partecipe del mistero [e dell’inganno] della grande pittura. Con il fatto di lasciarci sempre
aperta la possibilità di un’altra replica, diversa dalla precedente, una ripetizione che possa coinvolgerci e farci entrare dentro il quadro [noi o i nostri cari, ma anche i nostri cani, volendo],
Rauschenberg esercita la malìa di un attore di strada del quale conosce tutti i trucchi del mestiere.
È irresistibile. Al tempo di Cardbird Door [1971], infatti, quella era la porta nello studio di Captiva,
usata da Laika e la sua cucciolata per entrare ed uscire in spiaggia, da un’apertura fatta apposta
da Rauschenberg per una di quelle varianti, relative alla serie. Ognuna di quelle prove che, come
tutte le edizioni di questo periodo, diventano la forma più sofisticata di un tale atteggiamento di
improvvisazione, da tradizione di guitto di strada. On the road. Quando la collaborazione con i materiali diventa più rarefatta, declinata per esclusione, più che per combinazione, scompare il contenuto dalle scatole. Appare allora la loro la pura forma geometrica, come quella perfetta del cerchio,
evocata nella polpa di carta lavorata a mano di Pages and Fuses, insieme al maestro Marius
Peraudeau della cartiera di Moulin à Papier Richard de Bas, ad Ambert, come già un tempo accadeva nell’evocazione un “poema tridimensionale di un solo colore: bianco.”
Sono diventati tutti un’altra cosa dagli oggetti iniziali. Molto diversi da quello che erano in realtà,
una volta. Non sono più quelle stesse cose. Non sono più le cose puramente fisiche che sembrano
essere. Sono pure immagini. Sono apparizioni. Finzioni. Sono il frutto dello stesso inganno, e perciò
appartengono al reame assoluto della Pittura. Talismani o feticci che emergono. Pilot è un Jammer
[1975] che ci può apparire o no; con o senza spiegazioni. La sua eleganza non è lo specchio della
nostra cultura, ma della sua intelligenza. Possiamo notarlo o no. Questo non cambia il mistero della
sua presenza. Verso la sua intelligenza, non fisica, siamo tutti chiamati a dare la nostra risposta.
Oppure tacere. Muoverci. Aspettare, per ascoltare meglio. Nel testo che accompagnava la sua
prima personale in Italia e in Europa, Rauschenberg dichiara:
“QUESTA È L’OPERA DI BOB RAUSCHENBERG, ESEGUITA DURANTE UN VIAGGIO DI NOVE MESI
NEL MEDITERRANEO E IN NORD AFRICA.” L’ESPOSIZIONE VENNE INTITOLATA SCATOLE E FETICCI PERSONALI. I MATERIALI UTILIZZATI PER QUESTE COSTRUZIONI SONO STATI SCELTI PER DUE
ORDINI DI RAGIONI: LA RICCHEZZA DEL LORO PASSATO: OSSA CAPELLI, FOTO ED ABITI SCOLORI
TI, ATTREZZI ROTTI, PIUME, BASTONI, ROCCE, STRINGHE E CORDE; OPPURE PER LA LORO VIVIDA
REALTÀ ASTRATTA: SPECCHI, CAMPANE, PARTI DI OROLOGIO, INSETTI, FRANGE, PERLE, VETRI, E
CONCHIGLIE. ALCUNE SCATOLE HANNO SUONI, ODORI E MOVIMENTO; ALTRE SERVONO AD ISOLARE UN SINGOLO OGGETTO NATURALE. IL CONTENUTO È SCELTO E COSTRUITO SECONDO LE
RISPETTIVE CAPACITÀ DI CONTENIMENTO. LE SCATOLE VERE E PROPRIE SPAZIANO DAL PORTAMONETE IN STILE VITTORIANO ALLE SCATOLE IN CRISTALLO DI GUSTO BAROCCO, FINO AL BIDONE DELL’IMMONDIZIE DI UNA STRADA QUALUNQUE. LA VISTA INTERNA A PIENO CAMPO DI UNA
SCATOLA, PUÒ APPARIRE COME UNA NATURA MORTA FOTOGRAFICA PRIMA CHE LA FOTOGRAFIA SIA STATA SCATTATA. IN UN CASO, IL CRANIO DI UN UCCELLO È STATO ISTORIATO E DECORATO CON NAPPE E CON UNA CAMPANA CON LEGATA UNA CORDA A RICORDO DEL SUO SUONO.
UN OSSO, SUL COPERCHIO DI UNA SCATOLA, NON PIÙ GRANDE DI UN TUBETTO DI ROSSETTO
DIVIENE, UN MONUMENTO IN MINIATURA. INOLTRE UNO O PIÙ SETTORI VENGONO LASCIATI
VUOTI, AFFINCHÉ CI SI POSSA INSERIRE CIÒ CHE SI VUOLE, SECONDO IL PROPRIO GUSTO PERSONALE, PER RIDEFINIRE I CONTENUTI O LASCIARLI ALLA LORO VANITÀ CAPACE DI INTERPRETARE POSSIBILITÀ SCONOSCIUTE. MOLTE DI QUESTE SCATOLE RAPPRESENTANO UN POEMA
TRIDIMENSIONALE DI NON PIÙ DI UNA PAROLA: BIANCO. UNA COSTRUZIONE FATTA DI
UN’INFINITÀ DI SPECCHI PENDENTI, NELLA QUALE LA VISTA SPAZIA ALL’INFINITO.
ALTRI TOTEM PENDONO COME CORDE OSTENTANDO CON VANITÀ IL LORO FALSO PASSATO. UNO
STRUMENTO CONTEMPLATIVO È COSTITUITO DA UNA PERLINA POSTA SU UNA SPIRALE DI FILO
DI FERRO. OGNUNO PUÒ SVILUPPARE SUGLI OGGETTI IL PROPRIO RITUALE. L’ORDINE E LA LOGICA DELLA DISPOSIZIONE SONO UN CREAZIONE DIRETTA DELL’OSSERVATORE AIUTATO IN CIÒ
DALLA PROVOCAZIONE MIRATA E DALL’EFFETTIVA SENSUALITÀ DEGLI OGGETTI.”
[ROMA, RAUSCHENBERG 1953]
Rauschenberg ammira Duchamp, ma non sarà influenzato da lui e le sue scatole non sono readymade. Sin dal principio, nel suo linguaggio, rifugge da simbologie troppo complesse o violente nel
dominio delle avanguardie. Senza indugi ha battezzato egli stesso Combine-paintings le sue prime
costruzioni più monumentali, che dal 1953 circa aboliscono le distinzioni classiche convenzionali fra
pittura e scultura, per semplificare la faccenda. Ha poi cercato di tradurre l’atmosfera nebbiosa
dell’Inferno dantesco, quell’aura in cui sono immerse le anime sbiadite dei dannati, condannate a
vagare scontando le terribili pene del contrappasso, inventando [nel senso latino invenio], forse per
sbaglio, una nuova pratica di disegno, con lo stratagemma dei transfer drawings, che avrà larga fortuna di mercato. Sarà un’impresa compiuta solo in seguito, con la composizione della sua seconda
cantica, dei Currents [1969-70], poi approfondita ed esplorata nel suo successivo girovagare per il
mondo e resa ancor più esplicita negli Hoarfrost [1974-75] che già nel loro titolo riportano al vocabolo coniato da Dante all’inizio del XXIV Canto, nel girone dei ladri ed usurai, e tornano al problema
iniziale della visione.
Notava Hunter che il presunto lancio delle scatole in Arno, riportato dall’artista di nuovo nel suo
testo digitaliforme del 1968 Autobiography, può essere considerato come la sua prima performance. Nel porre di nuovo qui, accanto a noi, dentro la stanza la scatola vuota di 1/2 Gals. / AAPCO
[Cardboard] [1971] e quelle appese di Gun Tackers / Skin Pack / Brushes / I.T.T / Glass [Cardboard]
e, al centro di queste scatole, la vasca di Sor Aqua [Venetian], Rauschenberg opera più che altro
come un pittore di misteri, come de Chirico o Morandi di certe Consolazioni metafisiche [1918] o di
un Interno metafisico del 1918. Ricrea le stesse atmosfere, le stesse attese. Gli stessi silenzi.
Salta il Limbo, più noioso per tutti, e riprende il discorso, in tempi più recenti, portato a termine con
il bozzetto per l’Happy Apocalypse [1999] Dio qui è al centro di una composizione tripartita come
fosse un’enorme antenna satellitare. L’immagine non fu gradita dalle gerarchie ecclesiastiche. Ai
lati il mondo, la natura e la civiltà separati, con i loro vortici molto simili a quelli in bianco nero che
già possiamo ammirare nelle più estese immagini della serie degli Hoarfrosts in Dune [Hoarfrost],
Swamp o in Flood, tutte del 1974. Anche questi trasparenti velari hanno dovuto attendere a lungo
nel limbo, ma grazie alla loro materialità si sono conservati perfettamente. Nel 1920 de Chirico diceva di Klinger: “è stato l’artista moderno per eccellenza. Moderno non nel senso che oggi si dà questa parola, ma nel senso di uomo cosciente che sente l’eredità di secoli e secoli d’arte e di pensiero, che vede chiaramente nel passato, nel presente e in se stesso.” Così sarà meglio partire da de
Chirico, per seguire Rauschenberg nella sua meditazione solitaria, partita di nuovo da quei Currents
[events] da cui era iniziata in principio. Ci apparirà spesso totemica, remota ed enigmatica come
una Meditazione del poeta, altro quadro di de Chirico del 1912, forse 1911, dove le piazze erano semplicemente immerse nell’enigma della luce. Questo è un aspetto fondamentale e costante della sua
ricerca poetica, sin dalla sua mitica giovinezza.
Ancora Cocteau: “L’eleganza, molto più dell’oscurità rende invisibile un’opera. Picasso è l’eleganza stessa, ed essa gli assicura l’invisibilità. Per la prima volta l’artista ha messo l’intelligenza di fronte all’oggetto, invece di porgli uno specchio, fosse pure uno specchio deformante. L’opera di
Picasso appare travestita e mascherata e come tale intrigante e misteriosa. De Chirico è invece il
pittore di misteri. Egli sostituisce alla rappresentazione di miracoli, con cui i primitivi riescono a stupirci, i miracoli che vengono da lui solo.” Ancora Coen. Ora proviamo ad entrare.
intervista
UN’AFFERMAZIONE PIÚ DIRETTA
di Mirta d’Argenzio, intervista con Brice Marden
“Per centinaia che sanno arlare, uno solo sa pensare.
Maper migliaia che sanno pensare, uno solo sa vedere”
John Ruskin
MdA: Come si presentava la scena artistica newyorchese negli anni settanta, quando
Rauschenberg decise di trasferirsi a Captiva?
BM: Stava cambiando moltissimo. Il Minimalismo era al suo apice e dominava la scena. Bob espose di nuovo i suoi White Paintings [1951], per dimostrare di essere già passato attraverso quella
esperienza, molto tempo prima. C’era una nuova generazione che stava emergendo. Per esempio,
ho sempre pensato che gli anni settanta siano stati il mio tempo, il momento in cui la gente ha
cominciato a reagire al mio lavoro. Ryman e Judd erano già in circolazione da un pò, c’era Andre e
c’era moltissima Earth work [scultura astratta monumentale].
MdA: La decisione di trasferirsi a Captiva fu una sorpresa per chi lo frequentava o era già stata pianificata da tempo? E perché lo ha fatto?
BM: A quel tempo Bob era molto impegnato con gli Experiments in Art and Technology [E.A.T.] e
quell’esperienza sembrava sul punto di esaurirsi. Ho lavorato con lui durante la realizzazione di
Revolvers [1967], e dei Carnal Clocks [1969] e poi quando fece la grande opera che fu esposta all’Art
and Technology di Los Angeles, Mud Muse [1968-71]. Erano le opere fatte in collaborazione e prima
che iniziasse la tournée con Merce [Cunningham], che durò circa un anno. Era sempre occupatissimo, aveva continuamente gente intorno. Non ho mai capito dove trovasse il tempo per sé. Ma
lavorava giorno e notte. O era sempre in partenza: andava da Gemini G.E.L. a Los Angeles per lavorare con le stampe e tornava indietro con un mucchio di lavori, o per l’Europa. Ricordo che una volta
andò ad Amsterdam e tornò con una splendida serie di disegni. In realtà, non rimaneva
mai molto in città e non usava molto lo studio di New York. Così, quando si trasferì, la cosa mi stupì,
ma non troppo. Sembrava davvero una cosa intelligente in quel momento, e Bob fa sempre scelte
intelligenti.
MdA: I White Paintings [1951] restano un discorso aperto di fondamentale importanza e sono stati
variamente interpretati nel corso degli anni. Posso capire che Bob abbia deciso di esporli di nuovo
da Leo Castelli negli anni settanta, quando Minimalismo e Conceptual Art dominavano la scena.
Come ha osservato Lawrence Alloway, quello stesso anno Bob ne diede una nuova definizione,
inserita nell’autoritratto scritto per Autobiography [1968]. Mi riferisco alla frase: “I dipinti bianchi
erano opere aperte che reagivano alle attività nel loro campo d’azione…”. Questa lettura ambientale dei White Paintings era allora quella più comunemente accettata, ma rimaneva pur sempre
solo una delle interpretazioni possibili e non era quella che corrispondeva alla sua intenzione nel
momento in cui li realizzò per la prima volta. Perché pensi che abbia deciso di ricominciare negli
anni settanta, usando il monocromo neutro, beige delle scatole di cartone raccolte per strada?
BM: Credo che volesse che l’immagine fosse la totalità, un’affermazione più diretta.
MdA: La sua ultima serie “figurativa”, prima dei Cardboards [1971-72], è stata Currents [1970], un
ambizioso progetto avviato nel 1969, quando si ritirò a Malibu, prima di trasferirsi in Florida. Currents
[1969-70], e tutte le edizioni relative a questa serie, avevano un chiaro riferimento politico all’attualità, alla guerra del Vietnam e così via. Pensi che la disillusione riguardo alla situazione politica mondiale sia in rapporto con il successivo abbandono della figurazione?
BM: Ricordo che Currents era una serie molto politica e che quello era un periodo molto politicizzato. Pensavo che fosse partito e che poi avesse fatto i Cardboards a New York. Non lavoravo con
lui quando realizzò i Cardboards, ma ricordo che una sera uscimmo insieme e poi tornammo con
tutti questi cartoni e all’improvviso divennero opere d’arte. Pensavo che li facesse a New York ma
probabilmente ne fece anche in Florida. Ricordo che aveva appena trovato l’isola dove poi si trasferì, in Florida. Mi sembra che da giovane avesse esplorato tutta la costa della Florida in macchina,
quindi è probabile che conoscesse già quel posto. In ogni modo, quando tornò a New York disse a
tutti quelli che lavoravano con lui di seguirlo laggiù [ride]. Lo diceva in diversi sensi. A me quel lavoro non serviva, avevo cominciato a esporre e a insegnare, quindi non avevo bisogno di lavorare là.
In realtà, in Florida non aveva bisogno di un grosso staff. Pensavo che i Cardboards li avesse fatti
a New York. Faceva sempre avanti e indietro.
MdA: Hai lavorato nello studio di Bob a New York per quattro anni, dal 1966 al 1969. Come pittore,
quale pensi che sia l’aspetto più straordinario del suo modo di lavorare?
BM: Più di tutto, mi colpiva la sua capacità di concentrazione. Era davvero stupefacente. Lo ricordo mentre lavorava a Revolvers [1967]. C’erano le immagini e doveva girare continuamente i dischi
per studiare le immagini e analizzare tutte le combinazioni possibili. Ci vuole una forza di concentrazione incredibile per fare una cosa del genere. Penso che fosse la persona più dotata che abbia
mai incontrato. Aveva una mente davvero brillante.
MdA: Quando hai visto i Cardboards per la prima volta quale è stata la tua reazione?
BM: Mi sono piaciuti subito perché erano minimalisti e non c’erano immagini. Ho sempre pensato
che non avevo difficoltà a lavorare con Bob perché le cose che facevamo erano molto diverse. Mi
piace la semplicità dei Cardboards; mi piace l’idea di scendere in strada, di raccoglierli dalla strada. Ma oggi li vedo in modo molto, molto più poetico di allora. Penso che fossero molto diretti; che
fossero una grande, autentica risposta alla situazione del tempo. E mi piacevano moltissimo. Poi si
sono formalizzati, e questo li ha resi un po’ meno interessanti per me. Assomigliavano troppo a un
prodotto commerciale. L’idea originale era davvero ottima, ma poi, quando divennero più formali,
cominciarono a montarli su sostegni di compensato. Uno degli aspetti più affascinanti dei lavori di
Bob è il fatto che le cose sembrano costruite in modo diverso da come sono state fatte. Ci sono
opere che sembrano terribilmente malfatte, come alcuni Combine-paintings, e che in realtà sono
costruite in modo molto solido. È questo l’aspetto che mi aveva impressionato di più. Suppongo che
si debba cercare di capire in che modo ha fatto le sue cose.
MdA: Quando dici “sono molto diretti e sono una grande, autentica risposta alla situazione del
tempo”, vuoi dire che rispondevano alla situazione della scena artistica newyorchese all’inizio degli
anni settanta e, se sì, in che modo?
BM: Molte delle opere esposte negli anni settanta avevano una presenza più monolitica. Smise di
adoperare le immagini e cominciò a servirsi di una struttura più singolare.
MdA: Ti riferisci anche a tutte le serie successive ai Cardboards [1971-72], come i Venetians [1973],
gli Early Egyptians [1973-74], le Pyramid Series [1974], i lavori Made in Israel [1974], gli Hoarfrosts
[1974-75], i Jammers [1975-76] e le edizioni Bones and Unions [1974-75]? Tutte queste serie furono
realizzate negli anni settanta durante i suoi continui viaggi tra New York, Captiva, Israele, Francia,
Italia e India. Erano la sua personale risposta alla situazione generale o solo il suo modo di porre la
questione?
BM: Non ho mai capito la ragione di tutto quel viaggiare e lavorare, ma alla fine è riuscito a ricavare qualcosa da tutti i posti che ha visitato e a farne uso. Forse c’era un rapporto con la crisi delle
riviste illustrate e i viaggi gli fornivano nuovi stimoli.
MdA: A posteriori qual è, secondo te, l’aspetto più interessante della sua avventura quasi solitaria,
del suo itinerario artistico nei primi anni settanta?
BM: La sua opera era diventata molto dura ed ora è diventata molto poetica.
MdA: Consideri queste serie prive di immagini, basate sull’uso di un singolo materiale grezzo come il
cartone o la carta, ma in seguito anche i tessuti, come una riflessione sul monocromo e sulle sue
prime opere degli anni cinquanta? E, se è così, perché pensi che sia tornato di nuovo su questo punto?
BM: Gli artisti non abbandonano mai completamente le loro opere giovanili perché sono parte di
loro stessi; vengono da là. A volte si desidera tornare indietro per vedere quanta strada si è fatta.
MdA: Una delle opere più complesse della serie Early Egyptians [1973] è una struttura composta,
formata da scatole verniciate sul retro con una vernice fluorescente, in modo da proiettare sul muro
bianco un alone in cui si combinano le ombre di diversi colori brillanti, in questo caso rosso, blu e
giallo, mescolati sulla parete. C’è un aspetto in particolare che ti affascina in questo studio sul
monocromo come ombra?
BM: Mi sembra un altro esempio dell’abitudine di Bob di spingere le cose a fondo, forse per enfatizzare le energie di un’opera. Ma non li ho mai visti [gli Early Egyptians].
MdA: Pensi che fosse interessato a un aspetto in particolare, in riferimento al problema della
“Interazione del colore” posto da Albers?
BM: Non ricordo di averlo sentito citare neppure una volta Albers sulla questione del colore.
Parlava solo della sua personalità.
MdA: L’ultima volta che ho incontrato Bob mi ha detto all’improvviso che è quasi impossibile capire che cosa significa il rosso. E ha aggiunto: “Se domandi a Brice, per esempio, che cosa è per lui
il rosso, ti mostrerà un dipinto grigio”.
BM: Ha ragione.
MdA: Lavoravi ancora con lui all’epoca dei Cardboards o te ne eri già andato?
BM: Me ne ero già andato, credo. Non ho mai lavorato ai Cardboards, ma continuavo lo stesso a
bazzicare lo studio.
MdA: Ricordi la reazione del pubblico quando furono esposti per la prima volta?
BM: Veramente no, ma penso che li abbia colpiti. Ma davvero non ricordo.
MdA: Quale pensi che sia stato il contributo di queste opere, il loro discorso
sulla pittura americana, rispetto a quelle precedenti?
BM: Li vedo come un modo di porre di nuovo l’accento su certi discorsi. Bob si espande continuamente. Si appropria del contesto, della cosa reale e delle diramazioni che si riverberano dalla cosa
reale. Occupa un certo spazio, ha una propria storia come oggetto, ma al tempo stesso è una riflessione molto più ampia sulla cultura; eppure l’approccio di Bob è sempre molto poetico. Succede
sempre così, quando fa qualcosa per la prima volta. All’inizio sembra sempre che riguardi soprattutto il contenuto, ma bisogna lasciare all’opera o al pubblico il tempo di maturare, e diventa molto
più poetica. I rottami, le scatole che raccoglieva per strada diventano immagini poetiche. Sono
come i Combine-paintings, fanno clamore, ma con le scatole il clamore è già lì. Come pittore, ho
sempre pensato che tutte le opere di Bob e di Jasper fossero collages e che si limitassero ad applicare il colore sugli oggetti, strato dopo strato dopo strato, e mi è sempre sembrato una specie di
inganno, perché io provengo da una forma più pura di pittura. Ma i Cardboards non sembrano collage, non c’è nessuna stratificazione, non sembrano implicare nessun tentativo di costruzione spaziale. Sono solo pura enunciazione.
MdA: Poi cominciò a interessarsi ai Jammers, “al modo in cui il vento si sarebbe fatto strada attraverso la seta mescolando i diversi colori”. Disse. “È stato amore per ognuno dei materiali. Il cartone era molto ostinato e ha tentato di fare di me un cubista, ma non l’ho permesso”.
BM: Sì, mi sembra che abbia senso. Alcuni cominciavano a diventare strutturali. Altri erano molto
meglio e sembravano quadri.
MdA: Puoi parlarmi della tua esperienza a Captiva nel 1972, quando Bob ti invitò a lavorare per
Untitled Press Inc.? In quel periodo hai lavorato al procedimento litografico e hai sperimentato
nuove tecniche tipografiche e di stampa, insieme a Cy Twombly, Hisachika Takahashi e pochi altri
artisti.
BM: Era tutto abbastanza semplice. Non ho fatto cose sperimentali. Ricordo che per andare da casa
al laboratorio passavo per un sentiero aperto da poco nella foresta tropicale. Le stampe riflettono
quella situazione. Hanno qualcosa di vegetale.
MdA: C’è qualcosa che ti ha particolarmente interessato di quella esperienza, del fatto di lavorare
con Bob e di collaborare al nuovo procedimento di stampa con la pressa litografica?
BM: Bob sperimentava cose nuove. Metteva sotto la pressa immagini prese dai giornali e faceva
altre cose che l’hanno portato dove si trova adesso. Io mi limitavo a fare litografie. Pastelli sulla pietra. Roba molto tradizionale.
MdA: Consideravi queste opere come collaborazioni o esperimenti?
BM: C’era un certo spirito di collaborazione. Bob amava molto condividere le sue esperienze in quel
periodo.
MdA: Quali serie avete realizzato?
BM: Non ricordo neppure un titolo di una singola opera, nè il titolo di quella serie e non sono troppo sicuro delle loro esposizioni.
MdA: Hai avuto occasione di viaggiare con lui? Le opere degli anni settanta sono quasi sempre
ricordi delle sue esperienze di viaggio. Come inseriva questi ricordi nel suo lavoro?
BM: Non ho mai viaggiato con lui; preferivo restare a casa [ride] per via dei cani. Quello che posso
dire è che la scena artistica newyorchese è molto autoreferenziale, così autoreferenziale da diventare a volte quasi provinciale. Bob non è mai stato provinciale, grazie ai viaggi e alle esperienze e
ai lavori che ha realizzato in altre culture. Ma in realtà non parlava mai molto dei suoi viaggi. Ricordo
che una volta fu invitato da Ileana [Sonnabend] e Antonio [Homen] e che diede un appuntamento a
mia moglie e si incontrarono a Venezia, poi andarono a un ballo, Bob non voleva più andarsene,
hanno bevuto moltissimo, ma io non c’ero.
MdA: Hai visto il primo allestimento della mostra dei Venetians da Castelli, dove molte sculture sembravano sospese? Non ti ha fatto venire in mente l’idea dello spazio dei manieristi, come nei dipinti di Tintoretto, che probabilmente Bob aveva visto a Venezia?
BM: Non ci ho mai pensato. Ma mi sembra plausibile che Bob abbia avuto una reazione di questo
tipo. Però non commentava mai quello che aveva visto. L’abitudine di tenersi dentro i suoi pensieri
fa parte di quella capacità di concentrazione di cui parlavamo prima.
MdA: Questo coincide con quanto mi ha detto Antonio Homen [direttore della Sonnabend Gallery],
che ha viaggiato spesso in Italia con lui, quando gli ho chiesto se Bob fosse stato influenzato dall’Arte
Povera. Probabilmente no, mi ha risposto, perché era quasi sempre completamente assorto nei suoi
pensieri. E ha aggiunto che Bob non aveva mai menzionato una fonte diretta o intellettuale dei suoi
lavori che non fossero la vita o le riviste. Ricordi quella mostra da Castelli [1974] quando espose insieme a Cy Twombly e dipinse il retro delle scatole degli Early Egyptians con colori brillanti?
BM: Ricordo quando andò in Israele e penso che Bob si sia sempre sentito a suo agio nelle occasioni ufficiali. Non viaggiava mai come un semplice turista, era sempre invitato da qualche governo, voleva essere riconosciuto ufficialmente. Posso immaginare Michael Sonnabend che lo accompagnava in giro a Venezia, era una persona molto colta e parlava sempre di storia con Bob. Ricordo
che a quel tempo, quando passavo da lui, c’erano quelle scatole dipinte e lui sembrava molto soddisfatto.
MdA: Che cosa pensi degli Hoarfrosts [1974-75]? Hanno rappresentato un passo avanti nella sua
interrogazione della pittura?
BM: Sì. Pensavo che fossero molto simili ai disegni. Ma ora penso che siano incredibilmente belli.
Mia moglie Hellen [Harrington] era a Captiva con Bob mentre ci lavorava e lui voleva intorno a sé
persone che conosceva per realizzare questa serie. Sono opere molto poetiche, ricordo la sensazione che mi trasmettevano. Non sono mai riuscito ad appassionarmi alle immagini. Quello che mi
colpiva di più è il fatto che non siamo mai riusciti a capire il metodo che seguiva per scegliere le
immagini. Una volta fui mandato in un certo posto a cercare immagini. Bob usava sempre tutte le
immagini che riuscivo a raccogliere, pensando che potessero essere interessanti. Ricordo pile e
pile di riviste e poi quando tornavo la volta successiva le aveva usate tutte.
MdA: L’aspetto che mi sembra più interessante negli Hoarfrosts [1974-75] è la loro ricerca sulla pittura, oltre la superficie e il piano pittorico. L’attenzione è tutta sul riflesso e sul gioco dei vari strati
di tessuto trasparente, simili a riflessi nell’acqua o attraverso un vetro, proprio “con l’imponderabilità della luce”. Si comprese allora il loro significato?
BM: Vuoi dire l’idea della superficie e degli strati? Ne ricordo uno che era così bello. Ma non li ho
mai visti come dipinti.
MdA: La maggior parte dei Jammers [1975-76] fu eseguita sotto l’influsso dei colori che aveva visto
in India, dove si era recato per realizzare la serie di Bones and Unions [1974-75] in collaborazione.
C’è di nuovo un abbandono dell’immagine. Che effetto ti hanno fatto queste opere?
BM: All’improvviso diventano molto più scultoree. Ci sono le canne di bambù, sono appese, voglio dire
che sono più astratte, e penso di essere molto più sensibile a questo tipo di linguaggio, ovviamente.
MdA: Ma nei Jammers, dove usa colori molto intensi, come in Quarterhorse [Jammer] [1975] e nel
caso di Pilot [Jammer] [1976], si può vedere un rapporto tra il suo modo di usare i colori e l’uso
estremo che ne fa Pontormo. Che interesse avevano queste opere per te?
BM: Il colore è molto più diretto. Ricordo vagamente il loro colore, il tessuto e quel continuo passaggio del colore, dovuto al fatto che erano sospese, libere di muoversi; così non c’era l’idea del
piano rigido e c’erano un senso e una luminosità del colore completamente diversi. Erano grandi e
semplici, splendidi colori. Il blu che adoperava era un po’ strano, quasi turchese. Ti può sembrare
che siano cose che dico solo ora e che magari me le stia inventando, ma il punto è che non le aveva
fatte a New York. In Florida la luce è così diversa. Ha molto a che vedere con la luce riflessa e l’acqua. A New York la luce è argentea e limpida, non è così atmosferica. Queste opere sono il frutto
della luce della Florida. Gli Hoarfrosts sono brumosi, con tutti quegli strati. Per capire bene gli
Hoarfrosts, bisogna essere stati in Florida. Non sono molto compatibili con la luce di New York e per
la gente di qui non è facile capirli. Non so se sto lavorando di immaginazione, ma le opere indiane,
i Jammers, mi sembrano dotate di grande chiarezza: nella struttura, nei colori. Una realtà fisica con
un’iperrealtà mentale. Bob fece i Jammers dopo essere stato in India, ad Ahmedabad. Conosci la
famiglia Sarabhais?18 Mi chiesero se volevo andare a lavorare là e io chiamai Bob e gli dissi che
ero stato invitato e se dovevo accettare e lui mi rispose di no! [ride]. Non so se era di cattivo umore
o cosa, ma mi disse di non andare e così non lo feci. Ma più tardi lui ci andò e fece un mucchio di
cose. Lo spirito on the road… Voglio dire che sa lavorare molto velocemente e questo è l’unico
modo di lavorare se sei in viaggio. Ha un grande talento.
MdA: Hai visto la mostra della serie Scenarios?
BM: Penso che sia stata una delle mostre migliori che ha fatto da molto tempo. Mi è sembrata particolarmente poetica. Si è interessato molto alla pittura cinese, credo. E all’improvviso è diventato
più poetico. E prima aveva avuto un intero gruppo e aveva fatto così tante cose. C’erano state anche
quelle opere di metallo dopo l’uragano… [Gluts 1986-94].
MdA: ROCI [Rauschenberg Overseas Culture Interchange, 1984-91]18, la sua idea più complicata e
ambiziosa derivante dai viaggi degli anni settanta, non ebbe il successo che avrebbe meritato. Bob
spese un’enorme quantità di energie e di denaro per questo progetto. Realizzò anche molte opere
in collaborazione con artisti locali e regionali…
BM: Mi sono chiesto spesso perché Bob lo abbia fatto… Ho visto la mostra del ROCI a Washington
[1991]. Al di là dei discorsi ufficiali, l’idea di fondo della mostra mi è sembrata una vera utopia.
biografia
ROBERT RAUSCHENBERG AUTOBIOGRAFIA
Port Arthur Texas 22 ott. 1925. Madre: Dora. Padre: Ernest [nonni]: olandese, svedese, tedesco, cherokee. De Queen scuola elem., Woodrow Wilson medie, Thomas Jefferson m. sup. Diplomato nel
1942. / Un. of Tex. U.S. Navy 2 anni 1/2 tecnico neuropsichiatra. La famiglia si trasferisce a Lafayette
LA con la sorella, Janet, nata il 23 aprile 1936. Dopo la marina: tornato a casa, andato via da casa.
Lavorato a Los Angeles. Andato a Kansas City a studiare pittura al K.C.A.I. Viaggio a Parigi, 1947,
conosciuta Sue Weil. Stud. all’Acad. Julian. 1948 Black Mountain College N.C. diretto da Albers.
Studio fotografia. Lavoro molto ma con scarsi risultati per Albers. Primi contatti con la musica e la
danza moderna. Sensazione di isolamento, traferimento a NYC con Sue. Entro nell’ Art Students
League. Vytacil e Kantor. I risultati migliori ottenuti in casa. Dipinti bnc [bianchi] con n. [numeri]
migliori esempi. Estate 1950, Outer Island Conn. Sposo Sue Weil. Christopher [figlio] nato il 16 luglio
1951 a NYC. Prima personale da Betty Parsons: dipinti quasi tutti argento e bnc. Con composizione
cinematica. Tutti i quadri distrutti in due incendi accidentali. Estate Blk. Mt. Coll. N.C. Iniziati quadri
tutti neri e tutti bianchi. Divorzio durante l’inverno. Sue e Christopher vivono a NYC. Io vado in Italia
con il mio amico pittore Cy Twombly. Rimasto senza soldi a Roma. Accetto lavoro a Casablanca alla
Atlas Construction Co. Lavoro 2 mesi. Poi mi ammalo, lascio. Viaggio in Marocco FR. & SP. Torno a
Roma. Durante il viaggio fabbrico oggetti di corda & scatole. Esposte a Roma e Firenze. A Firenze
un critico disse che i miei lavori avrebbero dovuto essere gettati nell’Arno. Lo feci. Tornato a NYC
nel 1952. Loft a Fulton Street. Sviluppo i dirt paintings. Mostra di tutto bnc & nero. Quadri e Elemental
Sculptures fatti di pietre, legno & corda. Ballerini e musicisti i migliori amici in questo periodo. Pochi
pittori. Comincio a fare teatro con Merce Cunningham e Paul Taylor. Mostra bnc e nero allo Stable
NYC 1953 incomprese come provocazioni & antipittura. I dipinti bnc erano opere aperte che reagivano all’attività nel loro campo di azione. Inizio i quadri rossi usando strisce a fumetti come colore
di fondo. Includo lampade e riflettori. 1956 mostra da Egan Gall. NYC. Il giorno di capodanno concerto di Feldman con dipinti. “Charlene” ultimo e più vasto esempio dei Red Pictures. Mi guadagno
da vivere con lavori free lance come vetrinista soprattutto per Gene Moore. Inizio una serie con
colore “affollato”, insistendo perché l’oggetto materiale mantenga la sua identità. I quadri diventano fisicamente goffi, iniziano a stare in piedi da soli: “combines”. Animali impagliati. Letto. Scarpe.
Scrivo commedie in forma di fuga e musica parlata; mai eseguite. Trasloco a Pearl Street vicino
Fulton. Jasper Johns viveva nello stesso edificio e aveva appena terminato la sua prima bandiera.
Difficile immaginare il mio lavoro di allora senza il suo incoraggiamento. John Cage era un’altra
generosa fonte di ispirazione. Uno scambio molto proficuo. Faccio Rebus, Wager, Hymnal, Odalisk,
Canyon, Coca-Cola Plan, Curfew, Satellite, tutti in un paio d’anni. 1958 mostra da Leo Castelli. Jasper
Johns, Emile de Antonio e io raccogliamo i fondi per il concerto dedicato a 20 anni di musica di John
Cage alla Town Hall NYC. Trasloco a Front St. vicino Wall. Trophy I, Monogram, Broadcast. Allegory.
4 Summer Rentals. Pilgrim. 2 anni e 1/2 per fare 34 disegni per l’Inferno di Dante. Gli ultimi sei mesi
in Florida. Ho bisogno di isolarmi per concentrarmi. Divento tecnico delle luci e disegnatore per la
Merce Cunningham Dance Co. Summerspace, Crises, Antic Meet, Winterbranch, Field Dances,
Nocturnes, Spring Weather & People, Paired, Suite, Changling, Night Wandering, e Story. Tournée
locale con la Dance Co. Era dura, ma si integrava magnificamente con il mio lavoro. I balli, i ballerini, la collaborazione, la responsabilità e la fiducia che sono essenziali nella collaborazione artistica divennero l’elemento più importante e soddisfacente della mia vita perché interagivano positivamente con l’isolamento e la solitudine della pittura. Carolyn Brown, Viola Farber e Steve Paxton
mi ispirarono il desiderio di meritarmi il loro amore e la loro fiducia. Prima personale di quadri in
Europa, Galerie Daniel Cordier, Paris. Prima personale in Italia, Galleria dell’Ariete. Viaggio a
Stoccolma. Ambasciata americana, Parigi: “Collaboration for David Tudor” Io, Niki de St. Phalle,
Jasper Johns, Jean Tinguely e David Tudor. Time Paintings, First Landing Jump, Blue Eagle, Blue
Exit, Rigger, Pantomine, Trophy II e III, Black Market, Wall Street Slug, Reservoir, opere a terra:
Empire I e II, Aen Floga, Red Rock, 19346, Trophy IV, [Blue Light Bulbs, Michael McClure]. Inizio con
le litografie, Universal Ltd. Art Editions, Tanya Grosman, Long Island. Grande influenza sui dipinti.
“The Costruction of Boston,” Un’opera collettiva di Niki de St. Phalle, Kenneth Koch, Jean Tinguely
e io, dir. da Merce Cunningham, NYC. interpreti, con collaboratori, Oyvind Fahlstrom, Frank Stella,
Billy Kluver, Steve Paxton, Viola Farber e Henry Geldzahler. Trasloco a Broadway e 12th St. Inizio
“Oracle”, una scultura in 5 parti [con] sonoro comandato a distanza e fontana. Collaboratore Billy
Kluver assistito da Harold Hodges. “Oracle” interrotto da “Dylaby” ad Amsterdam, Sandburg, dir.
dello Stedelijk. Conosco Marcel Rayesse e Per Ultvedt. Ace, Stripper, Cartoon, Trophy V. Inizio i
dipinti serigrafati per sfuggire alla familiarità di oggetti e collage. Barge, Dry Run, Sundog, Quarry,
Brace, Shortstop, Overcast I, II, III, Strawboss, Crocus, Exile, Glider, Calendar Buoy, Gift for Ileana,
Payload, Archive, Estate, Manuscript, Overdrive, Bait, Kite, Die Hard, Dry Run, Tadpole, Cove,
Express, Junction, Roundtrip, Bicycle, Transom, Spot, Shaftway, Tideline, Star Grass, Stop Gap,
Trellis, Dry Cell, Wooden Gallop. Lavoro con lo Judson Group, Teatro/Danza. Laboratorio sperimentale di scambio. Luci per “Terrain” di Yvonne Rainer. 1° Premio alla 5° Esposizione internazionale
delle Stampe, Ljubljana, Yugo. Mostra alla Galerie Ileana Sonnabend, Parigi. Ileana è una persona
speciale. Prima pièce Teatro/Danza: “Pelican” Washington, D.C. 1963. Carolyn Brown, P. Ultvedt e
io. Carol on pointe, gli uomini sui pattini a rotelle. Sonoro: collazionato; fonti radio, registrazioni,
cinema, t.v. Alice Denney, prod. della grande mostra al Jewish Museum. Primo Goy nella nuova ala.
Alan Solomon, dir. Surplus Dance Theater: Artisti; Lucinda Childs, Judith Dunn, Alex Hay, Deborah
Hay, Robert Morris, Yvonne Rainer, Albert Reed, Steve Paxton e Io. “Shot Put” Balletto al buio con
torcia elettrica al piede destro. Musica tratta da “Swedish Bird Calls” di Oyvind Fahlstrom. Steve
Paxton, Prod. Flush, Tracer, Persimmon, Retroactive I e II, Buffalo, Skyway, Choke, Stunt, Trapeze,
Whale, Press, Harbor, Quote, Tree Frog, Creek, Round Sum, Hedge, Lock, Trap. Mostra a
Whitechapel [retrospettiva] Londra, Brian Robertson, dir. Broke, battuto record di presenze.
Comprende i disegni per Dante. Arrivo a Londra prima dell’inaugurazione, incontro artisti londinesi
e registro uno special t.v. per la B.B.C. Giro del mondo con Merce Cunningham & Dance [Co.] come
dir. tecn. Una parte delle scenografie e dei costumi deve essere realizzata sul posto. Non duplicabili. Illuminazione non studiata per ragioni estetiche e pratiche. Strasburgo, Parigi, Bourges,
Venezia [mentre siamo a Venezia vinco il 1° premio alla Biennale]. Vienna, Mannheim, Essen,
Colonia, Les Baux, Dartington, Londra, Stoccolma [concerto extra: Deborah Hay, Steve Paxton, Alex
Hay, Oyvind Fahlstrom, David Tudor e Io. “Elgin Tie,” duetto con una mucca svedese], Turku,
Helsinki, Praga, Ostrava, Varsavia, Poznan, Krefeld, Bruxelles, Anversa, Scheveningen / den Haag,
Bombay, Ahmedabad, Chandigarh, New Delhi, Bangkok, Tokyo, [concerto extra. Scambio: Giappone
/ America. 10 pittori, musicisti, ballerini giapponesi - Deborah Hay, Steve Paxton, Alex Hay, e Io.]
Kobe, Osaka. Alla fine della tournée mi fermo alle Hawaii. Meravigliose. Abrams pubblica le illustrazioni per Dante. Altre lito; Universal Ltd. Art Editions. Mostra di disegni alla Dwan Gallery Los
Angeles. Fossil per Bob Morris, N.Y. Birdcalls per Oyvind Fahlstrom, Sleep per Yvonne Rainer.
Finisco “Oracle” [1965]. Vera opera in progress, miglioramenti delle attrezzature e info. 1° Premio
alla Biennale di Corcoran, Washington D.C., “Axle”. Pièce Teatro/Danza: “Spring Training” sketch
per A.F.A. a Boston. Primo N.Y. Theatre rally di artisti: Carolyn Brown, Trisha Brown, Jim Dine, Judith
Dunn, David Gordon, Alex Hay, Deborah Hay, Tony Holder, Robert Morris, The Once Group, Claes
Oldenburg, Steve Paxton, Yvonne Rainer, Robert Whitman e Io. Prod. da Steve Paxton & Alan
Solomon, Inc. “Dark Horse” un concerto di Alex, Deborah e Io aggiunto agli ultimi 3 spettacoli di
Danza del raduno. [Io faccio Pelican, Alex Hay sostituisce Ultvedt, e Spring Training in versione
completa con Christopher R. debuttante e con 23 tartarughe con un lume sul dorso per illuminazione organica]. Map Room II per Cinematreque. 1966 Esposizione dei disegni per Dante al Museum
Mod. Art. 3 Concerti per il L.A. County Museum of Art. Opera teatrale per Washington, D.C. “Now
Festival”. “Linoleum” Simone Whitman, Deborah Hay, Steve Paxton, Alex Hay, Christopher e Jill
Denney. Linoleum trasmesso da Ch. 13 NYC usando sovrapposizione con mixer. 9 Evenings of Art &
Technology al 69th Reg. Armory. Una collaborazione tra artisti, scienziati e tecnologia “Open Score”
con un cast di 500 &, e proiezioni t.v. a infrarossi a circuito chiuso, una partita a tennis con controllo a distanza delle luci. Avvio di E.A.T., Experiments in Art & Technology, concepito come catalizzatore dell’inevitabile fusione tra le specializzazioni in vista della creazione di ROBERT RAUSCHENBERG, AUTOBIOGRAPHY [DETTAGLIO], 1968 un uomo responsabile che operi nel presente.
elenco opere
3. Volon [Cardboard], 1971
Cartone
141 x 373.5 x 27.5 cm
Estate of Robert Rauschenberg
18. Untitled [Venetian], 1973
Cartone, carta catramata, nastro e corda
189 x 419 x 5 cm
Collezione Sonnabend, New York
4. 1/2 Gals. / AAPCO [Cardboard], 1971
Cartone e corda
285 [var.] x 198 x 27 cm
Collezione [mac] - musée d’art contemporaine, Marsiglia
19. Untitled [Venetian], 1973
Scatole di cartone, ramo di legno e frammento di tenda
218.5 x 67 x 267 cm
Estate of Robert Rauschenberg
8. Serita / Blister Pack [Cardboard], 1971
Cartone con conduttore isolato e pelle di
camoscio
156 x 125 x 121 cm
Estate of Robert Rauschenberg
20.Untitled [Venetian], 1973
Battistrada di pneumatico e legno
70 x 229 x 42 cm
Estate of Robert Rauschenberg
9. National Spinning / Red / Spring
[Cardboard], 1971
Cartone e spago
254 x 250 x 22 cm
The Menil Collection, Houston
Acquistato nel 2005 con i fondi resi disponibili dalla The Brown Foundation e dal consiglio di amministrazione
della Menil Collection composto da: Louisa
Stude Sarofim, Frances R. Dittmer, Estate of
James Elkins Jr.,
Windi Grimes, Agnes Gund, Janie C. Lee,
Isabel S. Lummis, Roy Nolen, Charles
Wright, Michael Zilkha
14.Untitled [Venetian], 1972
Cartone e tessuto
144 x 137 x 17 cm
Estate of Robert Rauschenberg
15. Sor Aqua [Venetian], 1973
Legno, metallo, corda, fiasco di vetro e
vasca da bagno piena d’acqua
249 x 305 x 104 cm
The Museum of Fine Arts, Houston. Dono
della Caroline Wiess Law Foundation
16. Sant’Agnese [Venetian], 1973
Zanzariera, sedie di legno e fiaschi di vetro
con tappi di sughero
81 x 263 x 40.6 cm
Estate of Robert Rauschenberg
23. Ca’ Pesaro [Venetian], 1973
Cuscini, spago e legno
62 x 443 x 86.5 cm
Estate of Robert Rauschenberg
25.Untitled [Venetian], 1973
Cartone e corda
66 x 703.6 x 30.5 cm [var.]
Estate of Robert Rauschenberg
26.Untitled [Venetian], 1973
Cartone, tela di canapa, cuoio e gomma
145 x 193 x 25 cm [var.]
Estate of Robert Rauschenberg
27. Untitled [Early Egyptian], 1973
Cartone, sabbia, tondino di metallo, cemento e pittura Day–Glo
75.5 x 53 x 163 cm
Estate of Robert Rauschenberg
28.Untitled [Early Egyptian], 1973
Cartone, tessuto, sabbia, cuscino e pittura
Day–Glo
198 x 71 x 47 cm
Glenstone
29.Untitled [Early Egyptian], 1973
Cartone, sabbia, pittura Day–Glo, bicicletta,
tessuto, spago e secchio metallico su sostegno di legno
395 x 515.5 x 119.5 cm
Estate of Robert Rauschenberg
30.Untitled [Early Egyptian], 1973
Parti di triciclo, secchio metallico, corda e
palo di legno
70.5 x 198 x 198 cm
Estate of Robert Rauschenberg
32. Pyramid Series, 1974
Carta stampata in rilievo e tessuto
206 x 75 cm
San Francisco Museum of Modern Art.
Acquistato con un dono di Phyllis Wattis.
33. Pyramid Series, 1974
Carta stampata in rilievo e tessuto
188 x 75 cm
San Francisco Museum of Modern Art.
Acquistato con un dono di Phyllis Wattis.
34. Pyramid Series, 1974
Carta stampata in rilievo e tessuto
183 x 75 cm
San Francisco Museum of Modern Art.
Acquistato con un dono di Phyllis Wattis.
35. Pyramid Series, 1974
Carta stampata in rilievo e tessuto
206 x 75 cm
San Francisco Museum of Modern Art.
Acquistato con un dono di Phyllis Wattis.
36. Pyramid Series, 1974
Carta stampata in rilievo e tessuto
183 x 75 cm
San Francisco Museum of Modern Art.
Acquistato con un dono di Phyllis Wattis.
37. Pyramid Series, 1974
Carta stampata in rilievo e tessuto
187 x 75 cm
San Francisco Museum of Modern Art.
Acquistato con un dono di Phyllis Wattis.
38. Pyramid Series, 1974
Carta stampata in rilievo e tessuto
201 x 75 cm
39. Untitled [Early Egyptian], 1974
Cartone, sabbia e pittura Day–Glo
274 x 351 x 71 cm [insieme]
Estate of Robert Rauschenberg
40. Untitled [Early Egyptian], 1974
Cartone, sabbia e pittura Day–Glo
140 x 269 x 100 cm
Estate of Robert Rauschenberg
41. Untitled [Early Egyptian], 1974
Cartone, sabbia, pittura acrilica, tessuto,
corda, ramo di legno e pittura Day–Glo
149 x 131 x 42 cm
Estate of Robert Rauschenberg
42. Untitled [Early Egyptian], 1974
Sacchetti di carta e tessuto
49 x 163 [var.] x 43 cm
Estate of Robert Rauschenberg
43.Untitled [Made in Israel], 1974
Carriola, tubo di gomma e bastone di legno
71 x 483 x 137 cm
Estate of Robert Rauschenberg
46. Moor [Hoarfrost], 1974
Transfer a solvente su tessuto e collage
206 x 125 cm
Collezione Sonnabend
47. Sybil [Hoarfrost], 1974
Transfer a solvente su tessuto, collage di
buste di plastica e carta con corda
203 x 198 cm
Estate of Robert Rauschenberg
51. Untitled [Hoarfrost], 1974
Transfer a solvente su tessuto con buste di
carta e collage di stoffa
213.5 x 124 cm
Estate of Robert Rauschenberg
52. Sulphur Bank [Hoarfrost], 1974
Transfer a solvente, cartone e buste di carta
165 x 89 cm
Estate of Robert Rauschenberg
53. Untitled [Early Egyptian], 1974
Tessuto, carta, collage, bastone di legno,
matita, stringa, pittura su carta montata su
telo di lino
185.5 x 159 x 79 cm
Estate of Robert Rauschenberg
55. Kouros Again [Hoarfrost], 1975
Transfer a solvente su tessuto, cartone e
busta di carta con collage di stoffa serigrafato e corda
307 x 457 cm
Estate of Robert Rauschenberg
57. Untitled [Hoarfrost], 1975
Transfer a solvente su tessuto, scatola di
cartone e cravatta
183 x 112.5 x 20 cm
Estate of Robert Rauschenberg
58. Untitled [Jammer], 1975
Tessuto e spago
221 x 246.5 cm [insieme]
Estate of Robert Rauschenberg
59. Mirage [Jammer], 1975
Tessuto cucito
203 x 175 cm
Estate of Robert Rauschenberg
60. Quarterhorse [Jammer], 1975
Quattro aste di canna d’India rivestite di tela
e tessuto cucito
151 x 428 cm
Estate of Robert Rauschenberg
61. Sprout [Jammer], 1975
Sei aste di canna d’India, spago e lattine di
stagno
259 x 312.5 x 56 cm
Estate of Robert Rauschenberg
62. Vow [Jammer], 1976
Tessuto cucito e asta di canna d’India
213.5 x 101.5 x 49.5 cm
Estate of Robert Rauschenberg
64. Pilot [Jammer], 1976
Asta di canna d’India, tessuto cucito e
spago
206 x 216 x 100 cm
Estate of Robert Rauschenberg
65. Fresco [Jammer], 1976
Tessuto, due bicchieri di vetro, acqua e due
molle metalliche
213 x 191 x 13 cm
Estate of Robert Rauschenberg
laboratorio
I ROMPISCATOLE
Laboratori creativi nell’ambito della mostra:
Robert Rauschenberg - Travelling 70-76
a cura di Le Nuvole e Pierreci
Laboratorio di rielaborazione creativa
durata 50 minuti - su prenotazione
I giovani partecipanti vengono guidati alla rielaborazione creativa di materiali di uso quotidiano;
l’attività si apre con un momento sensoriale e tattile nel quale scoprire ed approfondire attraverso
i sensi le differenti caratteristiche dei materiali, una semplice installazione realizzata con materiale di riciclo permetterà ai ragazzi di toccare - senza però vederli -alcuni materiali come il cartone,
il legno e la stoffa, i metalli, la plastica. La porosità, la temperatura, la morbidezza, li aiuterà ad indovinare –senza vedere- cosa c’è tra le loro mani.
Poi guidati e stimolati dal senso creativo, svilupperanno le loro creazioni artistiche utilizzando come
materiale di base, scatole, scatoloni e scatoline di cartone.
Questi oggetti di uso comune verranno trattati e rielaborati immaginando usi alternativi, inserendo
all’interno altri oggetti ed assemblandoli in maniera originale, oppure utilizzando come fa l’artista il
combing-paintings, la fusione di tecniche differenti con la pittura, diventeranno case ed animali fantastici, oggetti astratti, perderanno il loro significato di contenitori di beni di consumo per diventare contenitori di idee.
Tecniche utilizzate:
ritaglio, collage, pittura, disegno, rielaborazione grafica.
Il laboratorio sarà seguito da una visita didattica alla mostra dedicata a Robert Rauschenberg figura chiave dell’avanguardia new-dada e pop del secondo dopoguerra e primo artista nord-americano a ottenere nel 1964 il Gran Premio della Biennale di Venezia.
Per informazioni e prenotazioni:
081-19313016 dal lunedì alla domenica dalle 9.00 alle 20.00.

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