Qua - Intermezzi Editore

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Qua - Intermezzi Editore
primo
Il pitone
In cui il mondo non è come quando avevo otto anni; conosciamo Tancredi; guardo un film porno; perdo qualcosa.
Ho in mente una storia che non ha niente a che
fare con tutto questo. Oppure c’entra eccome. In ogni
caso si tratta di un dottore e il mondo è come era prima, come quando avevo otto anni. Solo che io non ci
sono e neanche tutti quelli là fuori che fanno la fila
per mangiare un pezzo di carne.
Questo dottore un giorno riceve un paziente che
sembra molto preoccupato. Gli chiede che cosa si
sente, se ha la febbre, ma quello gli mostra un foglietto scritto a mano e gli dice che l’ha trovato sul tavolo
della cucina appena sveglio e che era a casa da solo e
quella è proprio la sua grafia.
L’ho scritto io – gli dice – ma non me lo ricordo e
non capisco neanche che cosa voglia dire quello che
ho scritto.
Il dottore comincia a leggere. È un proclama anarchico. Pace, libertà, cose così. Un linguaggio asciutto
e preciso, militante. Il paziente è un muratore, ha la
terza media.
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Cristò
Nel mondo com’era quando avevo otto anni i dottori spiegavano tutto in maniera scientifica quindi il
dottore parla al paziente di sonnambulismo e scrittura automatica.
Naturalmente si sbaglia.
Non si sbaglia del tutto, ma si sbaglia.
I pazienti arrivano uno dopo l’altro e tutti hanno
un foglio scritto in piena notte e tutti i fogli parlano
di un sacco di cose.
Questa storia ce l’ho in mente da molti anni. Anche adesso che è la prima volta che sono nudo davanti a un estraneo, adesso che ho ottanta anni e che
l’estraneo è una donna che ne avrà quarantacinque,
adesso che sono seduto su un banchetto di legno e
che la donna mi sta lavando con una spugna ruvida
in ginocchio ai bordi della vasca. Fumo una sigaretta
e lascio cadere la cenere nell’acqua. Le dita bagnano
il filtro e il fumo arriva nei polmoni tiepido.
Il dottore, quello vero, ha detto che non sa spiegare perché faccio tanta fatica ad alzarmi da solo.
Le mie gambe sono così deboli e la mia schiena così
dolorante.
Nel mondo com’era quando avevo otto anni avrei
fatto delle analisi, delle radiografie, avrei preso qualcosa di più forte di queste tre aspirine al giorno che
hanno lo stesso sapore, la stessa forma, la stessa scatola verde e bianca che avevano settantadue anni fa.
I dottori del mondo com’era quando avevo otto anni
avrebbero detto il nome di qualche malattia e non
semplicemente vecchiaia.
Il dottore della mia storia, invece, comincia a indagare. Lui ha il nome di un eroe. Il nome di un’opera
lirica, un nome drammatico. Potrebbe essere Ernani
o Tancredi. Ecco: Tancredi mi sembra meglio.
La carne
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Tancredi indaga, cerca di collegare i foglietti tra
loro. Tenta di costruire un discorso da tutti quei frammenti. Passa ore a rileggerli, a catalogarli. I pazienti
continuano ad arrivare e tutti hanno un foglietto tra
le mani.
Quando avevo otto anni mi piaceva affondare con
la testa sotto l’acqua e sentire i rumori ovattati. Nonostante tutto mi piaceva anche quando ne avevo undici. Lo facevo sempre. Per questo preferivo la vasca
alla doccia.
Adesso l’acqua mi arriva poco sopra le ginocchia
e scivola sulle spalle quando lei stringe la spugna per
sciacquare via il sapone. Ha il camice bianco, ma non
è un’infermiera.
Non posso più lavarmi da solo ma non ho bisogno
di un’infermiera.
Non ne ho bisogno.
I vecchi hanno bisogno di un sacco di cose ma non
è di un’infermiera che ho bisogno.
La spugna è ruvida, raschia le braccia, ma l’acqua
è tiepida. Mi piace. Non durerà molto. Presto lei mi
farà alzare e mi aiuterà ad asciugarmi. Poi mi vestirà
e raggiungerà mio nipote che aspetta in salotto. Lui
le darà dei soldi e l’accompagnerà a casa.
Non è delicata ma neanche sbrigativa.
È professionale.
Forse pensa che avere un lavoro è già qualcosa
mentre mi afferra il polso con l’indice e il pollice e mi
alza il braccio destro. Ha dei guanti bianchi sottili. Mi
abbandono, mi sembra appropriato. Mi faccio trattare come un manichino, è così che si fa, credo.
Mio nonno faceva così quando mia madre lo lavava e io avevo otto anni.
I vecchi fanno così.
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Cristò
Potrei raccontarle la storia di Tancredi ma probabilmente non le interessa quello che passa nella testa
di un vecchio.
Lei non sa com’era prima.
Non capirebbe.
Però il silenzio deve darle fastidio. Ogni tanto
muove le labbra come per cominciare un discorso e
poi se le morde piano per fermarle.
Ha gli occhi bassi, non mi guarda in faccia.
Mio marito è uno di loro, senza speranza, da un
paio di mesi – dice all’improvviso – un giorno si è
alzato ed è uscito di casa senza dire una parola, senza guardarmi. Sapevo che sarebbe successo ma mi
ha fatto male comunque. Ho pianto. Aveva smesso di parlarmi. Mangiava e guardava la televisione.
Non dormiva più. Rimaneva tutto il tempo sul divano e si alzava solo per svuotare il frigorifero. Non
cambiava mai canale. Gli bastava che il televisore
fosse acceso. Non si lavava. Non rispondeva alle
mie domande.
Una volta ho alzato il volume del televisore a un
livello insopportabile. Lui non ha reagito. Poi ho
cambiato canale. Niente. Ho azzerato l’audio. Ancora niente. Gli ho buttato il telecomando sulle gambe
e sono andata in cucina.
Da un po’ avevo cominciato a nascondere il cibo.
Lo mettevo nell’armadio, dietro le lenzuola. Mangiava persino la carne cruda. A volte ho temuto che volesse mangiare anche me e i nostri figli.
Ora è andato via.
Non ho più nulla da temere.
Ha parlato lentamente, senza troppa emozione,
quasi sottovoce. Una parola dopo l’altra, senza mai
smettere di lavarmi, senza guardarmi negli occhi,
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senza pause, senza espressione. Non ha aspettato che
fossi io a rompere il ghiaccio con una frase di convenienza. Ha cominciato a parlare e basta. Sembrava
recitasse una pagina di diario imparata a memoria a
furia di rileggerla.
Mi dispiace – riesco a dire solo questo.
Non è che la sua assenza mi faccia male – ricomincia – non sempre, almeno. A volte sento un
dolore appuntito e breve. Una fitta di quelle che ti
prendono all’improvviso sulle vecchie cicatrici. Il
ricordo di un dolore passato. Il cesareo che ho fatto
venti anni fa per far nascere mio figlio e che un giorno qualsiasi, senza un motivo, comincia a bruciare
per qualche minuto. La memoria della carne che ha
sofferto.
Per il resto lui non c’è ed è come se non ci fosse
mai stato.
Adesso si alzi che l’aiuto ad asciugarsi.
Nella mia storia Tancredi ha un problema col suo
nome. Naturalmente. Lo deve ripetere almeno due
volte quando si presenta a qualcuno. Sua nonna era
una cantante d’opera che aveva esordito proprio nel
Tancredi di Rossini e poi aveva dovuto abbandonare
la carriera per una gravidanza indesiderata e un matrimonio riparatore con un chirurgo. Tancredi ha ereditato il nome d’arte di sua nonna e il mestiere di suo
nonno. Non ha deciso molto della sua vita e adesso
questa storia dei fogli scritti nel sonno la vuole portare fino in fondo.
Perché vengono tutti da me? – si chiede.
Lei mi ha asciugato, mi ha vestito ed è andata via
con mio nipote. È una bella donna. Io sono ben vestito, pulito, profumato. Alzarmi mi costa una fatica
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Cristò
infernale, camminare anche. Mi scoccia andare così
lento. Ci metterò un quarto d’ora ma il cinema è dietro l’angolo.
I film porno li guardo dall’inizio alla fine. Nel cinema a luci rosse ti permettono di fumare quanto
vuoi. Ti permettono anche di dare via il culo a pochi
soldi, o anche gratis.
Si prostituiscono solo uomini nei cinema hard.
Non so perché. Comunque l’unico modo di godersi
un film al cinema fumando una sigaretta è col porno.
Oppure d’estate nei cinema all’aperto. Ma all’aperto
non è per niente la stessa cosa.
Non entro mai a spettacolo iniziato.
Gli altri entrano anche a metà del secondo tempo.
Io aspetto che il film inizi, come farei in qualsiasi altro cinema.
Alcuni film cominciano in medias res, con un pompino o qualcosa del genere. Altri hanno un inizio
più pacato. Un salotto in cui si discute del più e del
meno, una piscina, una fattoria.
Ricordo un film che cominciava con la mungitura
di una mucca. Però si scopava solo tra esseri umani, il
più delle volte nelle stalle, al cospetto di cavalli chiaramente disinteressati.
Quella volta fumai solo un paio di sigarette.
Colpa della location bucolica, credo.
I migliori sono quelli in costume. Hanno sempre
qualcosa di carnevalesco ma le trame in genere non
deludono. Ho fumato moltissime sigarette durante la
proiezione di Stimolazioni per Mozart.
Accanto al cinema c’è il deposito comunale.
Mi fa sempre una certa impressione vedere quei
disgraziati fare la fila per mangiare. Se devo credere
alle cifre ufficiali dei telegiornali, i soldi che spendo
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per un pacchetto di sigarette basterebbero a sfamarne uno per tre giorni.
I vecchi non credono alle cifre ufficiali dei
telegiornali.
E comunque quelli di sicuro non muoiono di fame.
Il dottore non mi ha mai detto di smettere di fumare. Tancredi l’avrebbe fatto. I dottori del mondo
come era quando avevo otto anni lo dicevano come
prima cosa. Il dottore lo diceva spesso a mia madre.
Gli altri non fanno altro che toccarsi. Restano nel cinema giusto il tempo di venire. Poi vanno via a grandi passi, con la testa bassa.
Sono soprattutto vecchi.
Quelli sotto i venticinque anni sono lì solo per
prostituirsi. Però fumano tutti. Non squilla mai un
cellulare ma il graffio del metallo contro la pietrina
non smette un attimo.
La porta di servizio del cinema è proprio accanto
all’ingresso del deposito. Una volta la porta si aprì
e uno di quelli cadde nella sala. La puzza era insopportabile. Un vecchio lo buttò fuori a calci e chiuse la
porta. Poi andò a protestare al botteghino. Ci andò
coi pantaloni aperti e l’uccello in bella vista. Naturalmente aveva una sigaretta accesa tra le dita.
Il film era uno di quelli ambientati in un monastero. Una specie di giallo stile Nome della rosa ma senza
Aristotele e con un sacco di suore. Il vecchio ebbe indietro i soldi del biglietto e tornò a gustarsi il film e la
sigaretta. Il disgraziato fuori non si lamentava.
Crepate una buona volta! ‒ commentò il vecchio
rientrando mentre sullo schermo il crocifisso batteva
sul petto nudo di un prete palestrato scandendo ritmicamente i colpi di natiche.
Audace accostamento, inquadratura interessante.
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Cristò
Il vecchio aveva agito d’istinto. Mai toccarli, neanche per prenderli a calci. Sono infetti. Ne ho vista di
gente finire a fare la fila con quelli. Certe volte basta
toccarli e sei fottuto.
Naturalmente c’è chi dice che non sono infetti per
niente, che è tutta una montatura, che sono solo dei
poveretti. Io so che Davide era uno di noi e adesso è
uno di loro. L’hanno visto fare la fila. Si riconosceva
a stento, mi hanno detto.
Povero ragazzo.
Finiremo tutti così. È questo che pensa molta gente. Può darsi che sia vero.
Comunque quelli fanno la fila accanto al cinema
King e non fanno rumore ma per sicurezza scelgo il
posto più lontano dalla porta di servizio e più vicino
all’impianto di amplificazione.
Fila S poltrona 12.
È importante sentire bene il gemito. Cogliere l’orgasmo nella gola che stringe il respiro e lo raschia.
Sentirlo arrivare, prevederlo. Traci Lords è capace
di fartelo sentire, non ce ne sono tante di attrici così
eloquenti. Un orgasmo non può essere inquinato. Un
orgasmo è un orgasmo.
Cosa possono saperne quegli straccioni?
In effetti non so neanche se facciano del sesso.
Non riesco a immaginarmeli. Sono sempre lì, in fila,
come se mangiare o bere o qualunque altra cosa facciano in quel deposito comunale, sia la loro unica
preoccupazione.
Però hanno un sacco di bambini. Un ragazzo che
ho conosciuto al cinema una volta mi ha detto ‒ quelli non sono bambini, sono cuccioli.
I gay sono bravissimi ad abbellire con piume di
struzzo le cattiverie. Aveva pronunciato la parola
La carne
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cuccioli in un modo indescrivibile. Tenero e distaccato, amorevole e sprezzante. Parlava di animali.
Sono dei bambini orrendi – avevo risposto – ma
sono dei bambini. Fummo interrotti dall’inizio del
secondo tempo di Rapporto di minoranza… anale. Lui
tornò a concupire i suoi clienti.
Oggi c’era un film del tipo ginecologo superdotato,
paziente adolescente e segretaria quinta abbondante.
La clinica degli allupati folli.
Un film di chissà quanti anni fa che potrebbe essere stato girato avantieri; non è cambiato niente da
tanto tempo. Tutto è uguale, tutto ha smesso di cambiare quando avevo dieci anni. L’aspirina, i film porno, le automobili, i computer sono rimasti gli stessi.
Il mondo come era quando avevo otto anni non
esiste più perché tutto si è fermato due anni dopo.
Uscito dal cinema mi sono trattenuto a guardare
la fila dei questuanti al deposito comunale. È tutta
colpa loro. Oppure loro sono solo una conseguenza
naturale a ciò che non è successo.
Il film faceva schifo: poca trama troppo sesso.
Ho fumato sette sigarette in poco più di un’ora. Il
ginecologo mi ha fatto pensare a Tancredi.
Le coincidenze mi turbano.
L’attore mi assomigliava in maniera impressionante, o meglio assomigliava a me quando avevo
quarant’anni. Tancredi è così. Me lo immagino così.
C’è un mare di gente che mi somiglia.
È strano.
Quando avevo dodici anni la mia famiglia era ancora intera. Si ammalavano tutti ma noi no. Mia madre diceva che eravamo immuni ma non ci credeva
neanche lei. Mio padre diceva che era per quello che
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mangiavamo. Per lui tutto aveva una ragione e non
gli piaceva risparmiare, soprattutto sul cibo. Diceva
che la gente si ammalava per quello schifo di carne
in scatola.
Mio nonno diceva che quando lui era ragazzo non
si ammalava nessuno.
I vecchi lo dicono sempre.
Io mi chiedevo se era solo fortuna o se era solo
questione di tempo. Oppure aveva ragione mio padre e tutto aveva una spiegazione.
Mentre guardavamo la televisione, a volte, prendeva il telecomando e spegneva. Così, all’improvviso.
Hai sentito che ha detto quello là? – diceva a mia
madre. Mia madre in genere rispondeva che era distratta, che non aveva sentito ma lui insisteva. Cominciava a pensarci e ripensarci. Poteva essere uno
slogan pubblicitario, un politico, un presentatore, un
comico.
Quello che dicono in televisione non è casuale –
ripeteva – nulla è casuale, figurati quello che dicono
in televisione.
E allora pensava, pensava intensamente fino a
che non trovava una ragione, un collegamento, una
spiegazione logica. Guai a riaccendere la televisione
mentre lui pensava. Non poteva essere distratto. Poi,
svelato il mistero, lo spiegava soddisfatto a tutta la
famiglia.
Pensa un po’ – commentava mio nonno.
Mio padre riaccendeva la televisione.
Adesso tutti sanno che non ci sono spiegazioni
quasi per nulla. Le cose vanno accettate per quello
che sono.
Però non si tratta di fede.
È disinteresse piuttosto.
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Tancredi invece pensa che troverà una ragione per
quello che sta succedendo. Tancredi è razionale. È
una questione di fede. Pensa che se tutti i sonnambuli sono andati nel suo studio medico è probabilmente
perché tutti abitano nelle vicinanze. Ci deve essere
un virus o qualcosa del genere per qualche ragione
circoscritto alla sua città, al suo quartiere. Deve essere per forza così.
Quando avevo dodici anni tutti si chiedevano cosa
fosse, chi attaccasse, come si diffondesse, ma si è propagato con tale velocità che presto anche gli specialisti dei centri di ricerca più importanti hanno perso
la speranza di capirci qualcosa. Gli studenti migliori
erano già per strada a elemosinare un pezzo di carne
e con loro molti ricercatori, medici, scienziati.
Sempre di più.
Spazzini, industriali, camerieri, idraulici, pittori,
imbianchini, musicisti, disoccupati.
Sempre di più.
Così era il mondo quando avevo dodici anni. Così
è il mondo anche adesso.
Non è cambiato niente. Anche il televisore che
ho nel salotto e che ho comprato due anni fa è dello stesso modello di quello che mio padre spegneva
all’improvviso. Continuano a produrlo identico. Con
lo stesso telecomando, la stessa plastica marrone e la
stessa retina nera sulle casse.
Rimarrà tutto così.
Una volta mio padre si è infastidito perché ho
preso il telecomando e ho spento all’improvviso il
televisore.
Avevo tredici anni. Il mondo non era più come
quando avevo otto anni, ma da poco.
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Cristò
Papà hai visto? C’era uno che mi assomigliava
tantissimo. Era dietro la ballerina, tra il pubblico.
E allora? – mi aveva risposto.
…era tale e quale a me. Non è un caso!
No, infatti – mi aveva detto sorridendo – non è un
caso. È una coincidenza.
Non dissi niente ma ci rimasi male. Non poteva
essere un caso. Se, come diceva lui, tutto ha una ragione allora anche la faccia di quel ragazzino tra il
pubblico doveva averne una.
Lui riaccese la televisione e mi diede una pesante
carezza sulla testa, umiliante per quanto era tenera.
Guardai con attenzione fino alla fine e il ragazzo del
pubblico ricomparve tre volte.
Non dissi niente, mio padre non se ne accorse,
mamma era distratta, il nonno dormiva.
In ogni caso, per quello che importa, forse aveva
ragione sulla carne in scatola.
Una volta mandarono un servizio al telegiornale
che riguardava quei poveretti che fanno la fila per
prendere la carne al deposito comunale e il giornalista disse che erano inscatolati in lunghe file da ore.
Per mio padre l’abbinamento carne e scatola fu immediato. Lasciò il televisore spento solo per qualche
secondo poi ordinò a mia madre di buttare subito
tutta la carne in scatola che avevamo a casa.
Pensa un po’ – disse mio nonno.
Quel giorno avevo quattordici anni e avevo cominciato la collezione, in gran segreto, da più di un
anno.
Mi è servito più tempo del solito per tornare a casa
dal cinema ma finalmente sono seduto sul divano da
cui sarà dolorosissimo alzarmi. Probabilmente non
avrò visite fino a dopodomani quando verrò ancora
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una volta spogliato, lavato, asciugato e rivestito dalla
stessa signora col marito malato.
Malato. La gente ci gira intorno, non sa come chiamarli. Malati, poveracci, affamati, disgraziati, animali, zombi.
Quasi nessuno sopra i vent’anni li chiama zombi.
È offensivo.
Tutti si affannano a dire che non sono morti ma
nessuno afferma mai che sono sicuramente vivi.
Zombi sarebbe una parola perfetta ma non la usa nessuno. È una cosa che riguarda tutti troppo da vicino.
Non si sentono troppe battute di cattivo gusto in
giro su quelli là. Chiunque ha un amico, un parente,
un conoscente che è diventato uno di loro.
Anche io, da molti anni.
Mio padre l’ho incontrato una volta sola da quando è andato via di casa in preda a una fame insaziabile. Avevo diciannove anni ed era sparito soltanto
da sei mesi. Sono sicuro che è ancora vivo e fa la fila
davanti a uno dei diciotto depositi comunali della città per un pezzo di carne, fosse anche carne in scatola.
Mia madre è morta, per fortuna. Un anno dopo è
morto anche mio nonno.
Così spero di me, un giorno.
Nel mondo come era quando avevo otto anni tutti
morivano, chi prima e chi dopo. Adesso nessuno è
sicuro neanche di questo.
Tancredi ha paura di morire. Tutti i suoi pazienti
hanno paura di morire. Per loro è una certezza.
Adesso muore solo la gente sana. Quelli là, quei
disgraziati che fanno la fila per mangiare sembra che
non ne vogliano sapere di morire. Da quando è cominciata questa cosa che non ha un nome non ne è
morto neanche uno. La gente dice che sono immor-
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Cristò
tali, ma spesso la gente è affrettata nei giudizi. I dottori non sanno cosa dire e quindi non dicono niente. L’unica cosa certa è che per il momento non ne è
morto neanche uno.
Mio padre oggi ha centoventisette anni ed è ancora lì a fare la fila per mangiare. Se fosse morto l’avrei
saputo, sarebbe stato il primo di loro a stendere i piedi. Avrebbe avuto la prima pagina su tutti i giornali.
Nessuno sa spiegare come funziona.
Non interessa a nessuno.
Tancredi ha venticinque fogli tra le mani e li ha
ordinati secondo una successione logica. Comincia a
intravedere una continuità, un discorso unico fatto
di tanti pezzetti e di tante diverse grafie. Ha trovato
un foglio che potrebbe essere un inizio eccellente e
un paio che potrebbero funzionare bene come finale.
Tutti e tre sono stati scritti da donne. Due casalinghe
e la segretaria di un dentista.
Non sa quanti altri fogli arriveranno ma se ne
aspetta almeno altri dieci, quindici forse. È solo
un’ipotesi statistica. Potrebbero arrivarne ancora a
decine o potrebbe non arrivarne più nemmeno uno.
Quando non è in ambulatorio passa tutto il tempo
a rileggerli con attenzione maniacale. Alcuni passaggi li ha imparati a memoria. Mentre torna a casa in
automobile li ripete a bassa voce, lentamente. Sente
che quelle parole prendono vita nella sua testa ma
non le teme. Sa che quelle parole si stanno nutrendo
della sua carne ma non sente dolore. Solo un’infinita
stanchezza.
Una stanchezza inguaribile e profonda come la
mia.
I vecchi si stancano facilmente.
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Invece Tancredi ha quarantadue anni e pensa che
un giorno avrà tutto il tempo di riposarsi.
Io posso solo sperare che il mio tempo si esaurisca
naturalmente in questa casa immobile e silenziosa
che mio padre ha comprato, vissuto e abbandonato.
E che adesso è mia.
Passato un anno dal giorno in cui lui era andato via dopo aver svuotato il frigorifero, io e mia
madre fummo chiamati da un notaio per aprire il
testamento.
È così che funziona.
Quelli che si ammalano sono legalmente equiparati ai morti. Non guariranno e non moriranno, è inutile aspettare. Avevo compiuto venti anni da tre mesi
e la mia collezione contava già più di cinquanta pezzi
tra fotografie, ritagli, video e disegni.
I figli di quelli che si ammalano li chiamano orfani
ma a venti anni sei già troppo vecchio per essere un
orfano, eppure mi sentivo un bambino tra le braccia
di mia madre, anche se ero io ad accarezzarle la testa
mentre piangeva.
Suo padre ha firmato le sue volontà tre anni fa
– disse il notaio rivolgendosi a me. Poi cominciò a
leggere, senza emozione.
Nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, io
sottoscritto… – e così via secondo la solita formula.
Avrei voluto sentir parlare di me, di mia madre,
della nostra vita e invece c’era solo un elenco di beni
materiali di cui mia madre otteneva l’usufrutto a vita
e io la proprietà. Nessuna confessione e nessun saluto.
Niente a che vedere con i fogli dei pazienti di Tancredi. Nessun mistero, nessun puzzle da ricostruire.
Soltanto due case enormi e una quantità di soldi in
banca sufficiente a vivere tutta la vita senza lavorare.