Giorgio de Santillana

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Giorgio de Santillana
In copertina: Congiunzione di Luna e Giove in Sagittario
(da un manoscritto di 'Abū Ma'ašar, Il Cairo, c. 1250), Bibliothèque Nationale, Paris.
Giorgio de Santillana
Hertha von Dechend
Il mulino di Amleto
Saggio sul mito e sulla struttura del tempo
TITOLO ORIGINALE:
Hamlet's Mill
An essay on myth and the frame of time
Prima edizione: novembre 1983
Quinta edizione: luglio 1997
© 1969 BY GIORGIO DE SANTILLANA AND N. VON DECHEND
© 1983 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO
ISBN 88-459-0557-8
Adelphi
Indice
Prefazione
15
Introduzione
23
1.
2.
3.
4.
Il racconto del cronista
La figura in Finlandia
Il parallelo iranico
Storia, mito e realtà
Intermezzo. Una guida per i perplessi
5. Rivelazioni in India
6. La macina di Amlόδi i
7. Il coperchio variopinto
8. Sciamani e fabbri
9. Il Titano Amlόδi e la sua trottola
10. Il crepuscolo degli dèi
11. Sansone sotto molti cieli
12. L'ultimo racconto di Socrate
13. Del tempo e dei fiumi
14. Il gorgo
15. Le acque sorgenti dal profondo
16. La pietra e l'albero
17. La struttura del cosmo
18. La Galassia
19. La caduta di Fetonte
20. Le profondità del mare
21. Il grande Pan è morto
22. L'avventura e la ricerca
23. Gilgameš e Prometeo
35
51
63
71
85
105
117
129
145
169
183
201
217
233
247
257
271
277
291
301
315
329
345
373
Epilogo. Il tesoro perduto
383
Conclusione
403
Appendici
411
Bibliografia
503
Indice analitico
533
Il mulino di Amleto è uno di quei rari libri che mutano una volta per tutte il nostro sguardo su qualcosa:
in questo caso sul mito e sull'intera compagine di ciò che si usa chiamare «il pensiero arcaico». Cresciuti
nella convinzione che la civiltà abbia progredito «dal mythos al logos», «dal mondo del pressappoco
all'universo della precisione», in breve dalle favole alla scienza, ci troviamo qui di fronte a uno
spostamento della prospettiva tanto più sconcertante in quanto è condotto da uno dei più eminenti
illustratori del «razionalismo scientifico»: Giorgio de Santillana. Proprio lui, che aveva dedicato studi
memorabili a Galileo e alla storia della scienza greca e rinascimentale, si trovò un giorno a riflettere su
ciò che il mito veramente raccontava - e capì di non aver capito, sino allora, un punto essenziale: che
anche il mito è una «scienza esatta», dietro la quale si stende l'ombra maestosa di Ananke, la
Necessità. Anche il mito opera misure, con precisione spietata: non sono però le misure di uno Spazio
indefinito e omogeneo, bensì quelle di un Tempo ciclico e qualitativo, segnato da scansioni scritte nel
cielo, fatali perché sono il Fato stesso. È questo Tempo che muove il «mulino di Amleto», che gli fa
macinare, di èra in èra, prima «pace e abbondanza», poi «sale», infine «rocce e sabbia», mentre sotto di
esso ribolle e vortica l'immane Maelstrom.
Di questo «mulino di Amleto» gli autori seguono le tracce in un percorso vertiginoso, da Shakespeare a
Saxo Grammaticus, dall'Edda al Kalevala, dall'Odissea all'epopea di Gilgames, dal Rg-Veda al Kumulipo,
vagando dalla Mesopotamia all'Islanda, dalla Polinesia al Messico precolombiano. I disiecta membra del
pensiero mitico, che ama «mascherarsi dietro a particolari apparentemente oggettivi e quotidiani, presi
in prestito da circostanze risapute», cominciano qui a parlarci un'altra lingua: là dove si racconta di una
tavola che si rovescia o di un albero che viene abbattuto o di un nodo che viene reciso non cerchiamo più
il luogo di quegli eventi su un atlante, ma alziamo gli occhi verso la fascia dell'eclittica, la vera terra
dove si svolgono gli avvenimenti mitici, il luogo dove si compiono i grandi peccati e le imprese eroiche, il
luogo dove si è compiuto il dissesto originario, fonte di tutte le storie, che fu appunto lo stabilirsi
dell'obliquità dell'eclittica. Da quell'evento consegue il fenomeno delle stagioni, archetipo della
differenza e del ritorno dell'uguale. Così il «mulino di Amleto» si rivelerà alla fine essere la stessa
«macchina cosmica».
«I veri attori sulla scena dell'universo sono pochissimi, moltissime invece le loro avventure»: Argonauti
che solcano l'Oceano delle Storie, navighiamo qui sulla rotta di quelle avventure, che vengono
ricomposte usando frammenti della più disparata provenienza, vocaboli dei molti «dialetti» di una lingua
cifrata e perduta, «che non si curava delle credenze e dei culti locali e si concentrava invece su numeri,
moti, misure, architetture generali e schemi, sulla struttura dei numeri, sulla geometria». Ma il mito si
lascia spiegare soltanto in forma di mito: la struttura del mondo può essere soltanto raccontata. È
questo il sottinteso della forma labirintica, di temeraria fuga musicale, che si dispiega nelle pagine del
Mulino di Amleto. Qui la Biblioteca di Babele torna finalmente a essere invasa dai flutti del Maelstrom
e, attraverso un velo equoreo, intravediamo la dimora del Sovrano spodestato, Kronos-Saturno, che un
tempo stabilì le misure del mondo e del destino.
*
Giorgio de Santillana (1901-1974) nacque a Roma. Nel 1938 dovette abbandonare l'Italia in conseguenza
delle leggi razziali. Da allora visse negli Stati Uniti, dove insegnò a lungo al Massachusetts Institute of
Technology. Fra le sue opere principali ricordiamo: The Development of Rationalism and Empiricism,
1941 (con E. Zilsel); Compendio di storia del pensiero scientifico, 1946 (con F. Enriques); Processo a
Galileo, 1960; The Origins of Scientific Thought, 1961 (trad. it. Le origini del pensiero scientifico,
1966); Reflections on Men and Ideas, 1968 (trad. it. Fato antico e Fato moderno, Adelphi, 19862). Il
mulino di Amleto fu pubblicato negli Stati Uniti nel 1969 ed è il frutto di un lungo lavoro in comune con
Hertha von Dechend. Una degli ultimi allievi di Leo Frobenius, storica della scienza, Hertha von
Dechend ha insegnato per molti anni all'Università di Francoforte.
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Quinta edizione: luglio 1997
pag. 551
- £. 60 000
Il mulino di Amleto
Alla memoria dei miei genitori
David de Santillana
Emilia de Santillana Maggiorani
Prefazione
Poiché sono il più anziano, anche se il meno meritevole, dei due autori, sarò io a dare inizio alla
narrazione.
Per molti anni ho cercato il punto in cui mito e scienza si congiungono. Da molto tempo mi era chiaro che
le origini della scienza avevano le loro radici profonde in un mito particolare, quello dell'invarianza. I
greci, fin dal VII secolo a.C., chiamavano ciò che mosse alla ricerca i loro primi sapienti il Problema
dell'Uno e dei Molti, a volte descrivendo la selvaggia fecondità della natura come il modo in cui i Molti
potevano essere desunti dall'Uno, a volte considerando i Molti come variazioni non sostanziali modulate
sull'Uno. I detti oracolari di Eraclito l'Oscuro non fanno altro che illustrare, coi barbagli dei loro
paradossi, l'illusorietà delle «cose» in seno al flusso, a mano a mano che venivano divelte dall'intuizione
centrale dell'unità. Prima di lui, Anassimandro aveva annunciato, sempre in modo oracolare, che la causa
del nascere e del perire delle cose era l'ingiustizia da esse perpetrata l'una verso l'altra nell'ordine
del tempo, «com'è giusto», diceva, poiché debbono espiare in eterno questa reciproca ingiustizia. Ciò fu
sufficiente a fare di Anassimandro il padre riconosciuto delle scienze fisiche, dato che l'accento viene
posto sui «Molti» reali. Ma era vera scienza a suo modo.
Poco tempo dopo, Pitagora, in termini non meno oracolari, insegnò che «le cose sono numeri»: nacque
così la matematica, e il problema della sua origine è rimasto con noi fino a oggi. Bertrand Russell, nella
sua tarda vecchiaia, è arrivato a dichiarare: «Ho desiderato sapere come brillano le stelle. Ho cercato
di afferrare la potenza pitagorica mediante la quale il numero domina sul flusso. Qualcosa di ciò, ma non
molto, io l'ho realizzato». Le risposte da lui trovate - ed erano grandi risposte - riguardano la natura
della chiarezza logica, ma non quella della filosofia in senso proprio: il problema del numero è ancora
per noi fonte di perplessità e da esso è nata tutta la metafisica. Come storico, ho continuato nella mia
ricerca delle «oscure origini» della scienza fin nei suoi remoti inizi pregreci, e di come da essa nacque,
a perpetuare il nostro imbarazzo, la filosofia; il tutto è stato condensato in un volumetto, The Origins
of Scientific Thought. Sia la filosofia sia la scienza, infatti, provenivano da quella sorgente, ed è chiaro
che erano entrambe figlie dello stesso mito.1 In più di un saggio ho continuato a inseguire questo mito
sotto il nome di «razionalismo scientifico», cercando di dimostrare che, attraverso tutti gli immensi
sviluppi, la scienza vera ha sempre per oggetto lo «Specchio dell'essere», una metafora che tenta
ancora e sempre di ridurre i Molti all'Uno. Oggi noi facciamo molte distinzioni nette e siamo giunti a
separare completamente la scienza dalla filosofia; ma il nocciolo resta ancora l'antico mito dell'eterna
invarianza, formulato in modi sempre più remoti e sottili. Al di là di esso sta una moltitudine di
procedimenti e di tecnologie, di portata tale da aver cambiato la faccia del mondo e aver posto
domande terribili. Essi tuttavia non hanno dato risposta a nessuna domanda filosofica, cosa che invece
faceva, un tempo, il mito.
A ben riflettere, abbiamo vissuto fino a ieri nell'età del Mito Astronomico. L'edificio accurato e
rigoroso dell'Almagesto tolemaico è solo una bella facciata per la teologia di Platone, travestita da
elaborata struttura scientifica. I corpi celesti si muovono in «ciclo ed epiciclo, sfera dentro sfera» di
un moto misterioso, secondo il decreto divino che moti circolari sempre più intricati avrebbero dato
ragione dell'universo. E Newton stesso, quando ne ebbe dato ragione, si limitò a sostituire alle sfere la
comprensibile forza di gravità, sulla quale egli «non intendeva inventare alcuna ipotesi». La vera forza
motrice restava sempre la mano di Dio; la Sua volontà e la Sua matematica continuavano a operare, nomi
nuovi per l'aristotelico Primo Motore. E negheremo forse che lo spazio-tempo di Einstein altro non sia
se non un puro mito panmatematico, riconosciuto alfine apertamente come tale?
Mi trovavo a questo punto, smarrito tra la scienza e il mito, quando, in un convegno tenutosi a
Francoforte nel 1959, conobbi la dottoressa von Dechend, uno degli ultimi allievi del grande Frobenius,
che avevo conosciuto in passato; insieme ne ricordammo il detto preferito: «Perché diavolo dovrebbero
Il problema pitagorico è al nocciolo del mio Origins, 1961. Le mie fatiche dettero finalmente frutto in Prologue to Parmenides,
1964, ristampato in Reflections, 1968
1
importarmi le mie sciocche nozioni di ieri?», e fummo subito amici. Ella era allora assistente alla
cattedra di Storia della scienza, ma aveva persistito nel suo viaggio solitario nell'etnologia culturale
incominciando con l'Africa occidentale, lungo la pista tracciata dal suo “capo” e che proprio allora
veniva riaperta da quello splendido etnologo che era il francese Marcel Griaule. Anche lei sentiva che
l'essenza del mito era da ricercarsi in qualche testo di Platone piuttosto che nella psicologia, ma fino
ad allora non aveva trovato indizi.
All'epoca del nostro incontro era passata a occuparsi della Polinesia, e ben presto scoprì la sua vena
d'oro. Mentre studiava i resti archeologici di molte isole, le venne dato un indizio, e il momento di
grazia arrivò quando, nell'esaminare (su una carta geografica) due isolette non più grandi di due
puntolini sulle acque del Pacifico, trovò che una strana concentrazione di marae o luoghi di culto poteva
essere spiegata in un modo solo: le due isole, uniche fra tutte, erano esattamente situate su due
precise coordinate celesti, il tropico del Cancro e il tropico del Capricorno.
Lasciamo ora la narrazione a Hertha von Dechend.
«Partire da un'opposizione assoluta alle opinioni dominanti difficilmente porta a conoscenze sensate,
così almeno si pensa. Comunque, non è da lì che sono partita, anche se non posso negare che la mia
crescente indignazione di fronte alle interpretazioni correnti (fondate su traduzioni scoraggianti) sia
stata a volte uno sprone utile. Non ci fu nulla, anzi, che si potesse chiamare un "punto di partenza",
meno che mai l'intenzione di esplorare la natura astronomica del mito. Al contrario, poiché io ero giunta
alla storia della scienza dall'etnologia, c'era “in principio” da parte mia solamente la ferma decisione di
non lasciarmi mai e a nessun costo coinvolgere in questioni astronomiche. Per mantenere la distanza di
sicurezza da questo temibile campo, l'oggetto della mia indagine doveva essere la figura mitica del dioartefice, il Demiurgo nei suoi numerosi aspetti (Efesto, Tvastr, Wieland il Fabbro, Goibniu, Ilmarinen,
Ptah, Khnum, Ktr-w-hss, Enki/Ea, Tane, Viracocha, ecc.). Neppure l'ombra di un sospetto mi era venuta
mentre esaminavo i miti mesopotamici (proprio loro!): tutto aveva un'apparenza così terrestre, anche
se un po' strana. Fu dopo aver passato più di un anno su almeno 10.000 pagine di miti polinesiani raccolti
nell'Ottocento (e ce ne sono molte altre ancora), che aprii gli occhi - e il colpo della rivelazione quasi mi
annientò - sulla nostra totale ignoranza: non c'era una, dico una frase che fosse comprensibile. D'altra
parte, se c'era un popolo che aveva diritto a essere preso sul serio, era proprio quello polinesiano, che
aveva guidato con mano ferma le sue navi sul più vasto oceano della terra; un popolo di navigatori a cui i
nostri tanto celebrati esploratori, da Magellano a Cook, avevano affidato in più occasioni il governo
delle proprie navi. L'errore quindi doveva essere nostro e non del mito polinesiano; eppure anche in
quell'occasione - così saldo era il mio proposito di tenermi lontana da quel campo - evitai di "provare con
l'astronomia, tanto per cambiare ". Esaminai i resti archeologici di quelle numerose isole, e fu qui che
mi venne dato un indirizzo (ma sarebbe più esatto dire che fui colpita da un fulmine), a cui tenni
debitamente dietro, e allora non ci fu più via di scampo: era impossibile sfuggire all'astronomia. A tutta
prima si trattava ancora di “semplice” geometria - l'orbita del sole, i tropici, le stagioni - e le avventure
degli uomini e degli dèi continuavano a non avere molto senso. Che si dovesse contare, per caso? Quale
significato poteva avere, nella storia di un eroe in viaggio da poco più di due anni, il “ritornare” a
intervalli di tempo, il “cadere nello spazio”, il “deviare” dalla ”giusta” rotta? Non rimanevano davvero
molte soluzioni possibili: doveva trattarsi di pianeti (nel caso specifico di Aukele-nui-a-iku, di Marte).
Ma se così era, i pianeti dovevano essere membri costitutivi del personale di ogni mito: i polinesiani non
avevano inventato questa caratteristica da soli».
Questo brano di Hertha von Dechend, nella sua audacia e libertà intellettuale, reca l'impronta di
quanto ella ha ereditato dall'età eroica, innocente e cosmopolita della scienza tedesca della prima metà
dell'Ottocento, i cui eroi, Justus von Liebig e Friedrich Woehler, erano stati oggetto dei suoi studi
prima del 1953. Un'altra di queste virtù, l'indignazione sprezzante, apparirà chiaramente nelle
Appendici, frutto per così tanta parte delle sue fatiche.
Ora riprendo io.
Anni prima, avevo dato un'occhiata a L'Origine de tous les cultes di Dupuis, sperduto tra gli scaffali
della Widener Library e che mai più consultai: un libro di stampo settecentesco, datato L'an III de la
République. Il titolo già da sé bastava a mettere in sospetto: uno di quei titoli “entusiastici”così
frequenti nel Settecento e che promettevano decisamente troppo. Come poteva spiegare il sistema
egiziano, mi chiesi, dal momento che i geroglifici non erano ancora stati decifrati? (Studiando
Athanasius Kircher, ci accorgemmo poi che la cosa non era impossibile, se si utilizzava la tradizione
copta). Misi da parte quei tomi così poco invitanti, limitandomi a prender nota di una frase: « Le mythe
est né de la science: la science seule l'expliquera ». La risposta era lì, ma io non ero pronto a capire.
Questa volta, invece, lo ero, e fu così che riuscii ad afferrare l'idea alla prima occhiata. Moltissimi anni
addietro mi ero domandato, in un appunto, quale fosse il significato di fatto, nella nuda accezione
empirica del termine quando si parla degli antichi. Esso rappresenta, pensavo, non la sorpresa
intellettuale, non la meraviglia e lo stupore immediati, bensì, prima di tutto, un'attenzione immensa,
costante e minuziosa alle stagioni. Che cosa sono un solstizio o un equinozio? Essi stanno a
rappresentare quella capacità di coerenza, di deduzione, di volontà e ricostruzione immaginativa che
eravamo così poco inclini ad attribuire ai nostri antenati. E invece eccola lì, davanti a me. E vidi.
La matematica mi veniva incontro dal profondo dei secoli, non dopo il mito, ma prima di esso; armata non
del rigore greco, ma dell'immaginazione del potere astrologico, della comprensione dell'astronomia. Era
il numero a fornire la chiave. Nei tempi antichissimi, quando la scrittura non era stata nemmeno
inventata, erano le misure e il contare che provvedevano l'intelaiatura, la struttura portante 2 su cui
doveva poi crescere il ricco tessuto del vero mito.
Eravamo così ritornati ai veri primordi, alla Rivoluzione Neolitica. Ci trovavamo concordi nel vedere
quella rivoluzione come essenzialmente tecnologica. Il primo sociologo, Democrito di Abdera, lo aveva
espresso con un'unica frase incisiva: il progresso umano era opera non della mente, ma della mano. I
suoi successori di molti secoli dopo lo hanno preso troppo alla lettera, concentrandosi sui manufatti,
ignari dell'enorme sforzo intellettuale che ciò comporta, in campi che vanno dalla metallurgia alle arti,
ma soprattutto in astronomia. Lo sforzo di selezionare e identificare le sole presenze che sfuggivano
del tutto all'azione delle mani condusse a quei puri oggetti di contemplazione che erano le stelle nel
loro corso. I greci non avrebbero inteso male quello sforzo: essi chiamavano l'astronomia Scienza
Regale. Lo sforzo di organizzare il cosmo prese forma dalle presenze superne, le sole che il pensiero
potesse porre al governo della realtà, quelle da cui tutte le arti trassero il loro significato.
Ma nulla è tanto facile da ignorare quanto ciò che non si lascia comprendere facilmente. La nostra
scienza del passato è sbocciata, col maturare dei tempi, nella filologia e nell'archeologia, mentre sulla
filosofia antica sono usciti e continuano a uscire dotti volumi, in gran copia ma con scarso profitto.
Qualche raro maestro del nostro tempo ha ritrovato la traccia di queste scoperte avvenute «prima
della scrittura», ma ora Dupuis, Kircher e Boll sono scomparsi, come quelle arcaiche figure, e come loro
sono dimenticati. È questa l'opera divoratrice del tempo. E ciecamente l'iniquità dell'oblio sparge i suoi
papaveri.
Si sa quante immagini di dèi siano connesse con la produzione del fuoco; un ingegnere statunitense, J.
D. McGuire, ha scoperto che anche certe immagini egizie finora insospettate mostrano la divinità
nell'atto di maneggiare il trapano per accendere il fuoco. È semplice: il fuoco costituiva l'anello di
congiunzione tra ciò che gli dèi facevano e ciò che l'uomo poteva fare. Ma, partendo da quel punto, la
mente era riuscita un tempo a spingersi a imprese intellettuali prodigiose, un universo della mente del
tutto degno di quei Newton ed Einstein ormai dimenticati da secoli, di quei maestri, come disse
d'Alembert, di cui nulla sappiamo e a cui tutto dobbiamo.
L'idea l'avevamo, dunque, semplice e chiara. Ma ci rendemmo conto che avremmo incontrato enormi
difficoltà sia a motivo delle esigenze attuali della ricerca moderna, sia a motivo della non meno
inconsueta impostazione metodologica necessaria, che io, per motivi che presto appariranno evidenti,
chiamavo scherzosamente per brevità «il gatto sulla tastiera». Come è possibile, infatti, cogliere al volo
il tempo? Eppure il fluire del tempo, il tempo della musica, era essenziale, era inevitabile, e
In inglese frame, parola che non ha un unico equivalente in italiano e che più avanti sarà resa anche con «ossatura», «cornice» e
simili.
2
sconcertante per la mente sistematica. A lungo cercai una presentazione per via induttiva, ma era come
aggiungere il Pelio all'Ossa. E non si trattava che della più piccola delle nostre difficoltà: dovevamo
anche affrontare un muro, un vero Muro di Berlino, fatto di indifferenza, di ignoranza e di ostilità.
Humboldt, saggio maestro, lo aveva detto tanto tempo fa: la gente prima nega una cosa, poi la svilisce,
poi decide che la si sapeva già da tempo. Potevamo noi imbarcarci in un'enorme impresa di studio
minuzioso sulla base di questa prospettiva più che dubbia? Ma il nostro compito era segnato: strappare
all'oblio quegli intelletti del passato lontano e vicino. «Così parla il Signore Iddio: "Vieni dai quattro
venti, o spirito, e soffia su questi uccisi perché possano vivere" ». Tali povere ossa sparse, ossa
vehementer sicca, dovevamo riportare in vita.
Questo libro riflette la convinzione sempre più profonda che, innanzitutto, a questi nostri padri è
dovuto onore. I primi capitoli saranno, credo, di facile lettura. Poi, come ci lasceremo alle spalle il limite
estremo della vegetazione, il lettore si troverà a poco a poco assediato da difficoltà non imputabili a
noi: sono le difficoltà inerenti a una scienza che fu fondamentalmente tenuta segreta, e in modi tali che
noi non riusciamo bene a immaginare. Ma la difficoltà maggiore deriva dal fatto che non abbiamo potuto
far uso della nostra tradizionale logica catenaria, così semplice e onesta, in cui prima si pongono i
princìpi e poi segue la deduzione. Non così facevano i pensatori arcaici; essi pensavano invece in un
modo paragonabile forse alla fuga musicale, dove tutte le note non possono esser costrette entro
un'unica scala melodica, dove si viene tuffati in medias res e si deve seguire l'ordine temporale creato
dai loro pensieri. È nella natura della musica, dopotutto, che le note non possano essere suonate tutte
assieme. L'ordine e la sequenza, il significato stesso della composizione, si riveleranno - con la pazienza
- a tempo debito. Il lettore, suggerirei, dovrà porsi nell'antico «Ordine del Tempo».
Nel Troilo e Cressida la medesima idea viene espressa con un'immagine diversa: «Chi vuole aver
focaccia dal frumento, deve aspettare con pazienza la macinatura».
GIORGIO DE SANTILLANA
Introduzione
Ι vincoli infrangibili che legarono il Gran
Lupo Fenrir erano stati astutamente forgiati
dalle seguenti cose: rumor di passo di gatto,
radici di montagna, barba di donna, respiro
di pesce, sputo di uccello.
Edda
Toute vue des choses qui n'est pas étrange
est fausse.
PAUL VALÉRY
Questo lavoro intende essere semplicemente un saggio: una prima perlustrazione di un regno quasi mai
esplorato e registrato sulle carte. Da qualunque parte vi si penetri, si rimane prigionieri della stessa
sconcertante complessità circolare, come all'interno di un labirinto: esso non possiede, infatti, un
ordine deduttivo in senso astratto, ma assomiglia piuttosto α un organismo tenacemente racchiuso in sé
o, meglio ancora, α una monumentale « Arte della fuga ».
La figura di Amleto come punto di partenza propizio si presentò per caso. Molte altre vie si offrivano,
ricche di simboli strani e allettanti per le loro immagini grandiose; ma la scelta cadde, su Amleto perché
fu lui α guidare la mente in una ricerca veramente induttiva attraverso un paesaggio familiare - un
paesaggio che, oltretutto, ha il merito della sua ambientazione letteraria. Abbiamo, in Amleto, un
personaggio presente nel fondo della nostra consapevolezza, le cui ambiguità e incertezze, la cui
tormentata introspezione e spassionata penetrazione intellettuale presagiscono lo spirito moderno. Il
suo dramma è stato di dover essere un eroe cercando al tempo stesso di sottrarsi al ruolo assegnatogli
dal Destino. Il suo lucido intelletto è rimasto al di sopra del conflitto dei moventi: la sua, insomma, era
ed è una coscienza veramente contemporanea. Eppure questo personaggio, che il poeta ha reso uno di
noi, il primo degli intellettuali infelici, nascondeva un passato di essere leggendario con lineamenti
predeterminati, preformati da miti annosi. Amleto era circondato da un'aura numinosa, a lui
conducevano molti indizi. Fu tuttavia una sorpresa trovare dietro la maschera una potenza cosmica
antica che tutto abbracciava: l'originario signore della vagheggiata prima età del mondo.
Eppure, in tutti i suoi aspetti egli è rimasto stranamente se stesso. L'Amlόδi originale - tale era il suo
nome nella leggenda islandese - manifesta le stesse caratteristiche di malinconia e di elevato intelletto;
anch'egli è un figlio votato alla vendetta del padre, un proferitore di enigmatiche ma inevitabili verità,
uno sfuggente portatore di Fato che, una volta compiuta la sua missione, deve cedere le armi e
ridiscendere nell'occultamento degli abissi del tempo ai quali appartiene: Signore dell'Età dell'Oro, Re
nel Passato e nel Futuro.
Questo saggio ne seguirà la figura in regioni sempre più lontane, da quelle nordiche a Roma, da lì alla
Finlandia, all'Iran e all'India; lo ritroverà in modo inequivocabile nelle leggende polinesiane. Molte altre
Dominazioni e Potestà si materializzeranno per inquadrarlo nel giusto ordine.
Nelle rozze e vivide immagini delle popolazioni scandinave Amlόδi si distingueva per il possesso di un
mulino favoloso dalla cui macina ai suoi tempi uscivano pace e abbondanza. Più tardi, in tempi di
decadenza, il mulino macinò sale; ora infine, essendo caduto in fondo al mare, macina le rocce e la
sabbia creando un vasto gorgo, il Maelstrom («la corrente che macina », dal verbo mala, « macinare »),
ritenuto una delle vie che conducono alla terra dei morti. Questo nucleo di immagini, come rivela una
serie di fatti, rappresenta un processo astronomico, lo spostamento secolare del sole attraverso i segni
dello zodiaco che determina le età del mondo, assommanti ciascuna a migliaia di anni. Ogni età porta con
sé un'Era del mondo, un Crepuscolo degli Dei: le grandi strutture crollano, vacillano i pilastri che
sostenevano la grande fabbrica, diluvi e cataclismi annunziano il plasmarsi di un mondo nuovo.
Altrove, l'immagine del mulino e del suo proprietario ha ceduto il posto a immagini più sofisticate, più
aderenti agli eventi celesti. Nella mente grandiosa di Platone, la figura si stagliava come il Dio Artefice,
il Demiurgo, che ha plasmato i cieli; ma neppure Platone sfuggì all'idea che aveva ereditato, di
catastrofi e di una periodica ricostruzione del mondo.
La tradizione dimostrerà che le misure di un nuovo mondo dovevano essere tratte dalle profondità
dell'oceano celeste e intonate alle misure provenienti dall'alto, dettate da quelli che in India e altrove
sono chiamati i « Sette Sapienti », e che sono poi le Sette Stelle dell'Orsa, punto di riferimento
obbligato in tutti gli allineamenti cosmologici sulla sfera stellata. Queste stelle dominatrici
dell'estremo Nord sono legate in modo singolare ma sistematico con quelle che vengono considerate le
potenze operative del cosmo, cioè i pianeti, nel corso del loro moto in diverse disposizioni e
configurazioni lungo lo zodiaco. Gli antichi pitagorici, nel loro linguaggio cifrato, chiamavano le due Orse
« mani di Rea », la Signora del Cielo ruotante, e i pianeti « cani di Persefone », la Regina degli Inferi.
Lontano, verso sud, la misteriosa nave Argo con la sua stella Pilota reggeva gli abissi del passato,
mentre la Galassia era il « ponte » che conduceva fuori del Tempo. Queste nozioni sembrano essere
state dottrina comune nell'età precedente la storia, e in tutta la fascia delle civiltà superiori intorno al
nostro globo; sembra anche che siano nate dalla grande rivoluzione intellettuale e tecnologica del tardo
Neolitico.
L'intensità e la ricchezza, nonché la coincidenza di particolari in questo stratificarsi di riflessioni
hanno portato alla conclusione che tutto ebbe origine nel Vicino Oriente. È evidente che questo fatto
indica una diffusione delle idee in un ambito troppo vasto perché la cosa possa essere tranquillamente
accettata dall'antropologia contemporanea. Ma questa scienza, pur avendo dissotterrato una
meravigliosa profusione di particolari, è stata indotta dalla sua moderna tendenza evoluzionistica e
psicologica a dimenticare la fonte principale del mito, cioè l'astronomia, la Scienza Regale, un oblio che
è anch'esso un evento recente, non più antico di un secolo. Oggi, esperti filologi ci dicono che Saturno e
Giove sono nomi di divinità vaghe, sotterranee o atmosferiche, sovraimposte ai pianeti in epoca
«tarda»; essi distinguono accuratamente origini popolari e derivazioni « tarde », ignari tutti quanti del
fatto che i periodi planetari, siderali e sinodici erano noti e ripetuti in molti modi con celebrazioni già
tradizionali in epoca arcaica. Lo studioso che di questi periodi non è mai arrivato a sapere nemmeno
quanto si impara nel più elementare corso di scienze non è nella posizione migliore per riconoscerli
quando compaiono nel suo materiale.
Gli storici antichi sarebbero rimasti inorriditi se avessero saputo che cose evidentissime sarebbero
finite col passare inosservate. Aristotele era fiero di affermare come fatto noto che gli dèi erano
originariamente astri, anche se successivamente la fantasia popolare aveva offuscato tale verità. Per
quanto poco credesse nel progresso, sentiva che questo, almeno, era un dato acquisito per i tempi
futuri. Mai si sarebbe immaginato che W.D. Ross, suo odierno curatore, avrebbe annotato con
degnazione: «Ciò è storicamente falso ». Eppure noi sappiamo che Saturday e sabato avevano a che fare
con Saturno, così come Wednesday e mercoledì avevano a che fare con Mercurio; simili nomi sono
antichi quanto il tempo, indubbiamente altrettanto antichi quanto l'eptagramma planetario di Harrān, e
risalgono a tempi assai più lontani di quelli raggiunti dalla filologia greca del professor Ross. Le indagini
di grandi e meticolosi studiosi come Ideler, Lepsius, Chwolson, Boll e, risalendo ancora più indietro, di
Athanasius Kircher e di Denys Petau, se solo fossero state lette attentamente e ricordate, avrebbero
impartito molte lezioni utili agli storici delle civiltà; l'interesse invece si è spostato su altre mete, come
dimostra l'antropologia contemporanea, che si è costruita la propria idea del “ primitivo ” e di quanto è
venuto in seguito.
In quella che è la meno scientifica delle testimonianze, la Bibbia, si legge ancora che Dio dispose ogni
cosa secondo numero, peso e misura; testi cinesi antichi dicono che « tra il calendario e le altezze dei
suoni dei flauti rituali c'è un accordo così perfetto che non potresti infilarvi in mezzo nemmeno un
capello ». Sono frasi che la gente legge senza darvi alcuna importanza. Eppure, questi indizi potrebbero
rivelare un mondo di complessità vasta e saldamente stabilita, infinitamente diverso dal nostro; oggi,
invece, gli esperti sono ottenebrati dalla fantasia popolare corrente, dalla convinzione, cioè, che queste
sono tutte cose ormai superate - e si tratta di critici serissimi ed estremamente saggi.
Nel 1959 scrissi:
« Sulle rovine di questa grande costruzione arcaica mondiale si era posata la polvere dei secoli quando i
greci entrarono in scena; pure, qualcosa di essa sopravviveva nei riti tradizionali, nei miti, nei racconti
fiabeschi non più capiti. Intesa alla lettera, essa fece maturare i culti sanguinari rivolti a procurare la
fertilità, fondati sulla credenza in un'oscura forza universale di natura ambivalente, cosa che oggi
sembra monopolizzare i nostri interessi. Eppure i suoi temi originari potevano ancora mandare lampi di
luce, conservati quasi intatti, anche a distanza di tempo, nel pensiero dei pitagorici e di Platone.
« Questi, tuttavia, sono i frammenti di un tutto che è andato perduto, seducenti e sfuggenti insieme;
fanno pensare a quei " paesaggi di nebbia " di cui sono maestri i pittori cinesi, che mostrano qui un
masso, lì il timpano di un tetto, laggiù la cima di un albero, lasciando il resto all'immaginazione. Anche
quando il codice sarà stato decifrato e le tecniche ci saranno note, non potremo pretendere di misurare
il pensiero di quei nostri lontani antenati, avviluppato com'è nei suoi simboli.
Non più si odono le loro parole
per le molte età trascorse... ».
Noi riteniamo di avere ora decifrato in parte questo codice. Il pensiero che sta dietro quelle grandi età
remote è anch'esso eccelso, nonostante la stranezza delle sue forme. La teoria su « come ebbe inizio il
mondo » sembra comportare lo spezzarsi di un'armonia, una sorta di « peccato originale » cosmogonico
per effetto del quale il cerchio dell'eclittica (assieme allo zodiaco) venne inclinato rispetto all'equatore
e ne nacquero i cicli del mutamento.
Non si vuole con ciò suggerire che questa cosmologia arcaica rivelerà grandi scoperte in campo fisico,
anche se richiese prodigiosi sforzi di concentrazione e di calcolo; piuttosto, essa delineò l'unità
dell'universo (e della mente umana) spingendosi verso i suoi più lontani confini. In verità, oggi l'uomo sta
facendo la stessa cosa.
Einstein ha detto: « Ciò che è inconcepibile, dell'universo, è che esso sia concepibile ». L'uomo non si
arrende. Quando scopre milioni e milioni di remote galassie, e poi le radiosorgenti quasistellari distanti
miliardi di anni luce che sopraffanno la sua mente, egli è felice di poter attingere simili profondità. Ma
paga un prezzo terribile per i suoi successi. La scienza dell'astrofisica si protende su ordini di
grandezza sempre più vasti senza perdere il proprio punto di appoggio; all'uomo in quanto tale ciò non è
possibile: nelle profondità dello spazio egli perde se stesso e ogni senso della propria importanza.
Collocarsi entro i concetti dell'odierna astrofisica gli è impossibile, se non nella schizofrenia. L'uomo
moderno sta affrontando il non concepibile; l'uomo arcaico, invece, manteneva una salda presa sul
concepibile inquadrando nel proprio cosmo un ordine temporale e un'escatologia che avevano un senso
per lui e riservavano un destino per la sua anima. Eppure, era una teoria straordinariamente vasta, che
nulla concedeva a sentimenti meramente umani; anch'essa dilatava la mente oltre i limiti del tollerabile,
ma non distruggeva il ruolo dell'uomo nel cosmo. Era una metafisica spietata.
Non era un universo clemente, un mondo di misericordia, decisamente no. Inesorabile come le stelle nel
loro corso, miserationis parcissimae, dicevano i romani. Eppure, in un certo qual modo, era un mondo non
immemore dell'uomo, un mondo dove ogni cosa trovava, di diritto e non solo statisticamente, il suo posto
riconosciuto, dove nemmeno la caduta di un passero andava inosservata e dove anche ciò che veniva
respinto per errore proprio non sprofondava nella perdizione eterna; perché l'ordine del Numero e del
Tempo era un ordine totale che tutto conservava e a cui tutti - dèi, uomini e animali, alberi e cristalli,
gli stessi assurdi astri vaganti - appartenevano, tutti soggetti a legge e misura.
Questo è quanto era noto a Platone, che sapeva ancora parlare la lingua del mito arcaico; nel costruire
la prima filosofia moderna, egli rese il mito consono al proprio pensiero. Noi abbiamo accolto con fiducia
i suoi indizi come punti di riferimento anche là dove egli dichiara di esprimersi « non del tutto
seriamente ». Platone ci ha dato una prima norma empirica, ed egli sapeva quel che diceva.
Dietro Platone si erge il corpus imponente delle dottrine attribuite a Pitagora, di grezza formulazione
in parte, eppure ricche del contenuto prodigioso della matematica primitiva, pregne di una scienza e di
una metafisica destinate a sbocciare ai tempi di Platone; da qui provengono parole come « teorema »,
«teoria» e « filosofia ». Tutto ciò poggia, a sua volta, su quella ché potremmo definire una fase protopitagorica, diffusa in tutto l'Oriente, ma con punto focale a Susa. Ε infine, c'era dell'altro ancora: il
severo calcolo numerico dei babilonesi. Da tutto ciò deriva lo strano principio che «le cose sono
numeri».
Una volta afferrato il filo che risale indietro nel tempo, la prova delle dottrine più tarde e dei loro
sviluppi storici sta nella loro congruenza con una tradizione conservatasi intatta anche se compresa solo
a metà. Vi sono infatti semi che si propagano lungo le correnti del tempo.
Ε l'universalità, quando è unita a un disegno preciso, è già da sola una prova. Quando, per esempio, un
elemento presente in Cina compare anche in testi astrologici babilonesi, lo si deve considerare
pertinente, poiché rivela un complesso di immagini insolite cui nessuno potrebbe attribuire una genesi
indipendente per generazione spontanea.
Prendiamo l'origine della musica. Orfeo e la sua morte straziante potrebbero essere una creazione
poetica sorta ripetutamente in luoghi diversi. Ma quando personaggi che suonano non la lira, ma il flauto,
finiscono scorticati vivi per motivi assurdi di varia specie, e quando la loro identica fine viene ripetuta e
rievocata in diversi continenti, allora sentiamo di aver messo le mani su qualcosa, poiché racconti simili
non possono essere collegati per sequenza interna. Ε quando il Pifferaio Magico compare sia nel mito
medioevale tedesco di Hamelin sia nel Messico, in età di molto anteriore alla Conquista, e in entrambi i
luoghi è connesso con certi attributi come il colore rosso, è ben difficile che si tratti di una
coincidenza. Di solito sono assai poche le cose che penetrano nella musica per puro caso.
Così pure non è accidentale che numeri come 108, oppure 9 Χ 13 si trovino, ripetuti in vari multipli, nei
Veda, nei templi di Angkor, a Babilonia, negli oscuri detti di Eraclito e anche nella Valhöll norrena.
Vi è un modo per controllare i segnali così sparsi negli antichi dati, nelle tradizioni, nelle favole, nei
testi sacri. Ι materiali di cui ci siamo serviti come fonti potranno sembrare strani e disparati, ma il
vaglio è stato accorto e aveva ragioni sue, che esporremo più avanti nel capitolo sulla metodologia.
Potrei definirlo una morfologia comparata: il serbatoio dei miti e delle fiabe è assai vasto, ma esistono
“segnacoli” morfologici per tutto ciò che non è semplice narrazione di tipo spontaneo. Inoltre, presso i
primitivi “secondari”, quali gli amerindi e gli indigeni dell'Africa occidentale, si trova materiale arcaico
meravigliosamente ben conservato. Abbiamo infine racconti cortesi e annali dinastici che sembrano
romanzi: il Feng-shen Υan-yi, il giapponese Nihongi, lo hawaiano Kumulipo, che non sono soltanto, favole
infarcite di credenze fantastiche.
Quali sono le informazioni che, in tempi duri e perigliosi, un uomo di buona famiglia dovrebbe affidare al
primogenito? Indubbiamente l'albero genealogico, ma poi? Il ricordo di un'antica nobiltà è il modo per
preservare gli arcana imperii, gli arcana legis e gli arcana mundi, così come lo era nell'antica Roma:
questa è la saggezza della classe dominante. Ι canti polinesiani insegnati nei riservatissimi wharewānanga erano in gran parte astronomia: questo è quanto allora s'intendeva per educazione liberale.
Altra grande fonte sono i testi sacri. Nell'attuale èra della carta stampata si è tentati di vederli come
mere sortite religiose nel campo dell'omiletica, ma in origine essi rappresentavano una forte
concentrazione di attenzione su materiali distillati per la loro importanza nel corso di un lungo periodo
di tempo, e considerati degni di essere imparati a memoria generazione dopo generazione. La tradizione
druidica celtica veniva trasmessa non solo mediante canti, ma anche attraverso una dottrina dell'albero
molto simile a un codice; in Oriente, da giochi complessi fondati sull'astronomia si sviluppò una specie di
stenografia che divenne poi l'alfabeto.
A mano a mano che seguiamo gli indizi - stelle, numeri, colori, piante, forme, poesia, musica, strutture scopriamo l'esistenza di una vastissima intelaiatura di rapporti che interessa molti livelli. Ci si trova
all'interno di una molteplicità riecheggiante, ove ogni cosa reagisce e ha un suo luogo e un suo tempo
stabilito. È un vero e proprio edificio, una specie di matrice matematica, un'Immagine del Mondo che
s'accorda a ognuno dei molti livelli, regolata in ogni sua parte da una rigorosa misura. È la misura a
fornire la controprova; molte cose, infatti, possono essere identificate e ricombinate in base a regole
analoghe al vecchio detto cinese sui flauti rituali e il calendario. Quando parliamo di misure, ciò che le
fornisce è sempre una qualche forma di Tempo, a partire dalle due misure fondamentali, l'anno solare e
l'ottava, e di lì, attraverso molti periodi e intervalli, giù giù fino ai pesi e alle dimensioni in senso
stretto. Ciò che venne tentato dall'uomo moderno con la mera convenzione del sistema metrico ha
precedenti arcaici di grande complessità. Da un secolare passato giunge l'eco dello stupore di al-Birūnī,
principe tra gli scienziati, allorché scoprì, mille anni orsono, che gli indiani, ormai divenuti astronomi
mediocrissimi, calcolavano aspetti ed eventi servendosi degli astri, ma non erano in grado di indicargli
una sola delle stelle che lui voleva. Le stelle per loro erano diventate puri oggetti di calcolo, così come lo
sarebbero diventate per Le Verrier e Adams, che mai nella loro vita si preoccuparono di osservare
Nettuno sebbene lo avessero calcolato e scoperto nel 1847. Un simile atteggiamento sembra fosse
anche dei maya e degli aztechi, con i loro calcoli senza fine: solo i rapporti contavano. In definitiva era
così anche nell'universo arcaico, dove tutte le cose erano segni e segnature l'una dell'altra, iscrizioni
nell'ologramma, da divinarsi con sottigliezza. Ε su tutte dominava il Numero (vedi l'Appendice 1).
Questo mondo antico si fa un po' più vicino se si pensa a due grandi personaggi di transizione, che
furono ad un tempo arcaici e moderni nelle loro abitudini di pensiero. Il primo è Keplero, che con i suoi
calcoli instancabili e la sua appassionata devozione al sogno di riscoprire l'« Armonia delle Sfere »
apparteneva all'ordine antico. Ma egli fu un uomo del suo tempo, e anche del nostro, allorché il suo
sogno incominciò a prefigurare la polifonia che doveva condurre a Bach. In modo in un certo senso
analogo, la nostra visione del mondo rigidamente scientifica trova la sua controparte in ciò che lo
storico della musica John Hollander ha chiamato la « Scordatura del Cielo ». Il secondo personaggio di
transizione non è altri che Sir Isaac Newton, l'iniziatore addirittura della concezione rigorosamente
scientifica. Fare riferimento a Newton a questo proposito non è poi così paradossale. John Maynard
Keynes, che ben conosceva Newton, disse di lui:
« Newton non fu il primo dell'Età della Ragione, bensì l'ultimo dei maghi, l'ultimo dei babilonesi e dei
sumeri, l'ultima mente eccelsa che guardò il mondo visibile e intellettuale con gli stessi occhi di coloro
che incominciarono a costruire il nostro mondo intellettuale un bel po' meno di diecimila anni fa [...].
Perché lo chiamo un mago? Perché guardava all'intero universo e a tutto quanto è in esso come a un
enigma, a un segreto che poteva esser letto applicando il pensiero puro a certi fatti, certi mistici indizi
che Dio aveva posto qua e là nel mondo affinché la confraternita esoterica potesse cimentarsi in una
sorta di caccia al tesoro filosofica. Egli credeva che questi indizi fossero rintracciabili in parte nei
fatti celesti e nella costituzione degli elementi (dal che deriva la falsa impressione che egli fosse un
fisico sperimentale), ma in parte anche in certi documenti e tradizioni passati di mano in mano in una
catena ininterrotta di iniziati che risaliva fino alla rivelazione originaria, manifestatasi a Babilonia in
linguaggio cifrato. Newton considerava l'universo come un crittogramma apprestato dall'Onnipotente,
così come egli stesso, corrispondendo con Leibniz, avvolse in un crittogramma la scoperta del calcolo
infinitesimale. L'enigma si sarebbe svelato all'iniziato mediante l'applicazione del pensiero puro e della
concentrazione mentale ».3
Il giudizio di Lord Keynes, scritto verso il 1947, è a un tempo anticonformista e profondo. Keynes
sapeva - noi tutti sappiamo - che Newton non era riuscito nel suo intento, che era stato fuorviato dai
suoi ostinati pregiudizi settari. Ma, come si comincia a scoprire solo ora, dopo due secoli di studi su
molte civiltà di cui egli non poteva sapere nulla, la sua impresa partecipava veramente dello spirito
arcaico. Ai pochi indizi da lui scoperti con rigore di metodo se ne sono aggiunti molti altri, ma lo stupore
rimane, quello stesso stupore manifestato dal suo grande predecessore, Galileo:
3
Keynes, 1947, p. 29.
« Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s'immaginò di
trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per
lunghissimo intervallo di luogo e tempo? Parlare con quelli che son nell'Indie, parlare a quelli che non
sono ancora nati, né saranno se non di qua a mille e diecimila anni? E con qual facilità? Con i vari
accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta. Sia questo il sigillo di tutte le ammirande invenzioni
umane ».
Molto tempo addietro, nel VI secolo d.C., Gregorio di Tours scriveva: « La lama della mente ha perso il
suo filo, a stento comprendiamo gli Antichi ». Ciò è tanto più valido oggi, nonostante il nostro sguazzare
nella matematica per le masse e nell'alta tecnologia.
Non si può negare che, pur con tutti gli sforzi dei nostri Dipartimenti di Lettere Antiche, l'appassire
degli studi classici e l'abbandono di ogni viva dimestichezza con il greco e il latino abbiano reciso
l'όμΦaλόεσσα, il cordone ombelicale che collegava la nostra civiltà - almeno al livello più alto - con la
Grecia, proprio come gli appartenenti alla tradizione pitagorica e orfica si ricollegavano, attraverso
Platone e pochi altri, con il più antico Vicino Oriente. Si incomincia a capire che tale distruzione sta
conducendo a un modernissimo Medioevo, assai peggiore del primo. «Fermate il mondo, voglio
scendere!» dirà la gente con un risolino, ma ormai è fatta: questo è ciò Che succede quando viene
manomessa - non importa da chi - quella conoscenza riservata a pochi che la scienza è e intendeva
essere.
Ma, come disse Goethe all'alba dell'Età del Progresso, « Noch ist es Tag, da rühre sich 'der Μann! /
Die Nacht tritt ein, wo niemand wirken kann » (« Ancora è giorno, l'uomo si dia da fare! / Viene la
notte, in cui nessuno può operare »)*. È forse possibile che dal passato irrimediabilmente condannato e
calpestato venga ancora una volta un qualche "Rinascimento" in cui certe idee ritorneranno a vivere; e
noi non dobbiamo privare i figli dei nostri figli dell'ultima possibilità di entrare in possesso dell'eredità
che ci viene dai tempi più antichi e più lontani. Ε se, come appare infinitamente probabile, anche
quest'ultima possibilità verrà ignorata nel tumulto del progresso, ebbene, si potrà almeno credere
ancora, col Poliziano, anch'egli sublime umanista, che vi saranno uomini le cui menti troveranno rifugio
nella poesia, nell'arte e nella santa tradizione che sole liberano l'uomo dalla morte e lo volgono
all'eternità, fintanto che le stelle continueranno a brillare su di un mondo ridotto per sempre al
silenzio. A noi, ora, resta ancora un po' di luce per intraprendere questa prima breve perlustrazione.
Essa dovrà forzatamente trascurare aree vaste e importanti; ciò nondimeno, esplorerà molti sentieri e
recessi inaspettati del passato.
segue ……… da pag. 35
*
Divano occidentale-orientale, trad. it. di F. Borio, Torino, Boringhieri, 1959.
1. Il racconto del cronista
... o tu dai mutevoli intenti, Titano senza
macchia dalla grande forza, che tutto consumi
e di nuovo accresci, tu che tieni il vincolo
infrangibile secondo l'infinito ordinamento
dell'Eone, scaltro, iniziatore della generazione,
dal consiglio tortuoso.
Inni Orfici, 13
segue ……… da pag. 36