Ignazio Silone Fontamara

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Ignazio Silone Fontamara
FONTAMARA
Prefazione
Gli strani avvenimenti che vengono narrati si svolgono a Fontamara, un misero paesino montano della Marsica,
negli Abruzzi, abitato da contadini, a nord del prosciugato Lago del Fucino. Fontamara è un paesino arretrato, un
accumulo di casette malconce ad eccezione delle case di piccoli proprietari terrieri e di un palazzo cadente e deserto.
Su tutti domina la chiesetta col campanile e la piazzetta attraversata dall’unica strada carrabile. Ma questo per i
fontamaresi era tutto il loro mondo, dove il tempo era scandito dalle solite cose, l’ingiustizia e la miseria
sembravano elementi naturali e nessuno aveva mai pensato che qualcosa potesse cambiare. La società si divideva in
due: poveri ( piccoli proprietari e artigiani ) e poverissimi ( i cafoni senza terra ). Sogno dei cafoni era salire questa
scala sociale anche a costo di immani sacrifici sopportati in silenzio, ma pronti a riaccendere liti furiose che durano
da generazioni non appena c’è una briciola da spartire. Briciola che di solito se ne va per pagare gli avvocati,
secondo una vecchia legge di Fontamara per cui i risparmi dei mesi buoni se ne vanno subito in autunno. Il
prosciugamento del lago del fucino aveva definitivamente inaridito la montagna e ore si praticava una agricoltura di
sopravvivenza. Le terre emerse dal lago erano certo fertilissime, ma appartengono tutte ai principi di Torlonia giunti
dalla Francia. I Torlognes si arricchirono speculando, prima col Regno di Napoli, poi con i Savoia e i fontamaresi
assistettero a tali soprusi col solito distacco e torpore: era una cosa naturale. Questo fino allo scorso anno, quando
accaddero una serie di avvenimenti che sconvolsero Fontamara. Chi vi scrive era diffidente, costretto da anni
all’esilio non ero certo che ciò che si udiva corrispondesse alla verità, finché una sera giunsero a casa mia tre
fontamaresi, un vecchio, sua moglie e il figlio. Raccontarono per tutta la notte fino all’alba; questo libro è il frutto
dei fatti da loro narrati. Due avvertenze. Qui si spazza via l’immagine gioiosa, folcloristica e musicale del meridione
d’Italia, i contadini sono vestiti di stracci, la loro terra è arida e non cantano mai, piuttosto bestemmiano per
esprimere ogni sentimento, anche religioso, e senza fantasia: sempre gli stessi santi. La seconda avvertenza e che per
i fontamaresi l’italiano è una lingua straniera, imparata a scuola e non può che esprimere goffamente il pensiero.
Anche questo romanzo è il frutto di una traduzione dal fontamarese all’italiano.
Capitolo I°
Il primo giugno dello scorso anno fu tolta la luce elettrica a Fontamara. I fontamaresi si riabituarono subito,
rassegnati, al chiaro di luna. Per loro la luce elettrica era sempre stata qualcosa di naturale e come tale nessuno la
pagava. Persino il cursore comunale, Innocenzo la Legge, non portava più le bollette, visto che l’ultima volta aveva
rischiato una schioppettata. I primi ad accorgersi che la luce elettrica fu tolta fummo noi che tornavamo da fuori
paese. Per i ragazzi fu motivo di baldoria; per il generale Baldissera, il ciabattino del paese, fu motivo di bestemmie,
al buio i ragazzi gli avevano confuso tutti gli attrezzi. Ci fermammo alla cantina di Marietta con altri avventori.
Intanto arrivò in bicicletta un forestiero, giovane, elegante, tutti pensammo che fosse lì per una nuova tassa: forse sul
chiaro di luna? Ci chiese della vedova dell’Eroe Sorcanera. Marietta era là, incinta, il marito morto in guerra le
aveva lasciato una medaglia e una pensione e lei non si era più risposata per non perderla. Quando il forestiero
cominciò a parlare si capì che proveniva dalla città, si capiva poco di quello che diceva. A un certo punto disse a me
di firmare un foglio in bianco ( ecco la tassa! ), e al mio tentennare e a quello degli altri cafoni andò su tutte le furie.
Rassegnato, disse che non ci capivamo: raramente un cittadino e un cafone si capiscono. Allora ci mostrò meglio i
fogli accendendo un fiammifero e facendoci notare che erano veramente bianchi e non scritti come quelli delle tasse.
C’era solo una breve scritta in alto che diceva che noi avevamo spontaneamente lasciato quelle firme al Cavalier
Pelino. Il forestiero ci assicurò che Pelino era lui e che si trattava di una petizione al governo, ci spiegò che
finalmente i cafoni venivano rispettati, ma c’era bisogno di molte firme. Impressionati dalle parole iniziammo a
firmare e vista l’ora tarda, per non disturbare gli altri fontamaresi, Pelino chiese e ottenne che gli dettassimo noi i
loro nomi. A un certo punto Pelino notò qualcosa sul tavolo e gridò dallo schifo, Marietta prese l’insetto, lo esaminò
e gettandolo a terra disse che era di una nuova specie. Michele Zompa, colpito dalla notizia, ci ricordò che Dio
aveva stabilito che apparisse una nuova specie di pidocchi dopo ogni rivoluzione, ed era turbato perché aveva fatto
un sogno, il giorno dopo la predica in cui il curato disse che il papa, fatta pace col governo, avrebbe ottenuto molto
per i cafoni, che ora pareva realizzato. Sognò che il papa parlava col crocifisso di cosa dare ai cafoni: Gesù propose
di dare loro la terra, ma il papa rispose che il Principe, buon cristiano, non avrebbe voluto. Allora Gesù propose di
abolire le tasse, ma il papa rispose che i governanti, buoni cristiani, non sarebbero stati d’accordo. Allora Gesù disse
di mandare un buon raccolto, ma il papa, si mostrò preoccupato per il conseguente ribasso dei prezzi e per gli
svantaggi che ciò avrebbe portato ai commercianti, anch’essi buoni cristiani. Il Papa propose allora di visitare il
Fucino per farsi venire un’idea; davanti Cristo con la bisaccia e dietro il papa che poteva prendere da essa ciò che
serviva ai cafoni. Ma vedendoli litigare e bestemmiare, turbato, prese una manciata di pidocchi di nuova specie e la
gettò sulle case dei cafoni perché potessero grattarsi, distogliendosi dal peccato nei momenti di ozio. Pelino, udito il
racconto si infuriò perchè pensava che ci stessimo prendendo gioco di lui, che era un’autorità e ci chiese se
conoscessimo le gerarchie, parola che dovette spiegarci. Allora Michele spiegò che sopra tutti c’è Dio, padrone del
cielo, poi il Principe Torlonia, padrone della terra, poi le guardie del Principe, poi i cani di queste. Poi nulla. Poi
nulla. Poi ancora nulla. Poi venivano i cafoni. Il pelino se ne andò infuriato e anche noi tornammo a casa. Nel buio
incontrammo Berardo che stava mirando coi sassi i lampioni: tanto le lampade senza la luce non servono più.
Capitolo II°
Il giorno successivo Fontamara fu in subbuglio perché alcuni cantonieri furono sorpresi mentre deviavano l’unico
corso d’acqua che passava dal paese, verso il podere di Don Carlo Magna, un signorotto della zona. Lo chiamavano
così perché a chi chiede di lui la serva risponde:”Don Carlo? Magna”. E chiama la moglie che è la vera padrona. Al
momento si pensò a uno scherzo come quella volta che col paese a festa per il presunto arrivo del nuovo curato
alcuni ragazzi dei paesi vicini ci recapitarono un asino vestito con paramenti sacri; ma stavolta non era così. Visto
che gli uomini erano al lavoro, dovettero provvedere alla faccenda le donne; spronate da Marietta misero in fuga i
cantonieri e poi si diressero, sotto il sole cocente, al comune del capoluogo dove giunsero a mezzogiorno imbiancate
di polvere. All‘arrivo in città, dopo i primi attimi di scompiglio, una guardia campestre e alcuni cittadini iniziarono a
schernirle e, giunta l’ora di pranzo le lasciarono sole in piazza col conforto di una fontana che “misteriosamente”
smetteva di zampillare non appena le donne si avvicinavano per bere. Giunse un manipolo di carabinieri che
chiesero il motivo della presenza delle cafone e spiegata la loro intenzione di parlare al sindaco di una grave
ingiustizia, fecero infuriare il maresciallo poichè i sindaci non esistevano più e ora si chiamavano podestà. I
carabinieri le accompagnarono alla casa del nuovo podestà, un ricco romano da tutti conosciuto come l’Impresario,
che aveva fatto soldi speculando sui prodotti di quelle terre appoggiato da una banca. Giunti alla villa furono accolte
sgarbatamente dalla moglie dell’Impresario, impegnata nella festa per la nuova nomina del marito, che le spedì
allora alla fabbrica di mattoni dove alcuni operai dissero che l’Impresario non era più lì e che comunque era inutile
cercare di trattare col “diavolo”. Esasperate dalla stanchezza alcune litigarono sul da farsi, ma Marietta prese in
mano la situazione e si diressero verso la casa di Don Carlo Magna. Furono accolte dalla moglie, Donna Clorinda,
detta il corvo, perché era sempre vestita di nero, e questa spiegò loro che le terre dove si voleva dirigere l’acqua
erano diventate dell’Impresario, un furfante che “ ci avrebbe mangiati vivi”. Decisero allora di tornare alla villa
dell’Impresario e lo aspettarono sedute davanti al cancello. Mentre all’interno i notabili del paese facevano festa
arrivò l’Impresario, vestito da lavoro, discutendo con alcuni operai e, viste le donne, scambiò con loro alcune battute
sgarbate e si avviò dentro casa. Dal balcone l’avvocato Don Circostanza chiese cosa succedeva e le donne lo
spiegarono. Don Circostanza, protettore e rovina dei Fontamaresi: tutte le loro liti (e i loro soldi ) finivano nelle sue
mani, insegnò a tutti gli analfabeti a scrivere il suo nome perché potessero votare solo per lui, e “manteneva in vita”
i defunti fontamaresi per lo stesso motivo imboscandosi i loro certificati di morte. L’interessamento dell’avvocato
rincuorò le donne, ma quando videro che gli invitati stavano per andarsene, si infuriarono e sbarrarono il cancello;
nel parapiglia generale giunse l’Impresario e con calma le fece accomodare nel giardino. Le donne spiegarono la
faccenda dell’acqua, ma l’Impresario chiamò il Segretario comunale che, ubriaco e tremante, spiegò mostrando dei
fogli ( quelli fatti firmare dal Cavalier Pelino )che non c’era ingiustizia essendoci una petizione firmata da tutti i loro
mariti, che affermava che “nell’interesse superiore della produzione l’acqua doveva essere deviata dall’arida
Fontamara al capoluogo”. Imbestialite dalla truffa, le donne minacciarono di mandare a fuoco la villa. Allora Don
Circostanza ristabilì la calma prendendo le loro difese contro i notabili e alla fine dell’intervento alcune donne gli
baciarono le mani commosse. Allora propose che, avendo i fontamaresi bisogno di più della metà dell’acqua del
ruscello, tre quarti di essa rimanesse a loro e tre quarti andasse all’Impresario, così tutti ne avrebbero più della metà
e fece preparare subito un documento che lo attestava. Alcune donne erano diffidenti, ma il foglio venne firmato
dall’Impresario e dall’avvocato Don Circostanza in qualità di rappresentante del popolo. Le donne tornarono a casa,
alcune dubbiose, ma soddisfatte, perché era stato tutto gratis.
Capitolo III°
Iniziarono i lavori dei cantonieri scortati dalle guardie e in paese non si parlava d’altro. Il più stizzito sembrava
Baldissera, il ciabattino. Brontolone, il più povero del paese, soffriva la fame, ma non voleva darlo a vedere e la
domenica si allontanava dal paese per poi tornare fingendosi sazio e ubriaco e raccontava di fantastiche liti con
personaggi importanti. Era tutto inventato, ma i compaesani non volevano togliergli questa sua unica soddisfazione.
Una sera arrivò per la questione dell’acqua anche Don Abbacchio, il curato, per avvertirci di non affrontare di nuovo
quel diavolo dell’Impresario. La questione dell’acqua per i fontamaresi era da sempre preminente e non esitavano a
zuffarsi per questo e spesso per sedare le risse, dovettero intervenire le guardie e Berardo Viola a fare da paciere.
Berardo Viola era il ragazzo più forte e rispettato dal paese, il nonno era stato l’ultimo grande brigante della zona,
morto impiccato, e il padre aveva lasciato a Berardo un buon pezzo di terra, ma lui l’aveva venduta a Don
Circostanza per andarsene in America dopo una lite. Berardo era intervenuto per sedare una rissa in cui era coinvolto
un amico, ma questo per discolparsi aveva denunciato Berardo ai carabinieri. Allora Berardo per l’offesa pensò di
emigrare e vendette la terra, pagò quelli che aveva picchiato e comprò il biglietto, ma una nuova legge contro
l’immigrazione lo bloccò in patria. Dopo i tentativi della madre Maria Rosa per convincere don Circostanza a
restituire la terra, esasperato provò Berardo e don Circostanza terrorizzato gli vendette un pezzo di terreno ai piedi
del monte. Berardo lavorò il doppio per dissodare la terra e ripagare il debito, ma dopo la prima semina piovve per
due mesi e una frana distrusse tutto il campo lasciando solo una specie di cratere. Berardo era il leader dei giovani
del paese, insegnava loro che era inutile discutere con le autorità cittadine, altrimenti si aveva sempre torto,
predicava la disobbedienza civile contro i signorotti del luogo, compiva ripetuti atti vandalici contro i paesi limitrofi
che schernivano i fontamaresi; si riuniva coi ragazzi dietro la chiesa o in una stalla in una specie di congrega di
giovani chiamata il Circolo Vizioso. Berardo amava Elvira, la ragazza più bella del paese ed è ricambiato, ma non la
chiede in moglie perchè si vergognava di non avere un pezzo di terra. Quando si sparse la voce che il cantoniere
Filippo il Bello la chiedeva in sposa, lo cercò e lo riempì di botte; da quel giorno nessuno osò più farle proposte. Un
giorno Maria Rosa e la donna che racconta gli avvenimenti ( una dei tre fontamaresi che stanno raccontando a
Silone, vedi prefazione ), zia di Elvira, vanno a casa della ragazza per saggiare le sue intenzioni, la trovano a curare
il padre infermo, la ragazza si mostra umile, ma molto decisa con Berardo. Intanto Berardo vuole recarsi a Roma in
cerca di lavoro, ma scopre che ci vuole “la tessera”: è scoppiata la guerra. Il giorno dopo arrivò Innocenzo La Legge
timoroso come al solito, portando due nuovi ordini del podestà vista la guerra: il primo imponeva il coprifuoco e i
fontamaresi si preoccuparono per l’irrigazione notturna e perché sarebbero arrivati tardi ai campi non potendo uscire
prima dell’alba. Innocenzo la Legge disse che non avevamo capito, lui doveva comunicarlo, ma i cafoni potevano
fare ciò che volevano. Il secondo ordine vietava di parlare nei locali pubblici di politica, siccome l’unico locale era
quello di Marietta, lei intervenne dicendo che nel suo locale non si era mai parlato di politica, ma solo di leggi, tasse
prezzi. Innocenzo la Legge disse che era proprio di quello che non si doveva parlare. Berardo allora concluse che
non si poteva più ragionare e raccolse il consenso di Innocenzo e lo convinse a riscrivere il cartello così: “ Per ordine
del Podestà sono proibiti tutti i ragionamenti”. Berardo stesso appese il cartello e minacciò chiunque lo avesse
toccato, Innocenzo la Legge avrebbe voluto abbracciarlo, ma fu frenato dalle sue spiegazioni. Berardo aveva sempre
sostenuto che coi padroni non si ragiona, perciò era d’accordo col podestà; il cafone era per Berardo un asino che
ragiona, per questo poteva essere ingannato, invece un asino non ragiona, non porterà mai un peso più grosso di
quello che ha deciso di portare, o di lavorare a digiuno. Innocenzo la Legge era atterrito e lo fu ancora di più quando
Berardo gli chiese cosa poteva impedire di accopparlo lungo la strada del ritorno, visto che neanche il ragionamento
sulle conseguenze dell’assassinio avrebbe ora potuto impedirlo. Innocenzo la Legge, terrorizzato, rimase a dormire
da Marietta, come altre volte.
Capitolo IV°
Alla fine di giugno Berardo portò la notizia che i cafoni sarebbero stati convocati ad Avezzano per le comunicazioni
del nuovo governo sulle terre del Fucino. Tutti erano speranzosi nel fatto che la terra venisse divisa fra chi la
coltivava. Un mattino giunse un camion a prendere i cafoni; il conducente chiese dove fosse la bandiera e i
fontamaresi andarono in chiesa a prendere lo stendardo di S. Rocco. Giunti al primo paese il conducente ordinò di
cantare l’inno, ma i fontamaresi non sapevano di cosa si trattasse, allora il conducente spiegò che quelli erano gli
ordini: al passaggio da ogni centro abitato dovevano cantare l’inno e dare segni di entusiasmo. Intanto si erano
incolonnati con altri carri e camion pieni di cafoni diretti ad Avezzano; alla vista dello stendardo di S.Rocco ci
furono risate e scherni: tutti i carri portavano bandiere nere con un teschio bianco. Giunse al camion don Abbacchio
con alcuni carabinieri, i fontamaresi pensavano che volesse difendere S.Rocco, ma urlò se fosse carnevale, e se
volessero compromettere i rapporti fra chiesa e stato e cosi ripiegarono lo stendardo. Furono condotti in piazza e fu
loro assegnato un posto all’ombra; cominciarono a giungere le autorità, il podestà, il ministro ecc, e fu ordinato a
tutti di gridare “ viva il podestà e gli amministratori onesti”. Poi gli fu ordinato di mangiare quello che avevano nella
bisaccia, ma tutti si chiedevano quando si sarebbe parlato della terra. Ma verso le due la scena si ripetè al contrario:
le autorità lasciavano il capoluogo. Sbigottito, Berardo ordinò ai fontamaresi di seguirlo al palazzo, ma giunti furono
fermati dalle guardie e scoppiò un tafferuglio che fu sedato dall’intervento di don Circostanza che li difese.
L’avvocato li fece accompagnare nel palazzo dove un impiegato con un falso sorriso spiegò che la questione del
Fucino era stata discussa dal Ministro e dal rappresentante dei cafoni, il Cav. Pelino, e si era deciso che la terra
sarebbe stata per chi aveva i mezzi ( soldi ) per coltivarla. Avviliti i fontamaresi lasciarono il palazzo e si diressero
al camion fra gli scherni di cittadini ubriachi, ma il camion era già partito; la cosa li lasciò indifferenti. Intanto
giunse un signore con baffi e capelli rossi e, invitati in un’osteria spiegò loro che avevano ragione di protestare e che
dovevano fare un’azione contro il governo, disse quindi di aspettarlo nell’osteria perchè avrebbe portato loro il
necessario. Quando fu lontano si avvicinò ai fontamaresi un ragazzo che li avvisò che quello era un poliziotto, un
provocatore che avrebbe portato loro dell’esplosivo per farli incolpare. Scapparono per i campi e il ragazzo li seguì
parlando di cose incomprensibili, finchè Berardo, infastidito, lo gettò in un fosso. Giunsero a casa a mezzanotte, alle
tre erano già svegli per la mietitura.
Capitolo V°
L’impresario fece costruire una staccionata attorno al tratturo ( sentiero per le greggi ) di cui si era impossessato, ma
una notte esso bruciò. Fu ricostruita a spese del comune e fu messo uno spazzino di guardia, ma bruciò di nuovo;
don Abbacchio disse che era opera del demonio, e l’Impresario, non potendo arrestare il demonio, fece arrestare lo
spazzino. Una sera, prima del ritorno degli uomini, giunsero a Fontamara alcuni camion e arrivati alla piazza dove si
erano radunate le donne, cominciarono a sparare contro la chiesa. Terrorizzate, scappavano, pregavano, e
riconobbero in quegli uomini con le camice nere altri cafoni della zona, oltre alla guardia campestre Filippo il Bello,
gente senza scrupoli, pronti a servire i ricchi per propri vantaggi; poveri, ma nemici dei poveri. Prima si accanirono
contro Teofilo, poi il capo ordino di frugare nelle case e sequestrare le armi prima dell’arrivo degli uomini; si
sentivano grida, rumori di mobili rovesciati; si capì subito dopo di quali “armi” erano in cerca: molte donne vennero
violentate a turno. Intanto a gruppi giunsero gli uomini dai campi e vennero chiusi, sbigottiti e confusi, nella piazza,
in un quadrato di militi. Il capo del manipolo di fascisti, un tipo piccolo e tarchiatello, disse che era l’ora dell’esame,
nessuno sapeva di cosa si trattasse. Ad uno ad uno i cafoni venivano interpellati con la domanda: “Viva Chi?”,
confusi chi rispondeva “viva s.Rocco”, “viva la Madonna”, “viva il pane e il vino” ecc. e fra le risa delle camice
nere venivano schedati chi come refrattario, chi come comunista ecc. A un certo punto comparve la madre di
Berardo urlando e chiedendo al figlio se sapeva cosa avessero fatto alle loro donne. Berardo capì subito, prese per il
bavero Filippo il Bello, gli sputò in faccia e chiese cosa avesse fatto a Elvira. In quell’istante un rintocco di campana
fece voltare tutti verso il campanile e videro la una donna alta e pallida. Filippo il Bello gridò che era la madonna,
tutti ne vennero contagiati, presero i loro camion e se ne andarono. Ma dopo la prima curva un camion si ribaltò per
un tronco che Scarpone aveva sistemato lì il giorno prima, ci furono alcuni feriti e poco dopo ripartirono. A quel
punto, Berardo che credeva nel diavolo, ma non nella Madonna volle vedere chi c’era sul campanile e vi trovò
Elvira svenuta e sua zia che si erano rifugiate lì all’arrivo dei fascisti; la prese in braccio e la portò a casa.
Capitolo VI°
Berardo, affranto perche non ha la terra, confida i suoi problemi a uno dei narratori (vedi prefazione). Intanto i
cafoni sono confusi per la nuovi cambiamenti; violenze e soprusi, ma permessi dalle autorità, l’Impresario che
compra tutti i raccolti ancora verdi e poi si scopre che una nuova legge ha fatto aumentare il grano, tutto legale
tranne le proteste dei cafoni. Una domenica un narratore e Scarpone andarono dall’Avvocato don Circostanza per
riscuotere un credito e portarono con loro Berardo. Don Circostanza si finse adirato col nuovo governo per le nuove
leggi sulle paghe degli agricoli e diede ai due una miseria; sconsolati uscirono dall’ufficio lasciandovi il solo
Berardo. Mentre aspettavano Berardo videro per strada Baldovino Sciacca che maltrattava la moglie; venivano dalla
casa di don Carlo Magna dove avevano pagato l’affitto della terra e siccome l’anno prima la moglie aveva regalato
anche due dozzine di uova, ma aveva dimenticato di dire che erano un dono, Donna Clorinda le aveva pretese anche
ora, non solo: lei rifiutava tutte quelle che passavano per un cerchietto di legno che faceva da misura. Ma ora quasi
tutte le uova le galline le facevano così, che colpa ne avevano i cafoni? E poi era un regalo. Berardo uscì soddisfatto
con una lettera che per un amico di Roma di don Circostanza, che l’aveva scritta temendo per la propria incolumità.
Quella settimana Teofilo raccolse dei soldi per far dire una messa ( il prezzo era raddoppiato ) a don Abbacchio e lui
disse che avrebbe parlato di S. Giuseppe da Camerino. Il santo era un cafone fattosi frate, ma non aveva mai
imparato il latino e non poteva quindi recitare i salmi, così per onorare la Madonna faceva delle grandi capriole e lei,
divertita, gli fece il dono della levitazione e le sue capriole arrivavano fino al soffitto. Giunto in paradiso,Dio gli
disse che poteva chiedere qualunque cosa. Titubante, chiese un pezzo di pane bianco ( i cafoni mangiano solo pane
di grano turco perchè quello di grano costa troppo ), Dio si commosse, lo abbracciò e ordino che gli fosse portato il
miglior pane bianco ogni giorno. I cafoni non si stancheranno mai di sentire questa storia. Ma don Abbacchio la usò
per rimproverarli di essere indisciplinati e di non pagare le tasse. Berardo protestò ad alta voce e uscì dalla chiesa
seguito da tutti gli uomini. Don Abbacchio fuori dalla chiesa incontrò Baldissera e gli chiese come stesse, lui
rispose”Bene”, ma dagli altri uomini ottenne risposte meno gentili, così ricordò loro che Dio stesso aveva detto “Ti
guadagnerai il pane con il sudore della tua fronte”, allora intervenne Berardo adirato e disse che Dio non aveva detto
che col sudore della propria fronte avresti guadagnato il pane per gli altri e che Dio aveva detto pane, non i liquori e
il caffè dell’Impresario. Don Abbacchio se la cavò con una battuta dicendo che Berardo sarebbe stato un ottimo
predicatore se si fosse fatto frate, ma capendo che si stava mettendo male se ne andò. Pochi giorni dopo ci fu
l’inaugurazione del nuovo fosso per l’acqua e subito fu chiara la malafede dei cittadini avendo inviato i notabili
scortati da un foltissimo gruppo di carabinieri. Quando il notaio annunciò che l’accordo era : tre quarti dell’acqua
nel nuovo fosso e tre quarti di quella che restava nel vecchio che andava a Fontamara, si levarono le proteste e
quando fu azionata la chiusa e si vide l’acqua diminuire fino a far emergere i sassi e l’erba del fosso, alcuni si
scagliarono contro i notabili, ma furono fermati dai carabinieri col calcio del fucile. Nel trambusto don Circostanza
gridò di non compromettersi e che ci avrebbe pensato lui a difenderli; disse che la spartizione doveva essere
temporanea, l’ Impresario propose allora un termine di cinquant’anni, ma le proteste si fecero enormi, all’ora don
Circostanza disse che ci avrebbe pensato lui. Più tardi i cafoni vennero a sapere che l’avvocato aveva ottenuto in
presenza del notaio, un termine di cinque lustri ( ma nessuno dei cafoni sapeva quanti erano cinque lustri )
( cinquant’anni, appunto ).
Capitolo VII°
La siccità distrugge i raccolti di Fontamara, si rischia la fame. I fontamaresi non sanno a che rivolgersi, don
Circostanza li ha già ingannati a sufficienza. Non si conoscevano altri avvocati e Fontamara si sentiva perduta senza
un protettore; con le complicate leggi dei piemontesi gli avvocati erano diventati indispensabili, anche per ottenere
un solo certificato al comune, e i cafoni facevano a gara per accaparrarsene uno per fare da padrino alla cresima di
un figlio, ma ora non c’era più nessuno di cui fidarsi. Berardo intanto sembrava assente, gli amici si sentivano
perduti senza di lui, ma lui pensava solo a partire per fare soldi e sposare Elvira, così la sera, per non essere visto, si
recava da don Circostanza e finalmente un giorno lo fece convocare perchè era giunto da Roma un commerciante
che gli spiegò come trovare lavoro nella capitale. Berardo chiede al narratore 100 lire in prestito per partire, lui
accetta a condizione che porti il figlio con sé. Arriva Raffaele Scarpone che porta la notizia che a Sulmona è
scoppiata la rivoluzione dei cafoni, lo ha detto donna Clorinda a Baldissera. Donna Clorinda, non potendone più
dell’Impresario, offre anche a Baldissera aiuto e armi per i cafoni di Fontamara. Tutti sono pronti e d’accordo,
tranne Berardo che non vuole mettersi nei guai proprio ora. Elvira lo rimprovera dicendo che se aveva preso questa
decisione per lei, doveva sapere che lei era innamorata per il modo di pensare di Berardo. Quella notte la campana
fece alcuni rintocchi ripetuti, nessuno a Fontamara riusciva a prendere occhio, ma nessuno uscì e tutti si fecero i fatti
propri.
Capitolo VIII°
Alle quattro del mattino Berardo e il figlio del narratore ( ora è il figlio che racconta ) vanno alla stazione, e lì
vengono raggiunti da Scarpone sconvolto che porta la notizia che Teofilo si è impiccato alla campana della chiesa.
Berardo rimane impassibile. Scarpone spiega come Don Abbacchio, che lo ha coperto di insulti data l’ora, si sia
rifiutato di dare a Teofilo l’assoluzione “perché chi si uccide va all’inferno”. Nonostante tutto i due partirono
fingendosi pellegrini. Giunti a Roma alloggiarono alla locanda del Buon Ladrone consigliata dall’amico di Don
Circostanza. Pensavano che il nome fosse dovuto al ladrone redento, crocefisso con Cristo, ma scoprirono ben
presto che era dovuto al padrone che dopo essere stato più volte arrestato per furto, mise la sua “arte al servizio dei
fascisti, compiendo furti patriottici a danno delle cooperative operaie, meritandosi il titolo ufficiale di buon ladrone.
Trascorsero i primi giorni da un ufficio all’altro, fecero la famosa tessera che gli costò 35 lire. Il pomeriggio gli
uffici di collocamento erano chiusi e così visitavano la città. Notarono che era piena di banche, alcune con una
cupola come S. Pietro, Berardo disse che forse erano anch’esse chiese, solo di un altro dio: il denaro. Disse anche
che forse la loro rovina era stata proprio quella di aver creduto in Dio, Quando invece il mondo era dominato da un
altro Dio. Poi notarono che la città era piena di fontane e Berardo si struggeva per tutto quello spreco d’acqua. Una
sera davanti alla locanda, alcuni uomini cercano invano di sollevare un carro senza una ruota, Berardo da solo lo
solleva finchè la ruota non è a posto. Poi comincia a discutere col ragazzo suo compagno sui fatti di Fontamara, e
dice che per risolvere la faccenda non c’è bisogno della forza, ma dell’astuzia come ha fatto l’Impresario con
l’acqua, e poi confida che secondo lui la terra senz’acqua cala di prezzo e lui sa già quale sarebbe stato il suo pezzo
di terra. Il quinto giorno all’ufficio di collocamento dissero ai due che dovevano recarsi all’Aquila, visto che da lì
provenivano. Affranti tornarono alla locanda dove il padrone consigliò di rivolgersi al Cavalier Pazienza, un
vecchietto ospite della locanda. Dopo avergli spillato dieci lire a testa per la consultazione che usò subito per andarsi
a comprare pane, vino e salame, chiese loro quanti soldi gli restassero: 14 lire. Disse che il caso era buio. Ma venuto
a sapere che potevano essere spediti altri soldi da Fontamara, aggiunse la richiesta di galline, formaggio e miele,
fece fare ai due un telegramma per il paese e disse che ora era tutto chiaro. L’indomani li accompagnò all’ufficio di
collocamento, parlo con un capo ufficio, tornò dai due, chiese com’era il loro formaggio, Berardo rispose che
quando era fresco era da mangiare e quando era stagionato era da grattugiare. Il Cavaliere tornò nell’ufficiò e ne uscì
con la notizia che era tutto a posto e che l’ufficio stesso li avrebbe chiamati. I giorni successivi, rimasti senza soldi, i
due si rintanarono in camera con due pagnotte prese con le ultime lire. A ogni arrivo del postino si precipitavano
insieme al Cavalier Pazienza, ma lui aspettava le provvigioni del padre di Berardo. Il Cavaliere accusava il padre di
Berardo di essere uno snaturato perché non spediva al figlio le sue richieste e Berardo affamato, accusava il
cavaliere perché l’ufficio non li contattava. Finalmente un pomeriggio arrivò il telegramma per Berardo, il Cavaliere
e il Ladrone corsero in camera, aprirono la busta e la lessero rimanendo allibiti: giungeva da Fontamara, era il
certificato di moralità e diceva che Berardo aveva tenuto una pessima condotta. Il Cavaliere disse che così non
avrebbe mai trovato lavoro. Dopo pochi minuti tornò nella stanza il Ladrone avvisando che la camera era stata
affittata; i due furono costretti a lasciare la locanda deboli e affamati. Alla stazione incontrarono il ragazzo di
Avezzano che li aveva avvertiti del poliziotto in borghese e li invitò a mangiare qualcosa, avrebbe pagato lui.
Berardo ,sospettoso, lo seguì. Spiegò loro come la polizia stesse cercando il Solito Sconosciuto, uno che diffondeva
stampa clandestina, denunciando soprusi e invitando alla ricolta. Compariva sia nelle fabbriche che nelle università,
a volte in due posti contemporaneamente, ma non era mai stato preso e ora era comparso anche in Abruzzo e sapeva
anche di Fontamara. ( in realtà il Solito Sconosciuto non esiste, è un nome che i fascisti usavano per racchiudere tutti
i nemici del regime ). In quel momento entrarono dei militi e chiesero i documenti, poi trovarono un pacchetto di
carta sotto una giacca sull’attaccapanni, chiesero di chi fosse e senza dire nulla ci arrestarono. Se non altro erano
vitto e alloggio gratuiti; Berardo e l’avezzanese discutevano animatamente, Berardo non capiva per quale scopo il
Solito Sconosciuto aveva fatto un giornale per i cafoni lui che era cittadino, non si fidava. Il compagno di Berardo si
addormentò e al suo risveglio trovò ancora i due a parlare, ma ora Berardo era d’accordo, sereno e rideva come non
faceva da tempo. Disse che la sua vita ora aveva un senso, l’avezzanese disse che tutti i fontamaresi dovevano ora
confidare in Berardo e che presto sarebbero stati liberati. Al mattino Berardo chiese di parlare col commissario e
quando fummo tutti davanti a lui Berardo confessò che il Solito Sconosciuto era lui.
Capitolo IX°
La notizia che il Solito Sconosciuto fosse un cafone fece il giro della città, arrivarono un sacco di funzionari per
interrogare o semplicemente per vederlo. Ci interrogavano tutti e tre insieme, ma Berardo taceva mordendosi le
labbra fino a sanguinare per dimostrare la sua fermezza, mentre la sua faccia diventò ben presto irriconoscibile per le
percosse.Il giorno successivo venne liberato l’avazzanese e Berardo disse che era tempo di pensare di uscire dai
guai, ma quando disse al commissario che la sua prima confessione era fasulla, non gli cedettero e gli interrogatori
diventarono più violenti. Poi furono chiamati dal commissario che mostro un giornale intitolato “Viva Berardo
Viola” in cui si parlava per filo e per segno degli interrogatori e dei maltrattamenti e voleva sapere come fossero
uscite da lì quelle notizie. Disse anche che si parlava di Fontamara, di una questione di acqua, della morte di Teofilo
e di una certa Elvira. Berardo era come ipnotizzato, la notte rimaneva sveglio e rimuginava., finchè una volta con la
luce negli occhi mi confidò che ora non avrebbe potuto tradire quella causa, che sarebbe morto in carcere come gli
era stato sempre predetto, ma che sarebbe stato il primo cafone a non morire per se stesso, ma per gli altri. Li
separarono e dopo due giorni comunicarono al ragazzo ( narratore ) che Berardo si era suicidato impiccandosi. Lo
avevano ucciso, costrinsero il ragazzo a rilasciare una deposizione in cui confessava le tendenze suicide di Berardo
per amore e poi fu liberato.
Capitolo X°
A Fontamara si era saputo tutto, per Berardo si era compiuto il destino di tutti i Viola: morire fuori da casa propria,
dal proprio letto. Maria Grazia, la ragazza violentata dai soldati, raccontò allora la fine di Elvira; andarono in
pellegrinaggio al santuario della Madonna della Libera e lei pregò per la salvezza do Berardo in campio della sua
stessa vita. Al ritorno fu colta da febbre e morì pochi giorni dopo nel proprio letto. Maria Rosa, la madre di Berardo
disse allora che il figlio era stato effettivamente salvato: lui così ribelle, un Viola, che voleva accasarsi e avere una
terra per amore, la morte dell’amata era forse stata la sua salvezza: riavere il proprio destino. La Limona riportò
l’argomento sul foglio che doveva essere scritto mentre i cafoni stavano esaminando la scatola lasciata dal solito
sconosciuto per stampare il giornale. Tutti si divisero i compiti, e discussero sul titolo del giornale e accolsero la
proposta di Scarpone: “ Che Fare?” Zompa propose che l’argomento del primo articolo fosse “Hanno Ucciso
Berardo Viola” e Scarpone propose di aggiungervi “che fare ?”. All’obbiezione che la frase era già nel titolo
Scarpone propose di togliere il titolo e di aggiungere la frase in ogni articolo: “Ci Hanno Tolto l’Acqua. Che Fare?”
“ Hanno Violentato le Nostre Donne in Nome della Legge. Che Fare?” ecc. Il giornale era pronto, cinquecento
copie, Scarpone ne portò alcune a casa dei narratori perché le distribuissero a S. Giuseppe, loro paese natale nel
quale si sarebbero recati in giornata per festeggiare coi parenti la liberazione del figlio: fu la loro salvezza. A metà
strada udirono degli spari che parevano provenire da Fontamara e incontrarono un carrettiere che disse loro che al
loro paese c’era la guerra. Lungo la strada incontrarono Pasquale Cipolla che fuggiva, disse che era la guerra contro
i cafoni e contro il giornale, disse che Scarpone era stato ucciso e così pure il generale Baldissera e Venerdì Santo.
All’arrivo di alcuni cavalli si buttarono in un fosso. Non ebbero più notizie dei fontamaresi e ora sono qui ,all’estero,
grazie all’aiuto del Solito Sconosciuto. Ma ora, dopo tante pene, dopo tanta disperazione, che fare?

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