La mia ombra a Dachau
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La mia ombra a Dachau
La mia ombra a Dachau Giornata della Memoria 27 Gennaio 2009 «La critica della cultura si trova dinanzi all'ultimo stadio della dialettica di cultura e barbarie. Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie». (Theodor W. Adorno, Prismi, 1955) «Per formulare la sua esperienza, c'è bisogno del coraggio di scrivere... Il coraggio, di cui ha bisogno, è coraggio triplice: il coraggio di dire, che è il coraggio di essere se stesso, il coraggio della propria identità. Il coraggio di dare un nome, che è il coraggio di dare un nome veritiero all'esperienza, di esserle testimone... Il terzo coraggio è quello di credere all'appello degli altri, credere agli uomini senza cui non potrebbe essere scritta alcuna parola». (Hilde Domin, La poesia come attimo di libertà, 1987-88) «L'arte che non è più affatto possibile se non riflessa, cioè presa se non come un problema, deve da sé rinunciare alla serenità. E la costringono innanzitutto gli avvenimenti più recenti. Il dire che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un'arte serena». (Theodor W. Adorno, Dialettica negativa, 1966) «Non siamo noi, i superstiti i testimoni veri. È questa una nozione scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a poco, leggendo le memorie altrui, e rileggendo le mie a distanza di anni. Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto». (Primo Levi, cit. in Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, 1994) «Scrivere poesia dopo Auschwitz». Ma che cosa ha significato scrivere poesia nei campi di concentramento, durante la prigionia? «Nel dolore il verso della poesia è come un canto che libera e si spinge avanti fino al fondo della verità». (Fabien Lacombe, lettera del 13/7/1986) Tristesse Il vuoto del mio cuore Il mio bruciante dolore Intorpidiscono la mia anima. Nessuna sorella, nessuna amica O dolcezza infinita Per cullare i miei singhiozzi. Tristemente me ne vado Nei luoghi più discreti A piangere la mia sofferenza. La natura senza vita Dall’inverno assopita È muta davanti alla mia voce. Sono solo, o poeta, Ma i tuoi versi, dolce rimedio, Solo mi suscitano l’Oblio. Giugno 1942 (Sylvain Gutmacker, Belgio, 1922(?)-1948). O trudach Tormento del mio cuore, tormento del mio dolore, dolore, mai inopportuno, dolore, mai limitato. La mia tristezza non è la prima, la mia tristezza non è l’ultima. Quando il cuore si rinchiude, allora è tramite una poesia. La poesia esce fuori come una scheggia di legno, possa allora non farmi più male. Per favore, restituitemi alla terra, la scheggia però datela di nuovo al pioppo. (Stanisław Wygodzki, Polonia, 1907-1992). Dachau wśród słońca In un giorno di sole ho conosciuto l’inferno di Dachau, un campo, baracche, in fila. Una recinzione in muratura, un fossato, un reticolato, collegato alla mortale corrente elettrica. Alte torri, sulle quali uomini delle SS montano la guardia, di notte e anche di giorno, la mitragliatrice sempre pronta; come ombre si muovono i prigionieri affamati. Giorno e notte il forno crematorio fuma senza sosta e avvelena la nostra vita. Dovunque nelle vicinanze si sentono spari; già al sorgere del sole uccidono prigionieri nel bosco. Un palo, la «cavalla», una catena, il patibolo, questi sono i suoi arnesi quotidiani. Una catena in mano, un gancio, già pende un prigioniero. Libertà tra le SS. Cane! Lo era ormai. Nemmeno l’alba ci sveglia ogni giorno, ma la mano di Giuda dell’SS. Il campo di concentramento qui ho conosciuto. Fino a oggi questo nella storia è ignoto. Dachau 1941 (Feliks Rak, Polonia, 1903-?). O Senza pensieri, senza sole, come la talpa sotto terra dopo la larva scava, dopo il lombrico, dietro il branco, con il branco, nel branco, in questa terra, che è completamente uguale al presente, nera e dura! Senza pensieri, senza sole, come la morte, che con falce di sangue senza pietà si prepara a colpire, a sinistra e a destra, indietro e avanti, avanti…! Oh, questo sono io – e gli altri! 26.5.1944 (Bojan Ajdič, Slovenia, 1921-?). Leben (Dachau 1933) Voglio sopportare e serbare in me ciò che mi hai portato. – Al sussurrare solitario nella notte crepuscolare soltanto lo voglio dire. – Lo sopporterò, perché ancora in me lo sperare non è spezzato. – Ancora sento la voce, che in me ha parlato: Tu devi sopportare! In giorni solitari, quando bruciando la nostalgia è sul punto di soffocarmi – neanche la libertà può rendermi felice: Allora lo sopporterò. Se i sogni mi danno la caccia, le Erinni si librano girando intorno ai miei pensieri, nel sogno della notte mi circondano le Parche – lo sopporterò. – Ti voglio dire: «Tu che ci hai tessuto il vestito per la morte, tieni conto – non ho ancora vissuto per niente e devo sopportare questo!» Mi voglio sfogare con te: «Tu che sai del nostro sperare e anelare e stabilisci il destino nell’universo – Lo sopporterò!» (Roman Gebler, Germania, 1896-?). Jeder Schritt Ogni passo che faccio mi porta più vicino alla libertà mi porta più vicino alla morte. Sempre perdura questo dualismo. Ogni giorno che passa è una linea nel calendario della mia reclusione, della mia vita, e io divento un estraneo. Voltandomi indietro, sono volati anni. E il suo caro viso è attraversato da solchi. 1943/44 (Josef Schneeweiss, Austria, 1913-?). Gestreiftes Kleid A righe è il nostro vestito, rasati i nostri capelli, noi stiamo di là dal diritto, – anche chi era un individuo, un artista o perfino un pensatore, porta le vesti del servo. – A righe è il nostro vestito, rasati i nostri capelli, non ci è stato lasciato niente, – e tutto ciò che ci era caro, la casa, la moglie, il figlio addirittura, l’abbiamo abbandonato. – A righe è il nostro vestito, rasati i nostri capelli, ora ci vogliono spezzare, ma in noi riluce silente e chiaro della libertà il sigillo meraviglioso, quand’anche non diciamo una parola. – A righe è il nostro vestito, rasati i nostri capelli, ancora andiamo con fiero coraggio, viviamo ogni giorno in pericolo, umiliati come ancora nessuno lo era, subito la terra beve il nostro sangue. – Allora il camerata porta il vestito ben sapendo del grande dolore che questa stoffa racchiude. – Vestito a righe, vestito a righe, tu sei il mio abito delle grandi occasioni, perché ciò che ho sofferto, il molto dolore, ti rende infinitamente importante. – (Edgar Kupfer-Kooberwitz, Germania, 1906-1991). J’avais un camarade Roland rinuncia Il suo grande corpo immenso e scarnito Che dopo tanti e tanti giorni lotta Non lo sostiene più Roland il silenzioso parla Parla senza sosta Di suo padre di sua madre Di quelli che voleva rincontrare Più tardi… Più tardi… Delle sue Fiandre Di Bruges Dei canali sonnacchiosi Del male che credeva di aver fatto… Dice i suoi rimpianti, le sue speranze… E i suoi pensieri sono miei Lui che muore io in vita Ma non lo sa Lui ha ben detto: «Se mi capita qualche cosa…» Io non l’ho lasciato finire «No, vecchio mio!» «Forse», ha detto… E stretto contro di me si è assopito Io prego Io prego Nessuna preghiera imparata Mi giunge alle labbra Semplicemente questa litania disperata e rabbiosa Fa’ che Roland viva Fa’ che Roland viva Mio Dio Mio Dio Fa’ che Roland viva E tutta la notte In mezzo ai gemiti che salgono Nell’orrore di una notte nel campo Io prego per le migliaia di Roland Che moriranno All’alba Roland è morto I suoi occhi sono ben aperti E posso leggere sul suo viso Che trascina nel fango L’immensa sorpresa del bambino stupefatto. (Michel Jacques, Francia, 1920-?). La conta E allora urlarono Buie urla da bocche bavose e il muto gregge si pressò quasi accumulato dal latrare dei cani rabbiosi Mancava una pecora ed i cani prima affannosi nella ricerca raziocinarono i mezzi per far tornare i conti Il gregge brancolante districò il suo groviglio Dal cumulo uscirono allineandosi i capi osservando distanze e criteri imposti dal ringhio del cane più grosso E allora urlarono Ancora E si avventarono ciechi folli rabbiosi NON TORNAVANO I CONTI Poi lontano su un filo spinato lampeggiarono scocchi fumosi La carne bruciata calmò il latrare Il gregge rientrò nell’ovile Una pecora in meno giugno 1945 (Mirco Giuseppe Camia, Italia, 1925-1997). La mia ombra a Dachau Mamma, non torno, me l'ha detto Iddio. L'inferno, senza sensi d'anima l'ho visto così, come tocco il corpo che mi duole; né parole, mamma, ti so dire, perché non so ridire il marchio del terrore. Io penso che tu senti oltre il filo pungente e velenoso di queste baracche, e penso che mi vedi con la testa senza peli e la cornice fosca delle occhiaie nere, insanguinato e sporco e il cuore al tocco d'una campana a morto. Che cosa ho fatto, mamma? Tu lo sai? Dimmelo e baciami nel sonno, appena lievemente, che non mi venga in mente di ricambiarti il bacio come quando tu piangevi di me, il ragazzaccio. Non voglio spenti i tuoi occhi, mamma, mi capisci? Quando la sera, il tuo nome canto singhiozzando, inconcludente e vano il gioco del mio labbro si dischiude: tu non rispondi. ...È l'ora della sera ed i pensieri del giorno non tornano più come i primi giorni d'ormeggio a ridestarmi. È l'ora della sera ed i pensieri sono di domani. Dachau! Ora, soltanto ora, sento una musica che irrora l'aria di palpiti di stelle, ma forse no, son palpiti di cuori e di sangue, di sangue che guizza nelle vene dei viventi ricoprendoli di polvere di sole. maggio 1945 (Nevio Vitelli, Italia, 1928-1948) Aube Pace sanguinante come il bambino che nasce liberazione crudelmente acquisita frutto del nostro desiderio o pace della nostra speranza pace del sonno delle culle fiducia illimitata in te così fragile tra le nostre mani o pace della nostra vita pace fraterna e buona come il pane come questo ricreata ogni giorno dalle nostre mani frutto della nostra pazienza pace del nostro lavoro riso del partigiano al suo ultimo risveglio pace delle coscienze chiare dei lavori compiuti o pace della nostra morte. Scritto nell’aprile 45 davanti alla camera a gas nella notte di Dachau perché il giorno spunti (anonimo – lingua francese). Libertà a Dachau Il sole sta ridando senso alla vita alla libertà che è giunta Oggi 29 aprile pattuglie uomini armati sono entrati nel cancello ARBEIT MACHT FREI Gli orridi guardiani sparuti gruppi sulle torrette tremanti di fronte all’evento neanche han saputo ideare ultimo baluardo per loro l’arma di costrizione crudo cemento eretto sopra il capo degli schiavi Mitraglieri inoperanti le dita dapprima irrigidite ricolmi di orrore han visto dalle baracche sortire larve esitanti Poi, quando quelli son scesi qualche mano rattrappita sui congegni di fuoco non ha avuto pietà Ora giacciono cose lerci la boria svanita grigi stracci truci farfalle da un ciclo inverso ridotte a crisalidi immonde Altri si addossano al muro le mani tremanti alla nuca Io giaccio gli occhi rivolti ad un cielo che ora posso vedere I gerani alla finestra incredibili fiori su un davanzale inaudito si aprono su un volto negro piangente le gote stirate gli occhi sbarrati le labbra contratte incredula maschera mirante gli orrori che giacciono ai quali appartengo Scompare Ed ecco la stella di David sul petto giallo triangolo triste discriminazione fra cose subumane appare Riso di teschio sguardo folle che guata qualcosa che regge quasi un peso cullato a fatica cosa orrenda che abbraccia possesso inconsulto Una giacca zebrata lorda di sangue lacerata da un corpo che giace sullo impiantito all’ingresso del blocco La Giustizia ha volti scarniti occhi infossati casacca a righe Circonda la macabra spoglia lungo i corpi le braccia impietrite distese per l’ultimo sforzo Crude scheletriche parvenze immote lerciose figure sopra i castelli accatastate non staccano gli occhi PRIMA VISIONE DI LIBERTÀ quel corpo spogliato IL KAPO 1945 (Mirco Giuseppe Camia, Italia, 1925-1997).