Appello alla ragione

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Appello alla ragione
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COMMISSIONE BIO DIRITTO
Appello
alla ragione
a cura di Carlo Casini
CONTRIBUTO AL DIBATTITO
SULLE UNIONI CIVILI
aprile 2016
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1.
I
Non basta
lo stralcio dell’adozione
l Senato della Repubblica, mediante un voto di fiducia, ha approvato un testo presentato dal governo sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso
e sulle convivenze di fatto, che attualmente è all’esame della Camera dei deputati. Il voto di fiducia ha
garantito la coesione della maggioranza governativa, ma
non ha fatto cessare le appassionate discussioni sulla normativa, che effettivamente tocca principi fondamentali
dell’ordinamento giuridico insieme a valori etici e sociali
di primaria importanza.
ci troviamo di fronte ad un testo normativo, vogliamo
esaminarlo tecnicamente in modo analitico.
Ai senatori erano stati fatti pervenire 3 dossier, il cui
titolo, Appello alla ragione, intende indicare l’intento di
intervenire con riflessioni libere da ideologie precostituite e da obbedienze o suggestioni di partito.
Ma i sostenitori dell’originario testo “Cirinnà” e coloro che pretendono per le persone LGBT il c.d. “matrimonio egualitario” hanno già ottenuto che la riforma
della Legge sull’adozione di minori sia avviata presso la
Commissione Giustizia della Camera.
Ora che la proposta di legge, formulata in modo parzialmente diverso dal testo di provenienza parlamentare
denominato “proposta Cirinnà”, sembra opportuno continuare il dialogo con i legislatori per introdurre nel dibattito il ragionamento ed il sentire di gran parte del
popolo italiano. I binari di questo contributo sono i medesimi percorsi in precedenza. In primo luogo, al di là
delle polemiche che dividono, delle sconfitte e delle vittorie, consideriamo l’attuale dibattito come un’occasione
straordinaria per meditare su aspetti che riguardano la
vita personale di tutti: la famiglia, l’amore, i figli, utilizzando una ottica positiva e cioè risvegliando lo stupore
di fronte a realtà affascinanti. In secondo luogo, poiché
Il nostro giudizio è che il tema dell’adozione è di
grande importanza e che ammettere l’adottabilità di minori da parte di una coppia omosessuale sia una grave
lesione del concetto stesso di famiglia e quindi del diritto dei fanciulli ad una famiglia, ma non ci pare che
questo possa essere l’unico criterio di giudizio sul testo
in esame. Pensiamo, anzi, che sia forviante esaminare
soltanto il problema dell’adozione. Una approfondita riflessione sul senso della famiglia, dell’amore, della generazione che – inevitabilmente – tocca anche il senso
della società, della storia e della vita riguarda l’intera
proposta di legge.
2.
I
Matrimonio, unioni civili, convivenze
di fatto: differenze “fondamentali”
Il primo comma dell’art. 1 del testo trasmesso dal Senato alla Camera afferma che l’unione civile tra persone dello stesso sesso è “una specifica formazione
sociale” quale prevista dagli art. 2 e 3 della Costituzione. La parola “specifica” indica la differenza rispetto
all’unione matrimoniale, di cui la Costituzione si occupa
all’art. 29. Su questa distinzione ha fatto leva il tentativo
di presentare come un “compromesso” il testo governativo rispetto alla proposta “Cirinnà”, che, in effetti, non
richiamava gli art. 2 e 3. D’altronde il medesimo numero
1 dell’art. 1del testo governativo distingue le unioni civili
dalle convivenze di fatto. Dunque è necessario capire il
perché delle differenze tra matrimonio, unioni civili, convivenze di fatto, formazioni sociali previste dall’art. 2
della Costituzione (di cui la unione omosessuale fa parte
come formazione “specifica”).
La distinzione è consolidata nella giurisprudenza costituzionale che la dichiara costituzionalmente imposta,
sicché una normativa che la eliminasse sarebbe incostituzionale. Nella nota decisione n. 138 emanata dalla Consulta nel 2010 si legge che “le unioni omosessuali non
possono essere ritenute omogenee al matrimonio”. Il
concetto è stato confermato più recentemente dalla sentenza n. 170 della medesima Corte che, pur ammettendo
la prosecuzione del rapporto matrimoniale tra due persone, una delle quali, in costanza di matrimonio, abbia
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Il dibattito al Senato e largamente sui media si è concentrato sulla c.d. “stepchild adoption”, con le collegate
questioni della maternità surrogata e della adozione in
generale. Il Governo ha proposto una c.d. “mediazione”
stralciando il tema dell’adozione da parte di coppie omosessuali e rinviandone la discussione ad un momento successivo.
cambiato chirurgicamente i propri caratteri sessuali, con
conseguente rettifica anagrafica in applicazione della
Legge 164/82, giustifica l’accoglimento della concorde richiesta delle parti “in ragione del pregresso vissuto nel
contesto di un regolare matrimonio”. La Corte considera
questo caso come una situazione eccezionale la cui soluzione è giustificata dall’origine eterosessuale del matrimonio. È una eccezione che conferma la regola e che,
anzi, dimostra la forza espansiva e stabilizzatrice del matrimonio solo se fondato sulla diversità sessuale. Analogamente la Corte di Cassazione, nella sentenza 15 marzo
2012 n. 4184 ha scritto che “la diversità di sesso dei nubendi – secondo la costante giurisprudenza di questa
Corte – è requisito minimo indispensabile per la stessa
esistenza del matrimonio civile come atto giuridicamente
rilevante (cfr. ex plurimus le sentenze n. 1808 del 1976,
n. 1304 del 1990, n. 1730 del 1999, n. 7877 del 2000)”.
Anche la differenza tra matrimonio ed unioni di fatto
è stata molte volte ribadita dalla Corte Costituzionale in
materia successoria (sentenze 45\80, 404\88, 423\88,
310/89), in materia penale con riferimento alle eccezioni
depenalizzanti in favore del coniuge (sentenze 237\86,
8/96, 352/2000, 121/2004), in materia di assegnazione di
alloggi (sentenze 99/97, 166/98).
Noi vogliamo capire il perché profondo delle distinzioni, il fondamento che le giustifica e che le impone.
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3.
N
La fondamentalità della famiglia
e della differenza sessuale
ell’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo si legge: “La famiglia è il nucleo
fondamentale della società e dello Stato e come
tale deve essere riconosciuta e protetta”. Non si
tratta di un dogma religioso, definito in un concilio ecclesiale. La Dichiarazione universale fu approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, cioè dai
rappresentanti di tutti i popoli della Terra, il 10 dicembre
1948.
L’art. 16 non fu approvato per distrazione. Quella
stessa definizione di famiglia, con le stesse parole, si ritrova in altri atti giuridici internazionali della massima
importanza: nell’art. 23 del Patto sui diritti civili e politici, nell’art. 10 del Patto sui diritti economici, sociali e
culturali, entrambi approvati dall’Assemblea Generale
dell’ONU il 16 dicembre 1966 e nella Carta sociale europea, adottata a Torino il 18 ottobre 1961.
Giustamente la Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo è considerata il pilastro del pensiero giuridico
moderno. Elaborata al termine della seconda guerra
mondiale, essa vuole essere un progetto definitivo di
pace, di giustizia e di libertà (tanto si ricava dalle prime
parole del suo preambolo), in certo modo l’atto di chiusura non solo di una stagione insanguinata da dottrine
di morte e di discriminazione, ma di tutta la storia precedente sempre accompagnata dal disprezzo della dignità umana. Perciò è doveroso chiedersi: perché l’intero
mondo in un documento così importante ha affermato
la “fondamentalità” della famiglia? Il cedimento delle
fondamenta fa cadere l’edificio, cioè la società e lo Stato
che su di quelle si appoggia.
La risposta è semplice ed evidente.
Proviamo ad immaginare che d’improvviso una mutazione genetica impedisca la generazione in modo totale. La nostra sarebbe l’ultima generazione e la storia
cadrebbe nell’assurdo. Tutta la fatica dei millenni che ci
precedono resterebbe priva di senso. Gli Stati e la società
sparirebbero totalmente. L’effetto sarebbe identico a
quello di una guerra atomica che distruggesse l’intera
specie umana.
Analogo sarebbe l’effetto (la fine dell’umanità) se
tutti i maschi diventassero femmine o tutte le femmine
diventassero maschi. Una popolazione totalmente femminile o una popolazione interamente maschile sarebbe
la premessa della morte totale. La fine dei singoli diventerebbe la fine definitiva del tutto. È ovvio che i figli
sono la indispensabile condizione della continuità della
storia e quindi della stessa esistenza della società e dello
Stato. Ma i figli, per esserci, hanno bisogno della dimensione maschile e femminile della persona umana.
Per questo la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo individua nella famiglia il fondamento della società e dello Stato. La sua fondamentalità suppone la
differenziazione sessuale.
Non si può obiettare che oggi la procreazione medicalmente assistita (PMA), può generare un figlio anche
senza l’atto sessuale, perché neppure nella PMA è possibile prescindere dalla differenziazione del maschio e
della femmina. Anche nelle forme estreme della procreazione eterologa e della maternità surrogata, occorre
comunque la fertilizzazione dell’ovocita (femminile) con
uno spermatozoo (maschile). Bisogna poi riflettere che,
sia pure con un linguaggio inesatto, la PMA è presentata come una “terapia”, cioè come rimedio ad una patologia: la sterilità o la presenza di una grave malattia
trasmissibile (come ha recentemente stabilito la Corte
Costituzionale con la sentenza n. 96 del 2015). La stragrande maggioranza dei figli continua a nascere perché
generata da un incontro intimo dell’uomo con la donna
e d’altronde, anche concettualmente, la patologia non
può essere considerata normalità. Resta dunque confermata la necessità della mascolinità e della femminilità
per garantire il futuro della storia e lo stesso permanere
della società e dello Stato.
3
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4.
S
Per capire:
meditazione sul figlio
e il figlio è l’argomento che sostiene la fondamentalità della famiglia è giusto spingere la riflessione su di lui anche oltre le già svolte
considerazioni. In passato i figli troppo numerosi
facevano paura. Si sosteneva che famiglie troppo prolifiche sono causa di miseria e di fame. Oggi, al contrario,
specialmente in occidente, inquieta profondamente il
crollo della natalità, che prepara crisi economiche e perdita di identità nazionale. Si tratta comunque di preoccupazioni che non investono “l’essenza” del figlio.
Questa nostra rapidissima meditazione vuole, invece, sostare a “guardare” in profondità il “significato” del figlio, perché esso illumina meglio il valore della
dimensione sessuata dell’uomo e della donna e riveste di
stupefacente bellezza la fondamentalità della famiglia.
In quanto garanzia di esistenza della società e dello Stato
e quindi anche di storia, il figlio è anche una freccia di
speranza lanciata verso il futuro. Se c’è un senso della fatica dei secoli alle nostre spalle, esso consiste nella lenta
costruzione di un “mondo migliore”. Il progresso tecnologico è un dato di fatto, così come è certo l’affinamento
del pensiero e dei comportamenti sospinti verso il miglioramento delle idee di dignità umana, di uguaglianza,
di giustizia, di solidarietà, di pace. Non mancano le ricadute all’indietro e i rischi che le novità scientifiche e tecniche si rivolgano contro l’uomo, anziché in suo favore.
La violenza, la paura, la fame sono tutt’altro che sradicate. La guerra, che pensiamo confinata nel passato, rifiorisce in forme nuove che gli atti terroristici rendono ad
un tempo “spezzettata” e “mondiale”. Tuttavia la speranza resta collocata nel futuro.
Ogni figlio è una novità assoluta che compare dal
nulla. È la creazione in atto. Ciascuno di noi è entrato nell’esistenza in un momento preciso. Prima non c’eravamo
ed in un istante abbiamo cominciato ad esserci. Il passaggio dal nulla al’esistenza si chiama “creazione”.
La teoria astrofisica più accreditata colloca l’inizio dell’universo alla distanza di 13 miliardi e 800 milioni di anni
da oggi e sostiene che tutto cominciò con il comparire di
un punto nella notte del nulla, un punto in cui era concentrata tutta la possibile energia, esploso con un fragore, chiamato “big bang”, di cui ancora oggi si sente
l’eco negli spazi siderali. Una espansione tutt’ora in atto
avrebbe determinato l’universo così come oggi noi lo vediamo.
La teoria dell’evoluzione afferma che qualcosa di simile è accaduto nell’ambito dei viventi: dai microbi e dai
molluschi all’uomo. In termini di perfezione tutto l’universo tende verso l’uomo, in cui compare il pensiero, la
coscienza, l’intelligenza, la libertà, la capacità di amare.
Anche se la ragione procede a tentoni essa ben può ipotizzare che se c’è un fine dell’universo esso si realizza nell’uomo.
Certo, c’è chi teme che l’assurdo, il “non senso” ci circondi. Leopardi ha cantato in modo struggente la paura
dell’assurdo. Ma se proviamo ad ipotizzare che un senso
vi sia, possiamo ritenere che esso si realizza proprio nell’uomo. Che significato avrebbe un universo non pensato
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da nessuno? Il silenzio immenso renderebbe come inesistente la materia, per quanto estesa e ben armonizzata
essa sia. La pienezza dell’esistere si realizza, dunque,
quando compare l’uomo.
Ogni figlio nell’atto del suo comparire dal nulla può,
dunque, essere pensato come un autentico big bang in
certo modo più significativo di quello avvenuto 13 miliardi e 800 milioni di anni fa. Lo stupore aumenta
quando i biologi ci documentano che nei 46 cromosomi
che derivano dalla fusione dei 23 cromosomi del padre e
i 23 della madre sono contenuti tutti i caratteri dell’uomo: maschio o femmina, capelli neri o biondi, occhi
azzurri o grigi, altezza, sensibilità, propensione alla musica piuttosto che alla matematica... La meraviglia non finisce qui. I 23 cromosomi del padre contengono parte
delle caratteristiche dei nonni paterni e i 23 cromosomi
della madre contengono le caratteristiche dei nonni materni. Ma, a loro volta, i nonni possedevano i segni dei
loro genitori e così via, andando a ritroso nell’albero genealogico, si arriva all’inizio...
Gli scienziati ci dicono anche che i caratteri genetici si
modificano parzialmente per effetto del comportamento, cioè della vita concreta dell’individuo. Perciò si
può dire che ogni figlio riassume e sintetizza in sé, in
modo nuovo, tutta l’umanità, con la sua storia di gioie e
di dolori...
Ogni padre ed ogni madre contemplando il proprio figlio appena nato provano lo stupore del miracolo. Si domandano: come è potuto accadere che nell’arco di pochi
mesi, con uno sviluppo perfetto, a partire dall’incontro di
poche cellule, per una misteriosa organizzatrice forza interiore sia stata realizzata una costruzione così bella e perfetta? Tutto l’universo, con le sue dimensioni
incommensurabili sia nell’infinitamente grande che nell’infinitamente piccolo suscita stupore. Ma la meraviglia
non è così grande come quella che proviamo se contempliamo la perfezione del corpo umano e più ancora la meraviglia del suo comparire e svilupparsi secondo n disegno
perfetto. Ogni figlio è una meraviglia delle meraviglie.
Lo stupore si intensifica se riflettiamo sul modo in cui
normalmente esplode il big bang della vita di un figlio.
Conosciamo bene quanta violenza e fango deturpino
l’atto sessuale. Tuttavia per sua natura e con grande frequenza esso esprime un massimo desiderio di unità e di
amore. Quando ne deriva la maternità, la capacità di gratuità e di dono della donna si manifesta in modo
estremo. Per nove mesi il nuovo figlio – meraviglia dell’universo – è abbracciato in continuità dalla madre. È ragionevole sperare che in questa modalità di comparire
nell’esistenza vi sia un segno che lascia intuire l’amore
come senso dell’intero vivere umano.
Possiamo, dunque, concludere questa meditazione affermando che il figlio è: “condizione di esistenza della
società e dello Stato”, “garanzia di storia”, “freccia di
speranza”, “creazione in atto”, “autentico big bang”,
“riassunto di tutta l’umanità”, “meraviglia delle meraviglie”, “timbro di senso dell’esistenza”.
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5.
C
Matrimonio e unioni omosessuali:
fondamentalità o non fondamentalità
hi potrebbe sostenere che le convivenze omosex
sono fondamentali per la società e per lo Stato?
Un nucleo fondamentale deve essere rafforzato
ed incoraggiato. Merita identici e paragonabili
sostegni ciò che non è fondamentale?
Quale è la ragione della tutela che la giurisprudenza
costituzionale afferma essere dovuta anche alle unioni
omosex? La risposta si trova nella già citata sentenza n.
138 del 2010, dove accanto alla affermazione che “le
unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”, si scrive che per “formazione sociale
ai sensi dell’art. 2 Cost. deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire il libero sviluppo della persona nella sua vita di relazione
[…]. In tale nozione è da annoverare anche l’unione
omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale
di vivere liberamente una condizione di coppia”.
Il fondamento della tutela è, dunque, la libertà. Le
parole “libero sviluppo” e “vivere liberamente” forniscono una chiarissima indicazione. Di conseguenza lo
Stato ha il dovere di garantire la libertà, ma non ha
alcun dovere di promuovere e sostenere. È l’autonomia
privata che fonda ogni formazione sociale e quindi ogni
convivenza e – per ulteriore conseguenza – l’unione
omosessuale.
I giuristi conoscono bene la distinzione tra diritto
pubblico e diritto privato, identificabili il primo dal fine
di perseguire un interesse pubblico ed il secondo un interesse privato. La famiglia eterosessuale sta nel diritto
pubblico, l’unione omosessuale nel diritto privato.
Il diritto pubblico è caratterizzato dalla presenza di
norme imperative che limitano l’autonomia privata.
Lo Stato non ha interessi che ci siano unioni omosessuali e che esse siano più o meno stabili. In tale contesto
è istruttiva la rilettura dell’art. 29 Cost. “Lo Stato riconosce i diritti della famiglia come società naturale fon-
6.
S
data sul matrimonio”.
L’espressione “diritti della famiglia” è alquanto forte.
Solo i soggetti giuridici sono titolari di diritti, ma la famiglia non ha personalità giuridica. Evidentemente
l’espressione vuole indicare l’unitarietà e l’importanza
che si impongono come valore superiore (pubblico)
anche a coloro che ne fanno parte. Nell’art. 2 Cost., invece, non si dice che le “formazioni sociali” hanno diritti. Sono i singoli che ne fanno parte ad avere diritti,
non la formazione sociale che può essere da loro costituita e regolata.
L’art. 29 Cost. sottolinea la naturalità della famiglia
fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna.
Come ben risulta dai lavori preparatori della Costituzione, il carattere naturale della società familiare significa che essa esiste prima dello Stato e delle sue leggi,
come struttura che ha una sua realtà. L’art. 2 Cost, invece, non considera “naturali” le formazioni sociali perché sono dipendenti dalla libertà dei singoli i cui diritti
precedono, certo lo Stato e le sue leggi, ma, essendo diritti di libertà individuale, costruiscono, essi, la struttura
sociale, altrimenti non esistente in natura.
L’art. 29 Cost. riguarda specificamente ed esclusivamente quella particolare “formazione sociale” che è la
famiglia, mentre l’art. 2 Cost. concerne genericamente
la grande molteplicità di possibili formazioni sociali delle
quali fa parte anche la relazione omosessuale. Perciò è
doveroso interrogarsi su quale sia l’aspetto specifico che
solleverebbe le unioni civili dalla sfera privata alla sfera
pubblica, dallo spazio della libertà a quello dove si costruisce il futuro della società e dello Stato. Tale elemento differenziale non può essere un certo tipo di
affettività sessuale. Ci sono legami di affetto, di cooperazione e di condivisione non contrassegnati in nessun
modo dalla dimensione sessuale e che, tuttavia, dal
punto di vista dell’interesse pubblico sono molto più apprezzabili. Eppure di essi nessuno chiede il trasferimento
dal privato al pubblico. Se il “valore” è la “compagnia”,
allora sistemi ereditari, pensionistici e fiscali, dovrebbero
essere sempre strutturati in modo uguale quando una
persona vive in compagnia.
Diritto pubblico e diritto privato.
Conseguenze
ulla base di queste considerazioni diviene evidente
la ratio della disciplina del matrimonio. Essa è finalizzata a garantire il servizio anche al bene comune, in particolare mediante la certezza, la
stabilità e la durata della convivenza matrimoniale.
a) Il matrimonio non è soltanto una dichiarazione
d’amore e di impegno reciproco tra gli sposi: è anche una
pubblica assunzione di responsabilità verso la collettività.
Questo spiega perché il matrimonio viene celebrato da
un pubblico ufficiale e perché lo Stato si rende presente
attraverso il Pubblico ministero nelle eventuali vicende
giudiziarie successive. Al contrario non si può certo dire
che le dichiarazioni con le quali viene formalizzata una
unione omosessuale implicano una assunzione di responsabilità verso lo Stato. Mancando il fine pubblico l’imitazione delle forme tipiche del matrimonio è priva di senso.
b) La società e lo Stato preferiscono che il rapporto
matrimoniale sia durevole e cercano almeno di evitare
rotture non sufficientemente meditate. Ciò era chiarissimo prima del 1970, quando la Legge affermava che solo
la morte determinava lo scioglimento del matrimonio. Il
limite alla autonomia privata era intensissimo. Ma il
divorzio continua ad essere un limite rispetto alla autodeterminazione dei singoli. Infatti, esso rivela, paradossalmente, l’interesse pubblico alla stabilità del rapporto
coniugale tendenzialmente orientato alla persistenza per
5
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tutta la vita. In effetti, l’intervento giudiziario e l’imposizione di alcune condizioni costituiscono un filtro e un
freno, un tentativo di non far distruggere troppo facilmente il rapporto coniugale, in definitiva un limite all’autonomia privata.
Se la convivenza omosessuale non integra un interesse
pubblico, non c’è ragione di non garantire la libertà di
uno scioglimento consensuale quale ne sia la causa e il
tempo. Il giudice potrà essere chiamato ad intervenire
solo quando una parte lamenti la violazione degli impegni assunti con un eventuale patto di convivenza.
c) Il rapporto generante è alla base di gran parte
degli impedimenti al matrimonio che sono preordinati a
garantire l’interesse pubblico. Per vero alcuni sono condizioni di validità di carattere generale, cioè operanti
anche nell’ambito del diritto privato a garanzia della libera autodeterminazione contrattuale. È il caso della capacità di agire (età – interdizione) così come dei vizi della
volontà (errore e violenza). Sotto questo profilo non ci
può essere differenza tra un matrimonio e un accordo di
convivenza di qualsiasi natura così come è previsto per
qualsiasi contratto. Ma la stessa cosa non si può dire per
gli impedimenti derivanti da legami parentali o di affinità. L’incesto è ritenuto causa di anomalie genetiche dei
figli. Ma laddove manca strutturalmente la capacità generativa si indebolisce molto la “ratio” del divieto. Per
quanto riguarda i limiti derivanti dall’affinità si consideri
che il matrimonio non determina soltanto un rapporto
tra i due coniugi, isolati da tutti gli altri parenti, ma di due
gruppi familiari che, indipendentemente dalla volontà dei
singoli che ne fanno parte, divengono collegati per na-
7.
P
d) Nel matrimonio è ancora l’interesse pubblico a
trasportare i diritti e i doveri che i coniugi assumono liberamente tra di loro nella sfera dei doveri e dei diritti comunque imposti dallo Stato, così rafforzati e resi
parzialmente indisponibili. Questo è il senso dell’art. 143
c.c. che gli sposi sentono leggere all’atto del matrimonio
dal pubblico ufficiale che rappresenta la comunità. Il dovere di fedeltà, di assistenza reciproca e di coabitazione,
così come il dovere di mantenere ed educare i figli, sono
il logico contenuto delle promesse che i nubendi si scambiano tra loro, ma lo Stato li conferma e li garantisce al
punto di iscriverli nella Costituzione (artt. 29 e 30).
Il tema
dell’adozione
oiché la strutturale potenzialità generativa inerente alla dimensione sessuata è alla base della insuperabile differenza tra matrimonio e unione
omosessuale, è comprensibile l’insistenza con cui
le associazioni LGBT nel momento stesso in cui pretendono il “matrimonio egualitario” considerino irrinunciabile un preteso diritto all’adozione di minori da parte
delle coppie omosessuali, quasi che l’adozione fosse una
forma alternativa alla procreazione naturale. In effetti la
questione dell’adozione è stata al centro del dibattito in
Senato sulla “proposta Cirinnà”, ma è stata stralciata. Tuttavia, è stata subito riproposta alla Camera in contemporanea con la seconda lettura del testo sulle unioni civili.
L’intento è di reintrodurre la idoneità all’adozione delle
coppie omosessuali, ma tale obiettivo è occultato dietro
l’ipotesi di una complessiva riforma della legge organica
che disciplina la c.d. “adozione legittimante”, la Legge n.
184 del 1983, sostenendone l’arretratezza cronologica e
l’inadeguatezza soprattutto per la lungaggine delle procedure.
Intanto va ricordato che la legge 184/1983 è stata già
rivista e modificata più volte (in particolare dalla legge n.
149 del 28 maggio 2001). In ogni caso il suo testo non merita assolutamente correzioni perché fondato su due criteri ricavabili dai diritti umani fondamentali.
Il primo è enunciato dall’art. 3. della Convenzione sui
diritti del fanciullo, approvata dall’Assemblea generale
6
tura in ordine agli affetti e giuridicamente attraverso diritti ed obblighi (si pensi all’obbligo alimentare previsto
anche per gli affini dagli artt. 433 c.c.). Il legame che determina l’unità del gruppo familiare è determinato dai
figli nei quali si incrociano i rapporti di parentela. Ancora
una volta è la potenzialità generativa inerente alla differenziazione sessuale - si attivi o non si attivi in concreto l’orizzonte che giustifica i limiti posti all’autonomia privata nel campo matrimoniale.
Una identica giustificazione non si trova riguardo alle
convivenze omosessuali.
Infine, nella predisposizione dei limiti al matrimonio, è
individuabile l’interesse pubblico ad evitare conflitti in
seno alla famiglia e a garantire la chiarezza nei rapporti
di filiazione. Il matrimonio serve a rendere certo il padre
(salve le eccezionali azioni di disconoscimento).
Dove non c’è la possibilità della procreazione e dove
non c’è un forte interesse pubblico, si affievolisce la necessità di porre limiti alla libertà privata.
dell’Onu il 20 novembre 1989: “In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche e private di assistenza sociale, dei Tribunali, delle
Autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve avere una considerazione preminente”.
Questa disposizione non significa soltanto che nel confronto tra diritti e interessi di adulti e di bambini che occasionalmente vengano a trovarsi in conflitto la bilancia
deve pendere dalla parte del minore. Significa anche che
nell’interpretazione della realtà occorre che l’osservazione parta dall’angolo di visuale del fanciullo. Nella famiglia: i fanciulli sono i figli.
È di rilievo che questa norma sia stata ripetuta anche
in altri atti internazionali tra cui merita particolare menzione la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che lo riproduce all’art. 24.
La Convenzione del 1989 sviluppa la precedente Dichiarazione Universale del 1959, nella quale si proclama
che “Gli Stati devono dare ai fanciulli il meglio di se
stessi”. Quale sia questo “meglio” è indicato concretamente dall’art. 1 della Legge sull’adozione come modificato nel 2001: “Il minore ha diritto di crescere e di essere
educato nell’ambito della propria famiglia”. Lo stesso
principio è esplicitato nella Convenzione dell’Aja (20 maggio 1993), sulle adozioni internazionali, nel cui preambolo
è scritto che l’ambiente familiare garantisce al meglio lo
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sviluppo armonioso del minore; che “ogni Stato dovrebbe
adottare, con criterio di priorità, misure appropriate per
consentire la permanenza del minore nella famiglia di origine”; che “le adozioni internazionali devono essere fatte
nell’interesse superiore del minore e nel rispetto dei suoi
diritti fondamentali e in modo che siano evitate la sottrazione, la vendita e la tratta dei minori”. È pertinente
alla discussione in corso sulla maternità surrogata anche
quanto dispone l’art. 4 della suddetta Convenzione: laddove le leggi nazionali suppongono il consenso della famiglia di origine, bisogna verificare che “i consensi non
siano stati ottenuti mediante pagamento o contropartita
di alcun genere” e che “il consenso della madre, qualora
sia richiesto, è prestato solo successivamente alla nascita
del minore”.
La logica conseguenza è che l’adozione non è uno strumento per dare un figlio a chi non ce l’ha, ma, al contrario,
per dare dei genitori a chi non ce l’ha. Giustamente, perciò,
il presupposto stabilito nella vigente legge italiana è l’abbandono. Un minore può essere privo di genitori o perché
sono morti, o perché sono spariti, o perché lo hanno fisicamente abbandonato come succede con una certa frequenza
per i neonati. Può essere che i genitori ci siano e che tengano il figlio con loro, ma se la loro è una genitorialità solo
nominale, perché in realtà non trattano il figlio come figlio,
ma, anzi, lo rendono oggetto di maltrattamenti e di violenza. In tal caso, l’abbandono è morale.
Le procedure per la dichiarazione di adottabilità, nel
caso di un abbandono materiale, sono rapidissime e rapida è la fase successiva di affidamento preadottivo. Ma
quando si tratta di togliere un figlio ad una “famiglia”
nel caso di abbandono morale, è chiaro che l’abbandono
deve essere provato e che ai genitori deve essere consentito di opporsi in sede giudiziaria, come spesso avviene. È
documentato che le coppie coniugate dichiarate idonee
all’adozione e che offrono la loro disponibilità sono molto
più numerose di quelle che nel corso di un anno ricevono
un figlio nato in Italia in affidamento preadottivo. Il problema è che non ci sono in numero sufficiente bambini
da adottare. A questo riguardo non si può fare a meno di
ricordare la stridente contraddizione con il persistente fenomeno dell’aborto di massa che, ogni anno, impedisce la
nascita di un grande numero di bambini non voluti dai
genitori biologici, ma che molti sarebbero pronti ad adottare. Le lungaggini – dunque – non dipendono dalla
legge sull’adozione, ma:
- dalle necessarie procedure quando si tratta di dichiarare definitivamente l’abbandono morale;
- dalla grande quantità di bimbi che si preferisce eliminare piuttosto che affidarli a famiglie pronte ad accoglierli.
Quanto all’adozione internazionale, bisogna aggiungere le difficoltà inerenti alla necessità non solo di prendere contatto con situazioni di abbandono in Paesi
lontani, ma, più ancora di ottenere l’adozione secondo le
leggi di quei Paesi e, quindi, prima ancora, di stabilire convenzioni giuridicamente vincolanti tra Stati. Evidentemente le autorità italiane non possono comandare su
territori altrui.
Da parte delle associazioni LGBT si sostiene che, secondo alcuni studi, non vi sarebbe alcun danno per lo sviluppo armonico di un fanciullo qualora egli cresca con
due madri o con due padri anziché con un papà o una
mamma. Ma ricerche non meno autorevoli sostengono il
contrario. Senza entrare nel merito delle due opposte tesi,
il buon senso suggerisce di applicare il principio di precauzione continuamente utilizzato nel campo ecologico.
Esso impone di non compiere azioni gravate dal dubbio
che possano danneggiare la salute o l’ambiente se prima
non se ne dimostri rigorosamente la innocuità. Nel dubbio l’azione deve essere conforme a prudenza. Nel diritto
penale nessuno può essere condannato finché sussiste un
ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza. Nei manuali
medici si legge “in dubio abstine”. Da sempre i figli per
natura hanno avuto un padre ed una madre e il buon
senso afferma che l’integrazione psicologica maschile e
femminile recano il massimo vantaggio alla crescita ed
alla umanizzazione del figlio. È inaccettabile abbandonare questo dato di buon senso e di esperienza.
Così stando le cose, la pretesa delle coppie omosessuali
di accedere all’adozione contrasta anche con una situazione di fatto. Si tratta di rimediare ad un danno: per il
minore il meglio sarebbe restare sempre con il padre e la
madre biologici, in modo che coincidano la genitorialità
“del sangue” con quella degli affetti e con quella legale,
tanto che lo Stato – dicono le convenzioni internazionali
e la legge italiana – dovrebbe fare tutto il possibile affinché questo “meglio” accada in Italia e all’estero, prima di
ricorrere al “rimedio” dell’adozione. Una volta accertato
l’abbandono, il meglio per il minore è essere affidato a
una coppia adatta. C’è dunque una “graduatoria” delle
coppie che si offrono all’adozione. In essa quelle omosessuali non possono certo pretendere di essere poste nelle
prime posizioni. Ma vi sono poi ragioni logiche che escludono le coppie omosessuali dalla facoltà di adottare. Se il
primato è del minore, se egli ha un diritto al meglio, non
c’è dubbio che egli ha diritto ad avere un padre e una
madre, cioè ad essere allevato da persone che costituiscono il modello psicologico, affettivo ed educativo dell’uomo e della donna. Purtroppo, esistono gli orfani di
padre o di madre e il genitore rimasto in vita deve sobbarcarsi insieme gli oneri materni e paterni. Ma non è il
meglio per il figlio e nell’adozione è possibile stablire il
meglio.
Ci sono, però, di fatto situazioni concrete in cui tale
“meglio” non può essere realizzato neppure sul piano del
“rimedio” quale delineato dalle regole generali sull’adozione. Sono i casi previsti dall’art. 44 della legge vigente.
Se entrambi i genitori sono morti, ma il minore vive in
modo stabile e duraturo con un parente [lettera a), art.
44] può sembrare più utile alla sua armonica crescita rafforzare il legame parentale piuttosto che cominciare un
rapporto di adozione con una coppia totalmente sconosciuta. Analogamente, in presenza di una grave disabilità
[lettera c), art. 44] può sembrare utile l’adozione offerta
da persone particolarmente esperte e generose anche se
non vi è abbandono dei genitori genetici con cui il figlio
mantiene i legami, nonostante l’adozione. Esemplare è
l’ipotesi in cui viene constatata l’impossibilità di affidamento preadottivo [lettera d), art. 44]. Nessuna coppia
idonea vuole quel minore. Come rimedio sussidiario si
può prescindere dai limiti generali dell’adozione piena.
Infine, c’è il caso del figlio di uno solo dei due coniugi [lettera b), art. 44]: il clima di famiglia è rafforzato se l’altro
lo adotta.
Sono tutti casi eccezionali nei quali il campo dell’adozione di minore viene esteso ad esclusivo interesse del mi-
7
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nore. Non vi è dunque spazio per un preteso “diritto al figlio” della coppia omosessuale come tale. Vero è che di
recente la sentenza n. 299 del 2014 del Tribunale per i minorenni di Roma ha affermato che quanto stabilito dalla
lettera d) dell’art. 44 giustificherebbe l’adozione del figlio anche adottivo del partner omosessuale da parte del
compagno/a, perché l’impossibilità di procedere all’affidamento preadottivo dovrebbe essere intesa non solo
come dato di fatto (nessuna coppia eterosessuale accetta
quel minore abbandonato), ma anche in senso giuridico
(non è possibile l’affidamento preadottivo perché il minore non è abbandonato, in quanto sussiste efficacemente il rapporto genitoriale con il partner). In altri
termini, l’assenza di abbandono giustificherebbe un provvedimento di adozione in favore dell’altro partner, anche
non qualificabile in Italia come coniuge. Tuttavia, siffatta
interpretazione contrasta con l’art. 44 della L. 184/1983
come modificato nel 2001, perché esso suppone l’assenza
di abbandono in tutti i casi ivi elencati, in quanto applicabili in deroga all’art. 7 della medesima legge, il quale richiama tutte le disposizioni successive, proprio quelle che
prevedono l’abbandono come presupposto dell’adozione. Ne deriva che per avere un senso, la lettera a) deve
riferirsi alla impossibilità materiale di affidamento preadottivo, perché l’impossibilità giuridica (cioè l’esistenza di
persona/persone che hanno rapporti di parentela o genitoriale con il minore) è il presupposto anche degli altri casi
elencati nell’articolo.
Il tema andrebbe ulteriormente approfondito con riferimento al riconoscimento in Italia delle sentenze straniere, che trova un limite nel concetto di “ordine
pubblico”. In effetti, le sentenze che applicano l’art. 44
lettera d) alla coppia omosex riguardano decisioni già
prese all’estero. Non è il caso in questa sede di approfondire questo aspetto. Basti rilevare che il concetto di “ordine pubblico” dipende dalla definizione italiana di
famiglia e di matrimonio su cui ci siamo soffermati.
Come sempre bisogna tenere conto del prevalente interesse del minore quando sussistono di fatto, sia pure in
contrasto con la legge italiana, situazioni in cui il minore
vive da molto tempo con una coppia dello stesso sesso.
Evidentemente, però, non può trattarsi di una questione
di nome. Esistono molte situazioni in cui un minore, per
8.
L
Le recenti sentenze che hanno legittimato la c.d.
“step-child adoption” in base al n. 4 lett D) dell’art. 44 L.
184/1983 stravolgono l’intero sistema dell’adozione di minori. Infatti, qualora si intenda l’impossibilità di affidamento preadottivo come impossibilità giuridica perché
manca l’abbandono, allora una tale impossibilità esisterebbe sempre per qualsiasi minore non abbandonato né
materialmente, né moralmente. Diverrebbe così inutile
tutta la prima parte della legge, quella che proclama il diritto alla propria famiglia del minore e che, di conseguenza prevede l’abbandono come presupposto
dell’adozione. Il primo comma dell’art. 44 prevede i casi
particolari come eccezione alla disciplina generale e sempre per rimediare in favore del minore alla situazione in
cui esso si trova, mai per soddisfare le aspirazioni degli
adulti.
Come è noto alcune coppie omosessuali ricorrono alla
“maternità surrogata” negli Stati in cui è consentita. Opportunamente è stata presentata una proposta di legge
che rafforza il divieto già contenuto nella Legge 40/2004,
rendendo punibile anche la surrogazione effettuata all’estero. Ma se non si vuole il sovvertimento dell’adozione
di minori attraverso un’inaccettabile giurisprudenza, occorre anche chiarire legislativamente che il n. 4 dell’art.
44 L. 184/1983 si riferisce alla impossibilità di trovare una
coppia sposata, dichiarata idonea, disposta ad accettare
quel dato minore, a ragione di sue particolari caratteristiche.
Formazioni sociali.
L’art. 2 della Costituzione
a proposta governativa sulle unioni civili si basa
esplicitamente sull’art. 2 della Costituzione. È indubbio, come ha dichiarato la Corte Costituzionale (sentenza n. 138 del 2010), che anche la
convivenza omosessuale costituisce una “formazione
sociale” dovendosi intendere come tale “ogni forma
di comunità semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella sua
vita di relazione”, ma l’art. 2 Cost. non riconosce i “diritti delle formazioni sociali”. Esse non sono un
“prius” rispetto ai diritti degli individui, ma un “posterius”, perché hanno una funzione strumentale rispetto ai diritti dell’uomo riconosciuti “sia come
singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la
sua personalità”. È confermata, insomma, la diffe-
8
la morte, la fuga, il disinteresse di uno dei genitori è mantenuto, istruito ed educato o dalla sola madre o dal solo
padre che, però convive con un parente (ad es. madre, sorella, fratello) che contribuisce – talvolta in modo determinante - alla crescita del figlio. Chiamare il parente
convivente nonna o zio o zia, invece che papà o mamma,
non cambia la sostanza, così come qualificare il convivente omosessuale del genitore amico o amica del papà o
della mamma. Ne risulta che la pretesa dell’adozione non
ha come obiettivo il bene del minore, ma, piuttosto,
quello di equiparare al matrimonio l’unione omosessuale
dal punto di vista culturale e di affermare una sorta di diritto al figlio della coppia anche quando essa è strutturalmente impossibilitata a generare per l’assenza di
diversità sessuale.
renza tra sfera pubblica e privata. Lo si ricava anche
dalla necessaria presenza del Pubblico ministero, rappresentante dello Stato, nelle cause matrimoniali (art.
70 c.p.c.), intervento non previsto e quanto meno non
necessario in vicende giudiziarie che riguardano rapporti tra persone appartenenti ad una delle formazioni sociali previste dall’art. 2 Cost. Il sigillo definitivo
dell’importanza pubblica della famiglia matrimoniale
è posto dall’art. 31 Cost.: lo Stato non deve soltanto
“riconoscere” la famiglia, ma anche “agevolarne la
formazione e l’adempimento dei compiti relativi”. Si
possono ipotizzare gli stessi doveri pubblici nei confronti delle convivenze omosessuali? Si può forse dire
che le unioni omosessuali sono “fondamentali” per la
società e per lo Stato?
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È indubbio che anche la famiglia fondata sul matrimonio è compresa nel concetto di formazione sociale,
ma la sua natura specifica – si direbbe “differenziale” –
è colta dall’art. 29 Cost. Vi sono altre “formazioni sociali” alle quali la Costituzione attribuisce una particolare importanza, al punto da introdurle, anche esse, nel
diritto pubblico, ad esempio: istituti di educazione, sindacati, imprese cooperative. Altre formazioni sociali
sono direttamente costituite dallo Stato come sue articolazioni territoriali: regioni, province, comuni. Ma il
concetto di “formazione sociale” è molto più ampio
perché fondato sul diritto umano di associazione (art.
18 Cost.), a sua volta espressione del diritto umano di
libertà. Perciò tutte le compagnie umane, in quanto
tali, se non violano il diritto penale e i diritti altrui, sono
riconosciute, ma la loro protezione si limita alla tutela
della libertà, a meno che il loro scopo non sia di rilevanza pubblica, cioè di servizio al bene comune.
Secondo l’art. 2 possono dirsi “formazioni sociali”
anche un circolo del tennis, una associazione di giocatori di carte, un gruppo organizzato di cineamatori, etc.
senza che si possa sostenere l’esistenza di un diritto fondamentale di giocare a tennis o a carte o di andare al cinema. È invece un diritto umano fondamentale la
libertà di praticare o non praticare da soli o in associazione con altri uno sport qualsiasi o di dedicare del
tempo alla ricreazione e allo svago o meno. Non vengono tutelate le formazioni sociali in quanto tali, ma i
diritti dell’uomo, nella misura in cui essi possono meglio svilupparsi nelle formazioni sociali.
Oggetto della norma costituzionale non sono le
strutture associative, ma i diritti dell’uomo. Poco importa, allora, che le convivenze di fatto, anche omosessuali, possano definirsi “formazioni sociali”.
Non possiamo negare la forza dei diritti umani.
Ognuno ha il diritto fondamentale di associarsi con chi
vuole, di vivere dove e con chi vuole e in questa libertà
di aggregazione sociale si sviluppa la personalità dell’individuo. Il diritto non deve fare nulla di più che rispettare e proteggere questa libertà. In altri termini:
deve essere rispettata la libertà degli individui di unirsi
in relazioni affettive; più in là non si può andare.
Quando la formazione sociale, invece, adempie a un
fine di pubblico interesse la Costituzione va oltre, in
modo chiaro e preciso: dopo aver affermato un generico diritto di associazione, la Carta costituzionale specifica e disciplina le strutture sociali che giudica
indispensabili per il vivere insieme dei cittadini: lo Stato,
i sindacati, i partiti, gli enti locali, la famiglia (appunto!).
Nell’associazione in quanto tale lo Stato non entra e
non deve entrare, perché la vita dell’associazione appartiene alla sfera giuridica dell’autonomia privata. La
compagnia, l’amicizia, lo stare insieme sono situazioni
umane che si collocano nel regno della libertà, ma l’ordinamento non ha alcun motivo di promuovere o regolare con norme imperative tali situazioni.
Lo stare insieme in sé e per sé, non realizza un fine
di rilevanza pubblica. Perché si dovrebbe riconoscere la
rilevanza delle convivenze omosessuali? Forse per l’attrazione sessuale reciproca? Esistono molte altre rela-
zioni e compagnie che hanno fini diversi ed esprimono
valori molto forti e nobili, indirizzandosi a un bene generale esterno alla convivenza, travalicando insomma
la semplice reciproca soddisfazione.
Si replica sottolineando l’importanza qualificante
dell’amore reciproco, inteso come volontà di condivisione totale e durevole di vita. Ma nell’ambito delle
“formazioni sociali”, vi sono altre compagnie contrassegnate da un affetto forte, durevole, implicante una
condivisione totale di vita.
Possono essere di carattere familiare: parenti che vivono insieme come ad esempio fratelli o più generalmente congiunti; vecchie zie o suocere possono
convivere a lungo con nipoti o nuore ed essere anche
amorevolmente accudite.
Due persone anziane non legate tra loro da alcun
vincolo di parentela o affinità possono decidere di vivere insieme per evitare di finire in un ricovero per vecchi o per condividere l’unico appartamento disponibile.
Possono esistere compagnie di natura intellettuale: giovani che studiano insieme per anni, o, addirittura –
come è capitato nella storia – scienziati che vogliono lavorare in équipe.
Alcune compagnie di vita hanno uno scopo esplicito
di amore esteso all’esterno della compagnia, ma sono
prive della connotazione sessuale. Ci sono giovani che
decidono di dedicarsi, vivendo insieme, ad azioni di promozione sociale in Paesi del terzo mondo. Vi sono persone che aprono case di accoglienza per minori
abbandonati, anziani, disabili, ragazze madri, tossico dipendenti, ex detenuti. Sono comunità di tipo familiare,
tanto è vero che vengono chiamate talora “case famiglia”. Vi è un forte legame affettivo nel gruppo che le
promuove e nella “formazione sociale” nel suo complesso, ma la convivenza è del tutto priva della dimensione sessuale.
Vi sono anche compagnie che hanno finalità religiosa. Che altro sono i vari conventi se non “compagnie” più o meno numerose, caratterizzate dalla
convivenza, dalla durata (in taluni monasteri c’è persino
il voto di stabilità!), dalla messa in comune delle risorse
economiche per fini di culto, di preghiera, di insegnamento, di studio, di evangelizzazione?
Nessuno ha mai pensato di paragonare queste unioni
a quelle matrimoniali. Nessuno osa dire sono “cellule
fondamentali della società e dello Stato”. Certamente,
esse possono essere strumenti di solidarietà e offrire risposte a bisogni dei singoli individui. Ma non si può
certo affermare la presenza in esse di un interesse pubblico per il solo fatto che sono “compagnia”. Ho usato il
termine “compagnia” piuttosto che “convivenza” per
indicare qualcosa di più del banale vivere sotto lo stesso
tetto. È più importante la concordanza di ideali e di
affetto che la semplice condivisione di un determinato
spazio. Ciò nonostante, la compagnia, anche se accompagnata da convivenza, anche se non temporanea, non
riveste in sé alcun interesse pubblico se non nel senso
che l’ordinamento deve garantire la libertà di tutti i cittadini e quindi anche la libertà di organizzare la propria
vita scegliendo la residenza e le proprie relazioni nel
modo ritenuto più opportuno. L’amicizia, la condivisione
9
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di ideali, il sentire comune si collocano nella sfera delle
relazioni individuali. Siamo nell’ottica del diritto privato
e non in quella del diritto pubblico. In che cosa le compagnie, le convivenze omosessuali si distinguono nel
genus più ampio delle compagnie? Qual è l’elemento
che giustifica quella particolare considerazione in ragione dell’interesse pubblico tanto a determinare una
assimilazione alle unioni matrimoniali?
Il proposito di affrontare insieme l’esistenza, che è
tipico della famiglia matrimoniale, può ritrovarsi certamente anche nelle unioni omosessuali, ma è presente
anche in compagnie diverse. Il proposito di affrontare
uniti le difficoltà della vita non è dunque un elemento
capace, in sé, di far scattare l’interesse pubblico. L’affetto reciproco senza relazioni sessuali dà sostanza
anche ad alcuni tipi di compagnie di cui abbiamo portato qualche esempio.
9.
È
a) la famiglia e il matrimonio rispondono a un interesse pubblico, mentre la compagnia, in quanto tale, si
muove nell’ambito della libertà privata e non incide sul
pubblico interesse;
b) ciò che costituisce un bene pubblico deve essere
incoraggiato e valorizzato mentre l’ordinamento rimane indifferente rispetto a scelte private che non toccano l’interesse pubblico, ma deve tutelare e garantire
la libertà nei limiti in cui il suo esercizio non leda il bene
comune.
Matrimonio, convivenze.
Differenze
semplice delineare la differenza tra matrimonio e
convivenza more uxorio (eterosessuale) di fatto.
Nella seconda manca quella pubblica assunzione
di responsabilità che costituisce la sostanza dell’atto di matrimonio. Manca anche la certezza di rapporti giuridici tra i componenti della famiglia di fatto e
quella garanzia di durata a cui la giurisprudenza ha
sempre attribuito importanza. Sono questi i tre elementi che distinguono le convivenze eterosessuali di
fatto da quelle matrimoniali, come la giurisprudenza ha
sempre rilevato. Ciò non impedisce, peraltro, che nella
sostanza una convivenza di fatto svolga le identiche
funzioni della famiglia fondata sul matrimonio. Alla celebrazione di questo solenne atto iniziale la coppia può
non essere addivenuta per tante ragioni: precedenti legami coniugali che non si sono sciolti, atteggiamenti
culturali che tolgono significato al matrimonio, indiffe-
10
È dunque la comunanza di letto che costituisce l’interesse pubblico e, addirittura, il fondamento della società e dello Stato? Nella coppia omosessuale è certa
l’impossibilità strutturale di generare figli. Manca, cioè,
il dato che trasporta la compagnia dalla sfera privata a
quella pubblica. La conclusione è dunque che:
renza, ecc. Ma può accadere – e di fatto accade – che la
coppia di fatto mantenga una rigorosa fedeltà, condivida le risorse economiche, svolga affettuosi ruoli di assistenza, generi figli amorosamente allevati, attraversi
sempre unita il succedersi degli eventi e degli anni, fino
alla morte. Pur nella differenza rispetto alle unioni matrimoniali, sembra ingiusto non tenere conto di tali situazioni di fatto, che in realtà svolgono anch’esse, in
presenza di figli, una funzione di pubblico interesse.
Perciò dal punto di vista dello Stato le coppie di fatto
eterosessuali, nella misura in cui non sono occasionali
incontri, meritano un giudizio di valore superiore rispetto alle unioni omosessuali da cui si distinguono per
la maggior prossimità delle prime alla famiglia fondata
sul matrimonio, fermo restando il rispetto della dignità
anche delle persone omosessuali che si legano di fatto
tra loro.
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10.
I
Unioni omosessuali
e principio di uguaglianza
I primo e fondamentale principio invocato per giustificare il riconoscimento delle convivenze omosessuali è il principio di uguaglianza. L’idea
secondo cui il riconoscimento giuridico delle convivenze individuali si fonda sul principio di uguaglianza
è rintracciabile – in maniera più o meno marcata – in
tutte le iniziative legislative, anche in quelle che non
giungono a invocare in modo esplicito il riconoscimento del matrimonio tra persone dello stesso sesso,
ma, naturalmente è particolarmente ferma e radicale
nei testi che intendono equiparare totalmente lo status delle coppie omosessuali a quello delle coppie eterosessuali. Con l’estensione dell’istituto del matrimonio
anche alle coppie dello stesso sesso, il principio di uguaglianza tra i cittadini, sancito dall’art. 3 della Costituzione, sarebbe pienamente rispettato. Il richiamo al
principio di non discriminazione è certamente suggestivo, perché l’uguale dignità di ogni essere umano con
la conseguente uguale titolarità dei diritti è affermazione di straordinaria importanza che non può e non
deve essere messa in discussione.
Si tratta certamente di una grande conquista della
modernità, frutto di un lungo e faticoso cammino storico che, peraltro, anche nel nostro tempo subisce sanguinose e terribili violazioni. Perciò è necessaria grande
energia e grande passione per mantenere viva la memoria ed occorre grande attenzione per individuare
persistenti o rinnovate incrinature del principio. Schiavi,
stranieri, neri, donne, disabili, vecchi, bambini, sono
stati liberati nel corso dei secoli dall’affermarsi progressivo del principio di uguaglianza, almeno sotto il
profilo culturale.
Ma davvero l’impossibilità di contrarre matrimonio
da parte di persone dello stesso sesso costituisce una
discriminazione, una ferita del principio di uguaglianza?
Se davvero così fosse, se davvero si trattasse di una
ingiustificata disparità di trattamento di situazioni sostanzialmente simili, allora proprio le donne e gli uomini che si battono per il diritto alla vita dei figli non
ancora nati, dovrebbero avvertire come intollerabile il
diverso trattamento delle coppie sposate e di quelle di
fatto. È proprio il principio di uguaglianza, infatti, la
forza morale, intellettuale e giuridica che giustifica e
impone il riconoscimento ai nascituri concepiti della dignità umana con la conseguente estensione ad essi
dello status di soggetti titolari di diritti. Nessuno oggi
oserebbe sostenere che il Presidente della Repubblica e
il barbone, oppure il premio Nobel e il malato di
mente, oppure il vincitore delle olimpiadi e il disabile in
carrozzella sono diseguali. Eppure le loro condizioni
esteriori, verificabili con i sensi, mostrano una enorme
differenza. Che cosa c’è in loro di non visibile, di non
constatabile sperimentalmente, che li rende eguali?
L’esito di tutta la moderna dottrina dei diritti umani,
tradotta nei più solenni documenti del nostro tempo, ci
offre la risposta: è la “dignità umana” che li rende
uguali. Allora, se uno sguardo umano di ragione e di
cuore annulla le differenze esteriori tra il Presidente
della Repubblica e il barbone, tra il campione sportivo
e il diversamente abile, tra l’intellettuale premiato e
l’interdetto per infermità mentale, non vi è ragione per
continuare ad affermare una (pretesa e indimostrata)
insuperabile differenza tra il concepito non ancora
nato e il già nato, in termini di dignità e di conseguente
soggettività giuridica. Perché dunque opporsi oggi al
matrimonio delle persone con tendenze omosessuali?
La risposta è ricavabile proprio dagli esempi ora proposti. Il Presidente della Repubblica è un “uguale” al
barbone, eppure l’ordinamento giuridico attribuisce al
primo diritti e poteri (doveri) che non solo il barbone,
ma che nessun altro cittadino ha. L’uguaglianza - com’è
noto – non impone che tutte le situazioni siano regolate in modo uguale, ma solo che situazioni uguali
siano regolate in modo uguale.
Disciplinare in modo identico situazioni profondamente diverse costituirebbe sotto il profilo sostanziale
una forte ingiustizia, con grave violazione del principio
di uguaglianza. Il Presidente della Repubblica è chiamato a svolgere funzioni che appartengono solo a lui e
a nessun altro cittadino. A nessuno viene in mente di
scendere in piazza in nome dei diritti umani per protestare - ad esempio – contro il suo esclusivo potere di
sciogliere le Camere: il fatto che nessun altro cittadino
abbia quella medesima facoltà non costituisce certo
una discriminazione. La differenza riguarda la funzione, non la persona.
La diversità di funzioni e di trattamento giuridico
può dipendere non solo dalla architettura istituzionale
dello Stato (come nel caso emblematico del Presidente
della Repubblica), ma anche da situazioni di fatto e attitudini individuali. L’uomo alto due metri non potrà
mai fare il fantino, ma potrebbe forse diventare un
campione della pallacanestro; viceversa la persona di
bassa statura, magra, leggera, può facilmente essere
ingaggiata come fantino, ma difficilmente potrebbe distinguersi in una squadra professionista di pallacanestro come giocatore abile sotto canestro. L’avvocato
iscritto all’Albo degli avvocati non ritiene violato il principio di uguaglianza per il fatto che non gli è consentito di iscriversi nell’Albo degli Ingegneri. Nessuno
chiama un elettricista per riparare un impianto idraulico. Orbene, le unioni omosessuali non possono adempiere a quella straordinaria funzione che rende la
famiglia “nucleo fondamentale” dello Stato e che determina la rilevanza pubblica del matrimonio e dei rapporti familiari che ne conseguono. Per questa ragione
è praticamente impossibile estendere la disciplina del
matrimonio, anche solo in parte, alle convivenze omosessuali. A chi invoca il principio di uguaglianza si può
rispondere proprio invocando il medesimo principio.
Costituirebbe grave violazione del principio di uguaglianza trattare in modo uguale situazioni diverse.
L’impossibilità di contrarre matrimonio non deriva
da una ingiusta discriminazione ma dalla constatazione
che le relazioni omosessuali non possono struttural-
11
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mente determinare la nascita di figli, mentre l’interesse
pubblico per il matrimonio di un uomo e di una donna
deriva dalla constatazione generale e astratta che esso
è strutturalmente in linea di principio idoneo a costituire un “seminarium rei pubblicae”.
Non si può in alcun modo sostenere che la presenza
di persone con tendenze omosessuali e le loro eventuali
unioni siano un bene per la società nel suo complesso,
mentre certamente è un bene per la società che uomini
e donne si uniscano nel vincolo del matrimonio. Questo
non significa che per lo Stato le tendenze omosessuali
e le convivenze che ne derivano siano un “male” o una
“colpa”. Semplicemente, le unioni omosessuali non interessano allo Stato, non sono giuridicamente rilevanti.
Lo Stato deve garantire la libertà dei comportamenti,
sempre che essi non siano lesivi del bene comune.
Naturalmente nessuna discriminazione deve sussistere riguardo ai diritti umani che non attengono alla
11.
È
Ovviamente l’uguaglianza deve dispiegarsi senza limiti anche nel campo del lavoro, della sanità, dell’assistenza, della carriera professionale, e devono essere
evitati atteggiamenti di ordine culturale e pratico di irrisione, esclusione, emarginazione. La dignità umana è
uguale per tutti.
Al ragionamento qui proposto sul tema dell’eguaglianza si eccepisce che la fecondità non è un requisito essenziale del matrimonio, tanto è vero che possono sposarsi
anche coppie sterili magari per l’età avanzata o che decidono di non avere figli. Ma l’obiezione non considera che
la differenziazione sessuale estesa a tutta l’umanità è il
presupposto della “fondamentalità” della famiglia e che
dunque è essa stessa fondamentale per la società e per lo
Stato. Anche quando nel caso singolo manca la fecondità
resta il segno profondo della “fondamentalità”.
Esame critico
della proposta governativa
evidente la insufficiente differenziazione delle
unioni omosessuali rispetto al matrimonio. Abbiamo dimostrato la ragione della necessaria distinzione. Essa non è soltanto una esigenza di
ragione, è anche una esigenza costituzionale, come risulta chiaramente dalla sentenza costituzionale 138 del
2010. Ovviamente non basta la diversità di nomi
(“unione civile” invece di “matrimonio”): occorre una diversità di disciplina. Non basta dichiarare che il fondamento delle “unioni civili” è l’art. 2 della Costituzione
(garanzia del diritto umano di libertà) e non l’art. 29
(fondamentalità della famiglia da promuovere e sostenere), se sono pressoché identiche alla disciplina del matrimonio le regole sulle forme e sugli effetti delle
convivenze omosessuali. Non basta ridurre il numero
degli espliciti richiami agli articoli dei codici e delle leggi
extravagantes riguardanti il matrimonio peraltro numerosissimi [n. 4 lett. C) e nn. 5, 6, 7,13, 14, 17, 19, 20, 21,
23, 24, 32, 33], se, poi, laddove il richiamo manca, si ripete esattamente il contenuto delle norme sul matrimonio alle quali non è fatto esplicito rinvio. Non basta
evocare l’art. 2 della Costituzione, quale criterio di distinzione, né usare il nome di “unione civile” se il contenuto giuridico del nuovo istituto è quello del
matrimonio. Si tratta di un inaccettabile inganno. In effetti, le poche differenze rispetto alla disciplina del matrimonio sono insignificanti e secondarie.
A) Sono identiche le forme della celebrazione, che
avviene alla presenza dell’ufficiale dello stato civile con
la presenza di due testimoni. Non sono né ripetute, né richiamate le norme sulle preventive pubblicazioni, ma si
tratta di un particolare di scarsa importanza e non si può
escludere che anche questo pur secondario aspetto sia
recuperato nel decreto legislativo che il Governo è delegato ad emanare dal n. 28 del PDL [v. in particolare la
lettera a)]. È di rilievo anche che possa essere scelto un
cognome comune.
12
specifica funzione del matrimonio e della famiglia. In
primo luogo va garantita la libertà.
B) Le cause di nullità e gli impedimenti sono gli
stessi (nn. 4, 5, 6, 7), nonostante quanto già osservato
circa la “ratio” di taluni impedimenti conseguenti nel
matrimonio alla differenza sessuale e all’interesse pubblico assente nell’unione omosessuale È singolare, tra
l’altro, la previsione della dispensa giudiziaria da taluni
impedimenti, prevista mediante il richiamo dell’intero
articolo 87 c.c. (n. 4 lett. C).
Sono identiche anche le regole procedurali per dichiarare la nullità dell’unione. È da sottolineare, tra l’altro, la previsione dell’intervento del Pubblico ministero
(n. 4 lett. B e n. 6) la cui ratio è l’interesse pubblico assente nell’unione omosessuale. Analogamente sono singolari i termini di decadenza, identici a quelli previsti per
l’annullamento del matrimonio (n. 7) i quali limitano la
libertà privata e suppongono un interesse pubblico alla
continuità del rapporto tra le persone conviventi.
C) La disciplina del divorzio e della separazione nel
matrimonio è estesa alle unioni civili con varianti che
non toccano la sostanza. La ratio di porre un freno alla
fine della convivenza è incoerente con la natura privata
di quella omosessuale. Vero è che il tempo della preliminare separazione è ridotto praticamente a tre mesi (n.
24), ma restano la necessità di un intervento giudiziale
con un tentativo di conciliazione e la presenza del Pubblico ministero (n. 25 con il richiamo alle norme sul divorzio) che, appunto, hanno senso nel matrimonio quale
dimostrazione dell’interesse pubblico.
D) Il testo governativo ha eliminato (n. 11) il reciproco obbligo di fedeltà che era invece previsto nella originaria proposta “Cirinnà”. Dal punto di vista pratico
può sembrare una correzione irrilevante, data la difficoltà di controllare la fedeltà anche nelle coppie eterosessuali. Ma la correzione fa emergere la contraddizione
di fondo presente nel testo. L’obbligo di fedeltà è quello
che, a differenza del dovere di coabitazione e di assistenza reciproca, difficilmente può essere oggetto di una
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trattativa che abbia soltanto interessi privati perché implica, almeno concettualmente, la esclusività di rapporti
di una persona con un’altra persona, ciò che il principio
di libertà di regola esclude. Si capisce allora perché nel
matrimonio interviene una norma di ordine pubblico a
garantire la promessa privata. Tale garanzia è direttamente collegata con la potenzialità generativa della
coppia. Non a caso, l’art. 231 stabilisce che “il marito è
padre del figlio concepito durante il matrimonio”. Tale
norma suppone la fedeltà reciproca nella coppia matrimoniale. Questo fondamento viene meno nella coppia
omosessuale. Inoltre, la fedeltà sostiene la continuità
della famiglia che lo Stato preferisce, ma tale preferenza
non è motivata per le convivenze omosessuali. Per queste ultime l’esclusione del dovere di fedeltà evidenzia
l’incoerenza della proposta governativa (così come di
quella “Cirinnà”) nella estensione alle unioni civili di
norme identiche a quelle sul matrimonio ispirate al principio del bene pubblico. Sono, invece, del tutto uguali le
disposizioni sulla coabitazione e quelle patrimoniali per
le quali vi è anche un esplicito richiamo agli articoli del
Codice civile relativi al matrimonio (nn. 11, 12, 13).
E) Il numero 21 del decreto governativo applica il
regime successorio della famiglia fondata sul matrimonio alle unioni omosessuali. Come è noto, la libertà di
disporre dei propri beni “mortis causa” incontra il limite
delle quote riservate ai legittimari (coniuge, i figli e gli
ascendenti). Se più legittimari concorrono tra loro, le rispettive quote cambiano. Per esempio, se un genitore
muore senza coniuge, la quota per un unico figlio è della
metà dell’asse ereditario e se i figli sono più di uno è dei
due terzi. Se, invece, vi è il coniuge, all’unico figlio spetta
un terzo e la metà e alla pluralità di figli.
Non è dunque insignificante che il partner del defunto sia equiparato al coniuge. Tale equiparazione reca
un danno patrimoniale ai figli che il compagno omosessuale ha eventualmente avuto in un precedente matrimonio o comunque con rapporti eterosessuali. Un
effetto simile si verifica nelle successioni legittime, cioè
quando manca il testamento. Occorre ricordare che il
partner omosessuale può certamente ricevere per testamento tutta la quota disponibile dell’eredità. Perciò, è
doveroso chiedersi se sia giusto il sacrificio dei figli per
effetto di una diminuzione delle quote stabilite in favore di parenti, cioè di persone geneticamente legate
tra loro e con il coniuge del “de cuius”, cioè con la loro
madre o il loro padre.
Indipendentemente da queste considerazioni, sembra evidente che i limiti alla libertà testamentaria sono
posti in considerazione dell’interesse pubblico rivestito
dalla famiglia fondata sul matrimonio, ciò che manca
nella convivenza omosessuale.
Inoltre, si pone a questo proposito la domanda del
perché il trattamento delle unioni omosessuali deve essere più favorevole di quello riservato alle famiglie di
fatto eterosessuali. Legami durevoli di affetto, di assistenza, figli allevati, vi sono facilmente anche nelle coppie di fatto. Come giustificare il trattamento privilegiato
delle unioni civili, reso identico o comunque molto avvicinato a quello relativo alle coppie sposate, più di
quanto non avvenga per le coppie eterosessuali di fatto,
molto più prossime nella sostanza alle coppie sposate?
F) Le stesse riflessioni valgono per il trattamento
pensionistico, in particolare per la pensione di reversibi-
lità. In sostanza i nn. 17 e 20 equiparano al coniuge il
partner omosessuale. Lo stridore è ancora più forte nel
confronto con le coppie di fatto eterosessuali. A parte
gli evidenti limiti di compatibilità economica particolarmente pesanti in un momento in cui il complessivo sistema pensionistico rischia il fallimento; a parte il
pericolo di abusi realizzati attraverso la simulazione di
convivenze, è evidente la violazione di quel principio di
uguaglianza che viene invocato proprio per ottenere
l’equiparazione con le coppie eterosessuali sposate. Invero, non si capisce perché tale pensione venga attribuita al superstite di una coppia omosessuale e sia
negata ai superstiti di una compagnia convivente “more
uxorio” (ed anche a qualsiasi altra convivenza prolungata, sostenuta da una reciproca assistenza e magari finalizzata ad aiutare persone disagiate).
L’attribuire alle unioni civili gli stessi effetti del matrimonio in materia ereditaria e pensionistica mostra all’evidenza l’intento di equipararle al matrimonio, ciò che
è inammissibile.
Emerge anche un ingiustificato favore per le unioni
civili in confronto alle convivenze di fatto eterosessuali.
Il n. 36 del testo governativo si riferisce alle convivenze di fatto sia etero che omosessuali.
Il n. 37 del testo governativo accerta la sussistenza
della convivenza di fatto quale definita dal n. 36 mediante la dichiarazione anagrafica. In tal modo la differenza rispetto alle unioni civili sarebbe la maggior
solennità dell’atto con cui queste ultime si costituiscono
con la presenza di un pubblico ufficiale e di due testimoni. È un dato formale davvero non significativo per
giustificare il regime privilegiato che attribuisce diritti
ereditari e pensionistici.
Naturalmente nulla vieta che il legislatore rivolga
un’attenzione particolare ai diritti umani che si esplicano
nelle situazioni concrete del vivere e dunque anche nelle
“formazioni sociali” omosessuali. Dalla convivenza, dalla
solidarietà, dall’affettività nascono relazioni in cui è facile riconoscere diritti ed obblighi particolari tra i partner che peraltro non interessano la società nel suo
insieme. Per colpire l’opinione pubblica i movimenti
LGTB richiedono, ad esempio, il diritto di visita del compagno/a in ospedale o in carcere, il diritto di poterlo\a
rappresentare e di prendere per lui\lei decisioni nel caso
di sua inabilità o malattia, il diritto di restare nell’abitazione comune anche dopo la morte del partner. Sono richieste meritevoli di attenzione, molte delle quali,
peraltro, sono già state prese in considerazione dall’ordinamento.
I nn. da 38 a 49 attribuiscono ai conviventi di fatto diritti molti dei quali già sono riconosciuti nell’ordinamento giuridico. Può essere opportuno dare ad essi
maggior certezza, ma non si può fare a meno di segnalare il carattere pleonastico e declamatorio della proposta su alcuni punti.
Nel caso di malattia (n. 39) nessuna legge impedisce
ad una persona di visitare l’amico/a malato e rientra nel
generale diritto di libertà il potere di nominare il/la convivente come rappresentante riguardo a decisioni relative alle terapie e ai trattamenti post mortem (n. 40).
Nella scelta del tutore dell’interdetto, del curatore
dell’inabilitato e dell’amministratore di sostegno la facoltà di nominare il convivente è già prevista espressamente dagli artt. 408 primo comma e 424 sesto comma
del vigente c.c.
Nel caso di decesso del convivente di fatto causato
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dall’atto illecito di un terzo (n. 49), la giurisprudenza
(Cass. 4 ottobre 2002, n. 3305) ha già applicato in favore
del convivente sopravvissuto il principio generale che
l’atto illecito, se provoca un danno economico e/o morale, esige il risarcimento in favore del danneggiato. La
distruzione della convivenza affettiva è un danno che si
aggiunge a quello economico se è provato che il defunto
provvedeva stabilmente al sostegno finanziario della
persona con lui convivente. Questa è una conseguenza
che discende dai principi generali già esistenti nell’ordinamento, applicabili – si può pensare – non solo alle convivenze omosessuali e non solo a quelle eterosessuali che
si svolgono more uxorio, ma anche a qualsiasi forma di
convivenza non episodica.
In materia locazione di immobili urbani (n. 44) già la
giurisprudenza (C. Cost. n. 404 del 1988), ha stabilito la
successione nel contratto nel caso di morte del conduttore non solo del coniuge, ma anche del convivente
more uxorio. Del resto nulla vieta di stipulare congiuntamente un contratto di affitto in modo da garantire il
diritto alla abitazione anche dopo la morte del convivente.
Il n. 50 attribuisce ai conviventi la facoltà di stipulare
un contratto di convivenza. In realtà è un potere che essi
hanno in forza della generale autonomia privata garantita dall’art. 1322 del c.c. ed è noto che a livello nazionale il notariato ha predisposto un apposito
vademecum.
Ma in materia penale il convivente non è inserito tra
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le persone non punibili nel caso di favoreggiamento personale e di altri reati contro l’amministrazione della giustizia (art. 307 c.p.p.) e un chiarimento potrebbe essere
opportuno in merito alla facoltà di astenersi dal testimoniare in procedimenti in cui il partner è imputato (art.
199 c.p.p.). Tuttavia in tema di terrorismo e criminalità
organizzata le misure di protezione si estendono a coloro che convivono con i collaboratori di giustizia (art. 9
DL 15 gennaio 1991 n. 8 convertito in legge 15 marzo
1992 n. 82) ed il sostegno economico previsto dalla L. 20
ottobre 1990 n. 302 per le vittime del terrorismo e della
criminalità organizzata può essere erogato anche a persone che risultino essere state conviventi per un periodo
di almeno tre anni prima dell’evento letale. Anche il convivente, inoltre, è abilitato ad avere incontri con la persona detenuta (L. 26 luglio 1975 n. 354).
In conclusione può essere opportuno uno specifico
testo normativo per dare ordine, chiarezza e completamento ai diritti dei singoli in quanto parti di quelle particolari formazioni sociali che sono contrassegnate da un
legame affettivo.
Ma coerenza vuole che si tratti di diritti e doveri riguardanti le relazioni reciproche tra le persone che compongono la convivenza omosessuale. Le misure di
protezione devono garantire il rispetto di tale relazione
e cioè la libertà degli individui ma diversa è la garanzia
dovuta alla famiglia quale “nucleo fondamentale della
società e dello Stato”.
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12.
D
Un servizio
per l’Europa
opo aver dimostrato che non è la sola compagnia affettuosa a giustificare l’interesse pubblico (vedi punti 3, 5, 8); dopo aver risposto
all’obiezione che fa leva sul principio di eguaglianza per esigere il “matrimonio identitario” o il
“simil matrimonio” per coppie omosessuali, resta da replicare all’argomento secondo il quale l’Italia, per non
essere “arretrata” e per adempiere ad obblighi internazionali, dovrebbe introdurre nel suo ordinamento il
riconoscimento delle coppie omosessuali, così come
hanno già fatto altri Paesi europei, come ci ha chiesto
il Parlamento Europeo e come ci avrebbe imposto la
Corte europea dei diritti dell’uomo.
Ma il punto di partenza della riflessione deve essere
diverso. Dobbiamo chiederci non se le leggi di altri
Paesi devono essere un modello per noi ma, piuttosto,
se l’Italia abbia una particolare responsabilità verso le
altre Nazioni e verso l’Europa, e cioè se la sua cultura
giuridica debba essere un modello per altre Nazioni e
un punto di orientamento per gli organi di giustizia sopranazionali.
È vero che più volte il Parlamento europeo ha approvato risoluzioni che invitano le Nazioni a riconoscere il matrimonio omosessuale, ma, come è noto,
nessuna competenza normativa è stata attribuita all’Unione dai trattati in materia di famiglia, sicché queste risoluzioni registrano soltanto le opinioni della
maggioranza dei parlamentari europei, ma non hanno
alcuna efficacia giuridicamente vincolante.
D’altronde l’esame dettagliato di tutte le risoluzioni
sopra ricordate (dell’8 febbraio 1994, del 6 marzo 2000,
del 14 luglio 2001, del 4 settembre 2003 e dell’8 giugno
2015) mostra che l’istanza del matrimonio omosessuale
è inserita in una lunga serie di altri giudizi e richieste
largamente condivisibili in materia di aiuto allo sviluppo, di lotta alla discriminazione, di prevenzione
delle guerre e di azioni pacificatrici, sicché è immaginabile che nel voto complessivo la questione omosessuale sia stata considerata secondaria o addirittura non
presa in considerazione da molti.
Quanto alla tesi che dalla Convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali
(art. 8: rispetto della vita privata e familiare; art. 12: diritto al matrimonio, art. 14: divieto di discriminazione)
e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (art.
9: diritto di sposarsi) discenderebbe l’obbligo di equiparare le unioni omosessuali al matrimonio eterosessuale, le supreme magistrature italiane (Corte
Costituzionale: sentenze n. 138 del 2010 e n. 170 del
2014; Corte di Cassazione: sentenze n. 4180 del 15
marzo 2012 e n. 2400 del 30 ottobre 2014; Consiglio di
Stato sentenza n. 4547 del 26 ottobre 2015) hanno già
reiteratamente e definitivamente stabilito la inesistenza di un obbligo imposto dal diritto internazionale
e comunitario di riconoscere il matrimonio omosessuale, perché al massimo si può ritenere che nel materiale giuridico sopranazionale è sancita la facoltà, ma
non l’obbligo, di concedere l’accesso al matrimonio ad
una coppia omosessuale.
Nella materia in esame, infatti, la Corte europea ha
sempre affermato l’esistenza di “un ampio margine di
apprezzamento” riservato agli Stati nell’esercizio della
loro potestà legislativa (v. ad esempio la sentenza
Schalke Kopf contro Austria del 24 giugno 2010). È vero
che recentemente (sentenza del 21 luglio 2015 nel caso
Oliari) l’Italia è stata condannata a pagare una simbolica somma alla coppia omosessuale ricorrente cui era
stata negata la registrazione delle pubblicazioni prematrimoniali.
Ma, le decisioni della Corte che è organo del Consiglio d’Europa non obbligano gli Stati a legiferare in un
modo piuttosto che in un altro e d’altra parte, come ha
ben riconosciuto il Consiglio di Stato, la suddetta sentenza non ha affatto richiesto all’Italia di riconoscere il
matrimonio della coppia omosessuale, ma soltanto di
dare seguito all’invito contenuto nella sentenza costituzionale n. 310 del 2010 che abbiamo tante volte già
ricordato in questo saggio. Come in questa decisione
costituzionale anche la Corte europea esclude che l’art.
12 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, invocato dai ricorrenti, imponga all’Italia l’obbligo di
concedere l’accesso al matrimonio alle coppie omosessuali (n. 191).
La censura europea riguarda il fatto che non sia
stato predisposto uno “strumento specifico” per il riconoscimento e la tutela delle coppie omosessuali, così
come suggerito dalla citata sentenza costituzionale.
Come abbiamo dimostrato lo strumento specifico è
quello che tutela la libertà della formazione sociale
omosessuale.
Una legge che viceversa introduce il matrimonio
omosessuale travalicherebbe i limiti dell’invito costituzionale e di quello europeo.
In conclusione: se crediamo alla “fondamentalità”
della famiglia, dobbiamo anche avvertire una particolare responsabilità verso l’Europa. L’Italia è sempre
stata un modello esemplare di civiltà giuridica. L’idea
stessa di unità europea sembra oggi in crisi perché interessi particolari ed un individualismo di stampo materialista ed utilitarista fa prevalere interessi particolari
invece dei valori comunitari. Se la famiglia è fondamento della società e dello Stato è certamente anche
fondamento dell’Europa.
La attuale crisi economica non deve far dimenticare
i valori di un umanesimo che dovrebbe – come solida
spina dorsale – far restare in piedi l’Europa. L’Italia, che
ha contribuito non poco al nascere dell’Unione, deve
avvertire una sua particolare responsabilità in questo
momento.
Perciò le decisioni che il Parlamento adotterà non riguarderanno solo l’Italia, ma anche l’Europa.
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I CAPITOLI
1. Non basta lo stralcio dell’adozione
2. Matrimonio, unioni civili, convivenze di fatto:
differenze “fondamentali”.
3. La fondamentalità della famiglia
e della differenza sessuale
4. Per capire: meditazione sul figlio
5. Matrimonio e unioni omosessuali:
fondamentalità o non fondamentalità
6. Diritto pubblico e diritto privato. Conseguenze
7. Il tema Dell’adozione
8. Formazioni sociali.
L’art. 2 della Costituzione
9. Matrimonio, convivenze di fatto.
Differenze
10. Unioni omosessuali e principio di uguaglianza
11. Esame critico della proposta governativa
12. Un servizio per l’Europa