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iniziando 10 “Augusto è dietro a dormire”: mi rispondeva così la mamma quando gli telefonavo a casa. Semplicemente: Augusto stava dormendo perché era arrivato tardi dal concerto, chissà da dove, con ore di viaggio a macinare ancora parole e disegni. Stremato da canzoni, racconti, incontri, immagini. Stremato e felice: lo sentivo così al telefono con la sua risata travolgente e contagiosa a ragionare di cose e scherzare. Come per la cena da combinare: «Ma mica tua moglie ha quei libri, “Cucchiaio d’argento” o “Mestolo d’oro”, per provare le ricette?». Incredibile: parlavo con Augusto, scherzavo con lui, addirittura potevo intervistarlo. Roba da non credere, davvero, per me che avevo sentito la splendida voce di Augusto, e i suoni dei Nomadi, quando avevo tredici anni. Ricordo il posto, il momento, persino la luce e il profumo dell’aria: il cortile della colonia dei Salesiani a Latte di Ventimiglia, in uno di quei pomeriggi azzurri che avrebbero poi evocato Paolo Conte e Adriano Celentano, con le piante di pepe a condire la malinconia con la nostalgia di casa. E lì, da una radiolina di chissà chi, arriva Dio è morto. Quelle parole mi piacciono davvero. E la voce è diversa, strana ma bella. La radiolina è sintonizzata su “Radio Monte Carlo” che suona Tous les garçons et les filles de mon age, e già mi sono innamorato perdutamente di François Hardy che la canta, per poi giocare con il “Balla balla” della cera Liù. La voce di Augusto la risento a spiaggia, seduto sulle pietre sporche di catrame: è proprio diversa da tutte le altre. Ciano (Luciano Guarini, sfortunato coetaneo e bravo musicista) mi spiega che è una canzone di protesta, beat. Glielo ha detto suo padre, Giorgio, batterista. Beat? Forse è per questo che è diversa dalle altre la copertina del 45 giri che, finalmente tornato a casa, vedo nella vetrina del negozio di dischi: Dio è morto. Se Dio è morto è per tre giorni, poi risorge. Beat rimarrà nel ricordo come sinonimo di sogno, d’una speranza che ha i colori e i profumi dei fiori come le camicie che indossano i Nomadi. Undici anni dopo Augusto, Beppe e i Nomadi sono a Saluzzo in piazza Cavour (la “tettoia” dei tanti concerti beat) ospiti del festival dell’Unità. Imperdibili. Li intervisto e fotografo per “La Stampa”. È la prima volta. E diventiamo amici in un modo particolare, diverso. Tanto da sentirci in qualche modo “fratelli”, se non di latte di certo di risate e complicità. Di qui i tanti incontri, iniziative (anche una mostra insieme e con Alberto Rinaudo: “La musica e i silenzi”), concerti. A Costigliole Saluzzo, con Walter Genre e Elso Peirano, nell’ottobre del 1993 organizzo “Ciao Ago! Tre giorni di musica, immagini e amicizia per ricordare insieme Augusto e Dante”: tantissima gente, gruppi musicali, mostre, la presentazione del libro Nomadi, il suono delle idee di Davide e Beppe Carletti con Bila Coppellini. E poi Rosi, la splendida Rosi. Ma a toglierci il fiato è l’arrivo, inaspettato, del papà e degli zii di Dante, riconoscenti, portati da Claudio e Valeria della neonata associazione “Augusto per la Vita”. Rileggendo le interviste ho rivissuto tante belle storie personali, momenti di grandi risate e di commozione. I molti concerti con mia moglie Margherita e le mie figlie Tatiana e Barbara, sino a quello dell’agosto 1991, a Castagnole Lanze, con i futuri generi Alberto e Massimo. E Dante (Pergreffi) a dirmi: iniziando «Non essere geloso, lasciale andare». Dante era il “cucciolo” dei Nomadi, particolarmente di Augusto che lo metteva in mezzo a mille scherzi. Dagli interventi degli amici e ammiratori che hanno accolto l’invito a scrivere di Augusto emerge questa sua dimensione allegra, ironica, forse non ben conosciuta dai più, che sottolineava il suo gran piacere della vita, del vivere ogni minuto senza sprechi e futilità. Accettando anche la candidatura nel Pci (il partito comunista) per le elezioni politiche del 1985 nel collegio di Reggio Emilia dove risulta il primo escluso dopo Nilde Jotti, con un mare di voti. Chissà che cosa avrebbe fatto in Parlamento Augusto? Lui era interessato e curioso di tutto senza sprecare nulla. Ad esempio potevi andare avanti per ore a parlare di letteratura (adorava Carlo Sgoloron e Marguerite Yourcenar) ma anche di Totò, il principe Antonio de Curtis: i Nomadi avevano partecipato al film Totò yéyé del 1967 registrando una canzone al “Piper” di Roma. Era il periodo dei “musicarelli” film che prendevano a pretesto le canzoni di successo del momento come ad esempio Vacanze sulla neve con Silvia Dionisio, girato sempre nel 1967, che li vede suonare in un albergo di Cortina d’Ampezzo. Per il film La ragazza di via Condotti (1973) Augusto incide la canzone Una ragazza come tante per la colonna sonora di Enrico Simonetti. Ma c’erano anche le tristezze e le incazzature. Lo raccontano bene, nei loro interventi pubblicati in questo libro, il batterista Daniele Campani e il fonico Atos Travaglini: quella vena che gli attraversava la fronte e lo rendeva muto. Lo ricordo così una volta soltanto, dopo un concerto: non avevamo fatto cena, come sempre, prima dello spettacolo e già questo mi era sembrato strano. Poi sceso dal palco era quasi fuggito, rifugiandosi nell’auto con Beppe: «Scusami, ma questa sera non riesco a chiacchierare», mi aveva detto e l’avevo visto triste come non mai. Pochi giorni dopo la notizia: «Forse ci sciogliamo perché Giampaolo e Chris vogliono cose che non possiamo dargli». Una brutta storia che Augusto e Beppe mi raccontarono con il nodo in gola e l’amarezza dell’incredulità: ne scrissi, come sempre, su “Stampa Sera”. Poi, finalmente, dopo troppo tempo, l’annuncio: si riprende a suonare, a fare. Ci vediamo a Reggio Emilia: Augusto e Beppe mi presentano Daniele Campani, il nuovo batterista che ama i fumetti. Come Augusto che ne colleziona quintali, come me che ancora ne scrivo. Augusto era tra l’altro un appassionato di Kinowa, collana western degli anni Cinquanta e Sessanta scritta da Andrea Lavezzolo e disegnata dal trio EsseGesse. Cioè da Giovanni Sinchetto, Dario Guzzon e Pietro Sinchetto con i quali lavorerò e diverrò amico, curando tra l’altro anche la ristampa storica di Kinowa. Vorrà dire qualcosa? Mah. Così come la coincidenza della prima mostra di pittura di Augusto, organizzata a Castagnole Lanze dal vulcanico Lorenzo Abbate, che lo vide protagonista con Pietro Alligo, grande collezionista di immagini e tarocchi che diverrà editore con Mario Pignatiello. E naturalmente anche con loro sono amico e complice. Un bel cortocircuito. I Nomadi ripartono: con Augusto e Beppe ci sono Dante, Cico, Daniele, Atos. Ed è una partenza davvero entusiasta, piena di voglia e di bellezza. Augusto ha una voce ancora più forte, particolare, unica. 11 iniziando 12 Io scrivo del loro ritorno su “Stampa Sera”. È stata una bella stagione quella vissuta nel quotidiano torinese del pomeriggio: ho potuto scrivere al meglio e molte volte dei Nomadi perché il caporedattore degli “spettacoli”, Piero Soria, li apprezza, da persona intelligente. Così come il direttore Luca Bernardelli. Diversamente dai molti, troppi, giornalisti che invece non li considerano, addirittura li deridono. Ne parliamo sovente con Augusto e molte parti delle nostre interviste sono risposte ironiche, in qualche modo, a questi colleghi snob che negli Ottanta plaudono il riflusso e affossano “questi Nomadi protestatari fuori tempo”, salvo poi celebrare Augusto dopo la sua scomparsa. Capita molto spesso, purtroppo, nell’ipocrisia dei ruoli. Quando vengo incaricato di preparare un programma per la domenica sera di RadioDueRai dal direttore Corrado Guerzoni, tra i nomi dei potenziali personaggi da intervistare inserisco naturalmente Augusto Daolio (ci sono anche Francesco Guccini, Lucio Dalla, Mario Castelnuovo, Ivano Fossati…). Nell’incontro con il direttore, nell’ufficio di viale Mazzini a Roma, inizio a spiegare chi è Augusto ma Guerzoni mi blocca: «Lei pensa che io non conosca i Nomadi?». Già. Guerzoni è intelligente. Mi succede anche con Pupi Avati quando collaboro ai programmi dell’emittente televisiva satellitare della Cei (Conferenza Episcopale Italiana) “Sat 2000” in cui è produttore e direttore artistico. Realizzo, con Gianni Galli, Remo Schellino e Erika Peirano, uno speciale su Augusto già scomparso e raccontato da Rosi. Tra i molti ricordi c’è, forte, quello del “cineforum” cioè di quando lei, Augusto ed altri amici affittavano un proiettore e si chiudevano in una casa per vedere film di Avati. Augusto amava in particolare “Le strelle nel fosso”. Pupi ne aveva sentito parlare e ne è affascinato: nasce un carteggio con Rosi e anche l’idea di un film su Augusto… I Nomadi sono stati, sono, protagonisti di centinaia di concerti, amatissimi da un pubblico in crescita: eppure da sempre sono stati ai margini non soltanto dello showbiz ma persino delle manifestazioni “alternative”. Basti dire che non sono mai stati invitati alla rassegna della canzone d’autore organizzata dal Club Tenco a Sanremo, il “Premio Tenco”. Incomprensibile e incredibile. Salvo ospitare una mostra di disegni di Augusto, “naturalmente” dopo la sua scomparsa. Eppure è difficile trovare altri esempi di scelte così rigorose e autoriali come quelle compiute da Augusto e Beppe. Attraverso le interviste che Augusto mi ha rilasciato nel tempo è possibile quindi ritrovarne il pensiero, le scelte, i programmi. Persino la voce. Chi l’ha conosciuto può quindi sentirne gli echi, chi invece non ha avuto questa felice opportunità può farsene un’idea. Soprattutto leggendo quanto scrive direttamente Augusto nella splendida Lettera a Silvia scritta nel maggio del 1978 per un’amica morta di cancro (i corsi e ricorsi…), testo poco noto che abbiamo deciso con Rosi di pubblicare. Così come alcune delle molte poesie inedite lasciate da Augusto. Era bello stare con Augusto, parlare, ma anche restare in silenzio a vederlo scolpire, incidere nel legno, graffiare i fogli. C’era sempre complicità. Così quando esce la nuova rivista “No Limits World” che il direttore Antonio iniziando Soccol vuol portare oltre i confini dell’agonismo, coinvolgo Augusto tra i testimoni di una scelta di vita aldilà delle convenzioni e comodità di rito. E subito mi risponde entusiasta. Non ho più incontrato Augusto dal gennaio del 1992. Ci siamo telefonati, scritti, prima per la scomparsa di sua mamma e poi per quella di Dante, sempre tacendo della sua malattia in quel perverso e ipocrita, ma persino dolce, gioco delle parti. Mi pesava non rivederlo: un giorno mi telefona, allegro come sempre (era già malato), per invitarmi ad una sua mostra di pittura cui tiene molto nel teatro “Valli” di Reggio Emilia. Un bel riconoscimento. Non riesco ad andarci ma scrivo un articolo di annuncio, con l’intervista ad Augusto, per il quotidiano “L’Indipendente” al quale collaboro nel periodo in cui è diretto da Ricardo Franco Levi. Articolo che non esce per scelta della redazione. Capita ogni giorno nei giornali di dover scegliere e non sempre le scelte sono felici. Scrivo così ad Augusto per scusarmi, sia della mancata pubblicazione del servizio, sia della mia latitanza ai concerti dopo la scomparsa di Dante. E lui mi risponde così: “Carissimo Alberto, non preoccuparti dell’articolo: è sempre così, tutti chiedono e tu devi rispondere sì. Quando hai bisogno tu e chiedi dicono di no! Questa è una delle leggi che governano questo mondo. Ti ringrazio moltissimo del messaggio pieno di amicizia, d’affetto e soprattutto calore umano. Tutto quello che dici è vero, è tremendamente vero. Mai noi saremo più forti di tutto e ci troveremo ancora a ridere, scherzare, e impareremo a tenere in un angolo del nostro cuore i nostri ricordi più intimi. Le verità solo nostre. Un abbraccio a te e alla tua famiglia”. Ciau, Augusto, e grazie. Di tutto. Alberto Gedda 13 le interviste le illustrazioni 127 chine colorate su cartoncino, cm 18x18 le poesie Aspetto che mi giudichino e aspetto che qualcuno scopra l’Italia e ci pianti sopra una bandierina e canti forte. Aspetto che l’età dell’ansia muoia e aspetto che si combatta l’ultima guerra che darà al mondo l’anarchia aspetto di emozionarmi ancora e scoprire ancora la meraviglia, aspetto che il furore sia messo da parte, aspetto di vedere se veramente Dio parla latino, se riesce a sintonizzarsi sul canale giusto, aspetto di sapere il menu dell’ultima cena, e se ci sarà l’antipasto. Aspetto che si chiami il mio numero, aspetto allo sportello il mio stipendio contaminato, aspetto di essere benedetto, ereditare la terra senza pagare le tasse e aspetto che gli animali fuggano dallo zoo e tornino nelle foreste. Aspetto un metodo per uccidere i nazionalismi senza uccidere nessuno. Aspetto che non cadano passeri e pianeti, aspetto che sia scoperto il segreto della vita eterna, da un piccolo dottore di provincia, aspetto che le tempeste della vita passino. Aspetto di risentire vecchie musiche d’organo in una strada di Praga, aspetto il giorno in cui tutte le cose saranno chiare aspetto che nessuno canti più “O sole mio” in una pizzeria di Madrid, aspettando che Dio si sporga dal belvedere di un grande monte e veda che farsa è il miracolo pagato, aspetto che qualcuno chieda scusa ai ragazzi morti in trincea, aspetto che il bimbo cresca e che scopra la bellezza e vi monti sopra e aspetto che trasmetta a me il suo sogno di bellezza e di innocenza. Aspetto che il prode cavaliere arrivi alla nera torre per la conferenza finale sul disarmo totale. Aspetto che tornino le verdi mattine e i campi della mia giovinezza, aspetto che un’idea metta in crisi il mio microfono aspettando di cantare una grande canzone, aspetto che gli amanti in fuga si raggiungano alla fine e si abbraccino e si bacino. 129 le interviste 22 SETTEMBRE 1978 MILLE GIOVANI A SALUZZO PER I NOMADI Com’è, dieci anni dopo, il popolare complesso musicale che entusiasmava i ragazzi del ‘68 «C’è modo e modo di scrivere e cantare: la canzone può diventare una parte di noi, del nostro passato. Un disco rappresenta, allora, una fetta della nostra storia personale, una molla che fa scattare sensazioni e ricordi». E ricordi, sensazioni, storie si sono mescolati a nostalgie “generazionali” fra i circa 1.500 giovani che hanno gremito, a Saluzzo, piazza Cavour dove il complesso dei Nomadi ha aperto il festival dell’Unità. I Nomadi, infatti, fanno parte di un continuo, lineare, discorso musicale e culturale iniziato nel 1966 con brani scritti da Francesco Guccini, quando l’autore bolognese non era ancora il padre carismatico dei cantautori nostrani. Molti dei loro dischi sono legati a precisi stati d’animo di una gioventù passata attraverso entusiasmi e crisi. «Come tutti i giovani di tutti i periodi storici – afferma Augusto Daolio, “voce” del complesso – Non mi piace, non mi convince questa specie di revival del Sessantotto, spesso fatta da gente che le proteste in piazza non le ha mai fatte. E poi non è vero che la violenza è tipica dei giovani: basta guardare cosa fanno certi “maturi”». Augusto e il tastierista Beppe Carletti rappresentano il primo nucleo del gruppo nato nel 1963 con tournée fra Rimini e Riccione. «Poi molti elementi sono cambiati – prosegue Augusto, emiliano sanguigno – Attualmente viaggiamo in cinque amici realmente nomadi. Noi non ci consideriamo degli artisti, ma degli artigiani seri che vogliono fare bene il loro lavoro perché, se corretto, il disco è come un libro: rimane». E che le canzoni rimangano a testimoniare qualcosa l’ha dimostrato l’entusiastica accoglienza del pubblico ai brani interpretati dal gruppo, costretto al “bis” da un’ovazione generale. «Sembra di essere tornati indietro di dieci, dodici anni – commenta il saluzzese Elso Banchero – Quando qui si organizzava il “Festival beat” che richiamava giovani da tutti i comuni vicini, divisi tra fans degli “Slaves”, “Pantere” e “Gatti Verdi”». «Dio è morto, Noi non ci saremo e le altre canzoni di quel periodo per me hanno un significato intimo – aggiunge Lorenzo Mori, impiegato – Mi ricordano i tempi di un’adolescenza da capellone passata a suonare le chitarre con gli amici nelle soffitte». Oltre ad Augusto e Beppe, i Nomadi sono composti da Umberto Maggi (bassista), Giampaolo Lancellotti (batterista), Chris Dennis (chitarrista e violinista). Dopo Riverisco lor signori e Come potete giudicar (quest’ultima del 1966) il programma è proseguito con continui accostamenti tra il periodo “storico” e l’attuale dove il gruppo interpreta brani scritti da giovani autori di diverse regioni: come Il Paese il cui autore è un giovane di Asti o La Realtà scritta da un insegnante modenese che traccia un bilancio personale e politico. Dopo un’infuocata jam session finale, i Nomadi hanno quindi “bissato” quel gucciniano Dio è morto che tanto scalpore fece dodici anni fa «quando c’era la 15