jaipur - estetica della citta

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jaipur - estetica della citta
JAIPUR
La conquista araba dell’Africa settentrionale è fin dall’inizio accompagnata dalla
realizzazione, accanto alle città esistenti, di città nuove come Sabra Mansuryya presso
Kairouan, per ora soprattutto accampamenti militari con i palazzi dei califfi, la
moschea grande e quelle minori, la più clamorosa, nel X secolo, il Cairo, a sua volta
echeggiante quella costruita dai fatimidi due secoli prima.
Il Cairo era un’immensa fortezza, cinta di mura di 1250 metri per 1000, tagliata
longitudinalmente da una lunga ma irregolare strada cerimoniale, tracciata da porta a
porta, con al suo centro i palazzi del califfo e tutt’intorno i quartieri dell’armata.
L’invasione moghul dell’India, agli inizi del Cinquecento, serba la memoria di quelle
spettacolari fondazioni, sicché fortezze con le medesime dimensioni e con la
medesima articolazione interna - i palazzi del sovrano, le moschee, gli harem, le
caserme e gli edifici del governo - sorgono ad Agra e a Dehli, circondate da mura alte
trenta metri e lunghe due chilometri e mezzo, introducendo un modello seguito dai
maragià locali, che ne costruiranno di altrettanto immensi, vere e proprie città,
circondati da mura alte anch’esse trenta metri, ad Amber e a Jagarh lunghe come
quelle di Agra, a Gwalior lunghe tre chilometri, a Jaisalmer cinque, a Bikaner sette.
Il Cairo nel XII secolo
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Gwalior, il castello
Jaisalmer, il castello
Castello vecchio ed edifici interni del castello nuovo a Delhi
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Agra, le mura e la loggia Fathepur Sikri, la corte
Nel corso del XII secolo compare nella Siria crociata, con il Krak dei Cavalieri, un
tipo di castello con più cerchie murarie concentriche e arricchito al suo interno da
fabbricati autonomi con svariate destinazioni, accanto al quale sorge spesso, senza un
preventivo piano, una nuova cittadina, talvolta circondata da mura la cui estensione
testimonia il rango del suo signore.
Questo castello viene ripreso da un lato in Europa (per esempio a Carcassonne) e
dall’altro in Oriente (per esempio in quello iraniano di Bam) per giungere ad
affiancare, in dimensioni ridotte, il modello delle città-fortezza dei moghul.
Siria, Krak dei Cavalieri
Iran, Bam
Sono i castelli di Jodhpur e di Udaipur, pur sempre cospicui ma con dimensioni
meno gigantesche, cui cresce subito intorno una città le cui immense mura
testimoniano anch’esse la ricchezza e la potenza del maragià.
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Jodhpur, facciata del castello e mura della città
Udaipur, castello
Il ruolo militare di questi castelli era dubbio – le guerre tra i maragià, risolte in
scontri in campo aperto e non con assedi, erano già cadute in disuso nella seconda
metà del secolo con il dominio indiscusso dei moghul – e le loro mura sono per
questo ingentilite spesso da aeree logge e da calligrafiche decorazioni. Ma la passione
di costruirne di nuovi, circondati o no di nuove città, declina comunque agli inizi del
Seicento, quando l’attenzione dei maragià comincia a rivolgersi verso la loro
decorazione interna - sale di udienza, stanze degli specchi, finestre traforate – con una
inclinazione da wunderkammer fomentata in seguito dall’importazione di mobili e di
suppellettili europei.
Ma nel 1727 Jai Singh II, già signore dei castelli di Amber e di Jagarh, deciderà di
costruirne uno altro a dieci chilometri di distanza, là dove le colline declinano nella
pianura, al centro di una nuova città: decisione a quei tempi sorprendente, forse
incoraggiata dall’aspettativa che, collocata lungo la strada da Delhi al Rajastan – la
regione dei maragià a nord ovest dell’India - sarebbe stata un’occasione di prosperità
per il suo regno, forse o soprattutto espressione del nudo desiderio di progettare una
città.
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Jai Singh II fu infatti un personaggio singolare, abile diplomatico a servizio
dell’imperatore moghul ma anche curioso indagatore delle arti e delle scienze,
promotore di bizzarri osservatori astronomici un po’ dovunque – a Delhi e, più
modesti, a Varanasi e altrove -, sperimentatore balistico e, infine, appunto fondatore
di una città.
Osservatori astronomici di Jaipur e di Delhi
I testi classici indiani della letteratura architettonica descrivono una città ideale, dove
ogni casta e ogni mestiere sono protetti da una divinità che a sua volta ha un sito
privilegiato dall’orientamento astronomico, ma si tratta di esercizi letterari per
correlare lo spazio urbano alla sacralità, non di veri e propri suggerimenti progettuali:
la città reale rispecchia il contraddittorio mondo degli uomini e non avrebbe senso
pretenderla perfetta nella sfera del sacro, sicché nessuna città indiana è mai stata
realizzata secondo un piano.
E’ la vulgata della cultura europea, diffusa in un continente indiano pullulante ormai
di occidentali, a convincere Jai Singh II che la città sia un manufatto progettabile nel
suo insieme, ma senza essere in grado di suggerirgli poi uno schema consolidato e
indiscutibile. Questa convinzione affonda infatti in Europa le sue radici nella pratica
di fondazione urbana sviluppatasi dal XII secolo che di fatto non ha dato luogo a una
teoria consolidata ma soltanto all’asserire che la bellezza della città consista nel
disegno geometrico della sua rete viaria, come a Palmanova o a Grammichele.
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Palmanova e Grammichele
Geroglifici a base di quadrati erano d’altronde ricorrenti in India. Scelto il sito della
nuova città tenendo conto della sua sacralità piuttosto che, come in Vitruvio e in
Alberti, della sua salubrità, il vastu shastras - il corpus dei principi architettonici
consolidato nei trattati indiani - suggeriva di suddividerne lo spazio secondo varie
griglie di quadrati, i mandala, alla cui collocazione nella città secondo i punti
cardinali venivano appunto associate divinità e caste… seppure poi suggerendo che i
commercianti di gemme, oro e tessuti preziosi dovessero avere bottega, come in
qualsiasi città medievale europea nella piazza del comune, così nella città indiana
nelle strade accanto al palazzo del re.
Il principio geometrico del mandala come generatore dello spazio sacro – che
percorre la cultura indiana e che costituisce tuttora il principio del rapporto
modernità/tradizione nell’architettura contemporanea – potrebbe peraltro dar luogo a
figure differenti (come del resto anche senza mandala ha dato luogo in Europa il
semplice virtuosismo del disegno).
Due diverse interpretazioni di un mandala quadrato
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Jaipur, pianta del Jawahar Kala Kendra di Charles Correa
Bartolomeo Ammannati, progetto di convento (1584)
Di fatto la pianta della nuova città, Jaipur, corrisponderà al modello di un mandala
diviso per quadrati, ma il suo disegno complessivo non costituirà un poligono
regolare, com’era consuetudine in Europa, ma sarà l’esito di diversi principi estetici e
rituali sovrapposti.
Jaipur, pianta
La pianta di Jaipur mostra un impianto a maglie quadrate coerente con lo schema del
mandala, ma mostra anche che questo principio non viene inteso come una regola
geometrica di dominio spaziale – come quello dei disegni europei - ma piuttosto
come una guida soft sulla quale innestare una gamma di varianti. In primo luogo lo
schema generale è asimmetrico, perché il castello occupa il centro di un immaginario
mandala quadrato con nove caselle al quale sono però state sottratte le tre
settentrionali; in secondo luogo chi ha tracciato il piano desiderava sottolineare la
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strada nord-sud dal castello di Amber alla vicina città di Sanganer disponendo la
porta corrispondente al centro delle mura meridionali (dietro la cui ala orientale
intravediamo un abitato frammentario per la presenza di un tempio); in terzo luogo
l’accesso al castello da oriente, considerato sotto la protezione delle divinità
domestiche, avviene sulla strada nord-sud, che ha qui una porta orientale ritualmente
rilevante per la sua sacralità.
Jaipur, porta di Sanganer
Jaipur, pianta settecentesca
Ma la veduta settecentesca ci mostra invece una città guidata da un diverso principio,
quello di una strada processionale spiccata da una porta meridionale delle mura
diversa da quella di Sanganer, di maggior rilievo simbolico e per questo sottolineata
di rosso, verso l’ingresso monumentale del castello, quella appropriata ai cortei
ufficiali, e oltre il castello fino al tempio più antico della città.
Una successione così ritmata evoca le sequenze caratteristiche delle città europee,
tant’è che un secolo fa, nel pieno dell’influenza coloniale, è stata proseguita nel
nuovo giardino pubblico e verso l’Albert Hall, il museo progettato da Samuel
Swinton Jakob in stile hindu-saraceno.
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Jaipur, pianta contemporanea
Questo modello di strada diretta verso l’ingresso monumentale di un edificio era
comparso nella seconda metà del Cinquecento nelle tombe dei sovrani moghul a
Delhi e ad Agra, costituite da immensi recinti quadrangolari tagliati da una croce di
strade al cui centro è collocato l’edificio della tomba vera e propria e i cui ingressi
hanno la forma di porte monumentali. Ciascuno dei quattro grandi quadrati marcati
dai viali che connettono la tomba alle porte è poi scompartito - come il mandala
evocato da Correa - da altri quattro viali secondari in nove quadrati minori, secondo
una figura geometrica diversa da quella generale dominata dalla croce, quasi vi
convivessero due modi diversi di intendere lo spazio.
Tomba di Akbar a Sikandra e porta dal Taj Mahal ad Agra vista dall’interno
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La tomba di Humayun a Delhi e il suo giardino
Beninteso il recinto di una tomba non è una città: tuttavia, chiuso da mura sottolineate
da porte monumentali che lo isolano dalla campagna, con un solenne edificio al
centro, corrisponde a una possibile idea di città che abbia al centro il palazzo del
principe: una città che in Europa pochi avrebbero condiviso – l’urbs europea,
manifestazione della sua democrazia e del suo conseguente principio egualitario,
tollera male la sottolineatura di un principe, i cui castelli saranno per questo al
margine dell’incasato – ma, anche se molti trattati indiani suggeriscono di collocarlo
a ovest riservando il centro a un tempio di Visnù, sarebbe stata in India del tutto
legittima.
Sul tracciato della città si innesteranno poi alcune vistose tracce di cargo cult, quella
tendenza cioè – che abbiamo in verità anche noi europei – ad assumere singoli
elementi di un’altra cultura, dove hanno un proprio specifico significato,
reimpiegandoli nella nostra con un significato diverso, proprio come i selvaggi
traevano dalle stive delle navi perline colorate o sveglie da appendersi al collo.
Derivano dalla vulgata europea le dimensioni delle strade maggiori: la lunghezza di
quella est-ovest, di tremila metri, è quella del tratto rettilineo della shop street di
Londra (che da Hyde Park Corner al termine di Cheapside è lunga 4,5 km) mentre la
larghezza di trenta metri echeggia anch’essa quella della medesima strada come la si
può arguire dalle vedute contemporanee, o forse quella dei boulevard parigini del
tardo Seicento.
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Strada di Jaipur e veduta di Cheapside nel 1750
Il boulevard du Temple a Parigi nel 1684
Le strade commerciali, “dove i mercanti di stoffe, i cambiavalute, i commercianti di
cereali siedono nelle loro botteghe come tanti Kuberas”, sono un topos letterario
dell’opulenza cittadina, uno sfondo appropriato ai cortei reali, e a questa rilevanza
non pare fuori luogo una cospicua larghezza: ma gli autori classici indiani parlavano
di strade larghe al più 14 metri e di fatto le strade commerciali sono più strette.
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Strada con il corteo reale, 1638
Strade commerciali ad Ajmer e a Udaipur
L’ascendenza al boulevard europeo non implica di assumerne il significato: la città
indiana è prima di tutto uno spazio sacro, e dunque accanto al traffico delle
automobili, dei tricicli, delle motociclette - che sostituiscono cammelli ed elefanti di
un tempo - nel mezzo della strada crescono alberi sacri accanto ai quali un santone ha
disposto un piccolo tempio dipinto di rosso dove ha steso la sua stuoia e vive in
contemplazione, come del resto le “murate” nelle casette sulle pile del ponte alle
Grazie a Firenze nel Trecento.
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Jaipur, l’albero sacro e il tempietto
Seconda evidente citazione è l’idea di bordare le strade più importanti con portici,
altra invenzione europea immaginata per dare uniformità architettonica alle facciate
delle case, disturbate al piano terreno dal frastuono visivo delle botteghe che
trabordano fuori le loro merci: ma qui le botteghe hanno tutte un pianale interno per
l’esposizione delle merci, e soprattutto il bazar è fatto di edifici a un solo piano.
Sicché il portico costituisce soltanto un ornamento aggiuntivo della strada e la sua
copertura – dove non vengono prolungate, come in Europa, le facciate delle case una passeggiata aerea raggiungibile da chiunque attraverso scalinate che salgono dal
piano terreno.
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Jaipur, strade e portici
Saranno due secoli dopo gli inglesi, nel loro programma di colonizzazione, ad
importare le strade principali porticate al piano terreno caratteristiche dell’Europa, ma
fino ad allora i portici di Jaipur rimarranno soli.
Jaipur, interno dei portici
Bombay, interno dei portici
Terza clamorosa citazione è poi che l’uniformità edilizia costituisca un apprezzabile
obiettivo estetico, e che i progetti delle nuove costruzioni debbano quindi venire
preventivamente controllati da Vidyadhar, l’architetto del maragià che ha curato
l’intero progetto. Tuttavia non è qui in gioco, come in Europa, un principio di qualità
estetica delle facciate delle case – che del resto non troverebbe il fondamento di una
teoria architettonica cui riferirsi – quanto la rigorosa uniformità dei portici, filo
conduttore di un’idea di bellezza germogliata dalla cargo cult contemporanea.
Ma clamoroso esito di questo principio di uniformità è l’aver fatto dipingere tutte le
case di un bel colore rosato – forse ispirato a quello dei castelli di Delhi e di Agra che, lentamente slavato dal tempo, venne ripristinato nel 1883, quando Jaipur fu
visitata dal principe di Galles.
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All’incrocio delle strade più importanti sono state disegnate delle sorprendenti piazze
quadrate, nelle quali erano originariamente disposte le cisterne, che devono forse
anche queste qualcosa all’evocazione dei modelli europei – le città del Rajasthan non
hanno piazze, che sono un’invenzione europea – ma hanno un tracciato che ricorda
molto dappresso i piazzali all’incrocio dei viali delle tombe monumentali come quella
di Humayun.
Piazze di Jaipur
Può invece essere un edificio monumentale degno della munificenza di un principe il
bazar, reticolo di botteghe a un piano con un largo spiazzo per il mercato del
bestiame.
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Bazar di Jodhpur
I quartieri quadrati delimitati dalle grandi strade - le cui strette vie interne hanno
larghezze e andamento variabili non riconducibili al mandala - avrebbero dovuto poi
ospitare in ogni piccolo isolato gruppi di cittadini omogenei per casta (e di
conseguenza per mestiere) sotto il controllo di famiglie eminenti della corte, che Jai
Singh II incoraggia a costruirsi palazzi cospicui nello schema tradizionale di una casa
a corte, gli haveli, qui necessariamente a più piani per ospitare l’intero clan,
costituendo una sorta di struttura aggregante per l’intera comunità locale.
Jaipur, gli haveli
Non si tratta questa volta di un’innovazione, perché haveli straordinariamente
decorati li troviamo anche a Jalsaimer o a Jodhpur, e come a Jodhpur la loro stessa
presenza incoraggia la diffusione di facciate con una decorazione molto ricca che non
intende rappresentare lo status conseguito in una società mobile, come in Europa, ma
soltanto mostrare pubblicamente e doverosamente, come una divisa militare, il ruolo
attribuito alla famiglia dal sovrano.
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Haveli a Jalsaimer e a Jaipur
Case a Jaipur, a Agra, a Delhi
Gli haveli e in genere le case rispettano la complessa articolazione delle corti, il ritmo
delle porte, dei muri, dei pilastri che costituiscono un motivo dominante del rituale,
nel passaggio tra spazi interni ed esterni, dove le logge delle facciate non sono
dunque soltanto un motivo architettonico ma vengono riprese dagli architetti moderni
come tema essenziale della tradizione architettonica indiana.
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Jaipur, facciate antiche e facciate moderne di V. B. Doshi
Sicché si spiega come molte case nuove espongano tutt’ora in facciata dei colonnati,
che hanno a che vedere con l’articolazione del sacro anziché con la rappresentazione
dello status
Diffusione delle colonne, a Jaipur e in un villaggio vicino
Forse i portici continui delle strade, suggeriti dai contatti con la cultura europea,
hanno trovato a Jaipur una sorta di legittimazione e di riscontro nel desiderio di
generalizzare una pratica architettonica, quella di erigere porticati davanti agli edifici,
già episodicamente diffusa e soltanto da estendere con un programma unitario:
proprio come i portici isolati del XII secolo hanno poi dato luogo in Europa alle
strade interamente porticate.
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