LEzIONI da oltre confine

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LEzIONI da oltre confine
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ALTRI MONDI
Lezioni
da oltre
confine
UNA PROFONDA
RIFLESSIONE suGLI
EFFETTI DELLA
DISGREGAZIONE DELLA
EX JUGOSLAVIA, nel
basket e non solo. lo
sport anticipa sempre
le dinamiche sociali
S
di Sergio Tavčar
ono convinto che essere
uomo di sport sia a volte un
grande privilegio per riuscire
a capire in anticipo cose che stanno
covando nella società e che i “grandi” politici scoprono molto più tardi,
quando ormai i buoi sono scappati
dalla stalla. Ho vissuto in prima persona tutta la vicenda della disgregazione
della Jugoslavia con la continua angoscia di essere una specie di alieno, in
quanto cose che a me apparivano, da
uomo di sport, lampanti, ovvie, annunciate con largo anticipo da quanto
succedeva sui campi da gioco, erano
continuamente ignorate da tutta la comunità dei “grandi” politici della terra
che insistevano nel produrre “soluzioni” che altro non erano che gettare
sul fuoco la produzione giornaliera di
benzina dell'Arabia Saudita. E infatti si
è poi visto com'è andata. Bastava che
qualcuno avesse fatto qualche anno
prima un giro per gli stadi jugoslavi
per capire cosa in effetti bisognava
fare e che sarebbe stato secondo me
molto semplice fare, se non altro per ◂
▸ Drazen Petrovic. Nessuno come lui...
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limitare - e sono convinto che sarebbero stati limitati di molto - i danni.
Ma lasciamo stare, anche se a distanza di più di 20 anni la frustrazione per
quanto avrebbe dovuto succedere e invece non è successo continua a essere
vivissima. Se però fosse stata usata la
medicina giusta non avrei avuto modo
di vedere cosa è successo al basket
jugoslavo, cioè non avrei potuto avere sott'occhio tutte le dinamiche che
lo sport anticipa in campo sociale,
fungendo da esempio semplificato di
quelle che sono poi le direzioni che
prende l'intera società.
Allora passiamo al tema, anche per dare un taglio ai paroloni che
mal si addicono a un “ignorante”
giornalista sportivo, uno cioè che,
trattando di argomenti frivoli e insignificanti, nulla può capire dei massimi sistemi. Allora: la Jugoslavia nel
'91 si sfalda. Nel basket sta fiorendo
quella che avrebbe potuto essere la
più grande generazione mai nata,
una generazione che alla “matura”
età media di 21 anni e mezzo (“rovinata” dai 24 anni di Dražen Petrović)
vinse l'argento alle Olimpiadi di Seul
giocando in finale contro l'URSS (che
aveva appena battuto gli USA) la peggior partita di tutta l'Olimpiade. Pochi
ricordano infatti che nel girone eliminatorio quella stessa Jugoslavia aveva
nascosto la palla ai sovietici (che per
questo erano stati costretti a battere
gli USA prima della finale). Pazienza,
tanto c'era tutto il tempo per rifarsi.
No, non c'era: bastò per giocare il miglior basket di sempre agli Europei di
Zagabria 1989, bastò per dominare il
Mondiale di Buenos Aires del '90, con
tutti i venti di guerra che già spiravano
e privi di una Repubblica (la Slovenia
ritirò Zdovc per le semifinali e la finale), bastò per dominare gli Europei di
Roma '91, e poi crollò tutto. Mezza Jugoslavia con il nome di Croazia ebbe il
privilegio di essere la sparring partner
del Dream Team a Barcellona, mentre
l'altra mezza Jugoslavia era bandita
dalle astute cancellerie internazionali
(che allora forse cominciavano a capire cosa era in realtà successo mettendo in opera, come sempre in questi
▸ Toni Kukoc, 3 titoli NBA con i Bulls
casi succede, rimedi della serie “pezo
el tacon del buso”). L'altra mezza Jugoslavia, finalmente rientrata, giocò
la finale di Atlanta, proprio nell'occasione nella quale si sarebbe dovuta
vedere la miglior Jugoslavia di sempre. Pensate nel '96, con un'età media
di 28-29 anni, cioè nel massimo delle
proprie possibilità fisiche e tecniche,
con esperienze pluriennali di militanza nell'NBA, cosa avrebbe potuto fare
una Jugoslavia con Petrović, Đorđević,
Danilović, Bodiroga, Zdovc guardie,
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Kukoč, Paspalj e Stojaković ali, Divac,
Rađa, Vranković, Rebrača e Savić centri. Io sono fermamente convinto che
contro “quella” America, fondamentalmente senza MJ, avrebbe vinto a
mani basse. E, oso dire, anche contro
MJ ci sarebbe stata partita.
La scuola jugoslava dunque
produceva giocatori di straordinario livello in serie. Il perché l'ho già
spiegato nel mio pezzo precedente su
questo giornale. Fondamentalmente
era la stessa scuola che veniva messa ▸
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in opera dovunque adattandola alle
caratteristiche peculiari dei popoli jugoslavi, diversi per storia, mentalità,
cultura e abitudini. Creando con ciò
giocatori che parlavano la stessa lingua cestistica, ma con approcci mentali totalmente diversi, il che dava alla
squadra nazionale una duttilità e una
capacità di adattamento che nessun
altro aveva al mondo. Con la disgregazione della Jugoslavia tutto ciò andò
ovviamente a farsi benedire. Però paradossalmente gli effetti in un primo
momento furono benefici. La storia,
vedi per esempio la riunificazione tedesca, insegna che nello sport l'unione non fa necessariamente la forza. In
un sistema centralizzato le forze periferiche più deboli, dal punto di vista
economico, ma soprattutto politico,
cominciano a soffrire e lentamente deperiscono. In Germania per esempio si
persero per strada tutte le straordinarie capacità tecniche e di reclutamento che erano state la grande forza della
DDR (lasciamo stare il doping che era
il “turbo” finale, ma che non sposta
più di tanto il discorso). Nel processo
inverso, quello cioè di disgregazione,
le cose si svolgono in modo specularmente contrario.
Prendiamo per esempio la Slovenia (per la Macedonia vale più o
meno lo stesso discorso: quando parlo
▸ Michael Jordan. Una Jugo unita nel '96 avrebbe potuto batterlo?
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di sloveni pensate per esempio ai macedoni Naumovski, Ilievski o Antić).
La Slovenia è stata sempre una regione dove il basket era vissuto come una
specie di sport nazionale, sicuramente più del calcio. Per esempio quando
politici, parlamentari o attori o comunque personaggi pubblici giocano
una partita di beneficenza lo fanno
giocando a basket e non certamente a
calcio. Però era stata inevitabilmente
soffocata dalle altre repubbliche più
grandi e influenti, Serbia e Croazia,
per cui i talenti che vi sbocciavano dovevano fare una lunghissima strada
per arrivare ai vertici. Cioè dovevano
mettersi in mostra nei vari campionati locali, al momento giusto passare
all'Olimpija di Lubiana, che era sempre stata una specie di “nazionale”
slovena con pochissimi innesti di giocatori “stranieri” (e anche quando ne
prendevano, tipo Jelovac, andavano a
prenderlo in Istria, cioè molto vicino),
e poi eventualmente pensare di poter
andare in nazionale. E, visto che l'Olimpija, per la concorrenza che c'era,
raramente riusciva a giocare le Coppe
internazionali, l'esperienza che questi
giocatori maturavano era sempre limitata, per cui tantissimi non riuscivano
in carriera a esprimere tutto il proprio
potenziale. Con l'indipendenza tutto
questo venne a cadere. Si ebbero così
esempi di giocatori cresciuti nelle società minori che saltarono subito il
fosso bypassando tranquillamente
l'Olimpija e andando da molto giovani a forgiarsi in squadre importanti,
esempi classici Nesterović, Smodiš,
Lakovič, ma anche tanti altri tipo Slokar o Brezec, magari Bečirović prima
che le ginocchia lo mettessero sulle
stesse. Giocatori che, sono sicuro, se
ci fosse stata ancora la Jugoslavia, mai
avrebbero raggiunto quello che hanno
poi raggiunto. Lo stesso Goran Dragić
è un po' l'ultimo mohicano di questo
sistema.
Questi giocatori emersero perché intanto continuava l'onda lunga della
scuola jugoslava, nel senso che gli
allenatori che li allevavano funzionavano ancora secondo i vecchi schemi,
▸
primo perché non ne conoscevano al-
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tri, ma anche e soprattutto perché funzionavano perfettamente. Lasciando
da parte la Bosnia, che, poverina, aveva ben altri problemi con cui confrontarsi, per la Croazia e la Serbia le cose
furono un tantino diverse, nel senso
che per loro emergere nella vecchia Jugoslavia non era un problema, per cui
la produzione di giocatori continuò
secondo i vecchi schemi ancora per un
po', continuando dunque a produrne
di bravi in profusione.
In definitiva per un po' le cose andarono che meglio non avrebbero potuto. Da una Jugoslavia ne emersero
dapprima quattro più o meno equivalenti (forse con la Macedonia un gradino sotto), poi arrivò, una volta calmatosi un tantino l'uragano bellico,
la Bosnia (non aggiungo volutamente
l'Erzegovina perché, essendo abitata
prevalentemente da croati, soprattutto
ora, dopo la guerra, si sente in realtà
una regione croata, per cui i suoi giocatori, tipo Planinić o Barač, optano
automaticamente per la cittadinanza
croata), forse la regione dove crescono, in senso letterale, i giocatori più
alti e imponenti d'Europa. E infine
arrivò il Montenegro che, una volta separatosi dalla Serbia, poté finalmente
esprimere tutto lo straordinario potenziale fisico dei suoi atleti (onestamente: cosa pensereste adesso se in
qualità di CT doveste incontrare una
nazionale che schierasse contemporaneamente Peković, Mirotić, Dubljević,
Vučević e Pavlović?). Ed era veramente
affascinante vedere come emergessero
poi, cristallizzandosi, le caratteristiche
peculiari dei singoli popoli che nel calderone jugoslavo si perdevano amalgamandosi. Avevamo così i disciplinati asburgici sloveni, che però per il loro
inguaribile complesso di inferiorità di
popolo piccolo circondato da vicini
grandi e pericolosi tipo italiani a ovest
e tedeschi a nord erano fondamentalmente perdenti; avevamo i croati che
davano sempre l'impressione di essere un esercito in missione; avevamo i
serbi creativi e fantasiosi afflitti però
dal loro innato strafottente sentimento
di superiorità su tutto il mondo, e così
▸
via.
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I tempi però passano. Quest'anno in Slovenia e nelle altre repubbliche jugoslave sono usciti dalle scuole
i primi diplomati nati non più in Jugoslavia, e che dunque la Jugoslavia
non sanno neppure cosa fosse, se non
per sentito dire da genitori e parenti.
Slovenia e Croazia sono nell'UE, dunque fanno parte di un'entità politica
completamente diversa, i giovani sloveni, non più obbligati a imparare il
serbocroato a scuola, hanno sempre
maggiori difficoltà a farsi capire quando passano la Kolpa (il fiume che fa
da confine fra Slovenia e Croazia), insomma la Jugoslavia si sta disgregando pian piano anche nelle teste. E così
fatalmente si sta disgregando anche la
scuola cestistica, ahimè. I vecchi allenatori, salvo alcune rarissime eccezioni, sono in pensione, oppure all'estero, i giovani tecnici sono sempre più
amalgamati al mainstream mondiale,
leggi americano. Sono cambiate le
condizioni sociali, i giovani ex jugoslavi sono sempre più simili ai loro coetanei del resto d'Europa, afflitti dalle
moderne diavolerie tecnologiche, per
cui non vedono più nello sport un
veicolo di affermazione personale,
con tutto quello che ciò comporta in
termini di motivazione e di etica del
lavoro, insomma le cose si stanno
“normalizzando”. Personalmente ero
convinto che, dovunque fossi andato,
se avessi visto all'opera una squadra
sconosciuta di basket, avrei capito
dopo due azioni che non poteva non
essere una squadra serba, o croata, o
slovena, solo per come si muoveva in
campo e per le cose che i suoi giocatori facevano. Grandissima fu perciò la
mia afflizione quando due anni fa seguii a Lubiana gli Europei Under 20 e
non riconobbi i serbi, che mi sembravano esattamente come tutti gli altri,
e mai avrei immaginato che potessero
essere serbi se non avessi visto scritto
Srbija sulla maglietta. Lì capii che le
cose erano definitivamente cambiate
e che una lunga e gloriosa storia era
arrivata al capolinea. Impoverendo in
modo devastante tutto il basket mondiale. O basket jugoslavo, sia ti lieve la
terra natia. ◂
▸ Goran Dragic, sloveno, ormai una superstar NBA
▸ Nikola Mirotic, stella montenegrina naturalizzato spagnolo
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