La lunga notte - Confindustria Modena
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Mondo | I retroscena del settore energy del La lunga notte L’economia mondiale s’intreccia con le crisi geopolitiche ed è sempre più dipendente dalla speculazione finanziaria Il calo del petrolio non è solo una buona notizia. È la punta dell’iceberg di un malessere che è la causa prima del collasso delle Borse a inizio 2016. Un problema che non risparmia nessuno, nemmeno gli Usa, pur in piena ripresa. Perché in questi anni molti Paesi hanno chiesto e ottenuto finanziamenti a basso costo per sviluppare investimenti garantiti dall’oro nero. E ora azzardare previsioni è impossibile, ma le prospettive restano negative G Petrolio di Ugo Bertone odiamoci il grande saldo. La bolletta petrolifera italiana si è più che dimezzata, toccando 32 miliardi scarsi di passivo a fine 2015 contro i più di 70 del 2012. La bella notizia, stavolta, fa il paio con la riduzione degli interessi sul debito pubblico: l’onere è sceso nel 2015 a circa 70 miliardi contro 75,1 del 2014. E per l’anno corrente, promette Maria Cannata, dirigente del Tesoro responsabile del debito, si profilano ulteriori risparmi. Possiamo festeggiare, insomma. Ma con moderazione. Perché questi fenomeni non sono soltanto medicine salutari per un Paese convalescente, quale è l’Italia dopo i danni provocati dalla crisi più profonda del dopoguerra, ma anche il sintomo di uno stato di malessere e di disagio che condiziona l’intera economia globale. II calo generalizzato delle materie prime, innescato dalla debolezza Il bicchiere mezzo pieno, per l’Italia, è che la bolletta petrolifera si è più che dimezzata, 32 miliardi scarsi di passivo a fine 2015 contro oltre 70 miliardi nel 2012; ridotti anche gli interessi sul debito pubblico. E secondo Maria Cannata, dirigente del Tesoro responsabile del debito, si profilano ulteriori risparmi Maria Cannata, dirigente del ministero del Tesoro Mondo | I retroscena del settore energy L'altalena dei prezzi del greggio negli ultimi 50 anni: il petrolio è stato al centro di ogni evento politico o economico di grande rilevanza, provocando a sua volta ripercussioni evidenti sui Paesi di ogni parte del globo L’ALTALENA DEL PREZZO DEL PETROLIO (1965-2015, in dollari) 150 l’Opec abbandona il prezzo base di riferimento: i prezzi crollano del 66% in 82 giorni 120 90 Prima guerra del Golfo: i prezzi crollano del 48% in 71 giorni Crisi finanziaria del 2008: i prezzi crollano del 77% in 112 giorni 60 Prezzo medio 1965-2015: 48,31 dollari al barile L’economia russa senza i proventi del settore oil è in pericolosa contrazione. E il Venezuela rischia un crack che potrebbe trascinare il resto del Sud America. Non meno inquietante è il pericolo che il crollo del greggio provochi un’impennata di default tra i produttori statunitensi: a quel punto si scatenerebbe una violentissima reazione nella finanza americana, con terribili effetti per il sistema bancario 16 OUTLOOK L’Opec abbandona il prezzo base di riferimento: i prezzi crollano del 51% in 83 giorni 30 0 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 2010 2015 Nota: ultima osservazione marzo 2015 Fonte: Banca Mondiale della domanda cinese, al pari dell’inflazione che non riparte (con la parziale eccezione degli Usa), è il sintomo della diffusione della «stagnazione secolare», ovvero di una depressione strutturale dell’economia, refrattaria alla medicina dei tassi bassi e restia ad accelerare gli investimenti nella convinzione che la domanda strutturale sia destinata a restare bassa. Un malanno pericoloso, sottolinea l’economista Kenneth Rogoff, soprattutto per l’Italia, afflitta da un doppio handicap che frena la propensione a investire: l’alto livello del debito e il trend demografico, caratterizzato dall’invecchiamento della popolazione. Il calo del petrolio, insomma, non è solo una buona notizia ma la punta dell’iceberg di uno stato generale di malessere che è stata probabilmente la causa prima del collasso delle Borse a inizio 2016 che, partito dalla Cina, non ha risparmiato gli Stati Uniti, pur in piena ripresa. O tantomeno l’Italia. Già nella conferenza stampa di fine anno Matteo Renzi aveva messo in guardia contro gli effetti della nuova situazione sui conti dell’Eni e dell’industria manifatturiera attiva nel settore delle infrastrutture per l’energia, uno dei punti di forza del made in Italy. Nel frattempo, la crisi del greggio La contrazione dei profitti sta investendo diverse realtà importanti per il capitalismo italiano: dal Brasile alla Turchia, passando per i Paesi del Golfo, fino a metà 2015 grandi clienti del lusso italiano ma anche attenti investitori sul mercato del mattone e di Piazza Affari, che stanno iniziando a chiudere i cordoni della borsa si è aggravata, investendo alcuni Paesi chiave per il capitalismo italiano, dal Brasile (in picchiata) fino alla Turchia. E non è solo questione di rapporti commerciali: i Paesi del Golfo, fino a metà 2015 grandi clienti del lusso italiano ma anche attenti investitori sul mercato del mattone e di Piazza Affari, stanno chiudendo i cordoni della borsa. L’Arabia Saudita, intanto, si accinge a far concorrenza sul mercato dei capitali, a caccia di compratori per i Bond di Stato e per le azioni Aramco, il colosso dell’industria petrolifera che il regno intende quotare per non compromettere l’equilibrio finanziario senza aumentare le tasse o comprimere, pena il rischio di rivolte popolari, il welfare. Non è da escludere, si legge su MarketWatch (l'autorevole inserto telematico del «Wall Street Journal» che si occupa di mercati finanziari a 360 gradi), il rischio che la crisi del greggio Kenneth Rogoff, ex capo economista del Fondo monetario internazionale, attualmente docente ad Harvard MARZO/APRILE 2016 - OUTLOOK 17 Nelle foto, da sinistra: l'Isis controlla la maggior parte dei giacimenti petroliferi siriani e la vendita di greggio rappresenta la sua principale fonte di finanziamento; deposito di stoccaggio dei barili di petrolio Nelle pagine precedenti, da sinistra: costruzioni di nuovi impianti petroliferi in Arabia Saudita; una torre di trivellazione in Russia Leonardo Maugeri, ex dirigente Eni, ora docente ad Harvard possa spingere un fondo sovrano a liquidare i suoi asset con effetti drammatici per le Borse mondiali visto che complessivamente i fondi sovrani raggiungono valori di circa 3.400 miliardi di dollari. Non meno inquietante il quadro che emerge dall’economia russa, in pericolosa e drammatica contrazione. O dal rischio del crack del Venezuela, che potrebbe trascinare con sé in ginocchio il resto del Sud America. E non meno inquietante è il rischio che il crollo del greggio provochi un’impennata di default tra i produttori Usa, che potrebbe scatenare una violentissima reazione nella finanza americana, con effetti devastanti per il sistema bancario. Ben poche banche americane, fa notare il «Financial Times», potrebbero passare l’esame della Federal Reserve, fissato per la fine del 2016, se gli stress test sui crediti al settore energia prevedessero un possibile crollo del petrolio a 10-20 dollari, come prevedono gli esperti di Goldman Sachs. Insomma, in un’economia mondiale sempre più dipendente dalla speculazione finanziaria che s’intreccia con le crisi geopolitiche e l’innovazione tecnologica, il risparmio sui prezzi petroliferi (comunque l’aspetto nel breve più rilevante) non è l’unico fattore di cui tenere conto. Stavolta, anche lasciando da parte in questa sede l’impatto delle riforme imposte dalla lotta al climate change, emerge una congiuntura che richiede molta flessibilità nelle risposte, sia sui mercati industriali sia su quelli finanziari. Fino a che punto è destinato a durare il calo del greggio? Azzardare previsioni in questo campo può solo portare a fare brutte figure, come dimostra la magra del- 18 OUTLOOK - MARZO/APRILE 2016 l’«Economist» che alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, si spinse a pubblicare una copertina dal titolo «A quando il petrolio a 5 dollari?» proprio alla vigilia di uno spettacolare aumento delle quotazioni. Difficile, però, che la storia possa ripetersi nel 2016, salvo lo scoppio, per fortuna improbabile, di un conflitto diretto tra Arabia Saudita-Iran che porti alla chiusura delle vie di transito delle petroliere. C’è anche il pericolo (in questo caso, la speranza) di un accordo di pace in Siria. In questo caso, citando ancora MarketWatch, il prezzo del petrolio potrebbe crollare fino a 10 dollari al barile perché, una volta crollato in Siria, lo Stato islamico verrebbe facilmente sloggiato anche dalla Libia e così la produzione di petrolio salirebbe ulteriormente. Le prospettive, al netto degli sconvolgimenti geopolitici, restano negative: «Al di là di temporanei rimbalzi speculativi», ha scritto Leonardo Maugeri, direttore delle strategie di Eni per più di un decennio (fino al 2012) e attualmente docente ad Harvard, tra i primi a prevedere il ribasso, «le uniche luci che rischiano di vedere i produttori di petrolio sono quelle di un treno che viaggia contro di loro. La lunga notte del petrolio non solo è arrivata ma durerà più del previsto». Per varie ragioni. Primo, perché l’offerta, in assenza di accordi tra i produttori, continua ad aumentare: i pozzi dell’Arabia Saudita, della Russia e di altre potenze petrolifere pompano greggio ai massimi storici, con il risultato di un surplus di due milioni di barili al giorno. E la situazione promette di aggravarsi, visto che presto l’Iran metterà sul mercato altri 500.000 barili al giorno. Infine, già produce i primi effetti la storica decisione di Washington di consentire, dopo il divieto fissato per legge nel 1973, l’export di petrolio, a conferma dell’intenzione americana di svolgere un ruolo più attivo nella politica energetica globale. Ma perché i produttori insistono in una politica potenzialmente suicida? In parte la spiegazione sta nella natura del business. Chi ha speso miliardi per investimenti avviati da almeno 3-4 anni nella presunzione di un rialzo del greggio, non può lasciare a metà i lavori, pena il rischio di perdere i miliardi di dollari già spesi. I nuovi giacimenti, dal Kazakhstan all’Africa o al Brasile vanno comunque messi in produzione per remunerare almeno i costi operativi. Ne deriva, secondo le previsioni di Maugeri, un’asincronia tra domanda e offerta: «Il barile oltre i 100 dollari di alcuni anni fa ha alimentato investimenti per sviluppare giacimenti in ogni parte del mondo. Una parte di questi investimenti è stata completata, un’altra lo sarà entro il 2018, ma nessun progetto in corso è stato fermato dalle compagnie. I tagli riguardano solo investimenti ancora da avviare o altri settori dell’industria». Ma c’è un fatto nuovo: il fenomeno dello shale oil che, a differenza dei giacimenti classici, può essere portato in produzione nel giro di pochi mesi, così come può essere chiuso e riavviato in tempi brevi. Inoltre, nel corso del 2015, l’evoluzione delle tecniche estrattive ha permesso di ridurre in maniera sensibile i costi produttivi dello shale, consentendo all’industria soprattutto americana di limitare l’incidenza della strategia dell’Araba Saudita per tutto l’anno passato. Ne emerge un quadro paradossale: i prezzi sono compressi dalla sovrap- Perché i produttori insistono in una politica potenzialmente suicida? In parte la spiegazione sta nella natura del business. Chi ha speso miliardi per investimenti avviati da tempo nella presunzione di un rialzo del greggio non può lasciare a metà i lavori, pena il rischio di perdere i soldi già spesi. I nuovi giacimenti, dal Kazakhstan all’Africa o al Brasile, vanno comunque messi in produzione per remunerare almeno i costi operativi produzione che riguarda un po’ tutti i competitor. Gli Usa estraggono un milione di barili al giorno in più rispetto al 2014, cosa che spiega la decisione del Congresso di cancellare il divieto dell’export; ma anche Arabia e Iraq hanno aumentato la produzione, rispettivamente di uno e 1,3 milioni, mentre l’Iran è pronto ad aumentare le vendite di mezzo milione di barili dopo la fine dell’embargo; intanto il Brasile produce 200.000 barili, meno del Canada (che è a quota 300.000), che pure ha i costi estrattivi più alti. La logica della domanda e dell’offerta spiega solo in parte gli squilibri attuali. Come ha dichiarato l’amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi «sta pesando la volatilità non solo del barile fisico ma anche del barile cartaceo, la verità è che siamo in balia di chi specula sulle posizioni corte. Quando mancherà l’offerta, diciamo tra un paio d’anni, allora il prezzo potrà ripartire, ma c’è il rischio che questo possa avvenire in maniera incontrollata. L’Opec deve capire che questa instabilità fa male a chi investe e al settore tutto. E Descalzi: «Prevedo, quindi, che nel 2016 e in parte del MARZO/APRILE 2016 - OUTLOOK 19 La logica della domanda e dell’offerta spiega solo in parte gli squilibri. «Siamo in balia di chi specula sulle posizioni corte», dice l’ad dell’Eni Claudio Descalzi. «Quando mancherà l’offerta, allora il prezzo potrà ripartire, ma potrebbe avvenire in maniera incontrollata». Per questo, l’Eni punta su esplorazione e produzione senza farsi troppo condizionare dalle oscillazioni della materia prima Sopra, un impianto di shale oil negli Usa Claudio Descalzi, amministratore delegato dell'Eni 2017 rimarremo ancora con prezzi bassi, poi il prezzo del petrolio si attesterà attorno ai 70-80 dollari, sperando che non ci siano rimbalzi incontrollati». In questa cornice il cane a sei zampe punta su esplorazione e produzione senza farsi troppo condizionare dalle oscillazioni della materia prima. La strategia vincente è stata quella di tornare a esplorare con nuove tecnologie quegli asset che erano dati per finiti. Così sono stati scovati 15 miliardi di barili di olio equivalente, per due terzi gas, in otto anni. Intanto l’Eni accelera sulla strada della trasformazione: è partito l’iter per l’uscita da Versalis, la società della chimica: è stata ceduta al Fondo strategico italiano (Fsi), controllato dalla Cdp, con il risultato di deconsolidare i debiti della società di oil equipment dai conti del gruppo, scongiurando però il rischio di perdere una delle non molte aziende del Belpaese ad alto contenuto strategico. Lo stesso Fsi ha rilevato una quota del capitale di Trevi, la società romagnola che figura tra i protagonisti mondiali nel settore dell’ingegneria del sottosuolo e delle macchine per fondazioni e perforazioni, duramente colpita dalle avverse condizioni meteo incontrate nell’esecuzione di un contratto. Anche così si è manife- 20 OUTLOOK - MARZO/APRILE 2016 stata la volontà di svolgere, nei limiti indicati dalle regole europee, un ruolo attivo di politica industriale in un settore da sempre strategico per il made in Italy, anche per le ricadute dell’indotto. Non meno complessa la situazione di Tenaris, su cui pesa il rallentamento del continente sudamericano, a partire dal Brasile, e la frenata degli investimenti in Nord America. Ma rispetto alla concorrenza, il gruppo che fa capo alla famiglia Rocca può contare su un asset determinante: l’elevata solidità finanziaria, determinante nei momenti più duri. Proprio la precarietà della situazione finanziaria è il dato nuovo del mondo oil, abituato a gestire forti surplus da destinare agli investimenti. Vacillano anche gli imperi più solidi, tipo il Qatar, colpito anche dalla crisi Volkswagen (di cui Doha è il secondo azionista). Sono a rischio addirittura i conti dell’Arabia Saudita che ha appena varato una finanziaria da lacrime e sangue (un taglio di 98 miliardi tra minori sovvenzioni e più tasse) che senz’altro inciderà sui precari equilibri sociali e politici della potenza wahabita. Rischiano ancora di più quei Paesi, dalla Russia al Messico e al Brasile, che hanno chiesto e ottenuto finanziamenti a basso costo per sviluppare investimenti garantiti dall’oro nero. Sono almeno 2.500 i miliardi di dollari per il settore energy (che salgono ad almeno 14.000 miliardi, se si tiene conto delle infrastrutture e altre opere annesse) che non sarà facile restituire, per diverse ragioni: il calo del prezzi, la difficoltà di reperire nuovi finanziamenti, l’aumento di valore del dollaro, il colpo di grazia per i Paesi afflitti dal debito in moneta Usa.E non rischiano poco neppure gli Stati Uniti. Non solo perché anche i giacimenti più efficienti, tipo Eagle Ford nel Texas e Bakken nel North Dakota, operano ormai in forte perdita. Ma anche perché il tracollo dei prezzi della congiuntura sta provocando le prime vittime: 13 compagnie hanno alzato bandiera bianca alla fine del 2015. Intanto il rendimento medio dei corporate bond high yield del settore energia, circa un quinto del mercato, è salito oltre la soglia del 15 per cento, sei punti in più della media del settore, con gravi conseguenze sul rischio default di una fetta consistente del mercato finanziario. I risparmiatori (Usa e non solo) che hanno investito i propri risparmi in «tranquilli» fondi di investimento obbligazionari agganciati all’andamento delle infrastrutture dell’energia (cosa si può immaginare di più stabile di oleodotti, stazioni di servizio e infrastrutture per lo stoccaggio?) hanno accusato a fine 2015 una perdita in media del 37 per cento sul valore dell’investimento. Insomma, non è tutto oro quel che luccica sotto il calo dell’oro nero. • KREACTIVFARMCOM Mondo | I retroscena del settore energy Una piccola innovazione può diventare un grande valore. Proteggila "REVETTIPERINVENZIONEs-ODELLIDIUTILITÌs$ISEGNIEMODELLIs-ARCHIs$IRITTODAUTOREs6ARIETÌ6EGETALI 4OPOGRAlEELETTRONICHEs#ONSULENZETECNICOLEGALIs2ICERCHEESORVEGLIANZE #ONSULENZEDILIBERAREALIZZAZIONEs6ALUTAZIONIBENIINTANGIBILI 6)#%.:!-/$%.!"2%3#)!0!$/6!0!,%2-/ -/$%.! 6IA:UCCHI! -ODENA 4EL 4EL &AX MODENA MAROSCIAIT Maroscia & Associati #ONSULENTIINPROPRIETÌINDUSTRIALEEINTELLETTUALE WWWMAROSCIAIT 6)#%.:! #ONTRÌ0ORTI 6ICENZA 4EL &AX &AX INFO MAROSCIAIT