quaderno7- Girolamo savonarola e Carlo Bello`
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quaderno7- Girolamo savonarola e Carlo Bello`
N.B. TESTO ESAURITO L’ORIGINALE DIGITALIZZATO- L’IMPAGIONAZIONE NON RISPETTA Presentazione Il convegno annuale promosso dal “Comitato per lo studio dell’opera di don Carlo Bellò” quest’anno è stato riservato al contributo offerto dallo storico cremonese allo studio di Girolamo Savonarola, nella ricorrenza del V Centenario della morte (Firenze, 23 maggio 1948). Accanto agli articoli apparsi sui giornali e riviste specializzate, il contributo più organico di Bellò sul frate di Firenze è da individuare nel volume Savonarola. La scure alle radici (ed. Messaggero, Padova 1983). “Guardando il Crocifisso: Girolamo Savonarola e Carlo Bellò” è il titolo della relazione tenuta da p. Armando F. Verde O.P., domenicano presso il Convento di Pistoia, il 16 maggio 1998 al Centro Pastorale, alla presenza dei Vescovi di Cremona e di Fidenza. Il ringraziamento sentito del Comitato e mio personale va a S. E. il Vescovo mons. Giulio Nicolini che ha suggerito la stampa della conversazione di padre Verde nella collana “I Quaderni del Centro Pastorale”; al direttore del Centro Pastorale don Enrico Trevisi, che ha condiviso e accolto con disponibilità l’iniziativa. Cremona 25 ottobre 1998 Walter Montini Presidente del comitato Bellò Le problematiche di fede sono soltanto un punto di partenza verso l’avventura del vivere cristiano, così parafraso una espressione scritta da don Carlo Bellò, per qualificare l’anima dell’apostolato di don Primo Mazzolari. Premessa Fra Girolamo Savonarola visse dal 1452 al 1498, don Carlo Bellò è vissuto dal 1923 al 1983: cinque secoli di storia separano la vita dell’uno dalla vita dell’altro. Colui che deve parlare dell’uno e dell’altro è sballottato da un oceano all’altro e deve far fatica a mantenersi a galla: perché i cinque secoli di storia si riflettono nell’uno, nella forma di quello che avverrà, nell’altro nella forma del già avvenuto. La fortuna è che l’uno e l’altro amavano scrivere senza mai annoiarsi e senza mai annoiare e gran parte dei loro scritti è arrivata a noi: fra Girolamo scriveva su quaderni e fogli sparsi, scriveva persino - ed è mia delizia - sui ristretti margini del suo Breviario, del suo libro di preghiera e compagno di viaggio (presto, chiunque vorrà, potrà avere tra le mani, in edizione fototipica, questa preziosa reliquia, come il Bibliotecario della Reale Imperiale Casa la presentò al Granduca Leopoldo TI, quando nel 1831 ne propose l’acquisto da un antiquario). Non faccio fatica ad immaginare che i libri studiati da don Carlo presentino analoghe caratteristiche, ma arresto la mia fantasia: devo convincermi che non posso più attraversare oceani; ora devo pensare all’approdo finale, (soltanto l’esame dei titoli degli scritti di don Carlo richiederebbe tempo e precise ricerche; e maggiori ricerche e più lungo tempo richiederebbe l’esame dei termini da lui formulati, per indicare le possibili cause della formazione della coscienza cristiana di don Mazzolari: “crescita avvenuta per teologia o per religione, per scelta di cultura o per vocazione, per disperazione o per amore” e delle espressioni da lui coniate per definire l’apostolato dello stesso don Primo: “profezia provocatoria e dirompente”, “le indefinite contrade della salvezza”; straordinarie capacità intellettive e critiche, infine, dovrebbe avere l’eventuale studioso delle opere di don Carlo, perché non potrebbe evitare analisi del ruolo svolto alloro interno dal concetto chiave espresso nel termine “crocevia”). In apertura di questa mia relazione, tuttavia, devo confessare che, nello scorrere le pagine scritte da don Carlo, ho avuto un sussulto di piacere, quando si sono presentate sotto i miei occhi le espressioni: “riflessioni che partecipavano della storia dei tempi”, “appunti della predicazione”, “lezioni catechistiche”, “ordito di un’opera”, espressioni che don Carlo ha usato, quando ha parlato della “preparazione alla missione”, che don Mazzolari fece nel periodo di tempo nel quale fu alla Pieve di Cicognara (Guida alla lettura ..., p. 39). Ho avuto un sussulto, perché sono espressioni che si devono formulare, allorché si scrive la vita di fra Girolamo del periodo 1484-1494, perché in tale periodo, seguendo “la storia dei tempi”, il Savonarola andò formandosi alla missione, scrivendo numerosissimi “appunti di predicazione”, “orditi” di opere, che poi avrebbe sviluppato, “lezioni” di S. Scrittura; trascrizioni di opere da utilizzare e da citare, ecc... Il sussulto si è trasformato, in me, in compiaciuta vanità, perché, constatando l’importanza data da don Carlo a questo tipo di documentazione per conoscere e far conoscere don Primo, ho riscontrato la consonanza di me, storico, con don Carlo, storico: è infatti da molti anni che vado trascrivendo e pubblicando gli “orditi”, gli “schemi”, gli “appunti”, le “trascrizioni” che fra Girolamo scrisse di suo pugno su quaderni e fogli sparsi e ho giudicato come inadeguate quelle opere su fra Girolamo, che hanno preteso di farlo conoscere, trascurando lo studio di tutti queste note autografe. Dico tutto questo per avvertire che il mio parlare, per forza di cose, sarà un peregrinare dall’una all’altra sponda, da don Carlo a fra Girolamo e viceversa, sperando di non smarrire la direzione, desideroso soltanto di dare a noi tutti la possibilità di sentirci all’unisono con loro, quando ci fermiamo in silenzio davanti al Crocifisso, intenti soltanto a guardarlo. Prima parte 1 Il volumetto “Savonarola, la scure alla radice”, di don Carlo Bellò è rapidamente percorso, nel suo significato e nel suo contenuto, da don Ettore Fontana, in un articolo apparso sul primo numero della rivista “Cremona”, articolo nel quale, secondo linee essenziali, ma acutamente individuate, sono accostati fra Girolamo Savonarola, mons. Geremia Bonomelli, don Primo Mazzolari, lo stesso don Carlo, che, in condizioni ecclesiali e storiche diverse, seppero vivere, ciascuno secondo il personale modo di amare, la Chiesa del desiderio, la Chiesa della profezia: “donaci, o Signore, il senso della grandezza... concedici il dono della dolcezza verso l’universo, ma anche l’impeto dello sdegno contro la contraffazione”, scrisse don Carlo in una delle sue preghiere del Vangelo di Paola, facendo sentire la voce del Savonarola, che, sdegnato, richiama Ezechiele: “vi sarà un grande sommovimento di armi” e, annuncia, “questa profezia si avvererà in te, o Italia!”. In apertura dell’articolo, il Fontana sottolinea l’importanza dell’incontro di don Carlo con il Savonarola: “Ci sono affinità - egli scrive - che si rivelano subito all’inizio di una vita intellettuale e l’accompagnano, poi, in tutto il suo tracciato, fino a segnarla in modo inconfondibile. E il caso di Carlo Bellò, quando s’incontra con la figura di “Girolamo Savonarola”. Riprendendo quanto aveva già scritto nella Commemorazione stampata nel quaderno “Memoria di don Carlo Bellò”, ad un anno della sua morte, don Ettore Fontana ricorda che egli si laureò presso l’Università Cattolica di Milano, il 20 novembre 1953, discutendo una tesi dal titolo: “Saggio letterario su Gerolamo Savonarola”; egli, don Carlo, “avvertiva l’ingiusta lacuna [nella bibliografia savonaroliana] di un saggio letterario complessivo, che dal linguaggio risalisse all’intimo spirito”. Quindi, don Fontana, proseguendo, ricorda che don Carlo “venerò sempre come un santo l’ardente predicatore di penitenza e di riforma ecclesiale in bilico tra Medioevo ed Epoca moderna; ne celebrava la memoria ogni anno, il dies natalis, il 23 maggio, giorno in cui fu impiccato e bruciato in Piazza della Signoria, a Firenze. E, quasi presagendo vicina la fine, ritornò al Savonarola con un altro lavoro, che egli stesso consegnò alla stampa, ma non fece in tempo a veder uscire. Al titolo “Savonarola” fu apposto dall’editore (Messaggero, Padova, 1983) un sottotitolo non azzeccato, ma benevolmente tollerato dall’autore come non essenziale”, così don Ettore Fontana nel 1988. 2 Carlo Bellò, con un brevissimo periodo, chiuse il volumetto “Savonarola, la scure alla radice” e sintetizzò la personalità del Frate di San Marco: “Affascinanti sono l’effusione del suo meditare, così puro e così semplice, misto alla disperata sicurezza di spendersi; quello stare così fuori e così dentro il mondo del suo tempo; quella tensione alla santità di vita e alla fede veggente nei contrasti della storia umana; quello sproporzionato duello col pontefice nella sovrastante assoluta e potente fedeltà a Cristo e alla Chiesa sul limite di contraddizioni apparenti. Infatti, tutto si rinsalda nella sua esistenza crocifissa per l’Amore più grande” (p. 369). “La scure è alla radice” (Lc 3,9): il sottotitolo voluto dall’editore e benevolmente tollerato dall’autore, è l’espressione che l’evangelista Luca mette sulla bocca di Giovanni il Battista, che, a coloro che erano sordi al suo richiamo al pentimento, minacciava l’imminenza del castigo; “securis ad radicem” è l’espressione con la quale fra Girolamo Savonarola, nella predica del venerdì delle Ceneri, 10 febbraio 1486, concluse l’enunciazione di tutte le ragioni per le quali egli si diceva sicuro che presto Dio avrebbe purificato la Chiesa mediante terribili flagelli; ragioni che egli andava elaborando da alcuni anni e che era venuto ad esporre al suo uditorio di S. Gimignano, al quale, nella stessa Cattedrale, aveva predicato l’anno precedente. Qualche anno più tardi, nell’estate 1490, da poco ritornato a Firenze, spiegando l’Apocalisse, dopo aver ribadito che i tempi erano tali da far dire che ormai “iam” securis..., già la scure...”; che “omnes declinaverunt... che tutti hanno deviato...”, e che Cristo stesso dice: “Vestis mea est conculcata et irrident me... la mia veste è stracciata e mi irridono...” (p. 46), richiamando un’idea di derivazione agostiniana e cara agli spirituali, secondo la quale il peccato carnale rende l’intelletto cieco, fra Girolamo anima il discorso accentuando il parlare figurato e indicando i soggetti maggiormente corrotti: l’uomo più bestiale degli altri animali; i grandi, divenuti libidinosi, che corrompono tutto, anche i loro parenti; i chierici che leggono le poesie amatorie; i filosofi che studiano le dolirine averroistiche, i prelati che dovrebbero correggere ed invece tacciono, così la corruzione dilaga. Era la esatta conoscenza della corruzione caratterizzante l’attività amministrativa delle pubbliche istituzioni, civili ed ecclesiastiche, che spingeva fra Girolamo a pensare e a dire che il rinnovamento esigeva una rottura radicale con il presente (“infatti quando la corruzione investe le istituzioni il rinnovamento dev’essere alla radice”). Nel Quaresimale del 1491, esporrà questo processo di corruzione, in quello del 1492 lo denuncerà con forza, dando alla denuncia la forma di profezia. Nella esposizione dell’Apocalisse - dicevo - arrivato alla spiegazione del versetto “ed il settimo angelo suonò la tromba”, fra Girolamo impostò un complesso discorso sul giorno del giudizio, venga segato: non c’è altro modo: “Ergo cum non sit alius modus: iam securis ad radicem arboris scrisse lo schema della lezione 29 in funzione esplicativa di quello che, ormai, era il discorso profetico che andava svolgendo; in questa lezione, la proposizione “Iam securis ad radicem arboris posita est: la scure è già posta alla radice dell’albero”, è spiegata con una stupenda allegoria: un orto, un fico nel mezzo, con molte foglie, il sole che si posa sulle foglie e non riesce a penetrare sino alla terra, perché i prelati e i predicatori, gli uni con la ricerca e l’accaparramento dei benefici, gli altri con il loro parlare accomodante, hanno fatto diventare esteriorità quello che era lo spirito interiore degli antichi: l’esteriorità non fa penetrare il sole, l’erba non cresce, si forma la sterpaglia; rotta la siepe, l’orto è invaso dalle bestie: la semina è resa vana. Il padrone dell’orto, allora, dice all’ortolano: l’albero posita est. Ergo parate: quindi, preparatevi...” (p. 64). 3 “Affascinante l’effusione del suo meditare”, “così fuori e così dentro il mondo del suo tempo”, dice don Carlo di fra Girolamo Savonarola. E allora, ripercorrendo il meditare di don Carlo su fra Girolamo e su Colui sul quale fra Girolamo meditava, è possibile comprendere come colui che gridava, “la scure è alla radice” e che stava “così dentro e così fuori il suo tempo”, potesse avere un “meditare” che ancora affascina coloro che lo leggono. Affascinanti Carlo Bellò ha reso le sue traduzioni di testi savonaroliani, come questo brano della Orazione del trattatello sul Pater noster: “Ti preghiamo, Padre, porta a termine quello che hai iniziato così che la tua misericordia continui a seguirci per tutti i giorni della nostra vita e prendiamo dimora nella casa del Signore per sempre. Non volgere il tuo sguardo lontano da noi e non retribuirci in proporzione delle nostre iniquità. Aiutaci, o Dio nostro salvatore, e continua l’opera di salvezza che hai cominciato in noi, così che nella nostra costanza possiamo salvare le nostre anime. Se ci rimetti i nostri peccati, rimettili in modo da non essere mai più sedotti dalla tentazione: in una tentazione che non potremmo sostenere” (p. 193). Oppure, come questi altri brani, tratti dall’esposizione sul Sal. 17: “Diligam te Deus: Ti amerò, o Dio” che, quasi, riproducono il ritmo del Cantico dei cantici: “Ti cercavo senza poterti trovare, o pace dell’anima mia! Non ti trovai perché ti cercavo senza comprendere,/ ti cercavo nelle cose e tu abiti nelle coscienze,/ Percorrevo strade e piazze e non riuscivo a trovarti,/ cercando ai crocevia colui che stava nel mio cuore,! ritenendoti chi sa dove, mentre tu eri vicino./ Ero io lontano da te, tu invece mi stavi accanto.... La tua luce brilla dove non c’è un luogo che la contiene./ La tua voce risuona dove il tempo non riesce a spegnerla./ TI tuo odore si spande dove non c’è vento che spiri./ Il tuo sapore si estende dove non c’è fame che lo consumi./ TI tuo abbraccio circonda tutto e non può distaccarsi./ Che cosa sei, dunque, o mio Dio, che cosa sei, o mio amore?... Dammi un cuore che ti pensa e ripensa.! Dammi una memoria che non ti respinga mai.! Dammi un’intelligenza che sappia intuirti,! una ragione che non acconsenta inclinando verso dite. / Dammi uno spirito che ti ami,! una volontà che non si separi mai da te...” (pp. 238-243). Il don Carlo, che così traduce il Savonarola, è lo stesso che imposta il saggio “Storia di una coscienza cristiana”, quella di don Primo Mazzolari, scrivendo: “La missione non è solo ansia di condurre anime alla fede ma saper ascoltare il silenzio dei deserti, ricomponendo i frammenti di grazia dispersi nei cuori, . . .occorre la fiducia che l’incarnazione raggiunga gli angoli del mondo, avvertire i segni della dimora di Cristo fra i suoi, riconoscere inesausti andirivieni di Lui sui crocevia delle coscienze e non solo sui tornanti della storia...”: fra Girolamo, don Mazzolari, don Carlo furono sui crocevia delle coscienze, come sui tornanti della storia e tutti e tre avevano un meditare “affascinante”. 4 Leggo nella commemorazione del dott. Don Ettore Fontana in “Memoria di don Carlo Bellò” queste parole: “Durante la malattia, [don Carlo] spesso diceva a quelli che l’assistevano, di voler rimanere un po’ solo a ragionare con Lui e indicava il Crocefisso sulla parete di fronte... Guardava il Cristo nella nudità della croce; poi, guardava se stesso, un povero Cristo; e capiva il soffrire e ne scopriva il significato e il valore, e l’allargava negli spazi della solidarietà umana e cosmica...”. E il fratello don Franco, nella conclusione della sua Presentazione alla ristampa di “Dedicarsi ai minimi”, ricorda: “Quando sul letto di morte, guardando il Crocifisso diceva: ‘Signore, Tu sei la mia forza e la mia roccia...’, io guardavo i suoi occhi, gli stessi occhi da bambino che aveva vissuto, che aveva sofferto e che orami s’affidava solo a “Quello” tanto grande che la vita umana vi si può perdere senza nostalgia e senza paura” (p. 11). Sul letto di morte egli stesso veniva a situarsi tra i minimi, nei quali scorgeva “la traccia del volto sofferente di Gesù Crocifisso”. “Il dolore umano, che si stampa nella carne, è tremendo aveva scritto - ma solleva l’animo dei credenti negli spazi inesausti della speranza, ci si distacca dalla vita mediocre, per l’imminente senso dell’Eterno...”. Carlo Bellò, sul letto della malattia, avviato alla morte, guarda il Crocifisso; fra Girolamo Savonarola, nel braccio della morte della prigione, portato di peso, con il braccio slogato e gettato sul tavolaccio, guarda il Crocifisso e mormora: “Abbi pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia... Signore, piega a me il tuo orecchio, vieni presto a liberarmi...”: tutti e due, di fronte a morte sicura, sono davanti a Cristo Crocifisso e con Lui chiudono l’esistenza terrena. Fra Girolamo e i suoi due compagni andarono all’impiccagione mormorando: “Giesù”. Il cronista Luca Landucci informa che, quando i Fiorentini, sul palco del supplizio costruito nella Piazza, alzarono i pali della forca, vedendo che assumevano la forma di croce, tolsero il legno orizzontale, perché la gente aveva cominciato a dire: “vogliono crocifiggerli”. Il Landucci continua: “Dove el primo fu frate Silvestro, e fu impiccato al detto stile (palo) a uno de’ corni della croce; e non avendo [subito] molto la tratta [corda], stentò buon pezzo, dicendo “Giesù” molte volte in mentre ch’era impiccato, perché el capestro non stringeva forte né scorreva bene. Il secondo fu frate Domenico da Pescia, sempre dicendo “Giesù”; e ‘1 terzo fu el Frate detto eretico, il quale non parlava forte, ma piano, e così fu inpiccato. Sanza parlare mai niuno di loro, che fu tenuto grande miracolo, massime che ognuno stimava di vedere segni, e ch’egli avessi confessato la verità, in quel caso al popolo; massime la buona gente, la quale desiderava la gloria di Dio e ‘1 principio del ben vivere, la novazione della Chiesa, la conversione degli infedeli: onde non fu sanza loro amaritudine... Molti caddono dalla lor fede. E come furono impiccati tutti a tre, in mezzo frate Girolamo, e volti verso el Palagio, levarono el palchetto della ringhiera, e fattovi el capannuccio in su quello tondo, in sul quale era polvere da bombarda e deflettono fuoco alla detta polvere, e cosi s’arse detto capannuccio... e in poche ore furono arsi, in modo che cascava loro le gambe e braccia a poco a poco: e restato parte de busti appiccati alle catene, furono gittati loro molti sassi per farli cadere, in modo che gli ebbono paura che non fussino tolti [portati via] dal popolo; e ‘1 manigoldo [il boia]... fece cadere il palo e ardere in terra, facendo arrecare legne assai: e attizzando sopra detti corpi feciono consumare ogni cosa e ogni reliquia: dipoi feciono venire carrette e portare ad Arno ogni minima polvere, acciò non fussi trovato di loro niente...” (Luca Landucci, Diario, pp. 17-178). 5 Il fratello di don Carlo, nella già ricordata Presentazione a “Dedicarsi ai minimi” scrive: “Questo Dedicarsi ai minimi “ è un libro di assimilazione, poiché la figura principale, il povero, è trattata come l’immagine più simile a Dio, l’analogia la più ravvicinata del ‘Viandante’ sulle strade del mondo”. Il povero del Savonarola è l’oppresso, lo sfruttato dal ricco e dal tiranno. Il povero di don Carlo chi è? I minimi del Savonarola e di don Carlo sono come quei minimi che Bartolomeo della Porta ha dipinto nel quadro “Mater misericordiae” ,conservato nel Museo di Villa Guinigi, di Lucca. Nel sermone 13, sopra la prima lettera di Giovanni, recitato verso la fine del 1490, fra Girolamo aveva scritto: “...Cristo fu umile come lo fu la Vergine Maria e pieno di amore per il prossimo, come pure Maria, per cui essa è chiamata Madre di Misericordia...” (ms. autografo B.R. 398 della BNCF,c.91 r). 6 Nessuno è povero di sua volontà: qualcosa o qualcuno lo ha reso tale. Savonarola aveva le sfruttamento del povero. I termini misericordia ed elemosina ricorrono frequentemente, ed insieme, idee chiare a questo proposito: “l’avarizia di coloro che avevano il potere di soggiogare un altro aveva prodotto il fenomeno della povertà, perché costoro potevano, impunemente, esigere servizi senza retribuirli, potevano imporre tasse da far pagare ai meno abbienti, potevano accaparrarsi i benefici ecclesiastici e gli uffici più lucrosi, ecc.”. La perdita della carità cristiana faceva perdurare la povertà (i cristiani, che un tempo avevano una camera nella propria casa, per un eventuale povero, avevano delegato il compito dell’assistenza all’ospedale: “basta che si sia provveduto, diceva il contemporaneo di fra Girolamo, che cerchi di più?”; basta che si sia provveduto con una legge, dice il nostro contemporaneo, ma la legge, guarda caso, è sempre provvisoria, è ad experimentum, dev’essere riformulata devono essere emanati i decreti applicativi, ecc. ecc!). C’è da porre in evidenza, anche se la constatazione s’impone di per sé ad ogni lettore dei suoi scritti, che per il Savonarola Gesù è simultaneamente l’immagine della misericordia e l’immagine del povero. L’anticristo è il tiranno, il ricco, potente, è tiranno perché fonda la sua ricchezza e la sua potenza sullo nelle prediche savonaroliane; in 11 dei 51 orditi che formano il Quaresimale del 1491, il Savonarola si sofferma sul tema della misericordia che Dio vuol avere per gli uomini e in 22 prediche, pronunciate negli anni 1491-1492, si scaglia contro la prepotenza, esercitata dai ricchi magnati sui poveri, sicché per il Savonarola, la perdita della fede, la perdita di Gesù, la perdita della misericordia, la perdita della povertà, come attitudine del cuore, sono la stessa cosa. I personaggi biblici, familiari alla mente, al linguaggio, alla penna di fra Girolamo, appartengono tutti a questo mondo: a quello dei deboli e dei poveri, oppressi dai potenti e dai ricchi. In questi giorni Paola Quaini Visigalli, su “Mondo Padano”, ha ricordato “la realizzazione [fatta da don Carlo] di una iniziativa di carità, decisamente d’avanguardia per quell’epoca, che, strutturandosi in centri di ospitalità e di assistenza a carattere familiare nelle città di Milano, Bergamo e Cremona, si proponeva la difesa, l’orientamento e l’aiuto di giovani, uscenti dagli orfanotrofi e dimessi dagli istituti di rieducazione, con particolare riguardo alle giovani prive di genitori, o provenienti da famiglie irregolari, e ai figli di carcerati”. 7 Don Carlo a che cosa attribuiva il fenomeno della povertà? Egli non avrebbe potuto rispondere diversamente da come dovremmo rispondere noi, se volessimo dare una risposta. Egli, però, da parte sua, in “Dedicarsi ai minimi” diede all’argomento un respiro immenso. In quel rendere tutto una questione spirituale, denunciava la propria inadeguatezza a comprendere il minimo, fuori della dimensione della spiritualità; sembra, talvolta, però, ma sicuramente si tratta di fallace impressione, che don Carlo abbia un po’ di pudore nell’indicare i responsabili storici della miseria altrui, sembra, quasi, rassegnarsi all’incapacità di efficacemente resistere alla volontà del prepotente. Nel libretto, appena citato, leggo: “E per questo la povertà deve avere la sua ragione d’essere oltre la prepotenza dell’ambizione, al di là dei soprusi dell’umana ingiustizia... sopra tutte le spiegazioni economiche e sociali: il perché della miseria discende da una volontà che l’uomo non conosce che per la sua incapacità a resisterle”. Come resistere alla forza del male che opera nel mondo, si era chiesto fra Girolamo, come resistere a quella forza, che spinge la donna alla provocazione, che suggerisce al cittadino di brigare nel Consiglio del Palazzo, per ottenere qualcosa di favorevole a sé e nociva ad altri, che spinge avvocati, giudici, sensali, banchieri, commercianti a prendere da questo mondo quanto più possono, che mette le casate l’una contro l’altra, per l’accaparramento dei benefici ecclesiastici, che insinua, nella mente dei cristiani, l’idea che la fede è niente: come resistere? La ragion d’esser della povertà, prosegue a sua volta don Carlo, può ricavarsi dalla condanna primordiale di Dio sulla umanità superba; può giustificarsi nella perenne tendenza dell’uomo a uccidere il suo fratello; può richiamare, dunque, le prime pagine della storia dell’umanità: peccato di Adamo, fratricidio di Caino; ma può anche scoprirsi nelle pagine della buona novella, che fu predicata ai poveri, che eleva la povertà di spirito alla beatitudine ... e che minaccia la condanna ai ricchi... Ma ciò che illumina il mistero della povertà è la disposizione ordinaria di Gesù verso i poveri: “... da tutte le parti affluiscono a lui e, quando essi non accorrono, è lui che li incontra...” ( p. 52 ). Guardava in alto don Carlo, ma non tanto in alto da non scorgere le povertà nuove, le miserie che si chiudono in loro stesse. Uno dei due leoni del Duomo, Leopoldo, “si sdraiò a sua volta con Leonardo su una panca dei giardini pubblici a guardare l’andirivieni de viandanti, fissando i volti dei vecchi, su cui ogni dolore aveva lasciato una ruga... Laggiù, sulla montagnola abbandonata dal sole, gli capitò di vedere fantasmi stralunati, dalle occhiaie sporgenti e dal deambulare cascante, mentre agitavano siringhe. E capì, se c’era bisogno, che gli uomini non sono proprio capaci di gioia vera e raccolta, come insinuava il vespero morente della dolce sera, trascolorando! “. Di questa nuova miseria, di questa nostra miseria, chi sono i responsabili?: anche di questa ci sono i responsabili! Il fratello di don Carlo, don Franco, rileva nel libretto “Dedicarsi ai minimi” l’assenza del capitolo dove don Carlo avrebbe dovuto indicare il modo, la strada di farsi minimo, di diventare l’altro: “Manca - egli scrive - (almeno lo credo) un ultimo passaggio in questo suggestivo libretto: di fronte al povero saper diventare l’altro! Non si tratta dì ascoltarlo, di intervenire, di consigliare; non si tratta nemmeno di ‘capirlo’ .Si tratta di ‘diventarlo’; egli però - don Franco - si dice sicuro che don Carlo avrebbe scritto quel capitolo: lo fanno pensare certe pagine di Borgo Antico,” dove traduce l’innocenza verginale del suo amore per i poveri”. 8 Non posso presumere di entrare nell’intimità di un amore e di una comprensione fraterna, che nelle parole scritte da don Franco si manifesta massima, ma chi sta al di qua di essa, chi soprattutto legge il libretto per la prima volta, a distanza di 50 anni dalla sua scrittura, sente che lo spessore di quella spiritualità proviene dal fatto che diventare minimo è toccare l’essenziale che si verifica quando il Crocifisso è penetrato nell’anima: perché allora si costruisce la Gerusalemme nuova, si realizza quell’unicum, che è il comandamento nuovo, il vivere l’identità che il Figlio vive con il Padre, con i fratelli e tra i fratelli. La manifestazione, la coscienza dell’evento, avviene all’improvviso. Ciascuno, ogni fedele, dopo tante vicissitudini, dopo aver dato tanto e dopo aver molto parlato, ad un certo punto, magari in sogno, percepisce che l’altro ha lasciato in lui una orma indelebile: “Evelina era scomparsa. Non rimase di lei che un pensiero fragile, nella grossa testa pensierosa”, scrive appunto don Carlo in Borgo antico (p. 66); e nella pagina 34 dello stesso libretto don Carlo ricorda quando fu chiamato dalla maestra di catechismo, morente: ricorda che questa gli chiese che le parlasse del paradiso: “Immaginai - scrive don Carlo - che un Signore senza pretese avesse dato appuntamento ad una creatura senza macchia, carica di sofferenza e di amore. Parlai di un continuo colloquio dell’anima con Lui, con una violenza dolce, che aiutava a salire non solo sulla croce, ma nell’alto dei cieli. Poi ci fu un silenzio senza fine, mentre gli occhi di lei erano pieni di lacrime, tutte splendide, di quella speranza che singhiozza di desiderio, perché presto finisca l’attesa” (p. 34); ancora a p. 24: “...il sorriso meravigliato del povero nel ricevere nel suo cappello la monetina che vi depone l’innocente, dà a quest’ultimo la certezza di aver visto [in quel sorriso almeno un lampo degli occhi di Cristo, fatto uomo sulle nostre contrade”. Quando queste cose accadono, quando si immaginano queste cose come accadute, si deve dire che le zone del proprio io e quelle dell’altro non esistono più: l’io è l’altro, l’altro è l’io: minimi e fratelli; allora si comprende che ogni persona, con la quale si tratta, è me, è fratello: lui a me ed io a lui. 9 La parola “minimo” è tratta dal vocabolario di Gesù. Scrive don Carlo: “... tutti quelli che in qualche modo hanno una ragione d’essere tra i più piccoli, non sono che le sfumature del medesimo Cristo tra noi” (p. 23); ancora: “...occorre l’umiltà di comprendere che la propria iniziativa è una invocazione della Carità di Dio su chi compie e riceve una delle quattordici opere di misericordia. La carità non è, insomma, che un incontro di poveri, così che, ove ce n’era uno solo, ora sono in due a ricevere qualche traccia di un’Unica Misericordiosa Ricchezza” (p. 34). Fra Girolamo, nello schema preparato per la predica del sabato dopo la prima domenica di Quaresima del 1492, 17 marzo, scrisse: “L’uomo giusto vede chiaramente di non poter niente, per cui non confida nella propria potenza, come pure, con la stessa chiarezza, vede di non sapere niente per cui non confida neppure nella propria sapienza...”. Ma perché confida nella potenza di Dio? Perché confida nella sua bontà e considera la bontà di Dio in sé e nel Crocifisso e in molte espressioni di pietà. Perciò il Salmista dice: Confido nei Signore, perché mi illuminerà e mi proteggerà, mi renderà buono e mi darà forza (p. 578). In Dio, dunque, io confido, non in me stesso, perché io non ho virtù, né sapienza, né bontà; confido nel Signore non nelle ricchezze, non nelle cariche onorifiche; confido nel Signore, non nell’uomo, perché questi, se fa una promessa, non la può mantenere, per il fatto che non sa quando morirà, per cui sta scritto: Non confidate nei principi, nei figli degli uomini, nei quali non vi è salvezza, etc. (Sal 145,2); confido nel Signore, non nel mondo, perché sempre cade. Confido nel Signore. e confido in lui, perché coloro che confidano nel Signore sono come il monte Sion: non vacillerà in eterno colui che abita in Gerusalemme... (Sal.124,1). Dunque, o voi che predicate l’Anticristo, o peccatori: Perché dite all’anima mia: Emigra sui monti come un passero? (Sal.1O,1): [cioè perché mi invitate a venire tra le vostre file?]:il passero trova per sé una casa, non vuole emigrare sul vostro monte, come se fosse una cosa leggera e instabile, io confido nel Signore. E coloro che confidano nel Signore sono come il monte Sion, etc. (Sal. 124, 1). I monti circondano Gerusalemme e il Signore cinge il suo popolo ora e per sempre (Sal. 124,2). Ma io confido nel Signore perché il Signore non lascerà lo scettro dei peccatori sulla eredità dei giusti, etc...(Sal. 124,3)”. Seconda parte 10 Per il lunedì di Passione, 21 marzo 1491, il Savonarola predispose, e poi fece, una predica molto complessa, non tanto per la materia trattata e per lo scopo cui mirava, quanto, piuttosto, per le immagini usate, talune tolte dell’immaginario biblico, qualche altra dalla sua interna, personale tropologia, che era ancor essa e pur sempre sotto l’influsso dell’immaginario biblico. La materia trattata è la solita: il popolo cristiano, per i peccati già più volte denunziati, soprattutto quelli relativi all’oppressione dei poveri, è ammalato a morte, ma le preghiere sollecitano pietà da Dio ad affrettare il tempo della misericordia. Introdotto il tema, mediante il ricordo del caso del re Ezechia, salvato in extremis per le sue stesse preghiere, il Savonarola lo sviluppa, richiamando il brano evangelico della Messa del giorno, relativo agli Scribi e ai Farisei, che mandano ad arrestare Gesù, il quale, in quell’occasione, disse: “dove sono io non potete venire”. Preso dal mistero della misericordia di Dio, realizzato da Cristo Gesù, secondo il suo modo e i suoi tempi, nonostante il pulsare dell’oratoria apocalittica che lo spingeva e lo spingerà a pronunciare le parole cito et velociter, il Savonarola, da una parte, si sofferma nella considerazione del mistero di Dio, violato ai suoi giorni (“hodie”, egli dice) da tutti gli indegni ministri che trattano mondanamente le cose sacre, dall’altra parte produce un’ardita fantasia, immaginando Cristo Gesù, come un uomo immenso, un gigante, che ha il capo sopra il cielo, il petto e le braccia nel cielo, le ginocchia e i piedi nel profondo della terra; oppure come un uomo immenso, che siede sopra la terra e, un po’ alla volta, si tira su verso il cielo, mentre alcuni piccoli uomini vogliono legargli i piedi con fili, sottili come capelli, ma egli non può essere trattenuto. Sullo schema, il Savonarola ha annotato per se stesso: expone parabolam, cioè spiega l’allegoria. Ma sullo stesso schema egli non ha annotato come la spiegò; certo è che egli costruì una grande ideologia che, a un certo momento, operò ancor essa come veicolo di profezia,ad esempio, nella predica ora riferita, perché produsse in lui la coscienza di penetrare nel segreto di Dio, manifesta- tosi in Cristo Gesù, secondo cui i magnati e la gente comune, tutti omuncoli, non possono trattenere Gesù con i loro fili sottili, non possono, cioè, ridurlo a loro misura: eppure Gesù vive e cammina in mezzo a loro “occulte” e “occulte omnia disponit”. [don Carlo scriverà, come ricorderò più avanti: “Comprendo così il mistero di Cristo “che abita fra noi” in quella amplificata Eucarestia della sua presenza universale nei minimi”]: la grande fantasmagoria portò il Savonarola nel cuore della profezia. Più che dallo stupore, o più che dall’ira per la stoltezza dell’uomo, il Savonarola è preso dal mistero della misericordia di Dio: “Tu exurgens, misereberis Syon,... quia tempus miserendi ... venit. Tu sorgerai, avrai tenerezza per Sion, perché è tempo di aver per lei pietà, perché è giunta l’ora!” (SaI. 101 (102),14). 11 Il martedì dopo Pasqua, 5 aprile 1491, spiegando il brano evangelico della Messa del giorno (Lc 24,36-47): Gesù risorto appare agli apostoli salutandoli con le parole Pax vobis, il Savonarola presentò il conto ai suoi ascoltatori e indicò loro il prezzo che avrebbero dovuto pagare per acquistare la pace del Cristo: “La pace - egli disse - si compra con la povertà, la castità, l’umiltà: Vultis eam? Volumus! Paupertate emitur, castitate, humilitate”. Ma gli ascoltatori, invece dissero chiaramente che non intendevano pagare un tale prezzo; essi ribadirono che volevano essere ricchi e volevano occupare lo Stato. Il Savonarola ascoltava il cicalare della sua gente e lo ripeteva sul pulpito: “O frater, magnum est reliquere sua, O frate è grande cosa lasciare i propri beni et essendo homo da bene, diventare da poco. El Bisognava che tuti fussimo frati. El stato sana abandonato. Chi faria merchantie etc.?”. Il giorno seguente, mercoledì dopo Pasqua, a conclusione della Quaresima, il Savonarola predicò secondo la consuetudine dei fiorentini “in Palatio”: dopo aver ricordato che in una città il bene ed il male provengono dal capo, invitò la Signoria a seguirlo nel suo percorso: soltanto così essa, la Signoria, avrebbe potuto costruire una città santa. Egli, però, forte della profezia che diffondeva intorno a sé, sicuro della efficacia del suo parlare ideologico, a volte, non dando importanza, altre volte, esagerandone le dimensioni, prendeva atto del fatto che era all’opposta ideologia della ricchezza a cui gli uomini si attenevano e, a quel livello, ai suoi occhi, diventavano tutti uguali, tutti incorreggibili tiranni. Per tali uomini non vi erano qualificazioni ideali che valessero; al massimo essi potevano essere inclini ad adottare le ideologie capaci di fare diventare onesto il disonesto. 12 A questo punto devo abbandonare fra Girolamo, tralasciare, al meno in parte, quello che avevo inserito in questa mia relazione, e soffermarmi a citare e riflettere su un paragrafo dell’opera “Società ed evangelizzazione nell’Italia contemporanea” di don Carlo, perché “quello stare così fuori e cosi dentro il mondo del suo tempo”, che don Carlo disse del Savonarola, e che noi diciamo di don Carlo, non soltanto li fa sentire rispondenti l’uno all’altro, ma soprattutto permette di comprendere come la profezia del Frate di San Marco si è protesa sino a noi. (I brani del Savonarola, che ora tralascio, possono essere recuperati, leggendo la Introduzione ai “Sermones in primam divi Ioannis epistolam secondo autografo” testo latino con traduzione italiana a fronte, usciti in questi ultimi giorni presso SIMEL, edizione del Galluzzo di Firenze). Il paragrafo, di cui intendo parlare, è nella parte seconda dell’opera ed è intitolato: Il popolo di Dio nella chiesa locale d’Italia, un capitolo nel quale don Carlo - come egli scrive - cerca di “cogliere” in che modo la chiesa [nel periodo storico che va dalla fine dell’Ottocento alla metà di questo secolo] abbia stretto a sé i propri figli e abbia cercato di educarli nella catechesi e nella liturgia; in che modo si sia sporta sul paesaggio inquieto delle plebi contadine; e come abbia tradotto la missione spirituale in crescente impegno temporale a carattere di popolarità. Questa triplice inclinazione - è sempre don Carlo che scrive - costituisce il contesto della formazione del nuovo popoio di Dio redento perennemente da Cristo, ma irredento, ancora, sui solchi avari del regno d’Italia” (p. 88). Lette in trasparenza con questo capitolo, suonano particolarmente moderne le parole, che fra Girolamo si propose di dire ai poveri, nella predica della seconda domenica di Quaresima, 27 febbraio 1494: “Quelli che vi opprimono, quando mi ascoltano, sono felici perché vi esorto alla pazienza”, ma essi devono badare bene che “questo luogo non sarà chiamato più Firenze ma turpitudine, spelonca di ladri.., perciò cadrà sotto il giusto giudizio di Dio”. Le pagine, che formano il paragrafo del libro di don Carlo, interessano, qui, non perché facciano conoscere aspetti non noti della storiografia relativa all’evolversi dei rapporti Chiesamondo, del suddetto periodo, ma perché collocano tali rapporti nella problematica “vita della povertà rurale - vita ecclesiale italiana”; perché fanno vedere il lungo e faticoso lavoro, attraverso il quale l’ideale cristiano riesce a farsi forma concreta di vita e sostanza storica e indica il percorso attraverso il quale la profezia si va avverando, la profezia che fu di fra Girolamo, ma che è quella di sempre, quella della Chiesa che garantisce la durata nel tempo dell’evangelizzazione evangelica. Le pagine di don Carlo scorrono rapide, in un susseguirsi di informazioni rievocate e di pacate riflessioni (di particolare spessore storico è la riflessione che si snoda lungo il corso delle pp 109-111), sostenute da una essenziale ma ragionata bibliografia, posta a piè di pagina, e inserite tutte nel quadro generale d’insieme di tutta la vita ecclesiale dell’epoca. Per quanto riguarda la chiesa rurale, l’attacco è critico, misurato sì, ma senza reticenze: “Situata nelle afflizioni del suo vivere incipiente, la santa chiesa, pellegrinante in Italia, avrebbe potuto rimanere segno di credibilità, se avesse preso coscienza che il mondo rurale era ancora sostanzialmente disposto alla predicazione evangelica; avrebbe potuto operare perdutamente a favore di quelle popolazioni, in nome dello stesso annuncio di salvezza, verso gli umili.. .la storia italiana [invece] rivela un progrediente diverbio fra le plebi rurali e la chiesa, così che, mentre si estingueva progressivamente la tradizione religiosa, si faceva colpa alla chiesa di avere in qualcosa fornicato col potere economico e politico...” (p. 98). Erano passati più di quattro secoli, da quando fra Girolamo Savonarola aveva indicato, nell’ alleanza magnati-curia romana, alleanza finalizzata alla spartizione dei benefici ecclesiastici, la principale causa della indegnità del clero allo svolgimento della sua missione e aveva pianto sulla fine della “cristianitade”, cristianità, burlescamente rappresentata da Luigi Pulci, e non soltanto da lui. Più avanti, don Carlo sembra piuttosto impietoso nella sua analisi: “I pastori, timorosi che l’elevazione delle plebi rurali significasse un distacco dalla religione, come era logico prevedere e facile constatare dal discorrere dei socialisti, si appostarono a difesa dei valori prioritari, preferendo che l’uomo venisse derubato di qualche terreno interesse, che della sua dignità di figlio di Dio. Promossero l’incipiente movimento sociale dei cattolici, in antitesi di pensiero e d’azione, nei confronti del proletariato agricolo” (p. 102). Don Carlo segue da vicino l’impari lotta tra una forza religiosa, che non intendeva farsi da parte, né diventare invisibile testimonianza, e l’avanzare del mostro dell’efficienza, effetto soprattutto della evoluzione tecnico-economica, che procedeva, spazzando via tutto quanto non riconoscesse il suo predominio. Don Carlo, in questa impari lotta, avvertito dalla sua fede, credo (come era stato avvertito fra Girolamo, come siamo avvertiti ancor noi) che il vincitore del momento non può ritenersi il vincitore di sempre - è attento a cogliere quegli elementi che resero e renderanno reale il ribaltamento dei ruoli tra vinti e vincitori. I ‘bianchi’ esprimevano “...che non vi erano barricate di categorie, là dove Cristo uomo aveva divelto ogni barriera”; essi davano la misura di un mondo potenzialmente internazionale e interiormente cattolico: fatto ecclesiale al di là di ogni parvenza sociologica. Si capisce, allora, che la chiesa dei poveri cristi diventasse un istintivo fermento teologico nelle inconsapevoli coscienze della comunità dei diseredati. E si comprende l’indugio evangelico sulla loro esistenza sacra, quella più fascinosa di Miglioli e quella più clemente di Mazzolari, i due termini estremi di quel consorzio di contadini cristiani. Il contadino di Miglioli si traduce nel povero di Mazzolari, che scrisse: Il vangelo del contadino e Il Compagno Cristo, per raccontare una specie di visione su quel mondo scabro, eppure fluente, di umanità e di elevazione. Una visione sacerdotale dell’uomo pervade tutta questa contemplazione, che fa del prete un “uomo di nessuno”, -tema di Foucauld, che s’inserisce nel canto- che promuove tuttavia un pio esercizio sul povero: “La Via Crucis del povero” e che ritrova in lui “le proporzioni infinite del povero “. La chiesa, comunità di povera gente, una chiesa che ritorna “pieve” (plebe), appare sull’arco di questo momento storico degli umiliati: visione di una città di salvezza ai margini dell’orizzonte dell’uomo. L’idea che la prospettiva di una esistenza sulla terra avara deve essere trasformazione del mondo; e che l’ala della speranza non faceva frode al passo di marcia della fatica costituivano i punti d’orientamento pastorale delle pievi, pilota del mondo contadino. Il popolo della campagna era parte eletta del popolo di Dio; i pionieri , sacerdoti e laici, costituivano gli oscuri e fallibili teologi dell’azione; la fatica del cristiano era considerata un battesimo di sudore sulla terra aliena; la libertà si propose come respiro dell’azione sindacale e politica, ma una libertà responsabile e rispettosa delle competenze autoritative; il clero fu in molte occasioni la voce evangelica che traduceva un messaggio per le turbe affamate del millenovecento; il laicato era il fermento popolare, che ispirava le rivendicazioni sociali. Dunque, vi fu una ecclesiologia vivente nel mondo dei poveri cristi della terra. Fu persino creato il termine teologico del laicato: la povera gente era “proletariato cristiano”, i predicatori erano “avanguardie cristiane”, la terra era una “realtà sacrale”, che apparteneva a Dio. Non era possibile indugiare in una conservazione, là dove la provvidenza spingeva a “cieli nuovi e terre nuove” (pp. 11-12). Terza parte 13 Ma, a quando i cieli nuovi e le terre nuove? Nella predica del sabato, della quarta domenica di Quaresima, del 1491 (una predica che avrei dovuto leggere con voi, in parallelo con il paragrafo del libro dei don Carlo, di cui ho or ora detto), il Savonarola scrisse: “Vennnero ancora nemici e la [la città] ridussero all’estremo tanto da far rimanere soltanto una donna per piangere, e [il re] le promise che sarebbe tornato, ed ivi avrebbe regnato; e le disse: “aspetta un po’, tra breve tornerò”. Ma questo breve sembra lungo, lunghissimo, perché, come dicono i Proverbi: “la speranza prolungata fa male al cuore” (Prov 13,12); e le dice ancora: “se farò tardi aspetta”, come dice Habacuc (Ab,2,3). Abacuc! appunto, è di lui che ora devo parlare: del profeta dell’umana impazienza. La domanda: “quando sarà”?, i seguaci la ponevano pressantemente a fra Girolamo; noi, che, forse, don Carlo non riterrebbe “sospesi fra il desiderio inesausto e una realtà che tarda ancora a venire” (p.lO8), noi, non ci preoccupiamo di chiedere: “quando?”. Nel 1497 fra Girolamo era vicino ad una condanna certa e, quindi, ad un supplizio sicuro: egli soffriva questa situazione e con lui la soffrivano i suoi intimi: egli e loro, perciò avevano fretta e chiedevano: ‘quando’? Devo, allora, soffermarmi su un altro scritto particolare di fra Girolamo, che don Carlo non poteva conoscere, forse, anche perché Roberto Ridolfi lo aveva espunto dalle opere del Frate che ora, invece, è stampato nel volume Scritti vari, dell’Edizione Nazionale delle Opere di Girolamo Savonarola. Mi soffermo, perché questo scritto che si intitola “Esposizione sopra il profeta Abacuc”, potrebbe essere ritenuto lo scritto del trionfo di Cristo Crocifisso, perché in esso è espressa la certezza che Gesù Crocifisso trasformerà la mente dell’uomo, in modo che egli muti la prospettiva e i parametri di giudizio, e i mali che lo affliggono siano da lui considerati una benedizione, addirittura una grazia di Dio. Fra Girolamo affrontava, come sempre, i reali problemi che gli si presentavano nel suo lavoro apostolico: da una parte la situazione di miseria in cui versava la povera gente, che costituiva la parte maggiore della sua sequela, dall’altra parte i giovani, che andavano nel convento di S. Marco, avendo davanti a sé la prospettiva di una vita di travagli e di persecuzioni: agli uni e agli altri fra Girolamo poneva in mano il Crocifisso. La preoccupazione di rincuorare i discepoli oppressi dalle persecuzioni era tipica di fra Girolamo, di questa preoccupazione era già pervaso quando predicò la Quaresima del 1491. Per rincuorare i suoi frati, aveva recitato i primi sermoni sul salmo “Quam bonus”; nella Quaresima del 1494, per rincuorare tutto il popolo, aveva predicato sopra Giobbe, e, per dotare tutti i suoi discepoli di uno strumento, che avesse la funzione di dare alla loro milizia un fondamento di cosciente sicurezza, aveva composto il “Compendio delle Rivelazioni”. Diventata particolarmente aspra la persecuzione tra il 1496 e il 1497, e, constatato che una grande umana impazienza si era impossessata degli animi dei suoi fedeli seguaci, fra Girolamo pensò di offrire, soprattutto ai suoi confratelli, un altro testo che, pur riprendendo le argomentazioni già esposte nei precedenti sermoni, offrisse un esempio di santa audacia: “...desiderando consolarmi con voi, con la parola della Sacra Scrittura, scrisse nella parte introduttiva di questa Esposizione, e ricordandomi delle tentazioni avute dal profeta Abacuc, il quale arrivò a tale impazienza da giungere addirittura a rimproverare Dio, ho deciso di soffermarmi nella esposizione del testo di questo profeta” (p. 204; 1, 11-14). Nel leggere queste pagine del Savonarola, la mente corre al Santo Curato d’Ars che una volta, dopo aver ascoltato il racconto delle tribolazioni di una persona che era andata da lui per essere consolata, le mise in mano il Crocifisso, la lasciò sola in casa e, uscito, andò in Chiesa a svolgere il suo ministero. Fra Girolamo, in definitiva, Nell’Esposizione sopra Abacuc, volle affrontare la grande questione del problema del male: egli non provava fastidio a vivere accanto a gente umile, semplice, povera, incapace, ma aveva il dolore di essere attorniato da persone umili, povere, semplici, impotenti perché defraudate, e sentiva ripulsa verso quei cittadini, chierici e laici, che causavano in lui frustrazione e ira, perché essi, che per la loro funzione pubblica avrebbero dovuto dare giustizia ai deboli, neppure si accorgevano che il loro progressivo arricchimento comportava l’impoverimento di altri, quando non lo producevano volontariamente. Fra Girolamo “disputa con Dio” (per usare una sua espressione, lasciata scritta in una lezione sull’Apocalisse), come Abacuc lottava con Dio, perché fortemente chiedeva a Dio di cambiare la mente degli uomini, così che questi giudicassero diversamente. Fra Girolamo sceglie di seguire nella Esposizione un procedimento semplice, spogliato, si direbbe, non soltanto di ogni forma filosofico-teologica, ma anche di ogni problematica apocalittica; egli riteneva di dover procedere piano piano, nel modo più chiaro possibile, perché l’importante era donare serenità e sicurezza in coloro nelle cui mani egli dava, come unico tesoro, il Crocifisso. “I sermoni sopra Abacuc” sono un lento progredire verso questa conclusione che, quando è esposta negli ultimi tre sermoni, è costruita e spiegata in una forma di grande forza ed espressività. 14 Predicando, il 28 marzo 1496, a un certo punto, quasi alienandosi, fra Girolamo disse: “Io ho paura,questa mattina, che voi non sappiate della festa di ieri: io v’ho pur fatti, una volta, diventare tutti pazzi, è egli vero? Egli è pur stato Cristo, non noi. È fumo qua iermattina pur gli uomini che cominciorono a gridare “ Viva Cristo! “, non è fanciulli. Io v’ho predicato tanto, a parole, contra la sapienzia umana, che mi pare che oramai voi facciate con li fatti .... Che direte voi se vi farò fare un dì maggior pazzia (ma non sarò io, e’ sarà pur Cristo), che farete un dì un ballo là in piazza attorno al Crucifisso, io dico ancora li vecchi e le vecchie? Che direte voi allora?” (G. SAVONAROLA, Prediche sopra Amos, vol. TI, p.l60, predica 41 del 28 marzo 1496, predica XLI). Quante volte avrà contemplato il ballo in semicerchio di angeli e santi nel Giudizio Universale del suo Beato Angelico? Non pazzia e neanche pura letteratura fu il carro del trionfo di Cristo Crocifisso, anche se fu da lui concepito, perché suggestionato dai quei carri trionfali che egli, sin da bambino, aveva visto dipinti sulle pareti di ville cittadine: il Trionfo di Cristo, chiamato anche Trionfo della Croce, Nel sermone 17 dell’ Expositio: immagina che la morte, che dopo l’uccisione di Gesù aveva perduto tutta la sua forza, viene legata al carro del trionfo di Cristo e lo stesso diavolo posto davanti a tale carro, mentre gli evangelisti - cioè tutti i predicatori - sono collocati a formare le quattro ruote del carro trionfale. Il 17 gennaio 1495, predicando sul Sal 13,1, il Savonarola aveva detto: “...Se questa mattina vogliamo predicare della fede di Cristo.., e introdurremo, prima, quello carro trionfale della fede che altra volta ti abbiamo introdotto. In sul carro trionfale il Crucifisso... Sopra la Croce... Attorno al carro... Di poi drieto seguitava assai moltitudine di gente prostrata e gittata per terra, e questi sono li filosofi, astrologi e eretici...” (G. SAVONAROLA, Prediche sopra i Salmi, a cura di V. ROMANO, Belardetti, Roma, 1969 I p. 65). Nella redazione della tertia ratiofidei (della terza ragione della fede), scritta sui margini di una carta della Bibbia di Milano, forse nel corso del 1496, si legge: “...ponamus Iesum super triumpho...” e più avanti: “... Item triumphus de nomine Iesu...”: poniamo Gesù sopra il trionfo;... il trionfo del nome di Gesù...” (si veda la nota critica al Triumphus fidei abbreviatus, pp. 370, 372). Il 10 aprile 1496, predicando su Gv. 20, 19 il Savonarola disse: “.. .ricordomi già ch’ io ti feci uno trionfo e sopra quello il Crucifisso mettemolo im mezzo al mondo e intorno al carro trionfale missi le opere sue...” Un’altra volta io ho vista quella visione ch’ io ti dissi il venerdì Santo: io ho visto il Crucifisso questa notte un’altra volta...” (G.SAVONAROLA, Prediche sopra Amos e Zaccaria, a cura di P. GHIGLIERI, Belardetti, Roma, 1972 III pp. 376-401). Il 24 giugno 1496, predicando sopra Michea 4,1, richiamò il contenuto della predica fatta a Prato tra il 16 ed il 27 aprile 1496, tramandata come Triumphus fidei abbreviatus “Non sai tu che lì ti feci molte ragioni sopra questo trionfo del Crucifisso?...” (G. SAVONAROLA, Prediche sopra Ruth e Michea, a cura di V. ROMANO, Belardetti, Roma 1962 I pp. 399-405). Tra il giugno e il dicembre 1497, il Savonarola compose l’opera Triumphus crucis, come spiegazione della vasta allegoria del carro trionfale della Croce: “Gloriosum Crucis triumphum describimus...: descriveremo il glorioso trionfo della Croce” (G. SAVONAROLA, Triumphus Crucis. Testo latino e volgare a cura di M. FERRARA, Belardetti, Roma 1961 pp. 1-11). Sui margini di una carta della Bibbia di Milano contenente un testo del libro del profeta Nahum (c. 332r) è scritto: “Nota quod a primo capitolo usque ad finem posset exponi de triumpho Christi, in I cap., estendendo ea quae habentur in I libro tuo”...: Nota che dal primo capitolo sino alla fine si può esporre come trionfo di Cristo,così come è nel primo libro del tuo (cioè del tuo, fra Girolamo)” (G.CATTINI, op. cit. p 251 ). L’Expositio in Habacuc, dunque, s’inserisce nell’intero contesto delle opere del Savonarola, collegate tra loro dall’idea-immagine del carro trionfale di Cristo Crocifisso, trainato dagli Apostoli-predicatori, causa diretta ed esclusiva del trionfo della fede. Mario Ferrara ha visto nella stampa che accompagna il Trattato in defensione e probazione della dottrina e profezia predicata da frate Jeronimo da Ferrara nella città Firenze di Domenico Benivieni, pubblicato a Firenze 1’ 8 aprile 1497, presso Bartolomeo de’ Libri, l’incisione del Trionfo della Fede, eseguita su disegno di Sandro Botticella, secondo un’informazione trasmessa da Giorgio Vasari. (M. FERRARA, Savonarola. L’ Influenza del Savonarola sulla letteratura e 1 ‘Arte nel Quattrocento, Olschki, Firenze 1952, pp. 57-62). I predicatori-ruote del carro trionfale! I tempi pessimi impegnano fortemente fra Girolamo, una delle ruote del carro; le ultime parole dell’ Oratio di Abacuc permettono a fra Girolamo di parafrasare ed esprimere la propria volontà: “Non aspetterò che altri mi precedano.. .nessuno vuoi rinnovare la propria vita, ma io procederò... perché il Signore è la mia forza...correrò tra i peccatori senza essere contaminato...alla fine sarò accolto vittorioso nella gloria dei beati..., perché Gesù, che combatté per me, è stato vincitore in me...”. 15 La tortura, invece, vinse fra Girolamo: sembra certo che egli, per avere una sosta nello spasimo del dolore, abbia confessato di aver ingannato il suo popolo. Nel verbale del terzo processo - quello condotto dai commissari pontifici - si legge: “Messer Francesco Romolino sopradetto comandò che fusse spogliato per darli della fune. Lui, mostrando grandissima paura, s’inginocchiò e dixe: - Orsù, uditemi, Dio tu mi hai colto. Io confesso che ho negato Christo. Io ho detto la bugia, Signori Fiorentini, siatemi testimoni: io l’ho negato per paura di tormenti...”. In questo mezo era spogliato, et di nuovo s’inginocchiò et mostrava il braccio manco diciendo haverlo guasto; et del continuo dicieva: “io t’ho negato, Dio, per paura di tormenti”. Tirato su dicieva: “Yhesu, aiutami: questa volta tu mi hai colto”.(brano riportato in parallelo con la bozza originale contenuta nei Vulnera diligentis di fra Benedetto Luschino, da R. RIDOLFI, I processi del Savonarola, “La Bibliofiiia”, XLVI, 1944, p.33). Gesù, tu mi hai colto! Gesù Tu mi hai colto fragile, infedele, bugiardo? Alla luce della fede vissuta, Savonarola aveva concepito la profezia. Il mondo della fede perduta gli presentò la propria vanità... Gesù lo aveva colto, esigendo da lui la povertà assoluta: la perdita della fede nel rinnovamento com’era da lui concepito! Parte finale 16 Questa giornata cremonese, dedicata al Savonarola, non è come i 6 le numerose altre, che sono state dedicate o che saranno dedicate al Frate di San Marco, in questo V centenario della sua morte, perché il fatto di accostare un sacerdote del nostro tempo a lui, obbliga noi tutti, che viviamo qui ed ora, a non celebrare, ma ad esaminare, a vedere, a capire, e poi a chiedere perdono. Con grande partecipazione ho letto lo scritto di Luisito Bianchi: Spiritualità in “dedicarsi ai minimi” e ne, “Il Vangelo di Paola”; uno scritto denso, teso, tirato come un arco, dal quale sta per scoccare una freccia; più che letto l’ho sofferto, perché quegli anni che chiusero un’epoca e fecero sperare un mondo nuovo, li ho vissuti anch’io: li ho vissuti, non con la prospettiva di un futuro apostolato di cura d’anime - come si dice - che avrebbe potuto calmare la voglia di giustizia (mi incamminarono, infatti, appena fatto frate, per un’ altra mansione), ma li ho vissuti con la passione di uno che, tra i minimi, è nato e se ne è allontanato senza sapere di allontanarsi da loro, e quando tornavo al paese, mi smarrivo, perché non riconoscevo più i minimi, ai quali ero appartenuto: la miseria era ancora dominante, ma i miseri erano cambiati, erano diventati minimi in altra veste, nella veste di coloro che vogliono riprendersi una rivincita. Leggo in don Carlo:”la fedeltà ai minimi come immagine del Cristo sofferente”: don Carlo e fra Girolamo potevano essere fedeli ai minimi, perché avevano gli occhi fissi sull’immagine del Cristo sofferente. 17 Quanto abbiamo desiderato, in quegli anni, che interventi autorevoli, magisteriali venissero a dare sostegno a quei preti che, come don Carlo, vivevano quotidianamente accanto ai minimi e venissero a sollecitare, dai responsabili della cosa pubblica, interventi capaci di cambiare le strutture portanti della società e nella carità facessero giustizia. Quegli interventi magisteriali vennero, diedero sostegno; quanto efficace fosse l’ossequio prestato dagli operatori della cosa pubblica non è ancora storicamente determinabile, ma quegli interventi diedero un volto alla Chiesa e una speranza ai credenti; fu una grande cosa, perché, come dice don Luisito Bianchi, la fedeltà ai minimi passa attraverso la Chiesa, la “povera e santa Chiesa” di don Carlo. Poi verme il Concilio: se ne parlò tanto, si rimproverò molto la Chiesa italiana; si cercò di arginare la sete di novità; si parlò dell’enorme danno che la Chiesa faceva a se stessa. Sorse il richiamo al dettato conciliare e la voglia di sottrarsi ad esso: c’era una grande esigenza di raccoglimento; si formarono aggregazioni sulla base di bisogni omogenei. Don Carlo formò il “pusillus grex” degli studenti, cui chiedeva di esprimere “un rendimento di grazie non liturgico.., per una salvezza che è già stata data gratuitamente dal Cristo Crocifisso, attraverso la Chiesa e nella risposta libera, intelligente, leale d’ognuno...”. Luisito Bianchi rivive, in pochi periodi della sua densa scrittura, i tredici armi che separano la fine del Concilio alla composizione de “Il Vangelo di Paola”, e guarda, con ammirazione, a questo e al lavoro apostolico che esso ha a suo fondamento: “la mia ammirazione grata di prete risiede allora nel constatare la sapienza e l’affiato pastorale con cui don Carlo si sottrasse, e sottrasse i suoi giovani amici al duplice pericolo dell’acquisizione acritica d’una seducente definizione di Chiesa e dell’autoproclamarsi possessore di salvezza”; una ammirazione che nel rilevare che su Il Vangelo di Paola non ci sono dei nulla osta per la stampa, degli imprimatur “. Si fa pensosamente triste -don Luisito - annotando subito di seguito: “ma è chiaro che nulla vi osta a riconoscere, nel cammino bimillenario della Chiesa povera e santa - la stessa che negava il nulla osta a certe pagine di don Mazzolari - le orme insanguinate del Cristo in agonia fino alla fine dei secoli ,come ama ripetere don Carlo...”. 18 Don Bianchi annota ancora che don Carlo scrive e ripete il termine “viandante”. Egli dice: “provate a contare quante volte ritorna il termine viandante...”. Mi permetto di chiosare: provate a contare quante volte ricorre il termine “pellegrino”, sotto la penna e sulla bocca di fra Girolamo: “pietà Signore, di questo peregrino”, scrisse nella canzone: Iesù spiendor del cielo e vivo lume che don Carlo aveva studiato in quel Codice Borromeo, che egli, già nel 1968, si affrettò a segnalare su “Studi cattolici” come “non perduto”, ma conservato nella Biblioteca Ambrosiana. “Gesù pellegrino, fra Girolamo pellegrino”: ho intitolato alcune poche pagine di riflessioni savonaroliane, dedicate a giovani studenti di 17 anni, in questo 1998. In tali riflessioni, mi è capitato di scrivere: “Nella prosa savonaroliana si trovano due fondamentali situazioni della vita umana, espresse con le immagini di due pellegrini. Un pellegrino che va girando per le vie del mondo cantando la sua canzone: ha sete 1 ‘anima di Te mio Signore; un altro pellegrino, che non si orienta nel suo cammino, cambia percorso, passa da una strada vecchia ad una nuova e anch’ egli va cantando e implorando: ho errato, mi sono smarrito ,o Signore”. Nessuna meraviglia, siamo tutti pellegrini: fra Girolamo Savonarola, il vescovo mons. Geremia Bonomelli, don Pimo Mazzolari, don Lorenzo Milani, don Carlo Bellò e tanti altri ancora, sono tutti pellegrini ed hanno una “unica voce”, perché, come scrisse fra Girolamo nello schema di predica per il sabato dopo la prima domenica di Quaresima, del 1491, tali predicatori sono uniti nella carità e la loro voce proviene dal Cristo Crocifisso, cioè dai quattro bracci della Croce e dai quattro evangelisti, attraverso le quattro parti del mondo; sono cose semplici e di poco conto, tuttavia potenti per debellare i nemici, per debellare, cioè, i seguaci dell’Anticristo: fu la loro speranza; è la nostra speranza. E don Carlo, in sintonia di spirito, scrive: “C’è nel mondo un unico grande Viandante che tormenta con la sua indigenza gli uomini. Lo si trova ad ogni angolo delle strade, sui trivii deserti e sui campi di periferia. Comprendo, così, il mistero di Cristo, ‘che abita fra noi’ in quella amplificata Eucarestia della sua presenza universale nei minimi”. Fra Girolamo, predicando la seconda domenica di Quaresima, 27 febbraio 1491, spiegò come il Cristo non può essere ridotto a misura umana, spiegò come i grandi avevano già scacciato Gesù, ma rassicurò che questi passa “occulte” in mezzo a loro e “occulte ordinat multa”, come ho più sopra riferito. Predicando il sabato dopo la domenica di Passione, il 19 marzo 1497, il Savonarola immaginò un dialogo con un “peregrino” che, quasi “inebriato”, andava cantando e gli dice: “andiamo... hai tu mai veduto quando uno signor fa nozze e festa ed entra in una città ?... quella è la casa del Signore...”: la casa del Signore purificata dalla lebbra, che ha riacquistato la fede: il sogno di fra Girolamo (G.SAVONAROLA, Prediche sopra Ezechiele, Roma 1955, XLVI, voi. TI, pp.288-297). 19 Fu anche il sogno di don Carlo? Voi che lo conosceste lo testimoniate; io che ora ho imparato a conoscerlo un po’ e che sento vicino in quel suo guardare il Crocifisso, leggo quel sogno nelle sue parole scritte: “ Ove c’è una cattedrale o un campanile, una Chiesa o un ciborio c’è la casa di Dio; ma non so quanto differisca dalla sua ospitalità nell’anima di chi soffre, di chi vive in grazia, di chi consola, di chi piange di dolore o di rimorso. Sono tutti momenti della sua presenza tra gli uomini” (p.36). A questo punto dovrei dire “ho finito”. La mia deformazione professionale di ricercatore di manoscritti e scritti, di trascrittore, di inventari di libri, conservati in biblioteche private, tra pareti domestiche mi impedisce di terminare qui, perché tra le mura della mia camera conventuale, quindici giorni fa, sono stati delicatamente lasciati alcuni libri con il taciuto invito a tenerne conto: rispondendo al tacito invito e pian piano, sfogliando e leggendo, mi sono trovato a scrivere e trascrivere, così da avere materiale abbondante per riformulare la presente relazione già in cantiere, ma che ripresa in queste altre condizioni, più che concludersi, si andava allargando e trasformando, prendendo la forma del discorso che ho sinora fatto. Ora, però, preso dalla commozione per le consonanze oggettive con don Carlo, non soggettive (giammai oserei accostare la mia alla sua persona), mi permetto di aggiungere la seguente confidenza: anche io mi sono occupato di un mondo di poveri, di un particolare mondo di poveri, del mondo di giovani che, nonostante la loro povertà, sul finire del secolo decimoquinto, si dedicarono agli studi e tra ruberie e servitù prestate a colleghi studenti facoltosi, riuscirono a rimanere in una università e persino a laurearsi; di questi mi sono impegnato a cercare i nomi, inseguendoli nelle suppliche che essi rivolgevano al Papa, per ottenere la grazia di farsi esaminare e, quindi, di potersi laureare fuori delle facoltà universitarie, allo scopo di risparmiare sulle spese richieste per l’atto di dottorato. Durante queste ricerche, spesso ho nutrito il desiderio di scrivere la storia di questi poveri o, addirittura la storia della stessa povertà. Ebbene, nella Introduzione ad uno dei libri depositati sulla mia scrivania, intitolato Società ed evangelizzazione, leggo e cito: “la cattolicità viva e credente [della chiesa italiana contemporanea trabocca di componenti metastoriche sulle quali scorgiamo stentatamente i segni dei valori reali che esse contengono: la rilevanza storica della fede animatrice di movimenti e di idee; della umiliazione sofferta, delle speranze disattese, dei diritti conculcati; della ignoranza tradita e derubata del suo plusvalore; dei carismi dispersi nell’uomo della fatica e del pensiero. Nessuno potrà mai scrivere una storia di quella corporazione degli umili che è la chiesa autentica, quindi anche noi, che pure cerchiamo nel loro paesaggio rarefatto le sembianze del mistico corpo di Cristo, non ci sentiamo capaci di farlo; mentre segniamo il passo, guardiamo con nostalgia verso quell’esercito di ombre che superano la nostra visibilità. Indi torniamo al nostro compito di servizio fedele sulle orme del Cristo incarnato pellegrinante sui nostri solchi”. Appunto: la storia dei miei studenti poveri non l’ho potuto scrivere! Ora ho finito davvero! Grazie! A.F.V.,OP