testo Favo

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testo Favo
sotto il tiglio 2.
Paolo Bizzeti
Il favo stillante
Lectio divina sugli Atti degli Apostoli
“È il tempo quando fiorisce il tiglio”
Lipa
indice
Ritornare agli Atti degli Apostoli, ritornare a Gerusalemme...............
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«Ogni carne vedrà la salvezza di Dio» ..................................................
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«Si offrì a loro Vivente, con molte prove» ...........................................
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Solitudine e promessa, imparare a vivere l’invisibile............................
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«Ma Dio... »..........................................................................................
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© 1996 Lipa Srl, Roma
prima edizione: marzo 1996
prima ristampa: novembre 1996
seconda ristampa: gennaio 1998
Lipa Edizioni
via Paolina, 25
00184 Roma
& 06 4747770
fax 06 485876
In copertina:
particolare di un dipinto di Marko Ivan Rupnik
Stampato a Roma nel gennaio 1998
da Abilgraf via Ottoboni, 11
Selezioni di copertina: Studio Lodoli Sud, Aprilia
Proprietà letteraria riservata Printed in Italy
Stampato su carta ecologica AlgaCarta Favini
(L’AlgaCarta Favini è prodotta con alghe raccolte nella laguna di Venezia. Non
contiene riciclato, è biodegradabile e perfettamente riciclabile. Le alghe, vegetali eccedenti in natura, da simbolo di degrado ambientale passano a materia
prima in parziale sostituzione degli alberi)
Presentazione
Nota alla prima edizione
Molto a malincuore P. Paolo Bizzeti ci ha consegnato queste cinque
meditazioni, da lui ritenute ancora acerbe e rozze per essere pubblicate: sono la trascrizione da registratore, corretta solo nella sintassi, dei primi incontri sugli Atti degli Apostoli, tenuti da P. Bizzeti a Firenze, nel ’93-94, ad
un gruppo di giovani e adulti. Per questo paziente lavoro si ringraziano Maria Fiore e Simona Ficini. La lectio divina è poi continuata, e speriamo un
giorno di pubblicare tutte le sue meditazioni sugli Atti, che hanno occupato
due anni consecutivi, ogni quindici giorni.
Il testo conserva, come ovvio, il tenore di un discorso parlato, con tutti i limiti conseguenti: erano spunti per avviare una lettura e preghiera personali, non certo commenti esaustivi. Ma a noi è parso utile pubblicarli e
per questo abbiamo spinto l’Autore a darceli così com’erano.
Nel catalogo 1995 avevamo presentato con il titolo Il favo stillante un
volumetto con testi di Bizzeti e di Rupnik. Analizzando i testi consegnati
dagli autori abbiamo, però, preferito tenere separati i due contributi. Abbiamo quindi chiesto a p. Rupnik di presentare questo volumetto che contiene i soli testi di Paolo Bizzeti.
Alla vigilia del terzo millennio, il papa rimanda a due luoghi simbolo dell’esperienza cristiana: Gerusalemme e Roma. C’è qualcosa di estremamente sintetico in questo annuncio. Come altrettanto essenziale è la
sua lettera Tertio Millennio Adveniente. Tutto rispecchia la struttura
fondamentale del nostro credo: quella trinitaria. Come se, nella visione
del Papa, dopo duemila anni si rendesse necessaria quella sobrietà fondata sull’essenziale che sola permette una visione profetica. Gerusalemme è luogo profetico, addirittura autenticamente escatologico, e insieme
di memoria, sin da Israele. La nuova evangelizzazione esige infatti il ripartire dall’essenziale. Erano le parole che mi sono rimaste da un primo
fraterno colloquio con Paolo Bizzeti. All’essenziale ci porta la memoria,
quella memoria che sa vedere le realtà che rimangono e che pure costituiscono anche la mèta. Si progredisce ricordando.
Questa lectio divina è fatta come suggerisce Ignazio di Loyola negli
Esercizi: «la persona che contempla, tenendo presente il vero fondamento della storia [cioè della pagina sacra] - riflettendo e pensando da
sola e trovando qualcosa che gliela faccia più capire o sentire, sia per il
ragionamento proprio, sia perché l’intelligenza è illuminata dalla potenza divina - ricaverà più soddisfazione e frutto spirituale di quanto non
ne ricaverebbe se chi dà gli esercizi avesse molto spiegato e ampliato il significato della storia» (2b). Bizzeti si attiene alla Parola e gli si sottomette con devozione; è quella simpatia di fondo che già Origene esigeva
come condizione per accedere alla lectio e che dischiude alla comprensione del Verbo. Ma allo stesso tempo questo incontro aperto con la Parola acquista i tratti personali, come ogni gesto d’amore che è, da un lato, per gli altri, ma anche qualcosa del tutto personale e irrimpiazzabile. La lectio di p. Paolo è infatti un po’ come lui, o piuttosto lui è un po’
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come si è lasciato fare dalla lectio. Assorbito da ciò che è essenziale, da
un annuncio che allo stesso tempo è parola e icona-immagine, che è parola ed evento, Bizzeti è uno che si è giocato per annunciare la buona
notizia tra i giovani in questo squarcio di secolo difficile, uno che ama i
giovani e per questo non pensa a risparmiarsi. È quel tipo ignaziano,
paolino, posseduto dalla sacra inquietudine del servire di più, dell’annunciare meglio, dell’essere più vero per rendere più incisiva l’immagine di Cristo stesso. Alto, asciutto, con lo sguardo lontano, un tipo che
non permette molti “fronzoli” e che talvolta si fa intransigente, p. Paolo è fra coloro che ha capito che una teologia fatta a tavolino è da archivio e dunque non può reggere il confronto con la vita reale. È necessaria oggi una teologia davvero ecclesiale, di sfondo biblico e spirituale, ma
soprattutto inserita nella vita. Questa lectio divina fa vedere che la Parola di Dio non è questione di teorie, ma che gli Atti degli Apostoli sono
sapienza per i nostri giorni. Giorni nei quali il tempo del compimento
sembra allungarsi indefinitamente e il mondo andare sempre più per le
sue, come anche negli Atti gli Apostoli constatano quando il Signore tarda a tornare e la loro opera sembra inincidente. Solo una visione agapica, un principio trinitario, solo persone rinate nello Spirito Santo, parte della Chiesa come organismo vivo, possono essere il cammino che
sfonderà la nebbia del postmoderno alla fine di questo millennio.
È su tali orizzonti che le nostre strade si sono incontrate. I giovani
in mezzo ai quali abbiamo servito hanno gioito del nostro incontro. Era
per noi un momento ecclesiale constatare il bene che sentivano i giovani
vedendo collaborare “da compagni” due uomini impegnati sul fronte della nuova evangelizzazione. Questa pubblicazione è un po’ un primo palpabile frutto dell’incontro, non solo di me con p. Paolo, ma di Villa San
Giuseppe e del Centro Aletti che, con la grazia di Dio, possono incontrarsi sull’unico vero sfondo dell’incontro.
p. Marko Ivan Rupnik
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Ritornare agli Atti degli Apostoli,
ritornare a Gerusalemme
D
omandiamoci innanzitutto perché noi, cristiani della centesima generazione (prendendo la cifra convenzionale di vent’anni per la crescita e formazione
di una nuova generazione), lanciati verso il terzo millennio, con formidabili sfide al nostro cristianesimo, dobbiamo riprendere in mano questo libretto scritto nel 1° secolo, in un contesto e una lingua così diversi dai nostri.
Questo è in realtà assai poco scontato: difatti molti preferiscono catechismi e libri di teologia vari, per trovare risposte alle loro questioni.
Perché guardare indietro? Per rispondere a questa domanda, per nulla retorica, a mio parere è interessante partire, secondo l’indicazione di Pino Stancari, da un preciso
momento della vita dell’apostolo Paolo.
Paolo è ad Efeso (At 19,21), sulla costa egea dell’attuale Turchia: allora era una grande metropoli, il porto
principale della provincia romana dell’Asia Minore, che
comprendeva appunto una larga fetta di territorio affacciantesi sulla costa del Mar Egeo, con capitale Pergamo.
Ad Efeso era venerata la Dea Artemide ed era una bellissima e ricca città (come le rovine attuali tuttora mostrano), da cui Paolo contava di irradiare il Vangelo in tutta
la provincia d’Asia. Sembra che Paolo sia talmente pieno
del Signore da non incontrare nessun ostacolo: ad Efeso
compie guarigioni a ripetizione e avvengono cacciate di
demoni al solo porre sui malati stoffa che era stata a contatto di Paolo. Al punto che, ad un certo momento, si ha
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addirittura una conversione di massa, una conversione
pubblica: la gente brucia libri e amuleti per le pratiche magiche, rimettendoci molti soldi.
Ad Efeso dunque si rinnovano i prodigi della Pentecoste! Però Paolo si accorge che il Vangelo in realtà non
“passa”, trova ostacoli in continuazione e anche all’interno della comunità cristiana ci sono situazioni traballanti.
Paolo si imbatte nel predicatore Apollo, uomo colto e oratore formidabile, ma che non conosce il battesimo nello
Spirito Santo ed è rimasto fermo al battesimo di Giovanni il Battista. Paolo ad Efeso viene a sapere che anche a
Corinto, comunità fondata da lui, ci sono cose che non
funzionano, e si formano varie fazioni.
Anche se Gesù è il Cristo e il Signore, i potenti e intere popolazioni continuano ad essere indifferenti, la parusia non arriva, e le comunità cristiane accettano situazioni morali ambigue (cf per es. 1Cor 5-6). Il ritorno del
Signore si allontana e nessuno ne conosce la ragione. Ai
Corinti Paolo aveva scritto (1Cor 7,29ss) che anche le
scelte importanti della vita erano secondarie, perché «il
tempo ormai si è fatto breve»: adesso però si vive il dramma di un tempo che si allunga indefinitamente.
Paolo perciò sente l’urgente bisogno di ritornare al principio, e decide di tornare a Gerusalemme, agli eventi di questa città. Solo da Gerusalemme ripartirà, poi, per andare a
Roma, la capitale dell’Impero: ma durante il viaggio da Efeso a Gerusalemme anche la certezza di questo progetto diverrà confusa. Paolo si imbarca per la Macedonia, con l’idea
di andare a Gerusalemme da Atene, ma ciò non è possibile;
perciò risale in Asia Minore, convoca i suoi a Mileto e, in
At 20,22, dice che va a Gerusalemme «senza sapere cosa là
gli accadrà». Compiuta la traversata, si ferma poi a Cesarea
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ritornare agli atti degli aPostoli
e, parlando con i suoi amici, dice che «è pronto a morire a
Gerusalemme» (At 21,13). Durante questo viaggio, dunque,
c’è stata un’evoluzione fortissima. E a Gerusalemme le cose
cambieranno ancora una volta!
gerusalemme, sacramento della vita
cristiana
In At 20,16, viene detto chiaramente che a Paolo «premeva essere a Gerusalemme per la Pentecoste, se possibile»:
la corsa di Paolo però era cominciata tranquillamente, benché già in At 19,21 si fosse detto che «aveva deciso risolutamente... di recarsi a Gerusalemme». La sua corsa all’inizio è
lenta: non si imbarca direttamente ad Efeso per la Terra d’Israele, perché deve ancora visitare alcune comunità, in Macedonia e Acaia, però, via via, la sua diventa una corsa sempre più rapida. Ripassando per Efeso non vuole nemmeno fermarsi a salutare le comunità e convoca a Mileto solo i capi
comunità, tanto è rapida la sua corsa. Il ritorno a Gerusalemme è compiuto a piedi, per nave, a cavallo, con tutti i mezzi.
Perché questa urgenza di tornare a Gerusalemme? Perché, concentrando molti concetti in una frase, si potrebbe dire, con lo Stancari, che Gerusalemme è la sintesi sacramentale di tutto ciò che Dio ha voluto porre all’origine della vocazione cristiana. Per sintesi sacramentale, si intende
un segno visibile di una realtà invisibile, un piccolo segno
che manifesta qualche cosa del “mistero”, inteso in senso
paolino. In questo caso la realtà invisibile è la chiamata
ad essere discepoli del Cristo.
Ritornare a Gerusalemme significa ritornare a quegli avvenimenti, piccoli per la storia del mondo, ma che contengono tutto ciò che Dio ha voluto porre come fonte della nostra identità di discepoli della Via, di “cristiani”. È Dio il pro9
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tagonista, il soggetto di questa azione: Paolo sale a Gerusalemme precisamente perché sente il bisogno di ritornare all’inizio della sua vocazione di cristiano. Prima ancora di essere un apostolo, inviato sulle strade del mondo per annunciare la Buona Notizia, per fondare comunità, per dare
voce all’Evangelo, Paolo è un discepolo di Gesù.
Egli ha ricevuto la chiamata di conformare se stesso a
Cristo, anzi di essere conformato a Cristo, perché non è Paolo che conforma la sua vita a Cristo: è opera del Signore
conformare ciascuno al suo Figlio, per renderlo figlio nel Figlio. È quanto Paolo stesso dice nella lettera ai Romani, scritta proprio in quegli anni: «Quelli che Dio da sempre ha conosciuto, li ha predestinati ad essere conformi all’immagine
del suo Figlio, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29). Paolo dunque torna a Gerusalemme perché
là si è manifestato il Figlio e là Dio ha compiuto tutte quelle cose che costituiscono la nostra vocazione ad essere figli.
Il ritorno di Paolo è dovuto anche a una crisi, che si accompagna d’altra parte a grandi successi: una crisi misteriosa, perché sembra che Paolo non abbia niente di cui lamentarsi! Tutto sembra riuscirgli bene! Tuttavia il suo sguardo
penetrante coglie un ritardo nell’avverarsi delle promesse,
di cui lui stesso si faceva banditore: l’Evangelo stenta a diventare effettivamente vita vissuta, le comunità non decollano. L’opera di Paolo è grandiosa e affascinante, ma nello
stesso tempo traballante, piena di crepe. Le comunità primitive, che noi tanto idealizziamo, sono comunità tutt’altro
che ideali: ci sono divisioni e una coesistenza di vita vecchia,
pagana, e vita cristiana. Anche le sette lettere dell’Apocalisse alle chiese giovannee mostrano quante contraddizioni
ancora laceravano la vita dei credenti. Le comunità paoline
sono capaci di grandi slanci, ma anche di ripiegamenti, di
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ritornare agli atti degli aPostoli
chiusure e divisioni. L’apostolo si immaginava una evangelizzazione folgorante e invece si rivela lenta e faticosa.
Adesso possiamo rispondere alla nostra domanda iniziale, constatando che ci sono delle similitudini tra la situazione che spinge Paolo a ritornare a Gerusalemme, a
ripercorrere il cammino degli Atti, e la nostra situazione,
che ci spinge a rileggere gli stessi Atti, e, prima ancora, a
ripartire dalla vicenda di Gesù nel Vangelo.
la Prima evangelizzazione e noi
Certamente noi non siamo popoli pagani, c’è stata una
evangelizzazione, forte, lunga, capillare, che ha impregnato
la vita della gente, la cultura, la vita sociale e i costumi. Basta andare in India, per es., per accorgersi di quanto il cristianesimo abbia inciso sulla vita delle nostre nazioni! Questo processo però, che solo pochi decenni fa sembrava irreversibile, mostra invece delle lacune, generando un senso di
disorientamento. In Italia c’è ancora più del 90% di battezzati, ma la vita morale è largamente deficitaria, spaventosamente pagana, per certi tratti. Non solo, ma è crollato tutto
un tentativo — e più che un tentativo, una certa realizzazione — di “società cristiana”. Prendiamo l’Olanda, Paese
che ha dato vita a migliaia di missionari, ancor oggi presenti in mezzo mondo: oggi l’Olanda è una nazione dove i cristiani sono una minoranza. Le istituzioni culturali e caritative cristiane, non solo cattoliche, sono crollate. La tradizione cristiana non è più così forte da convincere la gente, perlomeno esteriormente, a improntare la propria vita secondo
i canoni dell’insegnamento dottrinale, di fede e di morale,
delle Chiese cristiane. È così anche per buona parte della nostra Europa, che, vista da lontano, ad esempio dal mondo
arabo-musulmano, è ritenuta ancora “cristiana” — al punto
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che la “guerra del Golfo” è considerata alla stregua delle crociate — eppure a noi, che ci siamo dentro, come Paolo è dentro alla sua situazione, le cose appaiono in ben altro modo.
Per noi, come per l’Apostolo, c’è un profondo bisogno
di ricapire l’Evangelo. Il Papa parla ormai da alcuni anni
della necessità di una nuova evangelizzazione, ma egli ha
solo dato voce ad un dato che si sta imponendo da solo: un
numero crescente di cristiani avverte la necessità di ricapire i fondamenti della fede, cosa voglia dire che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, ecc.; e la prassi sacramentale e morale,
quand’anche rimane, se non c’è questa riscoperta, rischia di
essere una impalcatura fasulla, dietro a cui non c’è niente.
Le encicliche dei Papi presuppongono dei cristiani che
abbiano preso Gesù Cristo come riferimento della loro vita,
come Salvatore, e dunque propongono come si vive da discepoli di Cristo. Ma molti equivoci, molte discussioni, sulle encicliche, sono legati al fatto che questo presupposto per molti non è per niente chiaro: a volte forse non si osa dirlo apertamente, ma l’evento della fede non è più un’esperienza viva, anche tra coloro che frequentano le messe domenicali.
Per questo si sta nuovamente affermando l’esigenza di
un catecumenato.
Molti gruppi, movimenti e associazioni, nella Chiesa,
ripropongono o si interrogano su come riproporre un itinerario catecumenale, un percorso che ricominci da un ascolto della Parola di Dio, senza presupporre nulla. Questo era
tipico della Chiesa dei primi secoli, e adesso torna di attualità, come confuso bisogno di ricomprendere il Vangelo.
Di nuova evangelizzazione ormai tutti ne parlano, ma
nessuno sa come portarla avanti, perché la nostra Chiesa
ha perso “la memoria” di cosa fare, di come muoversi, in
una società pagana: i più attenti, poi, comprendono che
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ritornare agli atti degli aPostoli
non si può ripartire nemmeno dal Vangelo, ma dall’alleanza del Sinai e da Abramo! Non a caso il Papa — nella lettera Tertio Millennio Adveniente — ha dato appuntamento non solo a Betlemme e a Gerusalemme, ma anche
al Sinai. Molte “verità”, infatti, non sono tipiche del Nuovo Testamento, ma sono già patrimonio di Israele, della
Toràh e dei Profeti: e non sono per niente ovvie.
Continuando a cercare similitudini tra la situazione di
Paolo e Luca e la nostra, un segnale collegato con quanto
appena detto è la riscoperta di Gesù come appartenente al
popolo di Israele, la riscoperta delle radici giudaiche, gerosolimitane della nostra fede. In questi ultimi decenni, c’è stato
un moltiplicarsi della letteratura sulle radici giudaiche della
nostra fede. Negli ultimi anni in Italia sono stati pubblicati
vari libri su Gesù “giudeo”: è un sintomo dell’urgenza di tornare a Gerusalemme, sintesi sacramentale di tutto ciò che Dio
ha voluto porre all’origine della nostra vocazione cristiana.
Il Concilio Vaticano II ha aperto una voragine di domande e di ripensamenti, per cui è stato un punto di partenza, oltre che un punto di arrivo. In questi anni del dopo Concilio, si sperimenta una forte vitalità della Chiesa,
proprio come succede a Paolo nell’annuncio dell’Evangelo. Ma accanto alla vitalità c’è anche scompiglio, confusione, incertezza, disorientamento e lacunosità.
ritornare al PrinciPio e fondamento
Siccome viviamo in un tempo spirituale simile a quello che ha vissuto l’Apostolo, come lui dobbiamo tornare
a Gerusalemme; e come Paolo non ha buttato via niente
della sua esperienza e dei suoi viaggi missionari, così noi
non dobbiamo buttare via niente del nostro passato, dell’esperienza accumulata nel corso di questi secoli, in cui il
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Vangelo ha corso per il mondo. Abbiamo però la necessità di riflettere, di verificare le nostre tradizioni, dobbiamo ricomprendere in profondità anche tutte le vocazioni
all’interno della vita cristiana: per fare questo, dobbiamo
tornare al principio e fondamento — secondo la terminologia di S. Ignazio — della nostra vita cristiana.
Ritornare al fondamento e al principio della vita cristiana, cioè agli eventi di Gerusalemme, significa ritornare a prendere coscienza del nostro essere costitutivamente dei debitori. Ancora condensando in un’unica frase, si
può dire che noi siamo costitutivamente debitori nei confronti di un evento posto da Dio gratuitamente.
Potrebbero venirci in mente altri modi di immaginare
l’inizio della nostra vocazione: ad esempio un incontro tra
due persone, in qualche modo allo stesso livello, se non altro allo stesso livello di libertà. Potremmo immaginarci l’inizio della nostra vita cristiana come una scelta che noi abbiamo operato, continuamente da rinnovare. All’inizio della nostra vita di fede invece, c’è un essere debitori nei confronti di un Altro che ha fatto una scelta, che ha preso l’iniziativa. Costituzionalmente non siamo noi i protagonisti, i primi. Se ritorniamo a Gerusalemme, se ritorniamo
indietro, ciascuno facendo memoria della sua storia di salvezza, ritroverà che un Altro si è mosso per primo verso di
lui; e lui era un perduto, un confuso; non un pellegrino,
ma un girovago senza mèta, uno sbandato.
Se non si ha questa consapevolezza circa la propria salvezza, non si è ancora incontrato il Salvatore. Il primo contatto è l’incontro tra una pecora smarrita e un Pastore, che
di sua iniziativa si mette alla sua ricerca. Se non si ha la chiarezza di essere costitutivamente una pecora smarrita, il pastore che si è incontrato non è ancora Gesù di Nazareth. Nel
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ritornare agli atti degli aPostoli
Vangelo di Luca Gesù va a casa di Zaccheo, di un perduto,
e preferisce quella casa a tutte le altre di Gerico. Sebbene
Gerico fosse piena di gente che gli offrisse inviti a pranzo,
Gesù sceglie la casa di Zaccheo, perché lì si realizzi la sua missione, il senso del suo viaggio davanti agli abitanti di Gerico, in verità perduti come Zaccheo. Gesù di Nazareth è il
pellegrino per eccellenza, la Buona Notizia in persona, che
percorre le strade del mondo, non a caso, ma per cercare il
perduto. Zaccheo si lascia afferrare, si lascia incontrare, si lascia visitare: l’unica scelta che c’è all’inizio di una vita cristiana è quella di lasciarsi amare, non è quella di amare.
Non ho scelto di essere cristiano perché ho deciso di amare, ho accettato di essere amato, io che non avevo motivi per
essere amato, cioè sono costitutivamente un debitore rispetto
al Signore. Per quanto io sia un cercatore di Dio e cammini
per le strade del mondo in cerca di Lui, se incontro veramente
«il Padre del Signore nostro Gesù Cristo», mi accorgerò che
io sono stato fermo e che in realtà è stato Lui a cercarmi. Prima c’è Dio-cercatore-dell’uomo e poi c’è l’uomo-cercatoredi-Dio. Se l’uomo pretende di tenere le redini della sua ricerca di Dio e di dettare le norme di questa ricerca, non incontrerà mai Gesù Cristo. Nel Vangelo, nel Nuovo Testamento, tutto questo si esprime usando il verbo battezzare al
passivo, non solo per i bambini, ma anche per gli adulti: cioè
non ci si può dare il Battesimo, il Battesimo si riceve!
Non posso immergere me stesso nell’acqua salvifica,
nel Padre nel Figlio e nello Spirito Santo, perché io sono
un paralitico (cf Gv 5,7): è questa la mia condizione originaria, che riscopro tornando a Gerusalemme; è la comunità che mi immerge e mi immerge in un Altro.
Paolo avrebbe potuto seguire la tentazione di continuare le sue imprese apostoliche, straordinarie e miracolose, di15
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ventando lui il protagonista, lasciandosi Gerusalemme alle
spalle, affrancandosi da Gerusalemme. Preso dal desiderio
di raggiungere Roma, avrebbe potuto insediarsi a Roma;
considerarla, come facevan tutti, Caput mundi: ma così facendo, avrebbe compiuto un tragico equivoco, facendo il
gioco dell’Impero, trasformandosi in un Cesare religioso.
In questo tragico equivoco siamo caduti a volte noi, cristiani provenienti dal paganesimo, dai “gentili”; ad esempio, quando abbiamo pensato di poter fare a meno di Israele, che ha partorito Gesù e al cui interno tutto è stato portato a compimento. Quindi tornare a Gerusalemme per noi
cristiani significa ritrovare le nostre radici, ricordare che siamo un virgulto d’olivo selvatico, innestato su un tronco d’ulivo buono, come scrive Paolo in Rm 11,16-24.
Gerusalemme non è un luogo interessante per qualche
strano o buon motivo: è il luogo dove il Signore ha deciso di consumare il Mistero della Salvezza, la città del Grande Sovrano (cf Sal 48,3; Tb 13,16; Mt 5,35).
Gesù piange su Gerusalemme, perché è stata scelta dal
Padre come luogo della definitiva rivelazione: a lui però Gerusalemme si chiude. Di fronte a questa chiusura, il Signore
compie quell’accoglienza definitiva per cui in Gerusalemme
tutti i perduti potranno ritrovarsi, sentirsi accolti e ritornare
a Dio, che ha preso per primo l’iniziativa e li ha amati così
gratuitamente da non fare conto dei meriti e dei demeriti.
gerusalemme, luogo della visita
Tornare a Gerusalemme significa tornare al luogo della visita, un altro termine decisivo per comprendere l’opera lucana. “Visitare” è un verbo usato esclusivamente da
Luca, e traduce il verbo ebraico pqd (paqad), che segna in
modo molto importante gli avvenimenti decisivi della sto16
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ria di Israele. In Gen 50,24, nel discorso di commiato ai
suoi fratelli in Egitto, Giuseppe dice: «Io sto per morire,
ma Dio verrà certo a visitarvi e vi farà uscire da questo paese verso il paese che egli ha promesso con giuramento ad
Abramo, Isacco e Giacobbe». Al versetto successivo Giuseppe fa giurare i figli di Israele così: «Dio verrà certo a visitarvi...», una frase diventata dunque una forma di giuramento. Quando Mosè viene chiamato dal Signore, il Signore gli dice: «Riunisci gli anziani e di’ loro: Il Signore...
mi è apparso... dicendo: Sono venuto a visitare voi e ciò
che viene fatto a voi in Egitto» (Es 3,16).
Mosè dunque è l’ambasciatore, il precursore di questa
visita di Dio. Alla fine della lunga discussione tra Mosè e
Dio, nata perché il modo in cui Dio vuol portare questa visita non è gradito a Mosè, Mosè si arrende e va, insieme ad
Aronne, dal popolo; la reazione degli Israeliti è espressa in
questi termini: «Allora il popolo credette. Essi intesero che
il Signore aveva visitato gli Israeliti e aveva visto la loro afflizione; si inginocchiarono e si prostrarono» (Es 4,31).
Dio è lontano dall’uomo, perché l’uomo è lontano da Dio:
l’unica possibilità di ristabilire un rapporto è che il Signore
venga a visitare il suo popolo. Lungo tutto l’Antico Testamento corre questa promessa di una visita di Dio, che comincia già a realizzarsi nell’Esodo. Poi si comprende che c’è
bisogno di un’altra visita, più decisiva e radicale, che liberi
da un altro Egitto, da un altro faraone, che sta dentro — il
nemico dell’uomo, come direbbe S. Ignazio — che vuole trattenerlo «nell’ombra della morte» (Lc 1,79), in una vita fatta
di schiavitù per la paura della morte, come dirà Eb 2,14-15.
Il Signore promette di spezzare questa schiavitù, e Luca riprendendo tutte queste promesse dell’AT, rilegge la
storia della salvezza e comprende che, con Gesù, la visita
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è finalmente realizzata: è Gesù la visita definitiva di Dio. Si
veda Lc 1,68: «Benedetto il Signore Dio di Israele perché
ha visitato e redento il suo popolo».
La visita realizzatasi ha però ancora un risvolto, un futuro, che si snoderà tuttavia alla stregua delle visite avvenute: «Grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per
cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge» (Lc 1,78).
In Lc 7,16 si vede quanto la gente d’Israele avesse in
mente questa visita, perché legge la guarigione del figlio
della vedova di Nain in questi termini: «Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo»; cioè:
“Se succedono queste cose, allora Iddio ci ha visitato, si
compie quella visita di Dio, che ci era stata promessa”.
In Lc 19,41-44 Gesù riprende questa tematica: «Quando
fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa dicendo: Se
avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace.
Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi. Giorni verranno per
te in cui i tuoi nemici ti cingeranno di trincee, ti circonderanno e ti stringeranno da ogni parte; abbatteranno te e i tuoi
figli dentro di te, non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata».
La visita ha dunque anche un risvolto doloroso, tragico, perché non accoglierla vuol dire rimanere nella logica della schiavitù, dell’ombra di morte, da cui la visita del
Signore vuole trarre fuori. Il rifiuto di essere visitati, però,
non è l’ultima parola: il Signore, infatti, trasforma questa
non-accoglienza in una occasione di accoglienza più grande: gli Atti degli Apostoli raccontano precisamente l’accoglienza che Dio ha riservato, a partire da Gerusalemme, a
tutte le nazioni, paradossalmente in forza di quel rifiuto.
Ritornare a Gerusalemme significa, ancora, ritornare
al luogo “del compimento del giorno” e “del giorno del
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ritornare agli atti degli aPostoli
compimento”. Fermiamoci a considerare questi due aspetti complementari.
il comPimento del giorno
In Luca tutta la vicenda di Gesù dura un giorno. Il giorno del Signore si apre con l’apertura dei cieli al Battesimo
di Gesù, al Giordano (Lc 3,21-22), e si chiude quando il
cielo si richiude sopra le teste degli Apostoli, in At 1,9.
Anche il tema del “giorno del Signore” corre lungo tutto l’AT: questo giorno era stato annunciato già dai grandi
profeti, che ne parlavano come di un giorno di caligine, di
tenebre, di castigo e di ira. Luca riflette sulla vicenda di Gesù, la racconta ai cristiani della terza generazione, e afferma
che “il giorno” si è compiuto proprio quel giorno in cui i cieli si sono aperti su Gesù, sceso nelle acque del Giordano, cariche dei peccati degli uomini, inquinate radicalmente.
L’immersione di Gesù è un’immersione dolorosa nel
peccato dell’uomo, perché a questo fiume tutti vanno a
portare i loro peccati.
Luca parlerà della passione di Gesù proprio come di un
“battesimo”, di una immersione che gli costa la vita, ma che
Egli desidera ardentemente (cf Lc 12,50). Su questo Figlio,
che si immerge nel mondo inquinato dagli altri figli, si aprono i cieli e vengono pronunciate le parole di compiacenza
del Padre: il cielo e la terra si sono baciati, come aveva annunciato il salmista (Sal 85,12: «La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo»), e un anonimo
profeta della scuola di Isaia (Is 45,8 «Stillate cieli dall’alto
e le nubi facciano piovere la giustizia, si apra la terra e produca la salvezza e germogli insieme la giustizia»).
La strada fra il cielo e la terra si riapre, dopo essere stata
chiusa misericordiosamente da Dio, dopo i peccati dell’uo19
P. b i z z e t i - i l favo s t i l l a n t e
mo, perché l’uomo non si installasse malamente in una eternità di peccato e di morte. Il tempo tra l’apertura dei cieli e
la chiusura dei cieli, il giorno, è l’«oggi», altra parola tipica
del vocabolario lucano: «Oggi vi è nato un Salvatore» (Lc
2,11). In Lc 2,7, quando nel giorno del Battesimo i cieli si
aprono e si sentono le parole «Tu sei il mio Figlio prediletto», viene citato il Sal 2, mettendo quindi in relazione la generazione di Gesù al Battesimo con l’oggi dell’intervento di
Dio: «Oggi ti ho generato». In Lc 4,21 si legge che Gesù va
alla sinagoga di Nazareth, legge un brano di Isaia, e annuncia: «Oggi si compie alle vostre orecchie questo passo della
Scrittura». In Lc 5,26, la gente esclama: «Oggi abbiamo visto cose stupende» - a causa del perdono dei peccati e della
guarigione del paralitico. Lc 19,5: «Zaccheo scendi subito
perché oggi devo fermarmi a casa tua» e poco dopo: «Oggi
la salvezza è entrata in questa casa» (19,9). In Lc 22,34: «Oggi il gallo non canterà tre volte senza che tu mi abbia rinnegato», dice Gesù a Pietro: l’oggi di Dio mette in luce l’oggi
dell’uomo, il tradimento dell’uomo. Infine, in Lc 23,43, c’è
la parola definitiva di Gesù «Oggi sarai con me in paradiso»,
detta a quel malfattore senza speranza.
Il giorno è compiuto dunque, e i cieli non rimangono
aperti, la storia umana è entrata nell’oggi di Dio, con cui la
storia umana deve confrontarsi, quell’oggi senza il quale il
tempo dell’uomo, la storia dell’uomo, sarebbe soltanto un
cerchio infernale, un eterno ritorno al punto di partenza,
un tempo chiuso. L’essersi compiuto di quel giorno stabilisce il punto assoluto di riferimento della storia umana.
Ritornare a Gerusalemme è tornare a quel giorno che
il Signore ha aperto e ha concluso, e in cui adesso tutti
possiamo entrare: se non si entra in quell’oggi di Dio, rimaniamo in balìa dello scorrere delle giornate inutili, sen20
ritornare agli atti degli aPostoli
za mèta, senza fine.
il giorno del comPimento
Il compimento del giorno è anche il giorno del compimento,
perché nella sua visita il Signore ha portato già a compimento tutto quanto aveva da dire e da fare. Proprio così Luca inizia la sua opera: «Poiché molti hanno posto mano a
stendere un racconto degli avvenimenti che sono arrivati a
compimento tra noi» (Lc 1,1); la traduzione CEI dice «Degli avvenimenti che sono successi tra noi» — ma al traduttore è sfuggito il senso, così come l’ha mancato negli Atti,
quando parla del giorno di Pentecoste, dove traduce «Quando il giorno di Pentecoste stava per finire» (At 2,1) mentre
al v. 9 si dice chiaramente che erano appena le nove del mattino. Il testo greco va dunque tradotto: «Quando il giorno
di Pentecoste stava per compiersi», cioè stava per arrivare al
suo compimento. Altrettanto va capito in Lc 9,31: Gesù con
Mosè ed Elia parlava del suo «exodos» (tradotto in italiano
«dipartita», ma il termine greco è «esodo» con tutti i richiami
che questo suscita), che sarebbe arrivato a compimento a
Gerusalemme. Così anche nel brano visto di Lc 12,50: «In
una immersione (battesimo) io devo essere immerso e come
sono angosciato finché non l’ho portata a compimento».
Questo battesimo è la sua morte e resurrezione, è un’immersione salvifica nelle profondità della morte. Altri testi
utili da vedere sono: Lc 18,31, dove Gesù introduce i suoi
amici in tutta una serie di avvenimenti: «Ecco noi ascendiamo a Gerusalemme e lì si compiranno tutte le scritture»;
Lc 22,16: «Non mangerò più la Pasqua finché non si sia compiuta nel regno di Dio»; Lc 22,37: «Vi dico, deve essere portata a compimento questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra i malfattori. Infatti tutto quello che mi riguarda vol21
P. b i z z e t i - i l favo s t i l l a n t e
ge al suo compimento». Nella vicenda di Gesù annoverato
tra i malfattori, tutto arriva a compimento: Dio ha realizzato le sue promesse, si è rivelato in modo definitivo, e non c’è
più nessun’altra rivelazione da aspettare; è cominciato il mondo futuro, è cominciata la vita eterna.
Come direbbe S. Giovanni: «La vita si è fatta visibile
e noi l’abbiamo toccata» (1Gv 1,2). Dobbiamo mortificare perciò la nostra smania di novità, perché in un certo senso non c’è più niente da aspettarsi: Cristo infatti «Tornerà
come l’avete visto ascendere», come viene detto nelle prime battute degli Atti. Queste sono le parole che i due uomini in bianche vesti dicono ai discepoli, che stanno a naso all’insù aspettando la novità, aspettando che si muova
il cielo, mentre invece devono essere loro a muoversi (e
noi con loro)! Se si è penetrato il mistero del compimento di Gesù a Gerusalemme, il suo ritorno non ci coglierà di
sorpresa, come dice Paolo nelle sue lettere (cf 1Ts 5,4).
Ritornare al momento iniziale equivale quindi ad accelerare la corsa verso quel punto finale della storia in cui Egli
tornerà. Ritornare a Gerusalemme, se si è compreso che lì è
avvenuto l’avvenimento definitivo, equivale ad andare verso la Gerusalemme celeste, verso il Regno di Dio, perché il
Regno finale sarà il Vangelo, saranno gli avvenimenti del
Vangelo, sarà il Gesù del Vangelo, crocifisso e risorto.
Torniamo a Gerusalemme con Paolo, perché il nostro futuro si chiarisce solo se abbiamo una rinnovata esperienza di
quanto è accaduto al Divino Pellegrino, a quel Viandante
Assoluto su cui si deve misurare ogni nostro camminare.
Questa è la cura che guarisce noi, tentati sempre di
chiedere e cercare dei segni, ansiosi per il nostro futuro.
Se vogliamo scrutare il nostro futuro, l’unica possibilità è
guardare più attentamente al raggiante Volto sfigurato del
22
«Ogni carne vedrà
la salvezza di Dio»
M
ettiamoci di nuovo in cammino con Paolo di Tarso, nel suo viaggio di ritorno a Gerusalemme (cf At
19,21), e prendiamo coscienza della distanza che
c’è tra noi e il Vangelo, perché se c’è una cosa che
impedisce di essere discepoli del Pellegrino è pensare di
essere già arrivati. Soltanto se riconosciamo il nostro bisogno di conversione, cioè il nostro bisogno di “ritorno”,
abbiamo una speranza di incontrare Gesù.
Ciò che per noi è importante è quello che noi riusciamo a produrre, a fare. Siamo infatti nella cultura del consumo, in cui la persona vale nella misura in cui produce e
consuma. Siamo proprio all’opposto del sentirci debitori. La
nostra situazione di partenza — così come la vediamo noi
— non è la situazione di uno che ha ricevuto, ma di uno
che è vuoto: ci è perciò impossibile ringraziare, lodare, riconoscerci debitori, perché il debitore è colui che ha ricevuto, che è pieno di qualcosa, il cui vuoto è stato colmato.
La mentalità dell’essere “poveri bambini”, sempre bisognosi di qualcosa, è entrata profondamente in noi e fa
di noi dei consumatori incalliti: siamo ammalati di una
malattia che consiste nel misurare le persone su quanto
fanno e su quanto dispongono (di denaro, tempo, prestazioni fisiche, ecc.); e nella misura in cui facciamo tante cose gli uni per gli altri, ci ringraziamo. Invece Paolo torna
a Gerusalemme non come un uomo vuoto, ma come un
uomo che sa di aver già ricevuto la salvezza: non è il tor23