INNI Proprio gli Inni sono l`unica opera poetica di Callimaco che ci è

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INNI Proprio gli Inni sono l`unica opera poetica di Callimaco che ci è
INNI
Proprio gli Inni sono l'unica opera poetica di Callimaco che ci è giunta per intero. La fortunata
circostanza si deve a un anonimo antologista del secolo VI d.C, che li raccolse in un unico corpus
insieme con gli Inni omerici, quelli orfici, le Argonautiche orfiche e gli Inni di Proclo. Gli Inni
callimachei sono in tutto sei, dedicati rispettivamente a Zeus, ad Apollo, ad Artemide, a Delo, per i
lavacri di Pallade, a Demetra. A eccezione dell'inno per i lavacri di Pallade, l'unico in distici
elegiaci, il metro impiegato è quello tradizionale della poesia eroica e innodica, l'esametro, di cui
però Callimaco accentua, rispetto alla tradizione omerica, il rigore formale e l'eleganza stilistica. La
lingua è quella tradizionale dell’epos, caratterizzata da omerismi e dalla consueta coloritura ionica,
tranne che nell'Inno per i lavacri di Pallade e in quello a Demetra, in cui è presente una patina
dialettale dorica del tutto inusuale nella poesia epica.
La datazione dei singoli Inni non può essere definita con certezza, tuttavia è ipotizzabile che
Callimaco si sia impegnato nella loro composizione durante tutto l'arco della sua carriera poetica.
L’Inno a Zeus, il più antico, fu molto probabilmente scritto intorno al 283 a.C, data d'inizio del
regno di Tolemeo II Filadelfo; il più recente, l’Inno ad Apollo, è invece quasi sicuramente
posteriore al 246 a.C, anno della presa di potere di Tolemeo III Evergete. È da rilevare la costanza
con cui Callimaco continuò a coltivare il genere innodico durante tutto l'arco della sua vita,
soprattutto se si tiene presente la discontinuità con cui egli trattò i diversi generi letterari.
Nell'ambito degli Inni, quello a Zeus occupa il primo posto. Dal momento che Callimaco curò
personalmente l'edizione definitiva delle sue opere, la scelta non è certo casuale: essa trova la sua
giustificazione in un circostanziato richiamo (come è detto esplicitamente al v. 1, «al momento
delle libagioni») all'uso di iniziare il simposio con l'invocazione al padre degli dèi: la cornice di
riferimento è dunque quella di un simposio di amici, poeti ed eruditi, in grado di apprezzare in tutti
i suoi più reconditi risvolti la difficile poesia callimachea. Callimaco ci tiene a riesumare un dato
fondamentale del simposio arcaico, se è vero che anche la raccolta degli Inni conviviali di Alceo
cominciava con un carme dedicato a Zeus, proprio come avveniva nella prassi del simposio.
All'interno della produzione innodica callimachea si può tracciare un preciso discrimine. Un primo
gruppo di Inni, costituito da quelli a Zeus, ad Artemide, a Delo, rispetta pienamente lo schema
tradizionale dell'inno cletico, o di invocazione alla divinità; un secondo gruppo è rappresentato
dagli Inni ad Apollo, per i lavacri di Pallade, a Demetra, che si immaginano recitati da un locutore
in occasione di precise cerimonie: in altri termini il poeta, presupponendo un'occasione ben
determinata per l'esecuzione dell'inno, vuol creare nel lettore l'illusione di una destinazione non
letteraria dell'inno stesso.
Dell'inno cletico l’Inno a Zeus (I) presenta numerosi elementi strutturali: dapprima si rievoca la
nascita del dio sui monti dell'Arcadia, con particolare attenzione al prodigio operato da Rea, che fa
sgorgare una serie di fiumi, ruscelli, torrenti da una terra fino allora arida (vv. 1-41), poi si passa
all'elenco e alla descrizione delle virtù e delle funzioni di Zeus (vv. 42-90), soprattutto quella di
protettore degli uomini che detengono il potere e dei re, con un conseguente caldo elogio di
Tolemeo II Filadelfo; alla fine l'inno presenta il tradizionale congedo del poeta dalla divinità (vv.
91-96).
Del tutto analoga la struttura dell'Inno ad Artemide (III). Al consueto proemio, in cui il poeta
manifesta l'intenzione di cantare Artemide, seguono la rievocazione del breve dialogo fra la dea
bambina e il padre Zeus con la delimitazione della sfera cultuale di Artemide (vv. 6-40), la
narrazione del lungo girovagare della dea che cerca ninfe per il suo corteggio, armi e cani per la
caccia, cerve per trainare il suo carro (vv. 41-128), e infine la descrizione dell' arrivo della dea
sull'Olimpo dopo una battuta dì caccia (vv. 142-182). La seconda parte dell'Inno (vv. 183-268), che
si chiude con l'abituale saluto alla dea, è costituita dal lungo e particolareggiato elenco dei luoghi
del culto di Artemide, occasione per una serie di digressioni erudite, di carattere religioso,
etnografico e storico, per molti aspetti simili a quelle che costituiscono l'oggetto degli Aitia.
Nell’Inno a Delo (IV) Callimaco celebra l'isola che diede i natali al dio Apollo. Prima della nascita
del dio, l'isola, che allora si chiamava Asteria, non aveva una posizione fissa, ma vagava libera da un
punto all'altro del mare; solo dopo il parto di Latona, Asteria, che da quel momento fu chiamata
Delo, si fermò in un punto preciso del mare Egeo (vv. 1-54). La parte centrale dell'inno è occupata
dalla rievocazione delle peregrinazioni di Latona alla ricerca di un posto dove partorire e dal
racconto della fuga di terre, città, fiumi e isole di fronte alla richiesta di assistenza avanzata dalla
dea: tutti temono infatti la punizione di Era, che vuole impedire a ogni costo il parto di Latona (vv.
155-195). Alla fine, su consiglio di Apollo, Latona si dirige verso l'isola di Asteria, che, sfidando
l'ira di Era, accetta di buon grado di ospitarla per il parto. La sposa di Zeus, pur adirata, decide di
non punire l'isola (vv. 195-259). L'inno si conclude con l'esaltazione di Asteria/Delo e con il ricordo
dei benefici che essa ottenne per aver favorito la nascita di Apollo (vv. 260-326).
Pur all'interno di un impianto tradizionale non mancano, anche in questi Inni, spunti rivelatori del
nuovo modo di celebrare la divinità prospettato dal poeta. Ne sono un brillante esempio due passi
dell'Inno ad Artemide. Nel primo la sfera di competenza della divinità, che nell'inno cletico
tradizionale viene definita nell'invocazione iniziale alla divinità, risulta invece inserita in un
gustosissimo dialogo dal tono accentuatamente familiare, in cui Artemide bambina chiede al padre
Zeus gli attributi religiosi in forma di doni (vv. 6-10 e 28-31):
Concedimi, papà, di conservare in eterno la verginità
e di essere invocata con molti nomi, perché Febo non bisticci con me,
e dammi archi e frecce... anzi lascia perdere, o padre, non ti chiedo la faretra
né un grande arco; per me i Ciclopi le frecce
subito costruiranno, per me un arco ben ricurvo.
Il padre annui sorridendo e disse accarezzandola: «Se le dee
tali figli mi partorissero, ben poco dello sdegno di Era gelosa mi
preoccuperei...»
Nell'altro passo è descritto il primo incontro fra la dea ancora bambina e i Ciclopi (w. 72-77):
Tu, bambina - avevi appena tre anni -,
quando Latona giunse portandoti in braccio
- perché l'aveva invitata Efesto per offrirle i doni -,
allorché Bronte ti mise a sedere sulle sue forti ginocchia,
gli prendesti una manciata di folti peli dell'ampio petto
e glieli strappasti.
Già uno degli Inni omerici, quello a Hermes, presentava, almeno in alcuni punti, una diminuzione
della sacralità e un abbassamento del tono aulico della narrazione, ma il processo di umanizzazione
che traspare dai versi callimachei citati costituisce una delle novità che Callimaco e con lui altri
poeti del primo Ellenismo introducono nella tematica relativa alla sfera divina ed eroica.
Nei tre Inni sopra descritti la struttura, pur con alcuni elementi innovativi sul piano dei contenuti,
rimane sostanzialmente quella dell'inno cletico tradizionale; gli altri tre, l’Inno ad Apollo, per i
lavacri di Pallade e a Demetra, presentano invece una peculiarità strutturale finora inedita, che
segna una svolta importante nel modo di comporre l'inno: qui infatti si può a giusto titolo parlare di
inni mimetici o meglio «drammatici», nel senso che essi apparentemente inscenano un'azione
(dr©ma), nella fattispecie una cerimonia religiosa. In questi Inni il poeta intende riprodurre
mimeticamente il contesto festivo che faceva da cornice all'esecuzione dell'inno in età arcaica,
inserendo all'interno di ciascuna composizione la descrizione fittizia di eventi legati all'occasione
del culto; in altri termini si assiste a un rovesciamento: non è l'inno che esiste in quanto esiste una
festa nella realtà, ma è la festa che esiste in quanto esiste un inno nella scrittura.
Anche l'inno, uno dei generi più conservativi, convenzionalmente legato a una circostanza concreta,
ha subito nella trattazione di Callimaco un processo di letterarizzazione che lo svincola dal suo
referente occasionale e ne fa una forma poematica fine a se stessa, la quale tuttavia ingloba al suo
interno la rappresentazione del tradizionale contesto esecutivo dell'inno. L'occasione immaginaria
dell’Inno ad Apollo è costituita da una riunione di fedeli di fronte al tempio del dio, in attesa della
sua epifania, probabilmente durante le feste Carnee a Cirene; l'occasione dell’Inno per i lavacri di
Pallade consiste nella preparazione e nella celebrazione del bagno rituale della statua di Atena nelle
acque del fiume Inaco ad Argo; quella dell'Inno a Demetra nella processione del k£laqoj (il
canestro che conteneva gli oggetti sacri del culto di Demetra), il cui svolgimento, con ogni
probabilità, aveva luogo a Cirene e non ad Alessandria, come invece afferma lo scolio.
Nell'Inno ad Apollo (II), dopo i primi versi destinati a descrivere il contesto dell'occasione fittizia
(vv. 1-31), il dio viene magnificato per la sua ricchezza e la sua bellezza e di lui si ricordano le
molteplici e benemerite attività, soprattutto la fondazione di città (vv. 32-64), tra cui quella di
Cirene, la patria di Callimaco, rievocata dal poeta con dovizia di particolari (vv. 65-96). Dopo un.
breve accenno a Delfi (vv. 97-104), il poeta - nei versi conclusivi dell'inno in onore del dio della
poesia citati sopra - ribadisce alcuni punti cardine della sua poetica, attribuendone la teorizzazione
ad Apollo stesso.
Si è insistito in precedenza sul rinnovamento strutturale operato da Callimaco nei tre inni
«drammatici». Negli ultimi due della raccolta, l’Inno per i lavacri di Pallade e l'Inno a Demetra,
questo rinnovamento investe anche i contenuti, nonché l'aspetto formale, in quanto, come si è già
accennato, entrambi sono redatti, in maniera del tutto inconsueta per il genere a cui appartengono,
in una lingua letteraria dalla forte coloritura dorica; e in quello per i lavacri di Pallade Callimaco a
quest'anomalia linguistica ne aggiunge una non meno rilevante sul piano metrico, scegliendo il
distico elegiaco - lo stesso metro delle elegie degli Aitia -, nell'intento forse di accentuarne il
carattere eziologico. Circa poi i contenuti, diversamente da quanto avviene negli inni precedenti, e
anche da quanto faranno i più banali continuatori di questa tradizione, non si menzionano più tutte
le principali azioni compiute dalla divinità, né si ricordano tutti i luoghi legati al suo culto: il poeta
limita la narrazione a un solo episodio della saga del dio, trattandolo con estrema cura stilistica e
con minuziosa attenzione a tutti i particolari, soprattutto quelli meno conosciuti.
L’Inno per i lavacri di Pallade (V), dopo i versi dedicati all'occasione immaginaria della cerimonia
religiosa ad Argo (vv. 1-56), è tutto focalizzato sul racconto dell'accecamento che Atena infligge al
giovane Tiresia, colpevole di aver visto, pur se involontariamente, la dea nuda mentre si bagnava
nelle acque dell'Ippocrene. Atena, per consolare il dolore della madre del giovane, la ninfa Cariclò,
la sua amica più cara, accenna alla punizione ben più severa subita dal cacciatore Atteone che,
colpevole anch'egli di aver visto una dea nuda, Artemide, finì sbranato dai suoi stessi cani, e
concede allo sventurato Tiresia il dono dell'arte profetica (vv. 56-136).
Nell'Inno a Demetra (VI) i versi relativi alla processione del k£laqoj (vv. 1-23) non sono seguiti,
come invece avviene nel corrispondente Inno omerico, dalla narrazione del girovagare di Demetra
alla ricerca della figlia Persefone, bensì dal racconto di un episodio marginale nell'ambito della
sfera mitico-religiosa di Demetra, un episodio che tuttavia Callimaco sceglie come unico elemento
compositivo del suo Inno: è la storia del sacrilegio di Erisittone, che, per costruirsi una casa in cui
offrire banchetti ai suoi amici, osa colpire, coll'intenzione di abbatterlo, un pioppo di un bosco sacro
a Demetra; segue la descrizione della esemplare punizione della dea, che condanna l'empio a una
fame eterna, tale da ridurre in miseria non solo lui, ma anche la sua famiglia.
L'Inno per i lavacri di Pallade e quello a Demetra dimostrano in sostanza che questa forma
letteraria, in virtù dell'evoluzione impostale da Callimaco, ha ormai perso la sua funzione religiosa
di celebrazione della divinità, per assumere invece quella di giustificazione eziologica di uno
specifico rituale. Il procedimento è analogo a quello che sta alla base degli Aitia: mentre l'inno
tradizionale è l'amplificazione letteraria di una preghiera, l'inno callimacheo, almeno nel caso
dell'Inno per i lavacri di Pallade e dell'Inno a Demetra, è la messinscena di un rituale di cui si
vogliono «riscoprire» le origini.
ECALE
L'intento callimacheo di rinnovare totalmente le forme poetiche, soprattutto quelle più tradizionali,
riaffiora, sempre nell'ambito della poesia esametrica, anche in uno dei due componimenti epici
scritti dal poeta di Cirene, l’Ecale (dell'altro, la Galatea, ci restano solo due brevi frammenti, 378 e
379 Pfeiffer): si trattava di un poema epico inusuale, strutturato non secondo le tradizionali norme
del genere codificate poi nei canoni aristotelici (unità dell'azione, estensione, continuità e
compiutezza nell'ottica di una struttura ciclica dell'epos), né redatto con un linguaggio ricco di
formule fisse e di lunghe e complesse similitudini, bensì di un carme di alcune centinaia di versi
incentrato su un episodio secondario del mito, nel caso specifico quello di Teseo, rievocato con una
chiara finalità eziologica.
Il poema narrava infatti un evento che sta ai margini della leggenda eroica dell'uccisione del toro di
Maratona da parte dell'eroe ateniese: durante un temporale, una vecchietta di nome Ecale offre a
Teseo un'ospitalità piena di affetto e di premure accogliendolo nella sua povera casa; quando,
compiuta la sua impresa, l'eroe torna da Ecale per ricompensarla della sua ospitalità, scopre che la
vecchietta è morta. Il poema si chiude con un finale manifestamente eziologico: l'eroe decide di
dare il nome di Ecale a un demo attico di nuova fondazione e di consacrare un tempio a Zeus
Ecalio.
Ma l’Ecale è fortemente innovativa rispetto all'epos tradizionale anche per quanto riguarda lo stile;
una palmare testimonianza è offerta dal fr. 260 Pfeiffer, là dove viene descritto il nascere del giorno
(vv. 63-69):
[...] e subito giunse l'aurora ricca di rugiada, quando non sono
più in cerca di preda le mani dei ladri; infatti già risplendono le lucerne del mattino e l'uomo che
attinge l'acqua canta la sua cantilena; sveglia chi ha la casetta lungo la strada l'asse
stridendo sotto il carro e con i loro fitti colpi diventano un tormento i fabbri schiavi che dentro le
botteghe si assordano.
Per descrivere la nascita di un nuovo giorno, Callimaco, in luogo del consueto linguaggio
formulare, del tipo «quando comparve l'Aurora dalle dita di rosa», accenna a tutta una serie di
momenti e di attività della vita quotidiana indissolubilmente legati all'aurora.
L’'Ecale è una delle tappe fondamentali nel cammino che, in età ellenistica, porta alla nuova forma
dell'epos, l’epillio. Anche se questo trova la sua realizzazione più alta in Teocrito, l’Ecale ne
contiene già gli elementi essenziali: umanizzazione e imborghesimento dell'eroe, uso mirato
dell'episodio mitico, rinnovamento dei moduli linguistici dell'epica tradizionale nell'ottica di un
costante confronto con il precedente omerico.
EPIGRAMMI
Come molti altri poeti di questo periodo, Callimaco coltivò anche il genere epigrammatico. Di lui
restano sessantadue epigrammi tramandati per la maggior parte dall'Antologia Palatina, una
raccolta di epigrammi di vari autori trascritta intorno alla metà secolo XI d.C.. Gli argomenti trattati
sono i più disparati; è comunque possibile individuare tre filoni principali: quello erotico, quello
dedicatorio-sepolcrale e quello di carattere letterario. Gli epigrammi d'amore sono tutti di
argomento omoerotico, nel solco della tradizione aristocratica che privilegiava questo tipo di
rapporto per esaltarne gli aspetti paideutici. Le tematiche - e, in gran parte, le immagini che servono
a veicolarle - sono quelle stesse che costituivano i topoi della lirica erotica del periodo arcaico:
fedeltà e reciprocità amore, esaltazione dell'amore difficile da conquistare e disprezzo degli amori
facili, come ribadisce per esempio l’Epigramma 102 del libro XII dell'Antologia Palatina (= Ep.
XXXI Pfeiffer):
Il cacciatore, o Epicide, sui monti di ogni lepre
e delle tracce di ogni capriolo va in caccia
sulla brina e sulla neve; ma se qualcuno dicesse:
«ecco, questa bestia è già ferita», egli non la prenderebbe.
Tale è il mio amore: sa inseguire ciò che fugge,
sorvola su ciò che sta a portata di mano.
Soprattutto nel distico finale, è evidente l'allusione, attraverso specifici moduli verbali, all'immagine
della ricerca dell'amante riottoso, già contenuta nella prima ode di Saffo (fr. 1, 21 Voigt).
Degli epigrammi sepolcrali, i più significativi sono il XXI e il XXXV Pf., che contengono entrambi
un riferimento a Callimaco stesso: nel primo il poeta riafferma con orgoglio di aver composto
«canti superiori all'invidia»; nel secondo esalta la sua bravura sia come poeta serio sia come poeta
«leggero» e conviviale.
Ma ben più importanti sono gli epigrammi di argomento letterario, sia quelli in cui il poeta valuta
gli autori del passato (Creofilo di Samo [fr. 6 Pf.], Antimaco di Colofone [fr. 398 Pf.]) o suoi
contemporanei (Arato di Soli [XXVII Pf.], Teeteto di Cirene [VII Pf.]), sia quelli cui si serve della
brevità tipica del genere per riaffermare in modo incisivi aspetti fondamentali della propria poetica;
è il caso dell’epigramma XXVIII Pf., nel quale l'esaltazione della superiorità della poesia breve,
originale ed elitaria, si intreccia e si fonde con la tematica erotica del rifiuto sprezzante dell'amasio
che si concede a molti: motivo in cui si manifesta una sorta di osmosi organica fra vita e arte.
Nella tradizionale ripartizione della poesia epigrammatica ellenistica fra scuola ionico-alessandrina
e scuola peloponnesiaca, Callimaco appartiene alla prima, ma è opportuno precisare che alcuni suoi
epigrammi presentano una leggera coloritura dialettale dorica.