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Gli Inni Gli Inni di Callimaco a noi pervenuti sono in numero di sei: A Zeus, Ad Apollo, Ad Artemide, A Delo (l'isola dove nacque e dove aveva culto Apollo), I lavacri di Pallade, A Demetra. Probabilmente appartengono tutti a un medesimo periodo. Anteriori al 270 sono quelli A Demetra e I lavacri di Pallade; di certo l'inno A Zeus e l'inno A Delo si riferiscono al periodo di Tolomeo II Filadelfo (285-246); per gli inni Ad Apollo e Ad Artemide la questione è più controversa. Essi si rifanno al modello, consacrato dalla tradizione, degli Inni omerici, con cui furono tramandati, ma lo innovano sia nello stile, pervaso di ironia e ricco di numerosi riferimenti eruditi, sia nella scelta del metro e della lingua. Anche quando si orienta sull’esametro, il metro tipico del genere, Callimaco lo rinnova profondamente, adottando ad esempio delle cesure inedite. Questo il contenuto: • Inno I - A Zeus: Fu composto probabilmente al principio del regno di Tolomeo II Filadelfo, nel decennio 290-280. Seguendo la convenzione degli Inni Omerici, il poeta, dopo un esordio in cui accenna alla doppia tradizione della nascita del dio, in Arcadia o a Creta, narra la nascita di Zeus nella Parrasia dalla madre Rea. Seguono il trasferimento a Creta, le fasi della crescita, l'assegnazione al dio della sede dell'Olimpo, la scelta da parte del dio dell'aquila tra gli uccelli e dei re tra gli uomini. Ciò permette al poeta di introdurre le lodi del Filadelfo, re tra i re. • Inno II - Ad Apollo: l'epifania del dio apre la serie della predicazione dei poteri di Apollo e delle sue attività. Tra queste si enunciano i vincoli della divinità con i pascoli e soprattutto con le città come dio fondatore, in particolare nei riguardi di Cirene, città natale di Callimaco. Segue l'enumerazione degli epiteti del dio e delle città che praticano il suo culto; dopo la menzione delle feste Carnee, il poeta ricorda l'antico mito del rapimento di Cirene e rievoca la vittoria del dio su Pito, il serpente. Nell'epilogo è introdotto il personaggio dell'Invidia (Phthònos), che sussurra ad Apollo la propria ostilità per i cantori di pochi versi e viene scacciato a pedate dal dio; è introdotto così il tema metaletterario. • Inno III - Ad Artemide: L'inno inizia con la rappresentazione arguta della dèa bambina seduta sulle ginocchia di Zeus mentre gli chiede i doni simbolo del suo culto. Seguono versi che narrano in tono semiserio i vagabondaggi della impavida bimba: in cerca delle ninfe, nell'officina dei Ciclopi, da Pan in Arcadia, sul Parrasio a caccia delle cerve. La rassegna delle gesta di Artemide continua con i dardi da essa lanciati contro una città abitata da uomini ingiusti e con altri eventi fino all'ingresso nell'Olimpo, accanto al gemello Apollo, e alla descrizione dei cori delle ninfe; chiudono il componimento gli accenni ad altri temi mitici connessi con la dèa. • Inno IV - A Delo: Il tema centrale è la maledizione scagliata da Era per impedire a Lèto (Latona) di partorire i figli concepiti da Zeus, e il conseguente rifiuto da parte di isole e città di offrire accoglienza alla dea partoriente; fra le terre nominate c'è anche l'isola di Cos, riguardo alla quale una profezia di Apollo rivela la futura nascita di un altro dio, il Filadelfo, destinato a sconfiggere i Gàlati. Per consiglio di Apollo (che le parla dall’interno del suo ventre), Lèto approda ad Astèria, l'isola vagante, dove finalmente avviene il parto. Segue la celebrazione dell'isola, resa fissa da Apollo e rinominata Delo, sempre immune da guerre e rallegrata da danze; l'inno si chiude con un accenno al mito cretese di Teseo. • Inno V - Per i lavacri di Pallade: Una voce narrante simula un contesto rituale fingendo di guidare la processione che conduce ritualmente il Palladio (statua di Pallade) a bagnarsi nelle acque del fiume argivo Inaco; la voce invita ancora gli astanti a non attingere per quel giorno l'acqua del fiume e a non guardare la dea nuda, perché uno sguardo illecito porterebbe come conseguenza la cecità. A titolo di esempio viene narrato il mito di Tiresia, figlio della ninfa Càriclo, che senza volere, mentre inseguiva un cerbiatto, vide la dèa al bagno e perse per sempre la vista; la cecità fu tuttavia compensata dalla dèa con il dono della profezia. • Inno VI - A Demetra: Anche in questo inno, mimetico come il secondo e il quinto, il poeta simula una situazione rituale: una voce narrante invita a salutare la dèa senza guardare il sacro canestro. Nell'inno non si narrano però le tradizionali peripezie della divinità alla ricerca della figlia, ma si preferisce mettere al centro del racconto un episodio marginale del mito, come esempio di "hybris" (arroganza) punita. La vicenda è quella di Erisìttone figlio di Triopa, narrato anche da Ovidio nelle Metamorfosi (VIII, 737-878): questi, per avere abbattuto un bosco sacro a Demetra, fu punito con una fame implacabile, che lo portò a divorare tutte le sostanze paterne. Il padre è introdotto ad elencare tutto il bestiame divorato dal figlio, i muli, la mucca, il corsiero e il destriero. Quando però divora la gatta di casa, “terrore dei topi”, è troppo anche per i suoi genitori, che lo sbattono fuori di casa. Il tono è sapientemente bilanciato tra serio e comico e non c’è traccia del finale truculento che conosciamo da Ovidio: Erisittone infatti, per placare la fame, divorò se stesso. La predilezione di Callimaco per una forma così arcaica è dovuta da un lato al fatto che l’inno è un genere di ridotta estensione (brevitas) e gli consente quindi di narrare fatti mitici evitando le dimensioni elefantiache dell’epos, dall’altro al fatto che già alcuni inni omerici, come quello ad Apollo e quello a Demetra, contenevano la spiegazione delle origini di alcuni elementi del culto, e perciò preludevano all’eziologia (ricerca delle cause) cara a Callimaco, che le dedicherà un’intera opera: gli Àitia. La scelta di saghe e miti marginali, le allusioni e i riferimenti eruditi danno vita a componimenti completamenti nuovi e di tipico gusto ellenistico, con innumerevoli spunti sperimentali, sia pure abilmente dissimulati. Qualche esempio: • i primi quattro inni (A Zeus, Ad Apollo, Ad Artemide, A Delo) sono in esametri dattilici e in dialetto ionico; • il quinto (I lavacri di Pallade) è in dialetto dorico e in metro elegiaco; • il sesto (A Demetra) è egualmente in dialetto dorico ma in esametri dattilici; • tre inni (I, III e IV) sono “clètici” (= di invocazione), caratterizzati, come quelli omerici, dall’accumulazione di epiteti, caratteristiche ed episodi mitici relativi al dio; tre invece (II, V e VI) sono “mimetici”, cioè imitano una funzione di culto che in realtà non si svolge affatto; • gli inni V e VI sostituiscono l’elenco delle caratteristiche del dio con lunghe narrazioni di un singolo episodio, dedicato ad un unico personaggio (Tiresia - Erisittone): questo da un lato, mettendo in campo un singolo “eroe”, allude al precedente epico (l’inno omerico, infatti, era probabilmente un proòimion alla recitazione di libri di Omero), dall’altro ricalca lo schema tipico dell’elegia ellenistica, tutta focalizzata su un singolo tema mitico; • in particolare l’inno V, essendo composto in distici elegiaci, è un vero e proprio ibrido inno-elegia, scritto per di più in un dialetto estraneo ad Omero quale quello dorico, il che lo qualifica come il più sperimentale fra gli inni di Callimaco; • in tutti gli inni sono presenti elementi estranei alla tradizione omerica, desunti da altri generi non necessariamente letterari: disquisizioni erudite, scene comiche, bozzetti di vita quotidiana, adulazioni cortigiane; • uno dei più ricchi di allusioni letterarie è l’inno A Zeus, che ha come cornice di riferimento un simposio di poeti eruditi: tale cornice fa certamente riferimento a quello che era il contesto in cui gli inni di Callimaco venivano letti, ma nello stesso tempo allude alla lirica arcaica di tipo simposiale, scritta in metri vari, soprattutto quella di Alceo, ben nota a Callimaco. Nel contesto del simposio arcaico venivano spesso intonati gli inni lirici, e perciò qui abbiamo una ulteriore contaminazione, tra inno omerico ed inno lirico. I giambi I Giambi sono tredici componimenti in metri vari, prevalentemente giambici, ispirata genericamente a Ipponatte, anche se lo spirito polemico del poeta arcaico vi appare del tutto assente. Grazie al Papiro Milanese siamo in possesso degli argomenti (dieghèseis) delle singole composizioni, che evidenziano una grande varietà tematica, probabilmente ispiratrice di quella che sarà la satura romana di Ennio e Lucilio: la satira dunque, a dispetto di quanto afferma Quintiliano, non è tota nostra. Si tratta anche in questo caso di un’opera ampiamente sperimentale, a cominciare dall’utilizzo di metri vari (trimetri giambici, coliambi, trimetri trocaici, strutture epodiche, metri lirici), non a caso propri anche della satira di Ennio, e di dialetti diversi: ionico (tipico del giambo arcaico), dorico e perfino dorico “integrale”, ricco di forme tipiche della città di Cirene. Ma sperimentale è soprattutto l’adozione di temi completamente estranei alla iambikè idèa ed appartenenti a generi del tutto diversi, secondo il principio “vino nuovo in botte vecchia”: nei Giambi riconosciamo infatti alcuni àitia, un propèmptikon (canto di accompagnamento per un viaggio), elementi epigrammatici, un epinicio, un epitafio e tre àinoi (favole). Insomma, un’accozzaglia di generi che dev’essere risultata veramente urtante per i critici “tradizionalisti”. Questo il contenuto: • I Giambo: in coliambi, introduce la figura del redivivo Ipponatte, ritornato sulla Terra questa volta non per colpire il tradizionale avversario Bùpalo, ma per condannare l'invidia che alligna tra i dotti di Alessandria: a tale scopo racconta la storia della coppa d'oro che il giovane Amphalkes, figlio di Baticle, doveva assegnare al più saggio dei Sette Sapienti, e che, consegnata a Talete, fu da questi ceduta a Biante come più meritevole, da Biante a Periandro e così via finchè il settimo, Cleobùlo di Lindo, la rimise nelle mani di Talete, che la offrì al dio Apollo. Si tratta, ovviamente, di un componimento metapoetico, che dichiara nello stesso tempo la predilezione di Callimaco per Ipponatte, da lui anteposto a tutti i poeti greci anche per la sua straordinaria padronanza dello strumento linguistico, e la sua ferma volontà di fare propria l’ironia e l’autoironia tipiche dell’antico giambografo, evitando la presunzione tipica delle persone che si sentono “arrivate” e coltivando quello che gli inglesi definiscono understatement (letteralmente “sottostima”). • II Giambo: racconta la favola esopica (àinos) degli animali che, per averne abusato, persero il dono della parola, che fu aggiunto a quelli degli uomini. Si tratta certamente di un’allegoria metaletteraria, il cui senso preciso però ci sfugge. • III Giambo: deplora le condizioni morali del tempo, nel quale la ricchezza vale più della virtù, citando il caso di un ragazzo che mercifica la propria bellezza. • IV Giambo: in versi ipponattei, trimetri giambici scazonti (o coliambi), narra la favola (àinos) allegorica e metaletteraria della contesa tra l'alloro e l'ulivo (che simboleggiano probabilmente la poesia epica e quella didascalica) e il vano tentativo di riconciliazione da parte di un rovo, messo a tacere seccamente da entrambi. • V Giambo: in metro epodico e di difficile lettura, il poeta doveva muovere rimproveri ad un maestro di scuola che abusava dei suoi allievi. • VI Giambo: propèmptikon per un amico, anch'esso in metro epodico, doveva descrivere la famosa statua fidiaca di Zeus nel tempio di Olimpia. • VII Giambo: ancora in metro epodico, molto lacunoso, doveva contenere un racconto eziologico sul culto di Hermes Perpheraios in Tracia. • VIII Giambo: è interamente perduto: dall'argomento si apprende che doveva essere un epinicio e contenere la descrizione di una gara e l'aìtion di essa riferito al mito argonautico. • IX Giambo: tema sconosciuto. • X Giambo: in metro incerto, narrava la leggenda di Mopso e il motivo eziologico del sacrificio di un maiale ad Afrodite in Panfilia. • XI Giambo: tema sconosciuto, • XII Giambo: conteneva gli auguri all’amico Leone per la nascita di una figlia. • XIII Giambo: chiama nuovamente in causa Ipponatte, il che fa pensare che la struttura dei Giambi fosse ciclica e che il finale fosse questo, sebbene il Papiro Milanese elenchi altri quattro componimenti. È anch’esso un giambo metapoetico e contiene la difesa del poeta dall'accusa di praticare la polyèideia, di coltivare cioè parecchi generi letterari e di esprimersi in più dialetti, "in ionico, in dorico e nel misto". A propria discolpa il poeta adduce l'esempio del poligrafo del V secolo Ione di Chio e ribadisce: “(Qualcuno ha ordinato) "tu componi pentametri, tu epica, tu hai ricevuto in sorte dagli Dèi di comporre tragedie"? Nessuno, credo”. Come accennato, da quanto possiamo ricostruire sempre sulla base del Papiro Milanese, ai Giambi seguivano altri quattro componimenti (detti Mèle, "Canti lirici"), che per alcuni dovevano far parte anch'essi della raccolta, la quale dunque comprenderebbe non più 13 carmi ma 17: a supporto di questa tesi si fa osservare che 17 è il numero degli Epodi di Orazio, componimenti di tipo giambico. Il primo di questi Mèle aveva come tema le vicende dell'isola di Lemno e delle sue donne, che si fecero assassine dei loro uomini; il secondo aveva per titolo "La festa notturna" (Pannykìs) e aveva come protagonisti i Dioscùri ed Elena. La terza lirica era "L’apoteosi di Arsinoe" e deve essere stata composta dopo la morte, nel 270, della regina che fu seconda moglie del Filadelfo. Il quarto carme, intitolato "Branco", cantava il mito del pastore omonimo, sacerdote e indovino del dio Apollo a Mileto. I Giambi di Callimaco, opera polifonica per eccellenza, sono stati oggetto di letture divergenti: archetipo della lanx satura romana, liber serio-comico, laboratorio dello sperimentalismo callimacheo; è diffusa una corrente esegetica che tende a leggere in essi un generalizzato intento morale, quasi una satira “tipizzata” dei costumi del tempo, ma pare più corretto porre l’accento sugli aspetti fondamentalmente metaletterari di molti dei giambi di Callimaco. I più espliciti in questo senso sono il primo e il tredicesimo, che contengono riferimenti letterari evidenti, ma anche in altri componimenti emerge, a volte mascherato allegoricamente, un contenuto metaletterario. Così il Giambo II e il Giambo IV rivelano un impiego dell’àinos (= favola) in chiave allegorica per stigmatizzare polemiche personali, con autori per noi a volte sconosciuti, o veri e propri dibattiti sul rinnovamento dei generi tradizionali. I Giambi III e V fanno intravedere, sotto un travestimento erotico, polemiche reali e professioni di poetica. Infine, il Giambo I svela tra le righe il carattere in fondo polemico di tutto il liber e ne indica al contempo referente e pubblico privilegiati. Critica e polemica letterarie sono quindi al centro dei Giambi di Callimaco. Ecale L'opera godette di larga fama nell'antichità come esempio di epillio: una “botte nuova”, precisamente un poemetto epico di ridotte dimensioni, secondo i gusti della nuova poesia, che non tenta più di far rivivere l'antico epos omerico o ciclico (si veda il famoso verso di Callimaco "Odio il poema ciclico"), rinuncia alla celebrazione di ideali ormai obsoleti e preferisce invece la leptòtes (leggerezza, disimpegno) e la brevitas, premessa di ricercatezza formale e di rigore stilistico (ars). Del poemetto, che doveva contare in origine circa mille esametri, restano 150 frammenti, oltre all'argomento contenuto nel Papiro Milanese. La vicenda narrata è quella di Teseo, l'eroe ateniese, partito da Atene per affrontare il toro di Maratona: apparentemente “vino vecchio”. È chiaro però che un poemetto così innovativo non può prestarsi alla celebrazione dell’eroismo epico, perché questo sarebbe in totale contraddizione con lo spirito della leptòtes: ecco dunque che la vicenda eroica di Teseo passa completamente in secondo piano e la cattura del toro di Maratona è addirittura narrata di scorcio, en passant, come se si trattasse di un fastidioso dovere da assolvere in poche parole. Il fulcro della narrazione è infatti spostato su un aspetto del tutto marginale e “quotidiano” del mito: l’incontro fra Teseo e la vecchia Ècale. La dimensione eroica è non solo assente, ma accuratamente evitata, grazie al fatto che Teseo è poco più che un ragazzo ed Ècale una donna molto anziana, per cui di fatto il rapporto che viene descritto è, né più né meno, quello fra una nonna e un nipote. Abbiamo qui un esempio fra i più riusciti di quella reductio ad humanum che Callimaco pratica sistematicamente nei confronti degli dèi e degli eroi, ispirata ancora una volta al principio dell’understatement. Non si tratta affatto di un atteggiamento polemico o livoroso, ma, al contrario, di un sorridente e garbato invito a coltivare il senso della misura (cosa c’è di più greco del medèn àgan?) restando fedeli alla natura umana. La trama, per quanto il poemetto sia mutilo, si può ricostruire così: lungo il percorso verso Maratona, mentre sta attraversando un bosco, per ripararsi da una tempesta Teseo bussa alla casetta di una vecchia, Ecale appunto, che lo accoglie con tenerezza premurosa, lo ospita, lo rifocilla con i suoi poveri cibi e lo intrattiene in una lunga, amabile conversazione. La donna è una strana creatura (alcuni frammenti di recente ritrovamento lasciano intravedere che il suo passato fosse legato ad una vendetta di cui non sappiamo nulla), che vive completamente sola, circondata dagli animaletti del bosco, in un’atmosfera fiabesca che ricorda un po’ quella di Biancaneve. Teseo ne rimane piacevolmente impressionato e fra i due si stabilisce in fretta un rapporto molto affettuoso (in alcuni frammenti lei lo chiama “Teseuccio”, lui chiama lei “Ecalina”). Il ragazzo quindi riparte alla volta di Maratona, promettendo alla donna di ritornare per comunicare a lei per prima l’esito dell’impresa, che si svolgerà di lì a poco e vedrà la vittoria dell’eroe. Due cornacchie su un ramo, intanto, una vecchia e una giovane, discutono fra di loro sull’opportunità o meno di comunicare “una notizia”, ma la cornacchia vecchia ammonisce quella giovane di farsi gli affari suoi, citando la triste sorte del corvo, che riferì ad Apollo il tradimento di Coronide e vide perciò il proprio candido piumaggio tingersi di nero per punizione. Quando Teseo, fedele alla promessa, torna alla casa di Ecale, apprende che la vecchia è morta. Non è dato conoscere le cause della morte: forse l’ansia per il ritardo del ragazzo? Di certo la morte di Ecale ricorda quella di Egeo, che si butta a capofitto in mare quando vede da lontano le vele nere che Teseo ha issato per errore. Profondamente addolorato, per onorarne la memoria, Teseo decide di dare il nome di Ecale a quel demo e di fondarvi un tempio in onore di "Zeus Ecalio", ancora esistente ai tempi di Callimaco: l'epillio si conclude quindi con un aìtion. La vicenda eroica era quindi narrata in modo essenziale, mentre l'attenzione era focalizzata sul quotidiano, di un ambiente domestico umile, rappresentato con quello che potremmo definire “realismo fiabesco”, che è una delle caratteristiche più affascinanti dello stile callimacheo. Composto sul modello dell'ospitalità di Eumeo al falso mendico (Odissea), il poemetto callimacheo diventò a sua volta modello per la poesia successiva, come per l'episodio ovidiano di Filèmone e Bauci raccontato nelle Metamorfosi. Àitia L'opera maggiore di Callimaco erano gli Àitia (neutro plurale: "Cause", "Origini"), composti nell’edizione finale di quattro libri in distici elegiaci, per un migliaio circa di versi a libro. Il titolo descrive il contenuto, in quanto le diverse elegie rievocano episodi mitologici o leggendari che stanno alle origini di costumi, riti, consuetudini. L'opera, che ebbe una fortuna immensa nell'antichità, ebbe tempi di composizione assai lunghi. Gli studiosi ritengono infatti che le edizioni dell'opera siano state due: la prima, probabilmente in due libri, comprendeva elegie indipendenti, ma legate dalla cornice costituita dal proemio, contenente il racconto di un sogno, in cui l'autore riprendeva il noto tema esiodeo dell'investitura delle Muse contenuto nel proemio della Teogonia: le Muse, interrogate da Callimaco, gli raccontavano l'origine di istituzioni e costumi dei Greci. Il tenue fil rouge connettivo che univa le elegie è invece del tutto eliminato nei libri terzo e quarto; la seconda edizione, in quattro libri, pubblicata quando il poeta era ormai anziano, fu arricchita dal “proemio dei Telchini”, demoni maligni e invidiosi dell'isola di Rodi, nei quali Callimaco adombrò i suoi rivali e avversari in campo poetico. Callimaco risponde da par suo: se il fil rouge del dialogo con le Muse non è servito a rendere unitaria l’opera, ebbene, la soluzione è semplice: eliminiamo del tutto questo filo conduttore e rendiamo chiaro, una volta per tutte, che l’unitarietà non è necessaria: né nel complesso dell’opera, né, si badi, all’interno della singola elegia, dal momento che lo stile compositivo di Callimaco è a dir poco desultorio. È opinione diffusa che nella seconda edizione, composta verso l'anno 245, all'avvento del trono di Tolomeo III e di Berenice di Cirene, Callimaco abbia incorporato elegie prima indipendenti, quali la "Vittoria di Berenice" e la "Chioma di Berenice" (Berenìkes plòkamos). Nella "Vittoria di Berenice" la parte principale dell'epinicio era incentrata sul mito di Eracle, uccisore del leone di Nemea e fondatore dei giochi Nemei; come nell’Ecale, però, la vicenda eroica è declassata a favore del soggiorno di Eracle presso Molorco, umile contadino di Nemea. Nella celeberrima "Chioma di Berenice" il ricciolo della regina, da lei offerto in voto per ottenere il ritorno del marito dalla guerra in Siria, viene rubato: allora l'astronomo di corte Conone lo ritrova in cielo nella costellazione che da allora ha preso il nome appunto di "Chioma di Berenice". Tradotta anche da Catullo nel carme 66, l’elegia fu molto apprezzata ed imitata: Alexander Pope nel 1712 vi trasse il motivo sviluppato nel “Ricciolo rapito” (The rape of the lock). Il contenuto dell'opera appare, come si è detto, decisamente eterogeneo; nel primo libro erano contenute elegie almeno apparentemente prive di nesso reciproco, come "Le Grazie a Paro", "Il rito di Anafe", "Il rito di Lindo", "Lino e Corebo", "La statua di Artemide a Leucade"; nel secondo libro leggiamo titoli come "I fondatori delle città siciliane", "Aliarto", "La sepoltura di Peleo", "Busiride e Falaride". Soprattutto grazie all'elenco di argomenti conservati nel Papiro Milanese, è più facile individuare i motivi del terzo e quarto libro, dal già citato "Epinicio per Berenice" alla celebre storia di "Aconzio e Cidippe", dal "Rito nuziale in Elide" alle "Tesmoforie attiche", dal "Sepolcro di Simonide" alle "Fonti di Argo", dalla "Statua di Apollo Delio" alla "Chioma di Berenice". Un altro papiro riporta un epilogo seguito dalla promessa di passare "al pascolo pedestre delle Muse", che è probabilmente l'indicazione di un passaggio editoriale al libro dei Giambi: i quali dunque dovrebbero essere stati composti dopo gli Àitia. La cosa tuttavia è improbabile, se si considera che la “Chioma di Berenice” fa riferimento ad una spedizione compiuta nel 246 a.C., e Callimaco morì di lì a poco. Forse i Giambi sono successivi alla prima edizione degli Àitia. Dell’opera, perduta durante il Medioevo, abbiamo oggi numerosi frammenti arricchiti dalle molte e importanti scoperte papiracee compiute all'inizio del Novecento. A parte il “proemio dei Telchini” e la “Chioma di Berenice” riusciamo a leggere buona parte della storia di Aconzio e Cidippe, che ricorda molto da vicino la vicenda tipica del romanzo greco erotico-avventuroso, un genere “di serie B” che andava formandosi proprio in quegli anni nel totale silenzio delle persone colte, ma che forse non sfuggì all’attenzione di Callimaco. La trama è questa: Aconzio, proveniente da Ceo, durante un viaggio a Delo in occasione delle celebrazioni dedicate ad Artemide, s'innamora perdutamente di Cidippe, sacerdotessa presso il tempio della dea. Straordinariamente colpito dalla bellezza della giovane, escogita uno stratagemma per farla sua sposa. Presa una mela, vi scrive sopra: "Giuro per il santuario di Artemide di sposare Cidippe" e la lancia alla fanciulla. Ella raccoglie la mela e legge ad alta voce la frase, senza accorgersi di compiere in tal modo un giuramento solenne nel tempio della dea. Cidippe viene per tre volte promessa in sposa dal padre ad altri uomini, ma ogni volta il matrimonio non può essere celebrato per una misteriosa malattia che la colpisce. Una volta venuto a conoscenza, tramite un oracolo, del fatto che la dea Atena ha impedito tali matrimoni a causa del voto, il padre della sposa decide di prendere Aconzio come genero. Il mito viene riproposto anche nelle Eroidi di Ovidio. Gli Àitia, com’è evidente e com’è apertamente dichiarato nel “proemio dei Telchini”, sono un’opera all’insegna dello sperimentalismo e della polemica letteraria. Anzitutto è da notare che l’estensione è tutt’altro che casuale: quattro libri di circa mille versi ciascuno significa né più né meno la misura della “giornata tragica”, che, com’è noto, ospitava una tetralogia; e l’estensione media di una tragedia è appunto di mille-millecinquecento versi. Questa è precisamente la misura suggerita da Aristotele nella Poetica a tutti coloro che vogliano comporre un’opera unitaria (l’unitarietà è per Aristotele il pregio principale di un’opera artistica, sola garanzia di organicità), ed in questo non si sa si si debba ravvisare un omaggio o piuttosto uno sberleffo di Callimaco nei confronti del filosofo: infatti non solo Callimaco non ritiene necessaria l’unitarietà e l’organicità, ma proprio qui, negli Àitia, tocca il vertice della disorganicità. Come a dire: “ecco, ho composto un’opera proprio come suggeriva Aristotele, e questo non è servito a renderla unitaria ed organica”. Inoltre, anche solo trovare una definizione di genere per quest’opera è pressoché impossibile: si tratta infatti di una raccolta di elegie fra di loro indipendenti, ma dotata di un proemio (anzi due) come se si trattasse di un poema unitario; inoltre l’allusione alla Teogonia di Esiodo del primo proemio lascerebbe intendere che il punto di riferimento non sia tanto l’elegia, quanto piuttosto il poema didascalico. Ma quale sia la parentela tra quest’opera e il poema di tipo esiodeo, a parte la brevità, non è chiaro: infatti Callimaco è lontanissimo dal volersi fare portavoce dei profondi valori etico-religiosi trasmessi da Esiodo sia nella Teogonia che ne Le opere e i giorni. Più in generale, ci chiediamo quale verità voglia “insegnare” ed in che modo intenda essere “utile” (giacché questa è la finalità del genere didascalico, alla quale egli fa riferimento anche nel Giambo IV tramite l’allegoria dell’olivo), e come tutto questo rimandi ad Esiodo. Probabilmente la parentela è costituita dal rifiuto di entrambi nei confronti delle invenzioni epiche, che allontanano l’uomo dalla percezione della realtà, e della dimensione eroica, che induce l’uomo a proiettare le proprie aspettative in un’atmosfera esaltata e mitizzante, mentre il vero eroismo è quello del quotidiano, della capacità di confrontarsi con il grigiore della vita di tutti i giorni indagandone il senso profondo (Esiodo) o accettandone la mediocrità con un sorriso (Callimaco).