Appunti sul “suono e la furia” della musica di Macbeth

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Appunti sul “suono e la furia” della musica di Macbeth
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Marta Zaninelli (studentessa del corso di Lingua e Letteratura Inglese 2, tenuto dal Prof. Enrico
Reggiani, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, a.a. 2011-12)
Appunti sul “suono e la furia” della musica di Macbeth
Giunti al penultimo incontro di questo ciclo sulla musica nell’opera di Shakespeare ci potremmo oramai
dire avvezzi all’analisi di questo aspetto dell’opera shakespeariana; inoltre, i vari testi ci danno sempre più
conferma di come l’autore avesse una sua idea strategica e fosse lucidamente consapevole nell’utilizzare
l’esperienza musicale.
Nell’analizzare Macbeth è curioso quanto ci torni utile un raffronto con Otello, testo oggetto dell’incontro
precedente. Innanzitutto pensiamo all’ambientazione: Otello è il play veneziano che però è più situato altrove
che non nella perla della laguna, aprendosi su ampi spazi in tutto il mediterraneo orientale; Macbeth invece è
il play scozzese e lo è autenticamente nella sua contesto e nella sua essenza. Shakespeare non era solito
ambientare i suoi plays (eccezion fatta per quelli storici) in ambito anglosassone, ma con Macbeth fa uno
strappo alla regola. Verrebbe facile dire che il setting scozzese sia un omaggio al nuovo re di dinastia Stuart,
ma - pensandoci bene - nella trama e nell’origine stessa della dinastia, usata come elemento encomiastico,
c’è poco di lusinghiero: essa è ambigua e fatta derivare dalla magia, per di più da una magia nera e dubbia,
che rende la spiegazione istituzionale bizzarra perché non strettamente celebrativa.
Ma andiamo con ordine. Parlavamo di spazi e, riassumendo, possiamo dire che, dopo l’ampiezza spaziale e
relazionale di Otello, in Macbeth ci troviamo, invece, di fronte ad una forte chiusura spaziale che si riflette
anche sul piano relazionale: tutti i personaggi fanno parte di una cerchia ristretta, si conoscono tra loro e
vivono all’interno di un ambiente chiuso, soffocante che è quello delle cupe e grigie corti scozzesi; l’unico
elemento che “apre” ad un altro mondo, ad una dimensione parallela, sono le streghe.
Anche per Otello ci eravamo chiesti chi fosse il personaggio più musicale, quello che cantava di più, e la
risposta ci aveva stupiti tutti: si tratta, infatti, del terribile, malvagio Iago, a conferma del fatto che la
concezione shakespeariana della musica non è obbligatoriamente positiva e che, al contrario, essa può essere
usata per ingannare, per mistificare e per confondere. Proviamo ancora a chiederci: chi canta di più in
Macbeth? Non è certo Macbeth stesso, il valoroso capitano che si fa affascinare da una promessa forse
troppo grande per lui; né la sua degna consorte Lady Macbeth (anche se, chissà, forse Shakespeare aveva
pensato a qualcosa per lei che poi è andato perduto nei vari rimaneggiamenti che hanno portato alla
pubblicazione dell’infolio). Anche in questo caso è qualcuno che forse non ci aspetteremmo: le streghe!
Proprio loro, che non possiamo nemmeno definire umane o che di umano hanno solo alcuni tratti. Il primo
atto si apre con le tre streghe riunite tra thunder and lighting (tra tuoni e fulmini: non sono forse essi la
musica della natura?) e questa musicalità intrinseca le caratterizzerà fino alla fine. In questo play la musica è
vicina, affine, quasi connaturata alle “sorelle fatali” a partire proprio da quell’inizio nella tempesta, dove, in
coro, ripetono “fair is foul, foul is fair” come fosse un ritornello, una formula magica, uno scioglilingua, cioè
valorizzando la componente sonora che diventa anche più importante di quello che la frase vuol dire. La
frase ci resta in mente per la sua sonorità, per la sua musicalità appunto e ci mostra quanto le streghe siano
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padrone della caratteristica principale della musica, che, non essendo un’espressione verbale, non è sempre
interpretabile e quindi è potenzialmente deviante.
La scena in cui le streghe sono protagoniste - e di conseguenza lo è anche la musica - è la prima dell’atto
IV: è qui che compare per la prima e unica volta nel play il verbo sing, con la completa fusione armonica di
musica e parole. Tale verbo, però, è pronunciato da Hecate (una sorta di divinità malvagia che capeggia le
streghe) per evocare spiriti maligni, mostrandoci di nuovo uno sconvolgente rovesciamento dell’uso della
musica nella sua espressione più positiva. La scena ci presenta anche un altro aspetto della musicalità delle
streghe dimostrandoci quanto essa sia totale e sovrumana: ogni elemento che entra in relazione con loro o di
cui loro parlano produce un suono: il gatto miagola, il porcospino piagnucola, l’arpia grida, e tutto si fonde di
nuovo nel ritmo incantatorio della formula magica: “double double toil and trouble/fire burn and cauldron
bubble”. L’influenza musicale delle streghe è tale che anche altri personaggi si rendono conto che qualcosa
non va “ascoltando” la musica della natura, si accorgono del canto del tuono, di quello degli animali, e li
interpretano correttamente.
Anche se, tra i personaggi principali, nessuno canta, ciò non vuol dire che loro e gli altri non parlino di
musica o che non siano connessi ad essa: anzi, la musica è molto presente, finemente intessuta nella trama
della tragedia. Insolito è il numero di strumenti e di suoni e la loro varietà, molti dei quali, per il tipo di
materia trattata, non possono che appartenere all’ambito della guerra e della battaglia: è il caso di flourish
(fanfara di tromba), alarum (chiamata alle armi), sennet (piccolo squillo, segnale preciso), oltre alla gran
quantità di drums (tamburi, percussioni) presenti. Altri due esempi particolari sono le trumpets usate non in
didascalia ma nel discorso di Macduff, il coraggioso eroe che sconfiggerà il tiranno: “make all trumpets
speak […] those clamorous harbingers of blood and death”, dove le trombe diventano araldi di sangue e
morte, legando, per l’ennesima volta, la musica ad un’idea negativa e mortifera.
La seconda particolarità nell’uso degli strumenti in Macbeth ci apre ad un nuovo discorso: il rapporto del
protagonista con la musica. Nella prima scena dell’atto IV, quella già menzionata dove le streghe dimostrano
tutta la loro familiarità con la musica, Macbeth al contrario dà prova della sua estraneità: gli oboi suonano e
lui chiede “cos’è questo rumore?”. Sin dall’inizio Macbeth mostra di non capire, di non cogliere
l’importanza della musica, ed è esattamente per questo che interpreta male la profezia delle streghe che
prevede la sua sconfitta: lui è un soldato, un uomo concreto che quindi si ferma al livello letterale delle
parole, senza andare oltre, senza coglierne le sfumature profonde. Il suo essere un combattente si ripercuote
anche sul suo rapporto con la musica: i suoni della natura che sente sono trasformati in suoni di guerra, il
lupo diventa una sentinella che grida il suo alarum mentre il tubare del gufo fa da guardia.
A differenza di Macbeth, Banquo, colui che sarà padre di re e il capostipite della nuova dinastia, dimostra
una comprensione molto più profonda dell’arte dei suoni e del suo ruolo. Appena dopo l’incontro con le
streghe, i due sono ancora confusi: Macbeth è talmente frastornato dalla rivelazione che gli è stata fatta, che
chiede conferma a Banquo di ciò che a sentito e quest’ultimo gli risponde “to the selfsame tune and words”.
È evidente che Banquo avrebbe potuto usare qualunque ambito semantico: per questo, la sua scelta
dell’ambito musicale nella sua completezza (melodia e parole) è assai emblematica: Banquo capisce la
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musica e di conseguenza comprende le streghe perché va oltre, non si ferma alla superficie, al contrario del
suo compagno d’armi, al quale questa profonda incomprensione costerà la vita.
Ed eccoci arrivati alla fine, all’ultima presenza della musica nel discorso di Macbeth e non in un discorso
qualunque, ma nel grande e celeberrimo passo, di una magnificenza letteraria senza pari, in cui Macbeth,
appresa la notizia del suicidio dell’amata moglie, portata alla pazzia dal peso dei suoi misfatti, sente
imminente la sua sconfitta e la vanità di quella che doveva essere la sua grande opera e che invece si è
trasformata nella sua rovina. Penso che valga la pena di riportare il breve discorso di Macbeth per la sua
bellezza, prima di analizzarlo (atto V, scena 5, 19-28):
Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow,
Creeps in this petty pace from day to day,
To the last syllable of recorded time;
And all our yesterdays have lighted fools
The way to dusty death. Out, out, brief candle!
Life's but a walking shadow, a poor player,
That struts and frets his hour upon the stage,
And then is heard no more. It is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.
Nell’ultima parte del discorso, la vita è comparata ad una favola raccontata da un idiota, piena di sound e
fury: ecco irrompere la presenza del suono, il racconto non è pieno di parole, pensieri, concetti ma di suoni,
forse tutti i suoni che Macbeth, oramai frustrato e ad un passo dalla sconfitta, non è riuscito ad interpretare, i
gorgheggi di un idiota che proprio per il suo essere irrazionale e infuriato non sa dare il giusto peso alle
parole, producendo solo incomprensibili rumori. È l’ammissione terribile della sconfitta di un uomo che,
senza accorgersene, aveva già cominciato a perdere dall’inizio perché era diventato una pedina nel gioco
della musica, governato dalle streghe, gioco di cui lui non ha mai capito le regole; le streghe sono state da
sempre padrone di tutta la musica (strumentale, umana, cosmica), mentre Macbeth era un burattino, afono,
sordo e, pertanto, inerme nelle loro mani. Con quest’ultima, tragica frase “musicale” di Macbeth si chiude il
cerchio e si attua la piena comprensione della vicenda: tutti i suoi sforzi, tutta la sua storia, che lui credeva
sarebbe stata gloriosa, non erano altro che un racconto pieno di suoni e furia, cioè di una musica velenosa
che non significa niente.
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