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Frammenti dal libro autobiografico di Helen Keller
La storia della mia vita, ed. Paoline, Roma, 1981
Dal I° Capitolo
... sono nata il 27 giugno 1880 a Tuscumbia, cittadina del nord
dell’Alabama, discendente di Kaspar Keller, uno svizzero stabilitosi
nel Maryland ... Uno degli antenati svizzeri fu il primo insegnante
dei sordomuti di Zurigo e scrisse un libro sulla loro educazione ...
Fino all’epoca in cui la malattia mi privò della vista e dell’udito, io
vissi in una casetta formata da una grande stanza quadrata ....
Era completamente ricoperta dalla vite. Dalle rose rampicanti e dal
caprifoglio ... La chiamavano “edera verde” ...le palizzate erano
coperte da una bellissima edera inglese ... Quel giardino di antico
stampo fu il paradiso della mia infanzia ...anche prima che venisse
la mia maestra ero solita andare in esplorazione lungo le rigide siepi
di bosso per cercarvi, guidata dall’odorato, le prime violette ed i
gigli appena sbocciati ... ma le predilette erano le rose ...
L’inizio della mia vita fu semplice e del tutto simile a quello di
qualsiasi altra bimba ... mi hanno raccontato che ero ancora in
fasce quando cominciai a dare segni di un carattere vivo e deciso ...
cercavo di imitare tutto quello che vedevo fare dagli altri .. a sei
mesi zufolavo una canzoncina e un giorno attirai l’attenzione di tutti
dicendo molto chiaramente “ te, te, te ...”
... dopo la malattia mi rimase impressa una delle parole che avevo
imparato in quei primi mesi. Era la parola “acqua” ed io continuai a
pronunciarla anche dopo aver perduto completamente la parola ...
smisi di emettere il suono “ua ua” solo quando imparai a scandire le
parole ... Mi dicono che camminai per la prima volta il giorno in cui
compivo un anno ... una breve primavera, un’estate ricca di frutti e
di rose, un autunno dorato volarono via deponendo i loro doni ai
piedi di una bimba vivace e felice. Poi, nel triste mese di febbraio,
sopraggiunse la malattia che mi chiuse gli occhi e le orecchie e mi
precipitò nell’incoscienza di una neonata ... una mattina la febbre
mi lasciò, misteriosamente come era venuta. Tutti si rallegrarono in
casa quella mattina e nessuno, neanche il dottore, si accorse che
non ci vedevo e che non ci sentivo più ... mi sembra di avere un
ricordo confuso di quella malattia. Ricordo specialmente la
tenerezza con cui mia madre cercava di calmarmi nelle ore di veglia
angosciosa e l’agonia e lo sgomento con cui mi svegliai da un
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dormiveglia agitato e rivolsi gli occhi aridi e bruciati verso la parete,
lontano dalla luce che avevo tanto amato e che diventava di giorno
in giorno sempre più oscura. Ora, tranne questi ricordi fluttuanti ...
tutto appare irreale come un incubo. A poco a poco mi abituai al
silenzio ed all’oscurità che mi avvolgevano e dimenticai che c’era
qualcosa di diverso fino a quando il mio spirito fu liberato per opera
della maestra. Ma, durante i primi diciannove mesi, avevo intravisto
i vasti campi verdi, il cielo luminoso, gli alberi ed i fiori che in
seguito l’oscurità non riuscì ad annullare completamente. Se
abbiamo avuto la vista anche una volta sola, “il giorno è nostro con
quello che ci ha mostrato”.
Dal II° Capitolo
Non ricordo quel che avvenne nei primi mesi dopo la malattia. So
solamente che sedevo in grembo alla mamma o mi attaccavo alla
sua sottana quando si dedicava alle faccende di casa. Le mie mani
toccavano tutto ed avvertivano ogni movimento. In questo modo
impari a conoscere parecchie cose. Ben presto sentii il bisogno di
comunicare con gli altri e cominciai a servirmi di segni. Scotendo la
testa intendevo dire No e piegandola Sì. Uno strattone significava
“Vieni”, una spinta “Va”. Se volevo il pane imitavo il gesto di
affettarlo e di imburrarlo. Se desideravo che la mamma preparasse
il gelato per il pranzo, imitavo il gesto di lavorare il ghiaccio e
rabbrividivo per indicare il freddo.
La mamma mi intendeva a meraviglia e pure io capivo sempre quel
che voleva che le portassi, precipitandomi al piano di sopra e in
qualunque altro posto in cui mi aveva detto di andare. Tutto quello
che ci fu di bello e di buono nella mia lunga notte, lo devo alla sua
intuizione amorosa.
Capivo molto bene tutto quello che accadeva intorno a me. A
cinque anni avevo imparato a piegare e riporre gli indumenti puliti
che riportavano dalla lavanderia e sapevo distinguere i miei dagli
altri. Mi accorgevo quando la mamma e la zia erano vestite per
uscire e invariabilmente strepitavo per andare con loro. Sapevo se
c’erano invitati e quando gli ospiti prendevano congedo agitavo la
mia manina verso di loro forse come un vago ricordo del gesto di
saluto. Un giorno mi accorsi che alcune persone erano venute a
trovare la mamma dal rumore del portone che si chiudeva e dagli
altri suoni che indicavano il loro arrivo ...
Non mi ricordo di quanto mi resi conto di essere diversa dagli altri
ma certo lo seppi prima dell’arrivo della maestra. Mi ero accorta che
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i miei cari non si servivano di segni come me quando avevano
bisogno di qualche cosa ma parlavano con la bocca. Altre volte,
trovandomi tra due persone che conversavano, toccavo le loro
labbra e, non potendo capire, mi irritavo, muovevo le labbra
gesticolando freneticamente senza risultato. Tutto questo mi
rendeva furiosa al punto che tiravo calci e urlavo fino a quando,
esausta, dovevo smettere. Credo di essermi resa conto della mia
cattiveria perché mi accorsi che facevo male a Ella, la bambinaia,
quando le tiravo qualche calcio e dopo quelle esplosioni di collera
provavo qualcosa di simile al pentimento ...
In quegli anni i miei fedeli compagni furono una bimbetta di colore,
Martha Washington, figlia del nostro cuoco, e Belle, un vecchio
setter, gran cane da caccia ...
Martha capiva i miei segni ed io riuscivo quasi sempre a farle fare
tutto quello che volevo. Provavo piacere a dominarla ... ero forte,
svelta, incurante delle conseguenze ... gran parte del tempo lo
passavamo in cucina ... Un giorno un grosso tacchino mi strappò
via dalle mani un pomodoro e se ne scappò via ... portai via, a mia
volta, dal forno una torta ...
La gallina faraona ... una delle mie gioie più grandi era di andare a
cercare le uova tra l’erba alta. Non potevo dire a Martha che volevo
andare a cercare le uova, ma piegavo le mani e le abbassavo verso
terra a significare qualcosa in giro per l’erba e Martha capiva
subito ... quando finalmente trovavo il nido, non le permettevo mai
di portare le uova a casa, facendole capire, con gesti enfatici, che
poteva cadere rompendole.
Il granaio, la stalla, il recinto in cui si mungevano le mucche erano
una fonte inesauribile di divertimento ... le contadine mi lasciavano
toccare le bestie mentre le mungevano e spesso, per la mia
curiosità, mi sono presa qualche frustata dalla coda di una mucca.
I preparativi di Natale mi colmavano di gioia ... non potevo capire
quel che accadesse intorno a me ma mi rallegravo per i buoni odori
che riempivano la casa e per le ghiottonerie che regalavano ...
In quei giorni ci facevano macinare spezie, scegliere l’uva e leccare
i mestoli ...
Belle, il nostro cane, era vecchio e pigro ... io cercai di insegnargli il
mio linguaggio ma lui era stupido e distratto ...
Parecchi incidenti di quei primi anni sono rimasti impressi nella mia
memoria, isolati, ma chiari e distinti, perché in quella vita silenziosa,
buia e senza scopo, tutto aveva una risonanza più profonda.
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... il grembiulino ... lo avvicinai al fuoco ... feci tanto fracasso che la
bambinaia si precipitò nella stanza ...
Verso quell’epoca imparai ad adoperare la chiave. Una mattina
chiusi la mamma nella dispensa ... la poverina dovette rimanerci
per circa tre ore nonostante continuasse a tempestare contro la
porta
...
seduta
sui
gradini
del
porticato
io
ridevo
sgangheratamente alle vibrazioni dei colpi. Questa grossa
birichinata convinse i miei genitori della necessità di educarmi al più
presto possibile.
Dopo la venuta della mia maestra, la signorina Sullivan, colsi la
prima occasione che mi si presentò per chiuderla in camera ...
A cinque anni mi trasferii dalla casina ricoperta dalla vite in una
casa più grande. ... mio padre, mia madre, due cugini piuttosto
anziani e più tardi una sorellina, Mildred ...
Il primo ricordo chiaro e distinto che ho di mio padre mi riporta a
quando mi facevo strada tra montagne di giornali, finché lo trovavo
solo con un foglio di carta davanti alla faccia. Imitavo il gesto.,
inforcando persino gli occhiali con la speranza che mi aiutassero a
sciogliere l’arcano, senza alcun risultato. Solo dopo parecchi anni ...
riuscii a capire il segreto. Il babbo era molto affettuoso e
indulgente ... era un gran cacciatore ed un tiratore famoso ... il suo
vanto ... il grande orto ... le angurie e le fragole ... ricordo ancora il
tono carezzevole con cui mi guidava di albero in albero, di vite in
vite e come si rallegrava per tutto quello che mi piaceva.
Era un facondo narratore di storielle e, dopo che ebbi riacquistato il
linguaggio, soleva scandire goffamente nella mia mano gli aneddoti
più spiritosi ...
... estate del 1896 quando mi raggiunse la notizia della morte del
babbo. Fu il mio più grande dolore, il primo incontro con la morte.
E della mamma che dirò? E’ tanto unita a me che parlando di lei mi
sembra di commettere una indelicatezza.
Per parecchi anni considerai la mia sorellina come un’intrusa.
Sapevo di non essere più la prediletta ... e questo pensiero mi
riempiva di gelosia ...
Avevo una bambola molto amata e molto bistrattata a cui più tardi
misi il nome Nancy. Era ahimé la vittima indifesa delle mie crisi di
furia o di affetto, tanto che in breve si era tutta consumata. Ho
avuto bambole che parlavano, piangevano, aprivano e chiudevano
gli occhi ma non ho voluto bene a nessuna come alla povera
Nancy. ... un giorno trovai la mia sorellina pacificamente
addormentata nella culla di Nancy. Una simile presunzione mi rese
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furiosa al punto che precipitandomi sulla culla, la capovolsi, a
rischio di uccidere la bambina che si salvò solo perché la mamma
l’afferrò a tempo.
Quando si cammina nella valle della duplice solitudine, si ignora
l’affetto che nasce dalle parole tenere e dai gesti amorevoli dei
compagni d’infanzia.
In seguito, quando fui restituita al consorzio umano, Mildred ed io
crescemmo a cuore a cuore e gustammo la gioia di andarcene,
tenendoci per mano, là dove ci guidava il capriccio del momento,
benché lei non fosse in grado di intendere il linguaggio delle mie
dita ed io il suo cinguettio.
Dal III° Capitolo
Frattanto il mio desiderio di esprimermi cresceva. I pochi segni di
cui mi servivo diventavano sempre più inadeguati e il fallimento dei
miei tentativi di comunicare con gli altri era sempre seguito da
esplosioni di collera. Avevo la sensazione di essere chiusa nella
morsa di una mano invisibile e facevo sforzi frenetici per liberarmi.
Lottavo, senza riuscire a nulla, ma il mio spirito di resistenza era
tenace. Generalmente scoppiavo in lacrime e tutto finiva in un
collasso fisico. Se la mamma era vicina mi rifugiavo tra le sue
braccia, troppo sconvolta per ricordare persino la causa della
tempesta. Dopo un po’ di tempo la necessità della comunicazione
diventò così urgente che queste esplosioni si presentavano ogni
giorno e talvolta ogni ora.
I miei genitori erano profondamente addolorati e preoccupati.
Vivevano troppo lontani da una scuola per minorati ed era assai
improbabile che qualcuno potesse venire a Tuscumbia ad insegnare
ad una bambina cieca, sorda e muta. A dire il vero, amici e parenti
alle volte mettevano in dubbio la possibilità di rieducarmi. L’unico
barlume di speranza per mia madre venne dalle American Notes di
Dickens. Aveva letto il profilo di Laura Bridgman e ricordava
vagamente che pur essendo sorda e cieca era stata rieducata ...
Quando avevo circa sei anni mio padre sentì parlare di un eminente
oculista ...
Il viaggio a Baltimore ... fu tanto divertente ... in treno feci amicizia
con molta gente. Una signora mi regalò una scatola di conchiglie e
il babbo le bucò in modo che si potesse infilarle con uno spago ... il
gioco che mi rese felice per parecchio tempo. .... il controllore
bucava i biglietti ... mi permise di giocare on la tenaglia
perforatrice ... la zia mi fece una grossa bambola con un
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asciugamano ... comica, improvvisata senza naso, bocca, occhi e
orecchi ... cosa davvero curiosa, la mancanza degli occhi mi urtò
più di tutti gli altri difetti messi insieme ... alla fine mi balenò nella
mente un’idea luminosa ... il mantello della zia era guarnito di
grosse perle ... ne strappai due cercando di far capire alla zia che
volevo che le cucisse sulla bambola. La zia portò la mia mano sui
suoi occhi con aria interrogativa ed io assentii energicamente.
... a Baltimore ... avvertii subito la tenerezza e la simpatia che
costituivano l’attrattiva principale del dott. Bell, tanto celebre per le
sue meravigliose scoperte ... mi prese sulle ginocchia mentre io
esaminavo il suo orologio che fece sonare appositamente per me.
Capì i miei segni ed io me ne accorsi subito e gli volli subito bene ...
ma non potevo supporre neppure lontanamente che quell’incontro
era la porta attraverso la quale sarei passata dall’oscurità alla luce,
dall’isolamento al consorzio umano, all’amicizia, alla conoscenza,
all’amore.
... nell’estate del 1886 ... ma la signorina Sullivan non giunse prima
del marzo dell’anno successivo.
Così uscii dall’Egitto e mi arrestai di fronte al Sinai. Allora una
potenza divina mi toccò lo spirito e lo illuminò in modo da lasciarmi
scorgere innumerevoli meraviglie. E dalla sacra montagna udii una
voce che diceva: “ la conoscenza é amore, luce e visione”.
Dal IV° Capitolo
... marzo 1887, tre mesi prima del mio settimo compleanno ...
avevo avvertito vagamente dai segni della mamma e da un
affrettato andirivieni per la casa che stava per succedere qualcosa
di inconsueto perciò uscii dalla porta e mi misi ad aspettare sugli
scalini.
... la collera e l’amarezza mi avevano devastata per settimane ed
ora a quella lotta violenta seguiva un profondo languore ... siete
mai stati sul mare in una nebbia densa che sembra imprigionare,
dentro una notte bianca, quasi palpabile, il transatlantico che cerca
di raggiungere la costa a tentoni, servendosi degli scandagli e di
segnali telegrafici mentre voi attendete col cuore palpitante per il
timore di tutto quello che può accadere?
Prima che cominciasse la mia rieducazione io ero come quel
transatlantico, ma non avevo la bussola o lo scandaglio né potevo
misurare in alcun modo la distanza che mi separava dal porto.
“Luce, datemi la luce” – era il grido inarticolato dell’anima mia, e
proprio in quell’ora la luce dell’amore brillò su di me. Sentii dei
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passi che si avvicinavano e tesi la mano credendo fosse la mamma.
Qualcuno la strinse ed io fui sollevata e chiusa fra le braccia di colei
che mi avrebbe svelato l’universo e, soprattutto, mi avrebbe amata.
La mattina dopo, la maestra mi portò nella sua stanza e mi regalò
una bambola. Me la mandava una piccola cieca dell’Istituto Perkins
ed era stata vestita da Laura Bridgman ma tutto questo lo seppi
molto più tardi. Allora io giocai un po’ con la bambola mentre la
signorina Sullivan scandiva sulla mia mano la parola “b a m b o l a”
Subito mi interessai al gioco delle sue dita cercando di imitarlo e
quando finalmente riuscii a formare correttamente la parola mi
gonfiai di orgoglio e di gioia infantile. Corsi giù dalla mamma e
tenendola per mano formai le lettere della parola bambola. Non
sapevo di compitare una parola, anzi non sapevo neppure che
esistessero ma muovevo le dita, imitando i gesti come una
scimmia... nei giorni seguenti imparai a compitare molte parole ...
mi ci vollero parecchie settimane prima di arrivare a rendermi conto
che ogni cosa aveva un nome ...
Un giorno mentre giocavo con la bambola nuova, la signorina mi
mise in grembo anche la mia grossa bambola di stoffa e compitò “b
a m b o l a“ e cercò di farmi capire che quella parola si riferiva a
tutte e due.
Pochi giorni dopo avemmo uno scontro per le parole tazza
e
acqua. La signorina aveva cercato di imprimermi bene in mente che
“t a z z a” é tazza e “a c q u a” é acqua ma io continuavo a
confondere le due cose. Allora la signorina accantonò la questione
per riprenderla al momento opportuno... ma i suoi reiterati tentativi
mi irritarono al punto che scaraventai per terra la bambola nuova ...
quando sentii ai miei piedi i pezzi della bambola fracassata, mi
sentii sollevata e serena senza il minimo pentimento o rimorso per
la mia violenza. Non volevo bene alla bambola: in quel mondo
oscuro e silenzioso non c’era posto per i sentimenti e la tenerezza ...
la signorina mi portò il cappello ed io capii che saremmo andate a
godere il tepore del sole ... ci avviammo al sentiero che conduceva
al pozzo ... qualcuno attingeva l’acqua e la maestra mise la mia
mano sotto il getto, poi, mentre la corrente fresca mi scorreva sulla
mano, scandì sull’altra la parola acqua, dapprima lentamente e poi
sempre più presto ... io stavo lì immobile tutta intenta al
movimento delle sue dita. All’improvviso ebbi la oscura percezione
di qualcosa di dimenticato – un fremito per la ricomparsa di un
pensiero sopito – e mi si svelò il mistero del linguaggio. Capii che “a
c q u a” significava quella frescura meravigliosa che scorreva sulla
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mia mano. Le parole vivificatrici risvegliavano l’anima mia, la
illuminavano, la allietavano, le donavano speranza. Le barriere
c’erano ancora, è vero, ma col tempo sarebbero state abbattute. Mi
allontanai dal pozzo tutta presa dall’ansia di imparare. Tutte le cose
avevano un nome ed ogni nome faceva nascere un nuovo pensiero.
Tornata a casa mi sembrava che ogni oggetto che toccavo vibrasse
di nuova vita. Era perché io vedevo tutto con la strana vista che
avevo appena ricevuta. Sulla porta d’ingresso mi ricordai della
bambola che avevo rotta. Corsi al caminetto e raccolsi i pezzi,
cercando inutilmente di metterli insieme. Allora i miei occhi si
empirono di lacrime perché capii quel che avevo fatto e per la
prima volta provai il pentimento e il dolore.
Quel giorno imparai tante parole nuove ... so che tra l’altro imparai:
madre, padre, sorella, maestra, parole che fecero fiorire il mondo
per me, come la verga di Aronne ...
Dal V° Capitolo
Estate 1887 ... non facevo altro che esplorare ogni cosa con le mani
e imparare il nome degli oggetti che toccavo: e più cose
maneggiavo imparandone il nome e l’uso, più cresceva in me, lieto
e fiducioso, il senso di fraternità con il resto del mondo ...
... la signorina Sullivan attraverso i campi che gli uomini stavano
preparando per la semina, mi condusse agli argini del Tennessee.
Là mentre eravamo sedute sull’erba intiepidita dal sole, mi impartì
la prima lezione sulla bontà della natura.
Appresi allora che il sole e la pioggia fanno crescere dal suolo le
piante, che rallegrano l’uomo con la loro bellezza e servono a
nutrirlo. Imparai pure come vivono gli uccelli, che si fabbricano il
nido sulle piante e come si procurano il cibo, dove si rifugiano gli
scoiattoli, il cervo, il leone e tutti gli altri animali ... ma verso
quell’epoca una nuova esperienza mi insegnò che la natura non é
sempre clemente ... mi accorsi che il cielo era nero perché ogni
calore era scomparso e dalla terra saliva uno strano odore che
riconobbi per quello che precede il temporale. Una paura senza
nome mi serrò il cuore, mi sentii completamente sola, tagliata
fuori ...
avevo imparato una nuova lezione e cioè che la natura
“muove guerra aperta ai suoi figli e sotto le tenere carezze
nasconde l’artiglio”... passò parecchio tempo prima che potessi
arrampicarmi di nuovo su un albero. il solo pensiero mi riempiva di
terrore. Fu l’incontro di una mimosa in fiore a vincere tutte le
paure. ... una bella mattina di primavera ... avvertii nell’aria una
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fragranza sottile meravigliosa ... che é, mi chiesi e un minuto dopo
riconobbi l’odore della mimosa ... sembrava un albero del paradiso
trapiantato sulla terra ... mi aprii il varco fino al grosso tronco ...
cominciai a salire ... rimasi lassù sognando di essere una fata
seduta su una nuvola rosa. Da allora tornai parecchie volte sul mio
albero del paradiso a sognare fiabe fantasiose e luminose visioni.
Dal VI° Capitolo
Ormai possedevo la chiave del linguaggio e non vedevo l’ora di
adoperarla. I bambini normali imparano a parlare senza uno sforzo
particolare perché afferrano al volo le parole che escono dalle
labbra altrui, ma il piccolo sordo le percepisce solo attraverso un
processo lento e spesso penoso.
Quale che sia questo processo, il risultato è sempre meraviglioso.
Man mano che si procede nella conoscenza dei nomi delle cose, si
supera, un passo dietro l’altro, la distanza sconfinata che separa il
nostro balbettìo da un alato verso di Shakespeare.
Da principio avevo pochi problemi, le mie idee erano vaghe e il
vocabolario inadeguato. Ma quando le mie cognizioni crebbero ed
incominciai a conoscere molte parole, il mio campo di indagine si
allargò. Tornavo più volte sullo stesso argomento cercando
avidamente altre informazioni ... mi ricordo della mattina nella
quale imparai il significato della parola “amore” ... avevo trovato
un po’ di violette, le prime, nel giardino e le avevo portate alla
maestra la quale cercò di darmi un bacio. Ma a quell’epoca io
accettavo baci solo dalla mamma. Allora la signorina Sullivan mi
circondò amorosamente le spalle con un braccio e mi compitò nella
mano: Io amo Helen. Cosa vuol dire “amo”? Ella mi strinse a sé
più vicina e disse: è qui. E mi toccò il cuore di cui avvertii i battiti
per la prima volta. Le sue parole mi incuriosirono assai perché
allora non capivo se non quello che potevo toccare con le mani ...
Pochi giorni dopo stavo infilando perle di differente grandezza in
gruppi simmetrici, due grandi, tre piccole e così via ... facevo
parecchi sbagli che la signorina
correggeva ogni volta con
gentilezza e pazienza. Alla fine mi accorsi di un errore molto
evidente nella righe e per un istante mi concentrai sul mio lavoro
cercando di pensare come disporre le perle. La signorina Sullivan
mi toccò la fronte e compitò con precisione: Pensa !
In un attimo capii che quella parola era il nome del processo che si
stava svolgendo nella mia testa. Fu quella la prima percezione
cosciente di un’idea astratta ...
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tu non puoi toccare l’amore ma senti la dolcezza che diffonde in
tutte le cose ... per la prima volta avvertivo la presenza di legami
invisibili tra il mio spirito e quello degli altri.
Fin da principio la signorina Sullivan mi parlò come se fossi una
bambina normale: la sola differenza consisteva nel fatto che mi
compitava i suoi insegnamenti nella mano invece di pronunciarli con
le labbra. Se non conoscevo le parole necessarie per esprimere il
mio pensiero, me le insegnava, suggerendomi anche gli argomenti
quando non riuscivo ad arrivare alla fine del discorso.
Questo processo durò per anni: perché una bambina sorda non
impara in un mese e neppure in due tre anni le innumerevoli
espressioni che si adoperano nei più semplici rapporti quotidiani.
I bambini normali le imparano sentendole ripetere e imitandole. Le
conversazioni che sentono in casa stimolano la loro mente,
suggeriscono argomenti e provocano l’espressione spontanea dei
loro pensieri. Ma il bambino sordo é tagliato fuori da questo
scambio di idee. La maestra suppliva a questa deficienza e forniva
lo stimolo che mi mancava ripetendomi parola per parola, per
quanto era possibile, tutto quello che sentiva e mostrandomi in qual
modo potevo prendere parte alla conversazione. Mi ci volle del
tempo prima di prendere l’iniziativa e ce ne volle di più prima di
trovare la frase appropriata da dire al momento giusto. Per i sordi e
per i ciechi è molto difficile cogliere le amenità della conversazione.
Tanto più difficile per chi è sordo e cieco allo stesso tempo. Costui
non può percepire le inflessioni della voce né seguire la gamma
delle varie tonalità e non può neanche vedere l’espressione del
volto dell’interlocutore che tanto spesso é l’anima di quel che dice.
Dal VII° Capitolo
La tappa successiva fu imparare a leggere. Appena fui in grado di
compitare qualche parola, la maestra mi diede dei cartoncini su cui
erano stampate in rilievo delle parole ... avevo un telaietto su cui
potevo disporre le parole formando delle brevi frasi ma prima ... mi
divertivo a disporle sugli oggetti ... non c’era gioco che mi
divertisse quanto questo che mi teneva occupata per ore intere ...
Dai pezzetti di carta passai ai libri. Ebbi il mio libro di lettura per
principianti sul quale andai a caccia delle parole che non conoscevo.
Così incominciai a leggere.
... la signorina Sullivan aveva l’arte di spiegare le cose più astruse
presentandole sotto forma di una bella storia o poesia ... aveva una
straordinaria attitudine alla descrizione ... sorvolava sui particolari e
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non mi annoiava mai con domande per vedere se ricordavo le
lezioni passate. Mi introduceva nell’arido tecnicismo della scienza a
poco a poco vivificando talmente tanto ogni argomento che non ho
potuto più dimenticare quello che mi insegnava ...
... La sua genialità, la sua simpatia e il suo amore allietarono i primi
anni della mia vita ... capiva che la mente di un bimbo é come un
ruscello che scorre e spumeggia sopra il letto petroso
dell’educazione, riflettendo qua un fiore, là un cespuglio, laggiù lo
sfioccare di una nuvola e cercava di incanalare la mia mente sulla
retta via ben sapendo che il ruscello deve essere alimentato dalle
sorgenti nascoste fra i monti, fin quando si dilaterà in un ampio
fiume, capace di rispecchiare nel suo placido corso le ondulazioni
delle colline, le sagome luminose degli alberi che si profilano
nell’azzurro del cielo, insieme con la corolla delicata di un
fiorellino. ... il bambino non lavora con gioia se non ha la
sensazione di essere libero di occuparsi o di riposarsi quando crede:
deve provare l’ebbrezza della vittoria e lo scoraggiamento della
disillusione prima di intraprendere spontaneamente un compito
sgradevole, decidersi a destreggiarsi bravamente attraverso la
banalità dei libri di testo ...
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