1 Roma, 22 settembre 2010 Isabel Trujillo Università di Palermo I

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1 Roma, 22 settembre 2010 Isabel Trujillo Università di Palermo I
Roma, 22 settembre 2010
Isabel Trujillo
Università di Palermo
I parte
Questioni introduttive alla deontologia degli operatori giuridici
1. La domanda fondamentale alla quale ci si propone di rispondere è: perché occuparsi di deontologia
professionale? Una parte della risposta – quella di maggiore attualità – viene dall’esigenza da parte
della magistratura di recuperare credibilità. La deontologia professionale svolge una importante
funzione sociale perché le regole deontologiche rispondono ad aspettative sociali consolidate. Il
rispetto di tali regole risulta essere generatore di fiducia e, viceversa, le loro violazioni minano le
basi dell’affidamento di cui la pratica giuridica ha bisogno per funzionare. Perciò la deontologia
agisce sul fronte della legittimazione della funzione giudiziaria. Si tratta certamente di una forma di
legittimazione sociale: ma quale forma di legittimazione non lo è?1. Così, l’emergenza della
deontologia giudiziaria o forense – in maniera contingente – può nascere dalla necessità di
correggere comportamenti devianti più o meno diffusi, che sottraggono legittimazione a uno
strumento importante della pratica giuridica. Questo è un profilo importante, e forse il più urgente,
ma non il più interessante, a mio modo di vedere.
2. La rilevanza del problema deontologico, a mio avviso, trova le sue radici nobili in un mutamento di
paradigma culturale e in quanto tale non è soltanto un problema italiano. Nel mondo giuridico
occidentale – sia di impostazione di common law, sia di civil law, anche se più incisivamente in
quest’ultimo sistema per ovvie ragioni – l’organo che esercita il potere giurisdizionale è sotto
osservazione. La ragione fondamentale riguarda – in modo specifico – la presa di coscienza della
centralità della funzione giurisdizionale in un nuovo modo di atteggiarsi del diritto,
dell’ordinamento giuridico, del sistema delle fonti, in una parola, della pratica giuridica. Dal
carattere cruciale della funzione giurisdizionale deriva una rafforzata esigenza di correttezza, anche
etica, di chi la esercita. Per questo vale la pena di accennare, anche se brevemente, ad alcuni
aspetti del diritto contemporaneo, che sembreranno forse troppo “teorici”. Lo si farà ovviamente in
attenzione alle ricadute deontologiche. Questa linea di indagine vuole spezzare il nesso tra
riflessione deontologica e frequenza di comportamenti devianti. Se queste considerazioni andranno
a segno, allora la riflessione deontologica si potrà ritenere utile anche se non vi è l’urgenza di
correggere la devianza. Allora sarà possibile rivendicare l’indipendenza della deontologia rispetto al
diritto disciplinare, che sostanzialmente è uno strumento sanzionatorio che sostiene il rispetto
delle regole deontologiche ma che non può sostituirsi ad essa.
3. Una questione preliminare riguarda la convenienza e la necessità dei codici deontologici (quello
della magistratura ordinaria e quello della corte dei conti sono sostanzialmente identici, per la
verità, se non per la centralità nell’azione giudiziaria della finalità specifica, quella di tutelare la
finanza pubblica e il corretto svolgimento della amministrazione). In generale, sussiste una
relazione inversamente proporzionale tra la coscienza etica e le sue pratiche manifestazioni, da un
lato, e la necessità di codici etici, dall’altro. Si ricorre a questi ultimi come rimedio per raddrizzare
comportamenti devianti quando questi diventano dilaganti. Meno si rispetta la deontologia, più è
necessario codificarla, renderla nota, diffonderla. In questa sede, comunque, l’esigenza di parlare
dei codici è superata da due peculiarità italiane in relazione ai codici di deontologia giudiziaria: la
prima è che tali codici sono mal visti a causa del peccato di origine della legge che ne impone la
promulgazione, della cui costituzionalità si dubita. La seconda – e qui la vicenda trova paralleli
1
La legittimità è invece un concetto politico, ma anch’esso si autoalimenta attraverso il riconoscimento di chi accetta
l’autorità. Cfr. M. Weber, Economia e società (1922), Edizioni di Comunità, Milano 1961. Sulle trasformazioni del
principio di legittimità e le sue ricadute a livello internazionale, M. Kumm, The Legitimacy of International Law: A
Constitutional Framework of Analysis, in “European Journal of International Law”, 15, 5, 2004, pp. 907-931.
1
anche in altri ordinamenti – è che il codice alla fin fine appare essere ridondante rispetto ai regimi
disciplinari2. In Italia il Decreto legislativo 23 febbraio 2005, n. 109, stabilisce una lista di illeciti per i
magistrati ordinari, ma non è applicabile alla magistratura contabile. Mentre il codice si presenta
come opera di autoregolamentazione di incerto valore giuridico per molti, il regime disciplinare non
lascia spazio a esitazioni3. Eppure, non è detto che il rispetto delle regole deontologiche dipenda
dalla puntuale ed esaustiva tipizzazione degli illeciti possibili (che cambiano peraltro con il tempo).
Su questo tema e sulle sue presupposizioni dirò qualcosa nel secondo intervento.
4. La punta del iceberg o la manifestazione più esterna del problema deontologico è solitamente
indicato come il problema della politicità del giudice e già attraverso questo limitato punto di vista
si inizia a capire qualcosa del nuovo paradigma giuridico cui abbiamo fatto cenno. Nel modello
napoleonico il giudice svolge una funzione tecnica, asettica, e si tende ad immaginare giudici clonati
e fungibili, anche se è dinanzi agli occhi di tutti il carattere mistificatorio della operazione4. L’unica
etica del giudice rilevante è quella privata, e – in quanto tale – essa va lasciata fuori dal diritto. Il
riconoscimento dei diritti fondamentali della persona e del pluralismo come valore nelle società
democratiche invece spinge nella direzione di riconoscere che nessuno è fungibile o asettico perché
ognuno ha il diritto di pensare come vuole all’interno dei confini segnati dalle Costituzioni, sia per
quanto riguarda i valori da professare e sui quali formare la propria opinione, sia soprattutto
nell’esercizio della funzione giurisdizionale5. Il riconoscimento di questi diritti ha però implicazioni
importanti. In un importante congresso che faceva il punto della situazione sui primi dieci anni del
codice deontologico, si afferma: “In un sistema democratico e pluralista ogni magistrato, crediamo,
dovrebbe imparare a camminare da solo, in equilibrio sul filo del bilanciamento tra la libertà
garantita dall’art. 21 e i valori dell’imparzialità e indipendenza imposti sia dalla Costituzione, sia dal
codice etico. In equilibrio sul filo, dunque, ma… senza rete sotto, assumendosi, cioè, l’intera
responsabilità di quel delicato bilanciamento che egli stesso dovrà, di volta in volta, attuare,
facendo in modo che il suo diritto alla partecipazione politica non influenzi le sue decisioni, né il
modo in cui applicherà il diritto”6. Questo equilibrio non può che essere il risultato della onestà
intellettuale di chi rinuncia metodologicamente soprattutto al pregiudizio “proprio” o per lo meno
lo mette in questione. Del resto, e qui si trova l’insegnamento fondamentale della corrente
dell’ermeneutica giuridica, il punto non è quello di rilevare la presenza di precomprensioni
inevitabili in ogni atto conoscitivo (acquisizione comune alla epistemologia popperiana), ma
piuttosto quello di individuare le sue componenti e gli strumenti e le regole per rivedere i
pregiudizi7.
5. La novità strutturale più significativa nel nuovo assetto giuridico è lo spostamento istituzionale della
giurisdizione da potere subordinato a organo dotato di forme di autonomia inedite. Questa
autonomia risponde ad una esigenza del sistema, cioè al principio dello stato costituzionale di
diritto per cui il giudice – anche quando la sua funzione è fondamentalmente di controllo di un
2
Così sembra pensare R. Danovi, Luci ed ombre della deontologia nella “lotta per il diritto”, in L. Aschettino, D. Bifulco,
H. Epineuse, R. Sabato (a cura di), Deontologia giudiziaria. Il codice etico alla prova dei primi dieci anni, Jovene, Napoli
2006.
3
Cfr. A. Ollero, La convivencia entre la Etica Judicial y el derecho disciplinario, in A. Ollero, J. Díaz Romero, R.L. Vigo,
Códigos de Etica Judicial, derecho disciplinario y justificación de la ética del juez, Suprema Corte de Justicia de la
Nación, Messico 2010, pp. 43-56.
4
P. Andrés Ibáñez, Etica de la función de juzgar, in J.L. Fernández, A. Hortal (a cura di), Etica de las profesiones
jurídicas, UPCO Publicaciones, Madrid 2001, p. 68.
5
Per una questione giurisprudenziale che mette sul tappeto nuove questioni, cfr. il mio Il disaccordo nello stato
costituzionale di diritto. A proposito di alcune sentenze recenti del Tribunal Supremo spagnolo sull’obiezioni di
coscienza, in “Diritto e questioni pubbliche”, 2, 2009: http://www.dirittoequestionipubbliche.org/
6
L. Aschettino, D. Bifulco, Introduzione, in L. Aschettino, D. Bifulco (a cura di), Deontologia giudiziaria. Il codice etico
italiano alla prova dei primi dieci anni, cit., p. 25.
7
F. Viola, G. Zaccaria, Diritto e interpretazione. Lineamenti di una teoria ermeneutica del diritto, Laterza, Roma-Bari
2009 (sesta edizione).
2
potere, come nel caso dei magistrati della corte dei conti – in realtà è il custode dei diritti degli
individui per eccellenza. Il controllo del potere è infatti il presidio della libertà dei cittadini8. Da qui
l’esigenza (vogliamo chiamarla deontologica, etica, disciplinare, giuridica?) di sviluppare una
particolare sensibilità nei confronti dell’abuso di potere, da qualsiasi parte venga, che ha come
corollario anche un raffinato autocontrollo nello spazio della discrezionalità9.
6. Quella collocazione del giudice va di pari passo con una diversa articolazione del sistema delle fonti
del diritto. Dal punto di vista del diritto oggettivo, infatti, il cambiamento di paradigma è segnato
dall’assestamento dell’ordinamento giuridico nella forma di un pluralismo giuridico. Il problema del
pluralismo giuridico riguarda il rapporto tra ordinamenti in concorrenza tra di loro: per materia (si
pensi alla questione della tutela dei diritti fondamentali nell’Unione europea e nel Consiglio
d’Europa, oltre che nella Costituzione italiana; o alla sovrapposizione tra le norme di diritto
internazionale relative al commercio conosciute come lex mercatoria e il diritto commerciale degli
Stati) o per ragioni di territorio (le competenze dell’Unione europea, quelle statali e le competenze
degli enti locali). La questione del pluralismo è collegata alla possibilità della “scelta” di un
ordinamento piuttosto che un altro entro lo stesso territorio, possibilità che scardina il postulato
della esclusività del diritto statale. Il criterio geografico non risolve più la questione della validità
delle norme10. Qui posso rimandare all’articolo di Pizzorusso nel congresso prima ricordato.
È importante notare che il pluralismo giuridico è una caratteristica dei contesti sociali e non dei
sistemi giuridici. Nello stesso contesto sociale diverse norme con differenti provenienze concorrono
a regolare la stessa azione. Non si tratta dunque di problemi di antinomie tra norme, perché
solitamente queste si rintracciano in un medesimo ordinamento. Questa caratteristica rende
peraltro superfluo il problema della natura delle regole deontologiche (sociali?, etiche?). Con
parole di Alessandro Pizzorusso, “[n]ella situazione attuale è molto più probabile che forme di
produzione di norme, che non adempiono a tutte le condizioni richieste per essere inserite nel
catalogo delle fonti del diritto proprio di un ordinamento giuridico statale, possano comunque
vedersi riconosciuto un qualche ruolo che consente loro di influire, più o meno incisivamente, sul
processo di ricerca, selezione e interpretazione dei materiali normativi dai quali l’operatore
giuridico – e, in particolare, il giudice – ricaverà la regola da applicare alla fattispecie sottoposta al
suo esame”11. Questo vale in generale e vale anche per le regole deontologiche. Dietro a questa
realtà c’è un problema filosofico giuridico affascinante: la comprensione delle regole
prioritariamente come ragioni per l’azione e non come strumento sanzionatorio12.
7. Il pluralismo giuridico solleva notevoli problemi soprattutto nell’applicazione del diritto, poiché
bisogna scegliere tra diverse norme che possono validamente regolare un caso. Ma non è un
compito impossibile a partire da alcuni accorgimenti. Il primo di essi è il punto di vista: il diritto non
va guardato dall’alto in basso e in astratto, ma a partire dal caso concreto. Ciò significa che l’attività
giurisdizionale svolge un ruolo fondamentale e ovviamente deve essere adeguatamente
controllata. Il secondo accorgimento ha a che vedere precisamente con questo controllo. Posto che
l’obiettivo è quello della individuazione della regola maggiormente adatta al caso entro quelle
validamente alternative, il controllo dell’attività giurisdizionale deve avere ad oggetto la
ragionevolezza dell’azione individuata. Questa conseguenza rende problematiche le concezioni
non-cognitiviste della ragione pratica ad uso dei giudici nelle decisioni giudiziali: a rilevare sono le
ragioni della motivazione, contro l’arbitrarietà della decisione, che peraltro trovano conferma
nell’interesse che il diritto disciplinare ha dimostrato per la qualità delle motivazioni delle
8
Il suggestivo titolo di A. Garapon, I custodi dei diritti. Giudici e democrazia, Feltrinelli, Milano 1997.
P. Andrés Ibáñez, Etica de la función de juzgar, cit., p. 76.
10
Cfr. F. Viola, La concorrenza degli ordinamenti e il diritto come scelta, ESI, Napoli 2008.
11
Il “codice etico” dei magistrati italiani, in L. Aschettino, D. Bifulco (a cura di), Deontologia giudiziaria. Il codice etico
italiano alla prova dei primi dieci anni, cit., pp. 59-60.
12
Cfr. H.L.A. Hart, Il concetto di diritto (1961), Einaudi, Torino 1991; J. Raz, The Authority of Law, Clarendon Press,
Oxford 1979.
9
3
sentenze13. La questione, dunque, se il “controllo” sull’interpretazione sia di competenza
deontologica o disciplinare diviene superfluo: esso è comunque rimesso al giudice stesso, prima, e
alla comunità entro la quale egli opera, poi, sia come comunità giuridica, sia come comunità
sociale. Da qui l’interesse recente degli studiosi per il ragionamento giuridico, la cui natura è
autoritativa, in relazione al vincolo derivante da regole, ma, allo stesso tempo, volta a fare
giustizia, cioè a trovare la soluzione giuridica più adatta (migliore, più buona) al caso concreto. La
rivalutazione del precedente anche nei sistemi di civil law – che individua nella coerenza della
pratica giuridica una spia della sua capacità di trovare buone soluzioni – è uno degli indizi di questa
trasformazione14.
8. A questa tematica, in considerazione della specificità della funzione giurisdizionale della Corte dei
conti, occorrerebbe affiancare un diverso modo di intendere la pubblica amministrazione e la sua
azione. Da funzione centrale dello stato, la PA ha perso la sua unità e si articola in modi diversissimi
tra loro. La cura concreta degli interessi pubblici è distribuita fra tutti i poteri dello stato e lo stesso
interesse pubblico è percepito come l’incontro di una pluralità di interessi, da prendere in
considerazione anche metodologicamente, cioè al fine di identificarlo. L’opera della pubblica
amministrazione si legittima solo in base al suo esercizio razionale nel rispetto di princìpi
caratterizzanti: il principio di legalità, di ragionevolezza, di organizzazione, di giustizia sostanziale, di
buon andamento, d’imparzialità, d’eguaglianza, di continuità, di autonomia, di azionabilità e di
praticabilità. Di conseguenza non è l’obbedienza legalistica alle direttive superiori che fa la buona
amministrazione, ma la capacità di ben interpretarle e la capacità di utilizzare al massimo le risorse
disponibili per realizzare i fini proposti. In questa interpretazione dei fini politici sta il momento
politico dell’amministrare. Ciò è ancora più evidente a livello locale, livello in cui politica e
amministrazione sono molto più visibilmente vicini e compenetrati e il rapporto tra fini politici e
mezzi amministrativi è di mutua influenza. Ma ciò richiede creatività e competenza, uno dei perni di
ogni deontologia professionale. La competenza dell’amministratore non è da intendersi soltanto in
senso tecnico-amministrativo, ma anche nel senso della capacità di piegare il formalismo della
legge a fini di giustizia sostanziale15. Questo tipo di riflessione ci porterebbe però troppo lontano.
La mattinata sarà organizzata come segue: Claudio Sartea collocherà la problematica della deontologia
giudiziaria entro l’insieme delle etiche professionali. In seguito io affronterò il tema della responsabilità
giuridica. Infine Fabio Macioce tratterà in maniera specifica uno dei principi deontologici, quello della
lealtà. Poi seguirà un dibattito, il più amplio possibile, in modo che il vostro contributo, la vostra
esperienza, consentano di creare collegamenti con i temi qui proposti.
II parte
Le trasformazioni della responsabilità giuridica e la responsabilità deontologica, ovvero, cosa possono
imparare i giuristi dalla responsabilità deontologica
Insieme alla competenza, la responsabilità costituisce uno dei cardini di ogni etica professionale, con la
complicazione che il soggetto incompetente è alla fine da ritenere un irresponsabile. Nelle considerazioni
che seguono tratterò il tema in generale a partire dall’analisi semantica della responsabilità giuridica, ma
cercando di costruire rapporti tra i suoi vari profili: civile, penale, disciplinare, deontologica, etica.
13
Cfr. la relazione del Presidente M. Fantacchiotti.
Cfr. il mio Il ragionamento giuridico, tra autorità e ragioni. Un approccio filosofico-giuridico al valore del precedente,
di prossima pubblicazione nella rivista dell’Associazione Nazionale dei Magistrati.
15
Ringrazio il mio collega Nicola Gullo, professore di Diritto amministrativo, che ha letto e discusso con me questo
saggio per ciò che attiene alla dimensione della Pubblica amministrazione.
14
4
L’obiettivo non è quello di risolvere le questioni, ma di formulare interrogativi e di segnalare problemi che
possano aiutare a metterne meglio a fuoco il significato e la portata del dovere della responsabilità. La
relazione è divisa in tre parti: nella prima elencherò cinque caratteri di quella che è stata la teoria
tradizionale della responsabilità. Nella seconda introdurrò alcuni elementi innovativi che mettono in crisi
quel paradigma e individuerò e discuterò aspetti problematici che da lì possono essere ricavati. Nella terza
cercherò di trarre alcune conclusioni a partire dall’idea di responsabilità deontologica.
1. Una certa cultura giuridica “teorica” ha insegnato per lo meno ai meno giovani che il modo più facile di
dare un contenuto al concetto di responsabilità giuridica è quello di metterlo in relazione con quello di
sanzionabilità. Si può addirittura ritenere16, che l’estensione della responsabilità coincida con l’esposizione
a sanzione, sottolineando così una preferenza per le letture sanzionatorie del diritto. Così, la responsabilità
civile coinciderebbe con l’esposizione a sanzione secondo il diritto civile, la responsabilità penale con la
esposizione a sanzione nel diritto penale e la responsabilità disciplinare coincide con l’esposizione a
sanzione disciplinare secondo il regime disciplinare. La responsabilità etica e quella deontologica possono
essere spiegate alla stessa maniera.
È Pufendorf a teorizzare un altro dei pilastri di questa teoria della responsabilità moderna: la distinzioneseparazione della responsabilità giuridica da quella morale17. All’inosservanza del dovere segue una
conseguenza sfavorevole, cioè una sanzione. Sia la morale, sia il diritto funzionano allo stesso modo. La
differenza sta nel fatto che le sanzioni morali sono interne e quelle giuridiche esterne e istituzionalizzate18.
È difficile contestare la semplicità e l’efficacia di questo concetto. Vi è responsabilità dove vi sono sanzioni.
Da qui, per esempio, la inutilità secondo alcuni della responsabilità deontologica dei magistrati ordinari,
posto che il regime disciplinare è puntuale e concreto e prevede un sistema di sanzioni disciplinari quali la
censura, l’ammonimento, la perdita di anzianità: quali altre sanzioni potrebbe prevedere il codice
deontologico? In questa linea il codice è superfluo. La distinzione fondamentale è quella tra responsabilità
potenziale e quella attuale. L’omicida è attualmente responsabile dell’omicidio; noi tutti siamo
potenzialmente responsabili per omicidio perché tutti esposti a sanzione. A questo orientamento è stato
obiettato che non riconosce la varietà delle norme giuridiche, fornendo una visione riduttiva del dovere
giuridico: cosa pensare delle norme che conferiscono poteri? O di quelle che non stabiliscono sanzioni?19
Non è questo il filo che voglio seguire.
La radice moderna di quest’idea di responsabilità si trova in un concetto più ampio, senza il quale non
sarebbe possibile la sanzione né la responsabilità: un altro degli imponenti concetti della cultura giuridica,
quello di imputazione. Come tutti sanno, l’imputazione nel vocabolario kelseniano, ancora dominante, è
una relazione normativa che esprime l’idea che certe conseguenze negative debbano seguire il
comportamento illecito. Nel vocabolario classico (diverso da quello kelseniano), essa implica la
sottomissione alla legge e alla sanzione in conseguenza della violazione di un dovere giuridico20. L’oggetto
della responsabilità è dunque ciò che costituisce un dovere giuridico.
L’imputazione tuttavia, a sua volta, implica un giudizio, sicché non vi può essere imputazione senza
giudizio, senza una valutazione di concordanza o meno del comportamento con la norma. Più
semplicemente, l’imputazione indica l’idea di mettere qualcosa nel conto di qualcuno. La sanzionabilità
dunque non definisce la responsabilità da sola, ma ha bisogno di questi ulteriori elementi.
Per completare le componenti del concetto moderno di responsabilità bisogna fare riferimento ad un
ultimo elemento: il soggetto della responsabilità. L’imputazione e la responsabilità implicano la volontà e
la libertà. L’individuo responsabile dovrebbe essere non quello cui si può fare risalire il danno, ma quello
che sapeva cosa faceva nel violare un dovere perché padrone delle sue azioni, e in quanto tale colpevole.
16
U. Scarpelli, Riflessioni sulla responsabilità politica. Responsabilità, libertà, visione dell'uomo, in “Atti del XIII
Congresso Nazionale della Società italiana di Filosofia giuridica e politica”, Giuffrè, Milano 1982, p. 50.
17
Ivi, pp. 202 ss.
18
F. Viola, Le trasformazioni della responsabilità, in corso di pubblicazione, p. 3.
19
Cfr. H.L.A. Hart, Il concetto di diritto, cit., cap. III.
20
M.A. Foddai, Sulle tracce della responsabilità. Idee e norme dell’agire responsabile, Giappichelli, Torino 2005, p. 27.
5
Com’è noto, sono Grozio prima e Pufendorf poi a consacrare il principio secondo cui non basta il danno
materiale perché si dia la responsabilità, ma il danno si dà quando si dà la colpa (damnum ex culpa
naturaliter oritur).
Fin qui, gli elementi fondamentali di un quadro molto chiaro e rassicurante, che, come si vedrà, si è
frantumato senza dare spazio ad un altro quadro altrettanto confortante. Esaminiamo brevemente alcune
delle tendenze di cambiamento.
2. È abbastanza chiaro a tutti che nella pratica giuridica si riscontra oggi un sistema di responsabilità
soggettiva affiancata oramai da numerose ipotesi di responsabilità oggettiva, al punto che il concetto di
responsabilità prima richiamato inizia a diventare incoerente21. Si tratta di una problematica tipicamente
civilistica, ma nella sua considerazione di insieme offre elementi interessanti a tutti i giuristi. Il punto è che
la responsabilità per colpa non dà sufficiente sicurezza al danneggiato. La determinazione degli elementi di
colpevolezza infatti restringe l'ampiezza della fattispecie e crea vasti spazi in cui manca la tutela per chi ha
subito un danno. Nell’alternativa tra il collegamento della volontà del soggetto e l'azione, da un lato, e la
tutela del terzo, dall’altro, si tende a privilegiare questo secondo criterio. Del resto, il diritto, a differenza
della morale, è diretto a garantire l'efficienza della protezione sociale piuttosto che indagare intorno alle
intenzioni dei cittadini.
In una lezione magistrale su Diritto giurisprudenziale e responsabilità civile, Francesco Donato Busnelli, per
esempio, elenca alcune linee di tendenza di quello che egli chiama il nuovo volto della responsabilità civile:
“il processo di espansione dell’area della illiceità; l’estensione dei criteri di responsabilità; la crescente
attenzione all’esigenza prioritaria di riparazione dei danni alla persona” 22. A fronte di questo sviluppo,
nell’osservare la evoluzione della disciplina della pubblica amministrazione, si ha invece l’impressione che
la tendenza prevalente sia quella di limitare la portata della responsabilità soggettiva, anche se bisogna
riconoscere che le linee di sviluppo sono controverse e talvolta contraddittorie: si pensi, da un lato,
all’eccesso di tutela che si collega alla preservazione della funzione pubblica e del funzionario, o alla
funzione solo dissuasiva e non ripristinativa della responsabilità amministrativa, e d’altro lato alla
espansione della risarcibilità dei danni che derivano dalla lesione di interessi legittimi23 o alla responsabilità
derivante dalle attività ad alto rischio per la natura o per l’ambiente. Questo mi auguro possa essere un
punto da dibattere, con il contributo dei presenti.
D’altra parte, sono cambiate le condizioni attuali della vita economica e produttiva. Non è più un soggetto
in quanto tale ad essere responsabile, ma l'impersonale organizzazione produttiva. La responsabilità
giuridica dovrebbe adeguarsi ai bisogni del capitalismo moderno e al tipo di rischi che esso implica. Questo
assetto è particolarmente congruente con la scissione tra responsabilità e colpa che si riscontra nel nuovo
volto della responsabilità giuridica. In ambito penalistico, una traccia di questa scissione si riscontra
laddove si consideri che “il confine fra imputabilità e inimputabilità non rappresenta affatto il confine fra
sussistenza e assenza di conseguenze penali, posto che anche il soggetto dichiarato non punibile perché
inimputabile può essere sottoposto, se ritenuto in concreto socialmente pericoloso, a misure di sicurezza,
cioè a provvedimenti – che hanno la loro matrice storica nella Scuola positiva – almeno nominalmente
curativi e indeterminati nella durata massima (cessano quando si ritiene esser venuta meno la
pericolosità): provvedimenti i quali per il vizio totale di mente si concretizzano di regola nell’internamento
in ospedale psichiatrico giudiziario, solo da poco tempo surrogabile, sussistendone le condizioni, da altra
misura (essenzialmente, la libertà vigilata) «idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a
far fronte alla sua pericolosità sociale» (Corte cost. n. 253/2003)” 24.
Una possibile conseguenza di questo sviluppo è la perdita di carica valutativa (negativa) della
responsabilità giuridica. Non ha più senso il riferimento ai doveri giuridici, non serve la valutazione
negativa del comportamento in contrasto con il dovere e, ovviamente, non c'è neppure la valutazione
21
Ivi, p. 372.
F.D. Busnelli, Diritto giurisprudenziale e responsabilità civile, Editoriale scientifica, Napoli 2007, pp. 16 e 17.
23
Cfr. F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Giappichelli, Torino 2008, pp. 745-781.
24
L. Eusebi, Imputabilità, voce in Enciclopedia filosofica, vol. 6, Bompiani, Milano 2006.
22
6
negativa della conseguenza imputata. Al posto della sanzione ci sono i costi che ogni attività deve
prevedere in relazione ai danni arrecati a terzi. Si perviene così alla configurazione della responsabilità in
termini di sopportazione di costi accettati in partenza.
La fluidità dei confini tra le sanzioni penali e civili, da un lato, e la possibilità che il fenomeno della
depenalizzazione si converta in de-colpevolizzazione e de-responsabilizzazione, dall’altro, ci consentono di
ritenere che l’idea di responsabilità giuridica in generale si sta trasformando e che questa trasformazione
travolge proprio alcuni pilastri del concetto moderno di responsabilità (cosa che non è del tutto negativa, a
mio modo di vedere).
Esaminerò in particolare due aspetti.
a) La valutazione oggettiva del danno tende ad occultare il legame soggettivo fra l’azione e il suo autore25.
La colpa presuppone classicamente l’infrazione di un dovere giuridico, la conoscenza della norma da parte
dell’autore e la padronanza dei suoi atti, cioè una certa capacità del soggetto, oltre che la conoscibilità
della norma, secondo la rule of law. Nell’ottica del quadro iniziale schematicamente richiamato, se per
essere responsabili ci vuole per lo meno la sanità di mente, non dovrebbe esistere una responsabilità
oggettiva26. Una risposta spregiudicata alla questione è che è responsabile non chi è padrone dell’atto, ma
chi non riesce a portare le prove che il danno non dipende da una condotta volontaria. Nessuno si
scandalizza di questa affermazione, che riecheggia la tensione tra la verità del processo e la verità dei fatti.
Tuttavia, tale conclusione rimanda a complicazioni ulteriori di portata più generale.
Alcuni hanno visto in questo inedito carattere della responsabilità giuridica il rinascere di un concetto
antico di responsabilità, quello del diritto romano, che avrebbe continuato ad esercitare un influsso
importante sulle categorie giuridiche, anche se in modo silente. Il soggetto responsabile non era, nella
mentalità giuridica romana, il soggetto colpevole, ma colui al quale veniva obiettivamente riferito un
risultato contrario al diritto27. Certamente esiste la culpa, ma essa consiste nell’avere tenuto un
comportamento diverso da quello che si doveva tenere: nel giudizio sul comportamento non è l’intenzione
con cui la persona ha agito a decidere la colpevolezza o l’innocenza. Lasciando da parte la questione se lo
sviluppo cui si sta facendo riferimento è solo casualmente simile al sistema del diritto romano oppure è
una riemergenza di un elemento presente ma mai del tutto assopito, bisogna notare però la differenza tra
l’assetto classico e questi ultimi sviluppi della responsabilità. La tradizione del diritto romano trova le sue
radici nel radicamento della responsabilità nella relazione sociale e nell’atto del promettere
vicendevolmente, di scambiarsi una garanzia, come attesta il significato etimologico di respondeo28. La
tradizione moderna, invece, ha al centro esclusivamente il soggetto e le sue qualità di fronte ad un insieme
di leggi che semmai rimandano ad un altro soggetto: il sovrano o lo stato. Si è da soli di fronte alla
sanzione. La fiducia premoderna è di carattere personale, mentre la fiducia moderna o postmoderna è
affidata a sistemi esperti, formalizzati, astratti, funzione che è sostanzialmente assolta dallo stato29. Il
diritto dello stato è infatti allo stesso tempo potere e difesa contro il potere dello stato. Qui sta peraltro
una delle radici della resistenza e della difficoltà a riconoscere la responsabilità dei funzionari pubblici in
tutti i loro atti.
La dimensione oggettiva del concetto romano di responsabilità deriva invece dall’oggettività della
relazione sociale. Nell’ottica moderna, la responsabilità è soprattutto soggettiva. L’oggettività del nuovo
assetto della responsabilità che stiamo esaminando deriva invece da un altro fattore: la pervasività del
rischio nella determinazione della responsabilità. Il rischio si riferisce a quelle situazioni in cui è possibile
(ma non certo) che accada un evento indesiderato. Da qui la convinzione che il soggetto potenziale della
25
P. Ricoeur, Il concetto di responsabilità. Saggio di analisi semantica (1994), in Id., Il Giusto, trad. D. Iannotta di
Marcoberardino, SEI, Torino 1998, p. 46.
26
U. Scarpelli, Riflessioni sulla responsabilità politica. Responsabilità, libertà, visione dell'uomo, p. 67.
27
M.A. Foddai, Sulle tracce della responsabilità. Idee e norme dell’agire responsabile, cit., p. 105.
28
Ivi, pp. 93-119.
29
B. Pastore, Pluralismo, fiducia, solidarietà, Carocci, Roma 2007, pp. 68-74.
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responsabilità debba limitarsi ad adempiere ad un imperativo categorico: il dovere di assicurarsi30. Il rischio
però ha inizio dove finisce la fiducia.
Eppure, l’analisi del rischio non si può completamente caratterizzare in termini di probabilità oggettiva. Il
processo di decisione presuppone l’esistenza di opinioni e di credenze personali che influenzano le scelte e
ha anche ricadute sugli altri. “Ogni azione legata ad una decisione rischiosa (esempio: decido di fumare)
genera risultati il cui valore non può essere ridotto al puro calcolo dell’utilità attesa. L’esito di una certa
azione è connesso ad elementi quali la responsabilità e il consenso (sono responsabile della mia salute, ma
sono responsabile anche dei danni del fumo per la salute altrui, perché gli altri, se potessero,
eserciterebbero il diritto ad un’aria non inquinata)”31. Certamente la responsabilità oggettiva ha spostato
l’attenzione dal colpevole alla vittima del danno. Con questo nuovo sguardo, però, è facile allargare il
campo della responsabilità dalle conseguenze imputabili a seguito della trasgressione dei doveri alle
conseguenze imputabili in generale32, con ciò annullando il vantaggio principale della nozione moderna di
responsabilità, che delimitava l’ambito della responsabilità a quello dei doveri specificati dalle norme
giuridiche. Si tenga presente che alcuni codici deontologici – per esempio quello forense – hanno scelto la
strada dell’atipicità dell’illecito disciplinare, il che vuol dire che l’area della responsabilità è potenzialmente
ampliabile. Tra poco vedremo perché questa presa di posizione è comunque sensata nella prospettiva della
deontologia.
Nonostante il richiamo alla vittima, questa nuova versione della responsabilità non genera solidarietà se
non in modo apparente, in ciò distinguendosi essenzialmente dalla tradizione romana: “Tutto accade
come se la moltiplicazione delle occorrenze di vittimizzazione suscitasse una proporzionale esaltazione di
ciò che bisogna proprio chiamare una risorgenza sociale dell’accusa. Il paradosso è enorme: in una società
che non parla che di solidarietà, nella cura di rafforzare elettivamente una filosofia del rischio, la ricerca
vendicativa del responsabile equivale a una ricolpevolizzazione degli autori identificati dai danni”33. In altre
parole, si de-colpevolizza chi viola il dovere giuridico e si colpevolizza chi soccombe al rischio, che in ultima
istanza è anche questione di fortuna.
“Nella misura in cui, nei processi che danno luogo a indennizzo, entrano in gioco in maniera maggioritaria
delle relazioni contrattuali, il sospetto e la diffidenza che vengono nutriti nella caccia al responsabile
tendono a corrompere il capitale di confidenza sul quale riposano tutti i sistemi fiduciari soggiacenti alle
relazioni contrattuali. Ma non è tutto: la virtù di solidarietà […] è sul punto di essere spiazzata dalla sua
posizione etica eminente dalla stessa idea di rischio che l’ha generata, nella misura in cui la protezione
contro il rischio orienta verso la ricerca di sicurezza piuttosto che verso l’affermazione della solidarietà”34.
Il risultato è quello del dissolvimento del rapporto intersoggettivo, poiché non si risponde più nei confronti
di soggetti determinati, ma nei confronti di tutti coloro che possono subire un danno a causa dell'attività
intrapresa35. Se si trascura l’elemento della decisione personale, le azioni sono inevitabilmente attribuibili
alla fatalità, ma “[l]a fatalità è nessuno, la responsabilità è qualcuno”36.
b) Un altro elemento inedito rispetto al passato è il cambiamento di prospettiva della responsabilità, che
da retrospettiva diventa progettuale37. Tipicamente, secondo il diritto si è responsabili per gli effetti delle
azioni, per i danni già prodotti. Com’è noto, secondo la virtù dei sistemi giuridici che viene indicata come
rule of law, uno dei requisiti del modello è quello secondo cui un ordinamento giuridico perché si possa
considerare tale non deve chiedere ai cittadini cose impossibili38. Eppure in campo di responsabilità
30
P. Ricoeur, Il concetto di responsabilità. Saggio di analisi semantica, cit.
P.L Sacco, Rischio, voce in Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano 2006.
32
U. Scarpelli, Riflessioni sulla responsabilità politica. Responsabilità, libertà, visione dell'uomo, cit., p. 51.
33
P. Ricoeur, Il concetto di responsabilità. Saggio di analisi semantica, cit., p. 46.
34
Ivi, p. 47.
35
F. Viola, Le trasformazioni della responsabilità, cit., p. 4.
36
P. Ricoeur, Il concetto di responsabilità. Saggio di analisi semantica, cit., p. 47.
37
Ivi, pp. 48-49.
38
L. Fuller, La moralità del diritto (1964), Giuffrè, Milano 1986.
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oggettiva sembra che il sistema giuridico chieda comportamenti impossibili, quali la capacità di prevedere
tutte le conseguenze derivanti da un’attività rischiosa39.
Questa difficoltà è tipica di un certo approccio all’azione, quello fondato sulla valutazione delle
conseguenze, ritenuto – in modo errato – un modo semplice per capire cosa fare e cosa non fare. È di
Weber la migliore caratterizzazione di questo tipo di metodologia della decisione, peraltro
significativamente definito “etica della responsabilità”. Agisce secondo un’etica della responsabilità chi per
decidere l’azione da compiere si fonda esclusivamente sulla valutazione delle conseguenze che essa avrà.
Com’è noto, Weber oppone a questa modalità di decisione, l’etica delle convinzioni o “etica deontologica”,
in base alla quale l’azione deve rispondere a certi criteri a prescindere dalle conseguenze. Per inciso si deve
notare che è difficile che questa seconda modalità esista: non vi sono cioè regole che prescindano dalle
conseguenze, perché agire significa produrre un effetto, una conseguenza40.
Il punto è che i problemi di un’etica della responsabilità sono molto seri, soprattutto per l’imponderabilità
delle conseguenze. Quali sono le conseguenze da prendere in considerazione? Fino a quando devo
prevedere conseguenze?
Poiché le conseguenze delle nostre azioni sono imponderabili a lungo termine, la tentazione è quella
dell’inattività, del non agire. Oppure, la subordinazione della decisione di agire al giudizio degli esperti.
A queste difficoltà si aggiungono quelle sopravvenute alla valutazione dei danni ad opera dei diritti umani e
della costituzionalizzazione della persona41. È talmente alto il valore di ciascun individuo che risarcire un
danno esistenziale supera le possibilità economiche di una persona singola.
I tentativi di riequilibrio di questi percorsi andrebbero cercati secondo alcuni nella separazione tra
l’imputazione della responsabilità e la rivendicazione di indennizzo, da un lato, e, dall’altro, nel recupero
dell’idea secondo cui il giudizio di colpevolezza è già una sorta di risarcimento della vittima42, ma queste
linee non sembrano avere molta presa e comunque sono possibili solo laddove si distingua tra
responsabilità ed esposizione a sanzioni (che però abbiamo visto essere il presupposto della responsabilità
moderna). Il giudizio senza la sanzione appare poco soddisfacente, come apparirebbe poco soddisfacente
un risarcimento esclusivamente morale.
3. La conclusione del bel saggio di Ricoeur che ha ispirato molte di queste considerazioni è che la
solidarietà e il rischio debbano trovare posto in una nuova teoria della responsabilità giuridica che
potrebbe imparare qualcosa dalla responsabilità morale o etica, da cui la cultura moderna ha tentato in
tutti i modi di distinguerla. La responsabilità giuridica potrebbe imparare da quella morale i percorsi della
precauzione e della prevenzione, da un lato, e, dall’altro, l’idea che, più che dei danni, siamo responsabili
degli altri.
Quest’ultima esigenza è particolarmente importante per capire le cosiddette responsabilità deontologiche,
che sono tipicamente responsabilità per ruolo. Questa idea suggerisce importanti prospettive per il
concetto generale di responsabilità e contribuisce a mettere in crisi quella iniziale identificazione tra
responsabilità e sanzionabilità. Per questo è fuorviante identificare la responsabilità deontologica con
l’esposizione a sanzione disciplinare e da qui deriva la differenza tra deontologia e regime disciplinare.
Quest’ultimo è lo strumento di cui si dispone per reagire alla violazione delle regole deontologiche, ma non
può sostituirsi alla responsabilità deontologica: essa sporge rispetto al primo.
39
M.A. Foddai, Sulle tracce della responsabilità. Idee e norme dell’agire responsabile, cit., p. 372-373. Si potrebbe
pensare anche alla difficoltà tipica di tutte le etiche della responsabilità, cioè quella di individuare fino a che punto si è
responsabili: quali conseguenze possono essere imputate.
40
R. Spaemann, Concetti morali fondamentali, Piemme, Casale di Monferrato 1993, p. 77.
41
F. Viola, La persona umana come problema della società contemporanea, in AA.VV., Cattolicesimo italiano e futuro
del paese, EDB, Bologna 2006, pp. 155-158.
42
Si pensi per esempio alla problematica del cosiddetto condono erariale, introdotto dalla legge finanziaria del 2006.
Le divergenze tra la Corte Costituzionale e la Corte dei Conti non sembrano riguardare soltanto alla finalità
dell’istituto, ma alla natura della responsabilità amministrativa.
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La responsabilità per ruolo è quella che deriva dalla posizione degli individui all’interno dell’organizzazione
sociale43. A dare corso a questa responsabilità è certamente una scelta iniziale del soggetto della
responsabilità. Tuttavia, essa presuppone una sorta di accordo collettivo che è alla base delle aspettative
sociali che la funzione da svolgere pretende di esaudire. La responsabilità per ruolo è dunque tipicamente
una responsabilità intersoggettiva. Tra le altre cose ciò significa che se si accetta di svolgere un ruolo
bisogna accettare compiti e regole che talvolta possono non essere condivisi e che però costituiscono una
responsabilità inequivocabile. Si pensi ancora una volta al principio dell’atipicità dell’illecito disciplinare in
alcuni codici deontologici. Non si comprende né si può accettare questa caratteristica se non alla luce del
fatto che è il ruolo e la funzione che si svolgono a creare degli obblighi. Essi non possono essere tutti
preventivamente ed esaurientemente elencati e sanzionati, come invece si aspetta chi definisce la
responsabilità in termini di sanzionabilità.
Questo tipo di responsabilità difficilmente rientra nello schema tradizionale, che distingue e separa la
responsabilità giuridica, morale e sociale. Quella del ruolo è una forma di responsabilità complessa che non
è soltanto giuridica né esclusivamente morale o sociale, ma tutto questo insieme. La sua specificità è
quella di essere rivolta all’esecuzione di un compito o alla realizzazione di un fine preciso, regolato da un
intreccio di norme di ambiti diversi e direttamente dipendente dalle aspettative sociali. L’etica del ruolo
degli operatori del diritto è, certamente, determinata dal loro inserimento nello spazio ordinato dalla
Costituzione e dalle altre regole giuridiche. Ma essa si alimenta anche dell’evoluzione delle aspettative
sociali. Queste si vanno trasformando, come si è visto, e non sempre è facile farsene carico.
Nella linea di un’integrazione va anche letto, a mio avviso, il contributo dei codici deontologici dei
funzionari pubblici: a fronte di un ambiguo sviluppo che stenta ancora a riconoscere una piena
responsabilità soggettiva ai funzionari (per esempio escludendo la colpa lieve), i codici in un certo senso
compensano questa ambiguità dettagliando comportamenti non concordi con la funzione da svolgere. In
questo modo – forse – si cerca una rilegittimazione di quelle categorie che al cittadino comune talvolta
appaiono radicate nei loro privilegi44.
Avevo detto che non avremmo trovato risposte, ma problemi. Una conclusione si può però trarre: la
risposta alle nuove configurazioni della responsabilità vanno cercate insieme, almeno, insieme ai coloro
che condividono il ruolo. Da qui si può iniziare a ricostruire quelle relazioni sociali che in questi sviluppi
sono andate smarrite e dissolte.
43
H.L.A. Hart, Responsabilità e pena (1968), Edizioni di Comunità, Milano 1980.
G. Cosi sostiene per esempio che ogni attività di codificazione di un’etica professionale ha la funzione di giustificare
socialmente i privilegi della categoria professionale di riferimento. La responsabilità del giurista. Etica e professione
legale, cit., pp. 110-118
44
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