Giovanni Sartori
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Giovanni Sartori
Y A L L A I T A L I A IL MENSILE DELLE SECONDE GENERAZIONI CARO SARTORI, DAVVERO TI FACCIAMO TANTA PAURA? Il professore ha profetizzato sul Corriere che l'Italia avrà a che fare «con una generazione di giovani islamici più inferociti e incattiviti che mai». I giornalisti di Yalla Italia hanno voluto tranquillizzare lui e i suoi lettori. Perché la realtà è molto diversa. E l'integrazione è molto più avanti di quanto possa sembrare dalle pagine dei giornali. Pure tra difficoltà e contrasti. Il vero pericolo sono i verdetti mediatici... 18 Y A L L A I T A L I LA PIGRIZIA INTELLETTUALE DI CHI CHIUDE LE PORTE ALLA REALTÀ DI PAOLO BRANCA EDITORIALE «U na ragazza stava aspettando il suo volo in una sala d’attesa di un grande aeroporto. Siccome avrebbe dovuto aspettare per molto tempo, decise di comprare un libro per ammazzare il tempo. Comprò anche un pacchetto di biscotti. Si sedette nella sala vip per stare più tranquilla. Accanto a lei c’era la sedia con i biscotti e dall’altro lato un giovane di colore che stava leggendo il giornale. Quando cominciò a prendere il primo biscotto, anche il giovane ne prese uno; lei si sentì indignata ma non disse nulla e continuò a leggere il suo libro. Tra lei e lei pensò: «Ma tu guarda che schifo, che arroganza, che maleducazione… se solo avessi un po’ più di coraggio, gliene direi quattro, tornatene al tuo Paese, prima di viaggiare impara ad essere civile...». Così ogni volta che lei prendeva un biscotto, il giovane di colore accanto a lei, senza fare un minimo cenno, ne prendeva uno anche lui. Continuarono fino a che non rimase solo un biscotto e la donna pensò: «Ah, adesso voglio proprio vedere cosa farà…!». Il giovane di colore, prima che lei prendesse l’ultimo biscotto, lo divise a metà! «Ah, questo è troppo», pensò e cominciò a sbuffare ed indignata si alzò di scatto, borbottò a bassa voce «I cafoni dovrebbero restare a casa», prese le sue cose, il libro e la borsa e si incamminò verso l’uscita della sala d’attesa. Quando si sentì un po’ meglio e la rabbia era passata, si sedette su una sedia lungo il corridoio per non attirare troppo l’attenzione e per evitare altri incontri spiacevoli. Chiuse il libro e aprì la borsa per infilarlo dentro quando... nell’aprire la borsa vide che il pacchetto di biscotti era ancora tutto intero nel suo interno. Capì solo allora che il pacchetto di biscotti uguale al suo era del giovane di colore che si era seduto accanto a lei e che però aveva diviso i suoi biscotti con lei senza sentirsi indignato, schifato, nervoso. Al contrario di lei che aveva sbuffato, ma che ora si sentiva sprofondare nella vergogna...». CHI SIAMO Y A L L A I T A L I A Il coordinamento di Yalla Italia è curato da Martino Pillitteri. Hanno collaborato a questo numero: Ouejdane Mejri, 30 anni, tunisina. Insegna al Politecnico Susanna Tamini, 24 anni, Laurea in Lingua Araba e Politica Internazionale Fatima El Harki, 26 anni, di origine marocchina. Master in diritti umani Ouissal Mejri, 29 anni, dottoranda in Studi Teatrali e Cinematografici Rassmea Salah, 25 anni, laureata in studi arabo islamici a Napoli Lubna Ammoune, 19 anni, milanese di origine siriana. Studia farmacia. Randa Ghazy, 22 anni, egiziana. Ha pubblicato 3 libri di successo Karim Bruneo, 23 anni. Master in Economia e Politiche Internazionali Imane Barmaki, marocchina, 23 anni. Perito aeronautico, frequenta il terzo anno di economia. Rania Ibrahim, 33 anni, master in marketing e relazioni pubbliche Shady Hamadi, 21 anni, di origine siriane. Studia scienze politiche Fatima Khachi, 21 anni, di origine marocchina. Studia scienze linguistiche letteratura straniera traduzione Meriem-Faten Dhouib Intendiamoci, di bianchi, neri e gialli maleducati ce ne sono a bizzeffe, ma non c’è alcuna relazione col colore della pelle, con la lingua, l’etnia, la fede religiosa… Lo dice il buonsenso, ancor prima di questa storiella (forse apocrifa) che sta girando su Facebook. Lo dice soprattutto l’esperienza, quella che si fa con le persone in carne ed ossa, non ciò che si crede di sapere leggendo i libri e i giornali. La realtà spesso ci spiazza, perché è già oltre ogni nostra immaginazione. Ali Hassoun, pittore italo-libanese, musulmano sciita, dipingerà il drappellone del prossimo Palio di Siena. Sempre più ragazze musulmane si sposano con italiani che non si convertono all’islam. Giovani di ogni razza e colore si danno da fare per migliorare la società impegnandosi nel volontariato. Un’associazione islamica esprime il suo rammarico per le violenze di cui sono stati fatti oggetto i cristiani egiziani… Buone notizie dal fronte occidentale, ma roba da intenditori, da ricercatori certosini, cose che non passano il muro dell’ignoranza, dell’indifferenza, della stolida pigrizia con cui continuiamo a dividerci per categorie, a chiuderci in gabbie precostituite, a negare spazio alla speranza. Eventi ben più epocali ci hanno spaventato di meno: dalle invasioni barbariche ai Borgia, dall’inquisizione alla strage degli ugonotti… evidentemente il benessere ci ha infiacchiti, addirittura un po’ instupiditi, com’era stato del resto ampiamente previsto: il grande poeta T. S. Eliot già nel 1925 profetizzava «è questo il modo in cui finisce il mondo. Non già con uno schianto ma con un piagnisteo». Con buona pace del professor Giovanni Sartori che dalle colonne del Corriere della Sera pontifica sull’impossibilità dell’integrazione dei musulmani, geneticamente alieni a suo dire, e profetizza disastri nel caso venissero “italianizzati”: fortunatamente il mondo continua a girare e a svilupparsi anche contro il parere di certi “esperti” che per ricredersi basterebbe venissero a trovarci almeno una volta in redazione. A 19 Y A L L A I T A L I A MILANO, EGITTO. L’AVVENTUROSA STORIA SENTIMENTALE DI RANIA E MARCO HO VINTO LA MIA BATTAGLIA DELL’AMORE (SENZA FARE GUERRE) DI RANIA IBRAHIM E ra una mattina di fine luglio 1998. Ero nella mia casa de Il Cairo, sentii i miei genitori discutere in camera a porte chiuse, sul fatto che avevano sbagliato ad agire in quel modo frettoloso, guidato dallo shock e dalla vergogna, e pensai che avevo ancora una speranza. Forse mi avrebbero fatto ritornare in Italia da Marco, dai miei amici, dai miei affetti. Era iniziato tutto a Milano circa due mesi prima. Quel giorno di fine maggio mi resi conto che la situazione sarebbe stata difficile da gestire quando vidi mia madre prendersi istericamente a schiaffi e correndo per casa cercava di strapparsi i vestiti di dosso. In quegli attimi, presa dal panico, continuavo a chiedere a me stessa: che cosa avevo fatto? Per caso avevo ucciso qualcuno? Avevo rubato? Mi avevano trovato con 10 chili di cocaina all’aeroporto? Insomma, non mi spiegavo il perché di quella strana reazione. Tutto sommato avevo solo detto a mia madre: «Mi sono innamorata di Marco, un italiano e per di più non musulmano»; e che ero andata anche un po’ oltre al solito bacio e alla solita carezza, e che lui voleva venire a casa a conoscerli, proprio per dimostrare i suoi buoni intenti. Forse avrei dovuto usare un po’ più di tatto? Non lo so! Fatto sta che la reazione a questo mio “colpo basso”, fu un biglietto aereo di sola andata prenotato all’istante per Il Cairo e una serie interminabile di urla e di litigi. PASSAPORTO ADDIO Da quel momento non ero più la figlia modello, intelligente, brava studentessa, ubbidiente, “mansueta e docile”, che spesso amici e parenti usavano per fare paragoni con le altre mie coetanee, un po’ meno “tranquille”. In pochi attimi ero la vergogna e il disonore della mia famiglia, mia mamma ripeteva sempre: «La gente ci mangerà la faccia, li hai fatti felici a tutti». Sinceramente non capivo a chi si riferisse, ma probabilmente intendeva i conoscenti che vivevano a Milano o forse intendeva i miei parenti con i quali non scorreva proprio un rapporto idilliaco. Arrivati in Egitto, i miei nascosero il mio passaporto. Ora dovevo “solo” sforzarmi di dimenticare tutto: Marco, l’università, i miei amici, insomma in poche parole dovevo cancellare tutto quello che fino ad allora era stato semplicemente la mia vita. Trascorsero due interminabili mesi all’insegna di litigi, momenti di depressione, stress, frustrazione, un clima teso e impregnato da un senso di ingiustizia che provavo giorno dopo giorno. Dovevo solo riflettere e vergognarmi per quello che avevo “combinato”, ripeteva mia mamma. Se penso che per il fattaccio fu anche tirato in ballo l’esorcista-santone di famiglia, oggi mi viene da sorride- Quando ho rivelato ai miei che mi ero innamorata di un italiano non musulmano, è successo il finimondo. Mi hanno portato via il passaporto. Ma poi con pazienza... re… Mi diede l’acqua del Corano da bere, era convinto che qualcuno mi aveva mandato un “Jen” per farmi peccare, per invidia, non so da parte di chi e perché. Dovetti bere infusi su infusi, e soprattutto pregare tanto… per un momento stavo quasi per credere a tutte queste stupidaggini. Mia madre mi fece fare un pellegrinaggio di preghiera in quasi tutte le moschee del Cairo: e forse questo è stato l’unico aspetto positivo in tutta questa storia assurda. Per comunicare con il mio fidanzato, dovevo spedire le lettere in segreto, mandando la donna delle pulizie di nascosto in posta, ripagando il suo silenzio con qualche “ghinee”, un paio di scarpe o un mio vecchio paio di pantaloni. EPPURE I MIEI GENITORI... Eppure i miei genitori erano stati, fino ad allora, abbastanza aperti, mi avevano cresciuto come una qualunque ragazza italiana, ero andata con la scuola qua e la per l’Europa, dormivo con i miei compagni maschi, insomma ero una ragazza come tutte le mie amiche italiane. Nessuna differenza. L’unica forse era che non avevo il passaporto bordeaux, ma verde, con l’aquila in bella vista e il permesso di soggiorno rinnovabile ogni quattro anni, ma all’epoca non c’erano i sentimenti di intolleranza di oggi verso gli stranieri. Non credevo che innamorarsi di un Marco e non di un Mohamed o un Mustafà creasse un’inversione di rotta a 360 gradi, anche perché i miei genitori con me erano stati aperti anche in discussioni riguardanti tematiche che persino per parecchi italiani sono tabù: il sesso, l’omosessualità, l’impotenza sessuale, le droghe… un po’ tutto. Mi avevano cresciuto sin dall’infanzia senza farmi sentire diversa, giocavo in cortile a calcio con i maschi che ho sempre preferito alle femminucce, andavamo in vacanza sulla riviera romagnola negli stessi stabilimenti balneari degli italiani, mia mamma indossava il costume come le altre mamme, in casa si ascoltavano Mina, Tenco, Gianni Nazzaro, Baglioni, ma anche Oum Kalthum, Abdel Halim Hafez. L’arabo l’ho imparato verso i 13 anni, quando mio padre portò a casa la parabola satellitare, che i miei vicini preoccupati credevano fosse un apparecchio spia… Guardavo i Mousalsal, soap opera e i film egiziani… ho iniziato in questo modo a conoscere l’altra parte di me che mi apparteneva di diritto, quella egiziana. Mi innamorai dei film di Omar Sharif, Faten Hamama, Amr Diab, insomma conobbi per la prima volta l’Egitto grazie alla tv. La svolta alla mia esperienza da romanzo credo sia avvenuta quando decisi di parlare in modo diretto e aperto con i miei genitori: io non avrei cambiato idea, coinvolsi parenti, amici di famiglia, persino i vicini di casa, credevo che solo coinvolgendo gli estranei e tranquillizzando i miei genitori avrei risolto la questione… avevano bisogno di sentire che la società non li avrebbe giudicati così negativamente come loro credevano, non dovevano provare quel senso di vergogna che purtroppo alcuni genitori nelle stesse situazioni affrontano, e a volte in modo drammatico, come nel caso di Hina o Sanaa. Bisogna cercare di mediare, mettersi anche nei loro panni e non essere egoisti; confronto e dialogo sono le parole chiave, per lo meno nel mio caso sono state le armi utilizzate per risolvere la situazione. È inutile, anzi controproducente tirare ancora di più la corda, cercando di scappare di casa o comportandosi da “eroina innamorata”. Dissi loro: «Dovevate metterlo in previsione: era molto più probabile che mi potessi innamorare di un italiano visto che vivo in Italia, che di un arabo». Non potevano pretendere che mi comportassi da araba egiziana quando l’Egitto lo avevo conosciuto solo nei villaggi turistici una volta all’anno. Usai tutta la diplomazia possibile… alla fine mi ricordo di mio papà, esausto dalle nostre infinite discussioni, che si presentò con il passaporto in mano e dentro il biglietto aereo per Milano: il volo era previsto per il giorno dopo. Oggi sono sposata con Marco, ho tre bellissimi bambini, sono una cittadina italiana, purtroppo non per “merito”, unico rammarico… è che non mi è stata concessa per i miei 31 anni trascorsi da cittadina modello nel Bel Paese, ma solo perché ho sposato un italiano. Rania, egiziana, è venuta in Italia a due anni. Oggi è sposata con Marco e ha tre figli. 20 Y A L L A I T A L I A LE VITE DEGLI ALTRI. L’ODISSEA DI UN INSEGNANTE IN FUGA DALLA SIRIA HASHIM, IL MIO PROF CHE ORA È CLANDESTINO DI SHADY HAMADI «S hady è la terza volta che ti squilla il telefono, rispondi». Vado a vedere chi continuava a fare persistentemente squillare il mio cellulare.Vedo sullo schermo del telefonino un numero con il prefisso +306, che poi scopro essere quello greco. «Strano!» mi dico, non ho nessun parente o amico in Grecia e vedendo tre chiamate sul mio telefonino decido di richiamare quel numero. Quando dall’altra parte qualcuno ha risposto non volevo credeere alle mie orecchie: era Hashim, il mio insegnante privato di lingua araba ai tempi di quando ero a studiare in Siria. Gli domando: «Hashim, come fai ad essere in Grecia? Tu non hai il passaporto!». E lui ribatte: «Ho trovato un’altra via: della gente, a cui ho pagato 11mila dollari, mi farà arrivare in Italia dove lavorando otterrò la cittadinanza». Quando ero in Siria a studiare arabo, Hashim si era fatto un nome tra noi studenti europei perché era un uomo di cultura e un perfetto insegnante di arabo classico e un giorno decisi anch’io di andare al suo corso. Hashim durante le nostre lezioni, che quasi sempre finivano in chiacchierate di storia e politica, mi aveva raccontato di essere un curdo siriano e che da generazioni c’erano curdi in Siria che non avevano la cittadinanza perché i loro padri o nonni tanti anni fa avevano provato a rivendicare l’autonomia del popolo curdo in Siria e per boicottare il governo decisero di non pagare le tasse. Per tutta risposta il governo li aveva privati della possibi- DI OUISSAL MEJRI U n dvd al giorno toglie l’ansia dell’integrazione di torno. Quando i miei amici stranieri vogliono capire l’Italia, gli consiglio di vedere dei film scritti e diretti da italiani. Un film diverso per ogni circostanza della vita. Ecco la mia rassegna. Ho suggerito Bianco e nero (2007) alla mia amica senegalese Joséphine che ha un ragazzo italiano e che esita a fare il grande passo. Quando l’ho invitata a casa mia a fumare un narghilè, mi aveva detto che era tesa perché avrebbe dovuto conoscere la futura suocera borghese italiana. Bianco e nero in fondo, è un film dove anche se l’Italia esce ancora non prontissima nell’accettare l’unione tra un italiano bianco e una donna africana di colore, lascia bene sperare una donna straniera. L’idea che mi sono fatta dopo aver visto il film è che gli uomini italiani saranno anche tendenzialmente infedeli, ma sono disposti a mettersi contro amici, parenti e colleghi pur di coronare il loro sogno d’amore indipendentemente dal colore della pelle e della religione del partner. Il numero di matrimoni misti è infatti in aumento. Gli uomini italiani saranno pure dei mammoni, ma quando si tratta di amore vero, diventano dei cuor di leone. Poi sono stata a Torino a trovare Aziz, un mio amico di Marrakech. Aziz lavora come manovale in un cantiere edile, non l’hanno ancora messo in regola, eppure sono cinque anni che è in Italia. Il suo sogno è quello di aprire un negozio di fiori e fare composizioni per i matrimoni. Sarà lui ad organizzare le decorazioni floreali per il mio di matrimonio. Voglio solo rose bianche e gigli, e so che farà un ottimo Vedo sul cellulare una telefonata con prefisso strano. Indago. Viene dalla Grecia. Richiamo. Mi risponde un insegnante di arabo dei miei anni siriani. È curdo. È in fuga verso l’Italia. Ha pagato salato un’organizzazione per realizzare questo suo sogno... Che ne sarà di lui? lità di avere la cittadinanza siriana. Qualche giorno dopo decido di chiamare Hashim per sentire come sta. Un paio di squilli e risponde subito. «Pronto Hashim come stai? Come hai fatto ad arrivare in Grecia?». Con voce affannata mi dice: «Tutto bene Shady… quando al confine tra Siria e Turchia agli uomini di questa organizzazione ho pagato il prezzo che avevamo concordato, mi hanno dato un passaporto turco con un visto di entrata in Grecia e mi hanno detto che da lì venire in Italia sarebbe stato un gioco da ragazzi. Ma da giorni sono qua chiuso in una casa. Non ti preoccupare, chiamami domani». Richiamo il giorno dopo ma il cellulare è spento. Provo a chiamare tutti i giorni per 15 giorni. Nulla. Silenzio. Non sapevo dove sbattere la testa e cosa pensare.Quante storie avevo sentito al tg di immigrati che arrivavano dalla Grecia stipati come bestie nei camion! Finalmente dopo settimane che non sentivo Hashim mi sono ritrovato una sua chiamata sul cellulare. Richiamo subito. «Hashim dove sei?»; e lui: «Shady, sono ad Atene. Mi hanno arrestato e messo in carcere perché non avevo i documenti in regola. Sono uscito di prigione non so come, ieri. Ho parlato con gli uomini dell’organizzazione e mi hanno detto che tra 20 giorni sarò a Milano, ma devo aspettare». Ho parlato con Hashim almeno 4 o 5 volte nei successivi 20 giorni per non farlo sentire solo. Il 25 gennaio scorso ho chiamato speranzoso di avere la grande notizia e sono rimasto allibito quando mi ha detto: «Shady mi hanno detto che devo aspettare almeno altri 20 giorni, ancora!». Che dire? Mentre io scrivo queste righe penso al mio professore che è ancora rinchiuso in una casa in Grecia insieme a chissà quanti in attesa della prossima bugia di questi criminali. Ad Hashim è stata negata la cittadinanza in una terra dove è nato e che considera casa sua. È scappato cercando qua in Italia una cittadinanza che viene negata persino a chi è nato qua da genitori immigrati, che parla italiano e non conosce altra cultura se non quella italiana... QUALCHE BUON FILM CONTRO L’ANSIA DA INTEGRAZIONE Quando i miei amici stranieri mi chiedono qualcosa dell’Italia, suggerisco loro di conoscerla attraverso qualche film. E per ognuno ho un titolo adatto. Eccone tre lavoro. È molto bravo, ma a Torino non si è ancora integrato perfettamente e sente la mancanza del suo paese. È difficile per uno straniero riuscire a realizzare i propri sogni. Lui sta un po’ perdendo le speranze; gli ho detto di tenere duro perché nel- la vita tutto è possibile. Ma visto che le mie parole non sono efficaci, in effetti non sono una grande motivatrice, l’ho portato a vedere Lezioni di cioccolato (2007). Dopo tutto, i film ti danno spesso la carica e la licenza di osare nei momenti in cui tutto BIANCO E NERO. Una sequenza del film di Cristina Comencini con Fabio Volo. va storto. Lezioni di cioccolato è un film divertente che, pure se liquida la questione del lavoro in nero in maniera un poco sommaria, fa vedere come - grazie al cioccolato - ci si possa sentire a casa anche in terra straniera. Dalla mia esperienza, gli italiani (a parte i soliti cafoni che esistono in tutti i Paesi) sono grandi quando si tratta di farti sentire a casa tua. Gli chiedi una mano e loro ti offrono un braccio. Questa estate ho trascorso le vacanze a casa, in Tunisia. Un adolescente, che mi aveva sentita parlare al telefono in italiano, mi si avvicinò incuriosito. Voleva sapere se l’Italia è davvero il Paese dei balocchi, concezione tipica che i tunisini hanno dell’Italia prima di visitarla, e se potevo trovargli un lavoro. Gli ho sorriso e gli ho detto che no, l’Italia non è esattamente così. È dura anche per gli italiani. E allora com’è?, ha ribattuto il giovane. A lui ho consigliato di vedersi Cover Boydi Carmine Amoroso. La pellicola racconta con grande sensibilità il rapporto che si instaura tra due uomini, uno rumeno e un italiano, entrambi alle prese con il precariato. L’amicizia che lega i due uomini permette loro di affrontare con più coraggio le preoccupazioni legate al presente e il senso di incertezza nei confronti del futuro. Un rapporto intenso che gli permette di sfidare la vita con poesia continuando a sognare, al punto di desiderare di percorrere all’inverso le rotte dell’immigrazione e andare in Romania ad aprire un ristorante sul Danubio insieme. Un film che la dice tutta sulla condizione lavorativa dell’Italia. Per la cronaca, il giovane che mi aveva approcciata, dopo aver visto il film, è rimasto in Tunisia. 21 Y A L L A I T A L I A ORDINARIA INTEGRAZIONE. LE STORIE DI BOUCHRA E SAMAR: CON IL VELO TRA CD E LIBRI GUARDA CHI C’È ALLA CASSA DI RASSMEA SALAH N atale. Come ogni anno mi si delega il compito di scegliere i regali per i nostri amici o parenti cattolici. E come ogni anno la mia prima ed unica tappa è la libreria Feltrinelli. Dopo un’estenuante attesa in coda, raggiungo l’ambita cassa, alzo lo sguardo per chiedere dei pacchetti regalo e ammutolisco. Di fronte a me, una ragazza col velo. Proprio lì, alla cassa della Feltrinelli in piazza del Duomo a Milano! Una ragazza araba, musulmana, e per giunta velata. Non credo ai miei occhi, forse è un’allucinazione. E invece è tutto vero. Decido quindi di invitarla per un caffè. Lei è Bouchra El Khouti, 33 anni, marocchina. È arrivata in Italia solo nel 2005 dalla piccola città di Kenitra, vicino alla più famosa Casablanca, ma parla già benissimo l’italiano. Moglie e madre di un bimbo di quasi tre anni, lavora alla Feltrinelli dal giugno 2009 grazie a un progetto voluto dalla stessa casa editrice, in collaborazione con il Comune di Milano, dal titolo «Il razzismo è una brutta storia» e volto all’inserimento lavorativo di un gruppo di migranti per accelerarne l’integrazione sociale. Sorride Bouchra e si dice soddisfatta di lavorare in libreria, in mezzo a saggi e romanzi, anche se non è il suo campo. Lei infatti è una donna di scienza, laureata in Ingegneria minerale a Marrakech, dove ha portato a termine anche i suoi studi post laurea in inquinamento ambientale, tema su cui ha poi iniziato un dottorato presso l’università Muhammad V di Ra- DI SUSANNA TAMIMI L Lavora nella più grande libreria milanese. Parla con centinaia di clienti ogni giorno. E incontra tanta simpatia. Anche se ha il capo coperto. E non è la sola... SCIENZIATA MAROCCHINA. Bouchra El Khouti, tra gli scaffali della Feltrinelli di Milano. bat. Insomma, una scienziata fra i libri di narrativa. Le chiedo quale messaggio darebbe a tutte le ragazze velate, nate o cresciute in Italia, che temono di essere discriminate nel mondo del lavoro a causa del velo. «Il velo non è un ostacolo», afferma decisa ma sorridente. «Il messaggio forte che vorrei trasmettere loro è la compatibilità fra la nostra identità islamica e la vita qui in Italia. Bisogna essere sicure di se stesse, convinte della propria religione ma non bisogna per questo isolarsi o ghettizzarsi. Dobbiamo invece essere attive nella società italiana e facilitare la nostra integrazione, avere una mentalità aperta ed essere pronte ad accogliere anche la cultura italiana in certi suoi aspetti. Noi siamo ambasciatrici del nostro Paese d’origine e della nostra religione, dobbiamo quindi dare un’immagine positiva di entrambi, comportandoci al meglio». Bouchra non è la sola ad essersi aggiudicata una borsa lavoro grazie al progetto no chiesto se c’erano altri pediatri - italiani - nella zona. Episodi impensabili prima. Il dottore sorride e non si scoraggia. Sa che la maggior parte dei suoi pazienti gli è affezionata e lo rispetta ed è anche consapevole che i vari dibattiti sull’Islam hanno portato la gente a conoscere meglio questa religione. Per Natale, per esempio, i suoi clienti erano soliti regalargli cestini con bottiglie di champagne e salumi. Regali dall’aspetto invitante di cui lui non poteva godere. Negli ultimi tre Natali, invece, ha ricevuto solo cestini “halal” con bottiglie d’olio, formaggi e panettoni. Gli chiedo se si sente italiano e risponde di sentirsi un medico, un arabo, un musulmano e un italiano. Si sente un uomo che conserva, come tanti altri musulmani, molteplici identità. Qualcuno potrà dire che quest’uomo rappresenta un’eccezione tra tante altre storie differenti: storie di mancata integrazione, di chiusura e fanatismo. Rispondo che l’eccezione in questo caso è lo stato di “straniero”. Essere in un Paese diverso e riuscire a conciliare la propria cultura con il contesto circostante non è mai un processo semplice. Lo dimostrano le varie “little Italy” o “China town” sparse per il mondo, ma non esiste un modo unico di essere straniero. Tra i musulmani, c’è chi si aggrappa alle tradizioni e sceglie di non abbracciare il presente. C’è chi decide di rinnegare tutto ed assumere una nuova identità. Ma c’è anche chi, come il nostro medico, opta per la via di mezzo e sceglie di camminare verso una vera integrazione; un’integrazione basata non sull’alienazione, ma - come da definizione - sull’interazione con l’identità altrui e la partecipazione attiva alla vita comunitaria. DOTTOR ABDEL BASET, PEDIATRA. IL MEDICO DI TUTTI o attendo di fronte alla saracinesca del suo ambulatorio di Cornaredo, una cittadina alla periferia di Milano. L’elegante insegna in ottone comincia a raccontarmi un po’ della sua storia: «Dr. Khader Hamdi Abdel Baset, medico chirurgo specializzato in pediatria». Una voce allegra e cordiale improvvisamente mi distrae: il dottor Abdel Baset è puntualissimo al nostro appuntamento. La sala d’attesa è ancora vuota. Due file di sedie colorate sono disposte a semicerchio attorno ad un ampio tavolino su cui poggiano fogli di carta da parati, pastelli a cera e pennarelli. Il dottor Abdel Baset spalanca la porta del suo studio e, come da tradizione mediorientale, mi offre una tazza di thé. Ci accomodiamo alla sua scrivania. Lo studio ricorda tanti altri ambulatori medici: tante cartacce, un lettino, un computer, una bilancia ed uno scaffale su cui spiccano grossi volumi di medicina. Titoli sconosciuti, in inglese e in italiano, che affiancano un piccolo Corano. Osservo le pareti alla ricerca di qualche altro simbolo religioso, ma il mio sguardo viene catturato dalla moltitudine di doni dei suoi pazienti appesi qua e là: cartoline, disegni, collages... 850: è il numero dei pazienti in cura da lui. La maggior parte italiani, ma anche albanesi, cinesi, rumeni e di altre nazionalità. Tra questi, anche cinquanta persone provenienti dal mondo arabo. Mi racconta delle A Cornaredo, alle porte di Milano, per il servizio sanitario c’è un camice bianco arabo e musulmano. Con 850 pazienti, quasi tutti italiani. Che a Natale hanno smesso di regalargli champagne e salame... mamme e delle loro paure, di come, in fondo, si assomiglino tutte. La prima preoccupazione, di fatto, è la felicità ed il benessere dei loro bambini. Poco conta la diversa dieta alimentare o l’originalità delle singole culture. Khader è arrivato in Italia nel 1968 ed ha studiato a Parma. Ricorda gli anni universitari col sorriso. Anni di festa, rivoluzione e amicizia. Non fece fatica a sentirsi a casa. Oggi, afferma, gli italiani vivono l’arabo in modo differente. Alcuni gli hanno domandato dopo l’11 settembre di vedere il suo certificato di laurea, altri gli han- della Feltrinelli. Insieme a lei vi era anche un’altra ragazza velata, Samar Mustafa, ora alla cassa principale della Ricordi, sotto la centralissima galleria Vittorio Emanuele di Milano. Anche Samar è una scienziata fra i cd: è infatti laureata in Scienze geografiche presso la Cairo University in Egitto. Nata a Milano 26 anni fa, ha però frequentato tutte le scuole in Egitto per poi tornare qui. «Ero la prima della classe all’università», ricorda con orgoglio ed umiltà. La sua storia è contrassegnata da tanti “no” nel mondo del lavoro per via del velo. «Avevo ormai perso ogni speranza. Poi un giorno, la mia insegnante del corso di italiano mi ha riferito di avermi iscritta al progetto “Il razzismo è una brutta storia” e da lì poi è iniziato tutto». Le chiedo di raccontarmi le reazioni dei clienti quando la vedono: «Nessuno mi guarda male, certamente lo fanno con curiosità, qualcuno mi saluta con un assalamu aleykum, altri mi dicono shukran (grazie), altri ancora mi chiedono la mia provenienza oppure mi fanno i complimenti per il mio italiano. Poi ci sono le sciure che mi chiedono se non faccia troppo caldo con il velo ma alla fine mi dicono che sto bene». Probabilmente le varie Bouchra e Samar rappresenteranno una novità ancora per alcuni anni, ma ci auguriamo che fra un decennio, magari meno, noi muslim veline verremo viste e percepite con una certa normalità, come parte integrante della società, senza più suscitare la sorpresa o il clamore di nessuno. 22 Y A L L A I T A L I A LINGUA DI CASA MIA. CONFESSIONI DI UNA MAMMA FILASTROCCA ARABA PER MIO FIGLIO Lui non si meraviglia ta la cultura che c’è dietro. Non parssendo nata nei primi giorni a mio figlio in arabo vuol dire nedi sentirmi parlare in modo lare dell’anno, colgo spesso l’occagargli quei sentimenti che per me diverso dal papà, sione del mio compleanno per vanno espressi nella mia lingua mafare il punto della situazione e capire, dre, che provengono da un cassetto che è italiano. ora che un anno nuovo si coniuga con speciale della mia mente e del mio Anzi, nei suoi borboglii una nuova cifra nella mia età, quali cuore. progetti ho realizzato e quanti invece Quanto al rimanere tunisini, i nasce qualche volta un ho tralasciato. Nei numeri passati di miei discendenti potranno, grazie ad suono decisamente arabo Yalla Italia ho raccontato le mie speuna legge di cui andiamo fieri, riceveranze, i miei sogni ed ho espresso le re la cittadinanza della loro madre, tra le varie vocali latine... mie paure. Rileggendo alcune mie rianche se il padre è non tunisino, diflessioni pubblicate mesi fa mi rendo versamente da altri Paesi arabi che conto che sono stati esauditi tanti di non lo permettono. Questa cittadiquei sogni che a scriverli oggi sarebbero probabilmente nanza non contempla nella sua acquisizione il fattore linsembrati edulcorati. Perché la realtà supera la finzione. Perguistico o tanto meno religioso, come qualcuno vorrebbe ché siamo capaci di fare molto di più di ciò che ci si aspetta invece introdurre nella legislazione italiana. Per approfondi fare. Abbiamo festeggiato il Natale qualche giorno dopo dire l’argomento riprendo in mano alcuni miei vecchi apl’Aid El Kebir (festa principale musulmana) in una famipunti sul libro Islam e libertà di Tariq Ramadan e rileggenglia felicemente riunita e non divisa dalle differenze di relidole mi rendo conto quanto fossi stata ingenua, credulona gione in essa presenti. Oggi canto filastrocche in arabo a ed erroneamente ottimista. Come potevo immaginare mio figlio che non si meraviglia di sentire la mamma parlaun’evoluzione così spaventosa del dibattito sulla presenza re una lingua diversa di quella del papà, anzi nei suoi bordei musulmani in Italia? Pensavo fosse ovvio che le seconde boglii nasce qualche volta un suono decisamente arabo tra generazioni, almeno loro, si sarebbero sentite a casa loro, le varie vocali latine. Ribadisco anche quello che affermavo fra i loro, liberi di credere nel Dio che vogliono cercando di nel numero dei matrimoni misti, che spesso si trova l’aniessere coerenti con ciò in cui credono così come con coloro ma gemella a migliaia di chilometri dal luogo in cui uno nacon i quali vivono e costruiscono il futuro. Invece, le diffisce, appartenente a un’altra cultura o religione, che non socoltà che questo dibattito incontra oggi creano muri che la lo ti completa ma ti arricchisce. comunità musulmana fa fatica a scalare ma che fermano Nel frattempo, mi è stata posta una domanda che mi ha anche tanti tra quegli italiani che vorrebbero costruire inrisvegliato dalle mie conquiste felici e mi ha ributtato nel vece di distruggere. Ho pianto alla lettura delle parole di chi mondo che mi circondava, pieno di dubbi e di controversi è messo di traverso tra il diritto dei figli dei musulmani sie. Su un blog un lettore mi ha chiesto: «Per quante geneimmigrati e il diritto alla cittadinanza. Ho pianto per la trirazioni i suoi discendenti dovranno rimanere tunisini, mustezza, per la rabbia ma soprattutto per lo spavento. sulmani con ascendenze cristiane e parlare anche l’arabo?». Passando dalla felicità di aver raggiunto nel mio piccoProprio in quei giorni di festa, il figlio di un’amica di familo quei sogni che esprimevo, senza però immaginare di viglia, ingegnere informatico immigrato nel Sud californiaverli in prima persona, alla tristezza di chi vede attorno a sé no, era tornato a trascorrere le feste natalizie con sua mamtanto odio, intolleranza e rifiuto dell’altro, non voglio abma. Al suo seguito aveva la moglie statunitense e due merabassare le braccia. Sorrido alla vita che mi sfida e sfida tutti vigliosi bambini di 10 e 12 anni. Una mia vicina era rimaquelli che ieri come oggi non hanno mai voluto accettare sta inorridita dal fatto che i piccoli americani non capissero l’associazione tra l’Italia e la parola razzismo. Sorrido pere non parlassero una parola di italiano. Probabilmente l’itaché rispetto la libertà di ognuno di essere ciò che desidera liano, lingua dei loro nonni - ancora in vita - non è molto iniziando da mio figlio, auspicando che gli altri rispettino utile negli Usa ma perdere una lingua vuol dire smarrire tutanche la mia di libertà. DI OUEJDANE MEJRI E DI IMANE BARMAKI L o confesso: ho nostalgia di mio nonno! Ho sempre avuto qualche attrito con lui, che è imam a Casablanca (lo vedete nella foto): ho 25 anni, non sono ancora sposata (gravissimo!), cerco sempre di essere indipendente, sostengo la causa del femminismo islamico. Insomma, non sono la nipote che un imam desidererebbe. Ricordo con estremo piacere la mia testardaggine, durante l’adolescenza, nel voler dimostrare a mio nonno che Dio non è altro che un’invenzione dell’uomo: se si ricava la causa partendo dal suo effetto si nota che se l’uomo è imperfetto anche la causa che l’ha generato è imperfetta. Erano le mie teorie sul trascendente. Riuscite ad immaginare la scena: un imam davanti alla propria nipote “miscredente”! La sua reazione non è stata delle migliori, ma essendo tutti due testardi, nessuno voleva mollare la propria posizione, anzi ognuno di noi voleva convincere l’altro senza accettare la sua visione. QUEL GRAFFITO SUI MURI DI MONACO DI KARIM BRUNEO «N on amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. (…) Tra loro parlano lingue incomprensibili (…). Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici, ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche». Non sono le righe di un giornale xenofobo. Sono parole estrapolate da una nota contenuta nella relazione sugli immigrati italiani presentata all’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso degli Stati Uniti d’America nel 1912. Nonostante sia passato un secolo, le stesse espressioni, lo stesso linguaggio riecheggiano oggi a volte nel nostro Paese, in modo diffuso, dai bar alle sedi di partiti politici, passando per le istituzioni e la società civile. Il pregiudizio e la paura generano la sensazione che la convivenza con il diverso è impossibile. E, naturalmente, passano in secondo piano (se non direttamente nell’oblìo) i numerosi casi di successo e di integrazione di immigrati, di convivenza pacifica tra italiani e stranieri. In realtà c’è un semplice motivo a causa del quale la tesi del rifiuto non può essere accolta: non si tratta di decidere se aprire o meno le frontiere; la comunità di immigrati in Italia già esiste e in una democrazia il problema della convivenza va gestito nel rispetto dell’individuo. E ancora, non si tratta solo di rispetto dell’altro in qualunque sua forma, ma anche consapevolezza di sé: ognuno di noi è, anche senza volerlo, cittadino del mondo nel suo quotidiano, quel cittadino lucidamente descritto da un noto graffito disegnato a Monaco di Baviera: «Il tuo Cristo è ebreo e la tua democrazia è greca. La tua scrittura è latina e i tuoi numeri sono arabi. La tua auto è giapponese e il tuo caffè è brasiliano. Il tuo orologio è svizzero e il tuo walkman è coreano. La tua pizza è italiana e la tua camicia è hawaiana. Le tue vacanze sono turche, tunisine o marocchine. Cittadino del mondo non rimproverare il tuo vicino di essere... straniero». NONNO, NON TI SEGUO MA TI VOGLIO BENE Lui è imam a Casablanca. Ogni volta che lo vedo mi presenta un candidato marito. Ma poi vinco sempre io... «Sì, non sono ancora sposata! E allora?» Fatto per lui gravissimo: ogni tanto mi trovo coinvolta in incontri che solo mio non- no riesce ad organizzarmi con futuri mariti che non ho mai visto (e che speravo di non vedere!). È meglio di Cupido perché è capace di trovarmi il partner meno adatto in base ai suoi desideri senza considerare minimamente i miei, nella speranza che questo matrimonio «s’Allah da fare». Ma vogliamo parlare di quando ho deciso di fare il perito aeronautico alle superiori? Era veramente difficile per lui accettare che fossi l’unica ragazza della mia classe. Ricordo ancora la telefonata dopo il primo giorno di scuola: «Nonno, sono l’unica ragazza della classe» «Ma sei sicura?» «Sì, ne sono certa!» Non riusciva ad accettare che sua nipote avesse scelto una scuola dove non c’era il problema di separare le femmine dai maschi, perché io ero l’unica femmina. Nemmeno i miei compagni riuscivano ad accettarlo. Non ero accettata nella mia classe non perché ero extracomunitaria ma perché ero una ragazza… cosa ci faceva una ragazza in un istituto aeronautico? La cosa ancora più assurda è che la mia scuola non era attrezzata per esigenze tipiche delle ragazze: nella succursale dove stavamo nel corso del primo anno non aveva nemmeno lo spogliatoio per le ragazze… E chi lo spiegava a mio nonno? Non vi racconto della mia partecipazione al Gay Pride. I frammenti di ricordi sono tanti ma so che i suoi pensieri e le sue emozioni sono il motore di molti dei miei comportamenti e che in qualche modo lui cercava di trasmettermi la sua esperienza senza tenere conto che io potessi navigare controcorrente senza paura e sempre a testa alta. È il suo modo di volermi bene. 23 Y A L L A I T A L I A MUSICA PER TUTTI. IL SUCCESSO DI UN RAPPER SIRIANO... MA ITALIANO ZANKO, L’HIP HOP ISLAMICO È UN CROCEVIA DI DIALETTI DI RANDA GHAZY I l Femyso, acronimo per Forum of European Muslim and Youth Organisations, ha organizzato un concorso per giovani musulmani europei chiamati a esprimere cosa l’Europa significhi per loro. Opere di diversi campi artistici volte a raccontare un’identità europea multidimensionale sono state raccolte in Belgio, Germania, Francia, Gran Bretagna, Svezia, Danimarca, Spagna, Austria, Ucraina e molti altri Paesi europei. Tra i cinque finalisti ce n’era uno dall’Italia. C’era il “nostro” Zanko. Zanko e il suo rap bilingue. Cosa avrà convinto la giuria a premiare proprio lui? Zuhdi, questo il suo vero nome, è nato a Milano da genitori siriani, per poi trasferirsi per alcuni periodi a Parigi e a Montreal. I suoi testi non hanno un particolare legame con il territorio, anche se ammette: «Quando giro il mondo sento che devo tornare a casa. Che devo tornare a Milano». Era in terza media quando la professoressa chiese alla classe di scrivere un pensiero sul razzismo. Zudhi lo scrive in rima. Avvicinandosi quasi casualmente all’hip-hop. Un genere che lui chiama «psicoterapia», una «potenza multiculturale», un genere musicale «democratico» che non è difficile fare, anche se «farlo bene magari è un’altra storia». Un sentimento per cui ha lottato, e che ha acuito il conflitto generazionale e per questo anche culturale con i suoi genitori. In terza media quelle rime sul razzismo, oggi le sue canzoni. Ha anche scritto un pezzo su questo tema, dal titolo «Essere normale» (il video è appena uscito ed è visibile su www.myspace.com/zanco1) discutendo del termine normale, del fatto che l’informazione ottica arrivi prima di quella uditiva. Nella canzone Zanko ci dice che normale significa solo ciò a cui sei abituato, mentre ogni cosa diversa diventa anormale. Per cui Zuhdi, sembrando normale, ovvero non sembrando arabo, non ha mai subìto il “razzismo dell’apparenza”, della fisionomia. Ma il suo impegno civile è continuo: partecipa alla compilation realizzata dalla Rete G2 Zuhdi è il suo vero nome. È nato a Milano da genitori siriani. E a Milano si sente a casa sua. Ma si sente un vero cosmopolita, che mette insieme la musicalità dell’arabo con un genere che non c’entra niente... ZANKO. «MetroCosmoPoliTow» è il suo ultimo cd in collaborazione con il ministero della Solidarietà sociale «Straniero a chi», canta al concerto a Cernusco sul Naviglio in memoria di Abba, ragazzo italiano originario del Burkina Faso ucciso a sprangate da due baristi, un anno fa, dopo aver rubato un pacchetto di biscotti, ed anche il suo ultimo disco è “impegnato”. Si chiama «MetroCosmoPoliTown», e parte dalla voglia di esprimere che la cultura hip hop è moderna, che tutte le metropoli hanno una dimensione cosmopolita. Zanko ha vissuto in quattro metropoli, tra cui Damasco, la più antica del mondo e storicamente cosmopolita, tanto che spesso si chiede, visto il colore chiaro della propria carnagione, chi saranno mai i suoi antenati. L’hip hop si inserisce in questi contesti cosmopoliti, e per questo nel suo cd ha voluto coinvolgere nove artisti di cui sei di origine straniera ma cresciuti in Italia. Si tratta del primo album di un artista di origine straniera cantato sia in italiano che nella propria lingua d’origine ed è l’album più multietnico della storia dell’hip hop in Italia. Zanko crede che la tecnica canora araba sia una delle più raffinate del mondo e che, come si dice in gergo, il “flow”, l’onda sonora prodotta dalle parole, suoni particolarmente bene. Coniuga la musicalità della lingua araba con un genere che non c’entra molto col mondo arabo, e lo fa con disinvoltura, padroneggiando le lingue e i dialetti arabi con naturalezza. E tra le altre cose, fa anche ottime imitazioni di alcuni dei dialetti italiani. Zuhdi è un ragazzo che non ha paura di essere quello che è, e che, anziché dividere il mondo tra bianco e nero, sceglie una scala di grigi. Come lui stesso ammette, «non esiste niente di assoluto, nessuno è perfetto. Il mondo musulmano deve fare autocritica, ma anche la società occidentale ha un sacco di falle». Invece il momento storico, con il presunto scontro di civiltà, convince tutti a «mantenere una posizione campanilistica, nel timore che la tua gente venga meno», Ma Zanko, no. Parla mille dialetti e preferisce la scala di grigi. NIENTE PAURE, LA REALTÀ È PIÙ AVANTI DI QUANTO PENSIAMO DI LUBNA AMMOUNE L a realtà è più avanti di quanto pensiamo. Appena pochi anni fa ero sempre in terza o quarta fila, ascoltavo i relatori alle conferenze e annotavo i pensieri che più mi colpivano. Puntualmente ero tentata di porre una domanda a chi era intervenuto ma poi mi nascondevo per l’emozione. Quando ho conosciuto il mondo di Yalla qualcosa è cambiato, improvvisamente, da un giorno all’altro. Mi è stato svelato un lembo del mio futuro, quasi fosse una profezia. Allora ero incredula, oggi lo sono ancora, perché mi avevano avvisato che un giorno sarei stata io dall’altra parte del palco, con un pubblico davanti ad ascoltarmi. Oltre all’esperienza di scrittura nata con Yalla Italia nella mia vita è cambiato qualcosa che mai avrei immaginato. Preferisco esprimermi con la penna che oralmente, ma qualcuno non ha esitato a incoraggiarmi e ho vinto i miei timori, an- che se prima di avvicinare le labbra al microfono riemerge sempre il batticuore. Ho iniziato a raccontare la mia esperienza e ho capito l’importanza di prendere la parola in pubblico. La vivo come una grande responsabilità ed è una sfida che si presenta spesso, permettendoci, insieme, di varcare la soglia. Così come cerchiamo di farlo con il nostro inserto mensile, lavoriamo per trasmettere un messaggio di normalità e pluralità nelle realtà che ci chiamano. Ricordo che alle prime conferenze venivano poste domande che riguardavano argomenti a noi ampiamente noti, intimamente vissuti e quotidianamente approfonditi. Le domande? «Perché porti il velo? È una tua libera scelta?»; «Pensi di essere integrata in Italia?»; «Ti senti italiana o siriana?»; «Hai vissuto crisi d’identità?»; «Ti senti discriminata?». Domande legittime, anche se a volte, nel corso della mia esposizione, avevo suggerito le risposte. Effettivamente trovarsi una nuova italiana o un nuovo italiano come siamo noi di Yalla, non lascia indifferenti. Ma di fronte a queste domande i media sono rimasti indietro. Disquisiscono sull’integrabilità dei musulmani e scriviamo seconda generazione d’immigrati (riferendoci anche a ragazzi nati e cresciuti in Italia), senza capire che non per questo le menti dei più si sono fermate. Anzi, fuori dalla nostra porta esistono un’infinità di anime interessate, curiose e appassionate che sono andate oltre. Pensavo di dire qualcosa di nuovo dichiarando di essere una cittadina europea di fede musulamana mentre il pubblico, che dà per scontato la nostra cittadinanza italiana, incalza con domande che vanno oltre le mie aspettative, a volte anche troppo impegnative perché richiedono più specializzazione di quanto ne abbia io, appena ventenne. «Credete che a livello legislativo ci possano essere dei punti critici in rapporto al diritto islamico?»; «Come sarà la società di domani?»; «Che contributo di mediatori pensate di dare alla nostra realtà?»; «Quali sono le dinamiche nelle coppie miste?». Ascolto i quesiti, cerco supporto nei consigli del professor Branca che è l’anima del nostro inserto e che non esita mai a mostrarci quanto creda in noi. Osservo i volti di chi è nell’aula, nascono anche delle intese di sguardi e penso che non siamo eroi. Non siamo neanche missionari. Vogliamo semplicemente cambiare le percezioni, discutere e far discutere per capire. Fino a qualche tempo fa concludevo le mie testimonianze affermando che andrei a dormire molto più serenamente sapendo di aver cambiato la percezione anche solo di una persona attraverso i nostri racconti. Ora guardo avanti con più fiducia che mai, perché al contrario di quanto vogliono farci credere, la realtà è molto più avanti di quanto pensiamo. 24 Y A L L A I T A L I A UN SOGNO NEL CASSETTO. FATIMA È NATA IN MAROCCO, MA NON SI ARRENDE... SCOMMETTI CHE UN GIORNO SARÒ MARESCIALLO? DI FATIMA KHACHI «M aresciallo Khachi». Questo è l’appellativo che più di tutti mi sta a cuore, la frase per la quale sarei disposta a tutto (quasi tutto) pur di sentirla. È il mio sogno ma che voglio diventi la mia realtà. Sono disposta ad affrontare qualunque ostacolo, dalla mia famiglia alla maledetta burocrazia. Quando confido questo mio desiderio/volontà, ricevo quasi sempre commenti di sorpresa che, nella maggior parte dei casi, si riassumono nella solita espressione «Ma sei pazza?». È perché mai dovrei esserlo? Io non ci trovo nulla di così strano. È un lavoro come tutti gli altri, magari con qualche particolarità, che quindi lo rende più accattivante, almeno per quanto mi riguarda. Probabilmente suona molto strano all’orecchio che una ragazza aspiri così tanto a far parte delle Forze armate italiane, ma la sorpresa è dovuta soprattutto alle mie origini arabo- musulmane, come se queste caratteristiche fossero inconciliabili con l’essere maresciallo. Questa credenza è assolutamente assurda e spero che ci siano altre persone che mi aiutino a dimostrarne l’invalidità con la pratica. Il mio sogno più grande è di vedere un giorno una donna in divisa e con il velo. Io comunque non ci trovo nulla di così strano nel volere diventare maresciallo. È il mio sogno sin da bambina e adesso che sono abbastanza grande voglio realizzarlo. Peccato che ci sia un “piccolo” ma determinante impedimento: la cittadinanza, che non ho ma che devo ottenere il più presto possibile. Non sarà certo la burocrazia a fermarmi perché io devo diventare maresciallo e soprattutto indossare la divisa. Quel giorno sarà il più importante della mia vita, forse anche più del giorno del mio matrimonio. Mai avrei pensato che la mia vita avrebbe preso una tale piega: da quando ero piccola e vivevo ancora in Marocco, sognavo di diventare poliziotto ma la cosa mi sembrava così lontana, quasi irrealizzabile, tant’è vero che mi vergognavo a confidarlo ai miei amici e famigliari. Invece oggi sto scrivendo un articolo e sto comunicando al mondo intero questo mio desiderio. Grazie Italia! Questa è la cosa più bella che ho ricevuto da questo meravi- DI FATIMA EL HARKI S ono di famiglia musulmana, ma non potrei essere me stessa senza il Natale. Il Natale mi ha sempre affascinata sin da piccolina, mi piace la curiosità negli occhi dei bambini, l’attesa con cui aspettano Babbo Natale e la Befana. Mi piace l’illuminazione che colora tutte le realtà di arcobaleno. La magia che si respira nell’aria, l’atmosfera che riempie il cuore di gioia e di allegria. La predisposizione ad essere più buoni e migliori, evitando di arrabbiarsi, perché sembra non ci sia nulla di tanto importante da poter togliere il sorriso. In famiglia non festeggiamo il Natale solo per quanto riguarda gli addobbi natalizi e la cerimonia in Chiesa; per il resto, forse anche involontariamente, il Natale è presente anche in casa mia. La cosa che più adoro è fare il presepe, sia quello in casa con le statuine sia quello vivente che organizziamo nel mio paesino. La mia amica del cuore conoscendo questa mia passione, tutti gli anni, mi chiama a casa sua a fare l’albero e il presepe. Mi sembra di tornare bambina, a quella spensieratezza e serenità con cui i più «Ma sei pazza?», mi dicono quando spiego cosa voglio fare “da grande”. Voglio la divisa. E la voglio italiana. Unico problema: non ho la cittadinanza. Ma amo troppo questo mio secondo Paese. Per cui alla fine la spunterò. Sono sicura... glioso Paese: la libertà di sognare e la possibilità di realizzare i miei sogni. Sono perfettamente certa che se avessi continuato a trascorrere la mia vita intera in Marocco, non avrei mai avuto il coraggio di aspirare a diventare maresciallo. Se lo sapesse mia nonna o i miei zii verrebbe loro l’infarto! Ma io stessa sarei stata diversa e meno combattiva, anche se le condizioni, almeno burocratiche, sarebbero state favorevoli. Infatti non avrei avuto il problema della cittadinanza. Invece in Italia è il contrario, essendo quest’ultima l’unico ostacolo. È giustissimo che per far parte delle Forze amate il Paese riconosca solo i figli dello suo sangue. Anch’io sono una figlia, seppure acquisita ma non ancora riconosciuta, come tanti altri figli rinnegati per le complicate procedure per “legittimarsi”. Hanno ragione le persone che mi stanno attorno a dirmi che sono italiana più di quanto credessi. Io voglio poter difendere il mio secondo Paese, la mia gente, con la quale ho condiviso e condividerò anche in futuro i momenti più importanti della vita, belli e brutti. Il mio futuro è qui, volente o nolente, così come quello di numerose altre persone che si trovano nella mia condizione d’immigrata di seconda generazione. Bisogna pur rimediare alla costante fuga dei cervelli dei figli legittimi della madre Italia, no? A ME PIACE IL PRESEPE (E FAREI SEMPRE LA PASTORELLA) Sono di famiglia musulmana, ma non potrei essere me stessa senza il Natale. Mi piace ritornare nella Betlemme di quei tempi e rivivere quella storia che tutti conosciamo... piccoli riescono a vivere il presente senza preoccupazioni e senza proiezioni verso il futuro o il passato. Per quanto riguarda il presepe vivente, questa realtà si ripete nel mio paesino oramai da decenni. Quando ero piccolina ho iniziato facendo l’angioletto e cantando canzoni al Bambin Gesù. Crescendo ho sempre fatto la pastorella. Nonostante passino gli anni, la sera della vigilia continua ad essere una delle serate che nell’arco dell’anno preferisco. So che quella sera sarà speciale, che ci sarà quell’atmosfera propria del Natale. Mi piace ritornare nel passato, nella Betlemme di quei tempi antichi e rivivere quella storia che tutti noi conosciamo. Maria gravida sull’asino con Giuseppe che la guida di locanda in locanda per trovare un luogo dove far nascere quella creatura così speciale, che finirà per venire al mondo in una gelida stalla, riscaldata però dal calore degli animali e delle persone che da subito si accingono a portare doni a quella, già, meravigliosa creatura. Amo il Natale e le tradizioni che si ri- Fatima Khachi 21 anni: il sogno di vestire la divisa. petono tutti gli anni allo stesso modo, ma che regalano sempre nuove emozioni. L’unica cosa che non amo sono i regali, non mi piace farne e nemmeno riceverli, questa è la cosa che, secondo me, allontana dall’essenza del Natale e lo rende una festa “commerciale”. Mi dispiace anche, quando le persone non mi porgono gli auguri perché sanno che sono marocchina e allora partono dal presupposto che io sia musulmana e che dunque il Natale non possa essere una festa per me. Ognuno può interpretare questo mio amore per il Natale a suo piacimento o come gli torna più comodo. Io non so cosa sia, so solo che questo non mi fa sentire meno musulmana o più cattolica, non mi rende più italiana o meno marocchina, semplicemente amo il Natale. Amo il Natale come si può amare un giocatore di calcio, un quadro o una canzone che segna così profondamente la nostra esistenza e senza la quale la nostra vita avrebbe sicuramente un senso diverso. Amo il Natale e mi manca tanto quando, per un qualsiasi motivo, non riesco a passare la Vigilia di Natale a Pietracolora, il paesino dove vivo.