Giovanni Sartori

Transcript

Giovanni Sartori
Y A L L A
I
T
A
L
I
A
IL MENSILE
DELLE SECONDE
GENERAZIONI
CARO SARTORI,
DAVVERO TI FACCIAMO
TANTA PAURA?
Il professore ha profetizzato sul Corriere che l'Italia avrà a che fare
«con una generazione di giovani islamici più inferociti e incattiviti
che mai». I giornalisti di Yalla Italia hanno voluto tranquillizzare lui
e i suoi lettori. Perché la realtà è molto diversa. E l'integrazione è molto
più avanti di quanto possa sembrare dalle pagine dei giornali. Pure tra
difficoltà e contrasti. Il vero pericolo sono i verdetti mediatici...
18
Y
A
L
L
A
I
T
A
L
I
LA PIGRIZIA INTELLETTUALE
DI CHI CHIUDE LE PORTE ALLA REALTÀ
DI PAOLO BRANCA
EDITORIALE
«U
na ragazza stava aspettando il suo volo in una sala d’attesa di
un grande aeroporto. Siccome avrebbe dovuto aspettare per
molto tempo, decise di comprare un libro per ammazzare il
tempo. Comprò anche un pacchetto di biscotti. Si sedette nella sala vip
per stare più tranquilla. Accanto a lei c’era la sedia con i biscotti e
dall’altro lato un giovane di colore che stava leggendo il giornale. Quando
cominciò a prendere il primo biscotto, anche il giovane ne prese uno; lei
si sentì indignata ma non disse nulla e continuò a leggere il suo libro. Tra
lei e lei pensò: «Ma tu guarda che schifo, che arroganza, che
maleducazione… se solo avessi un po’ più di coraggio, gliene direi
quattro, tornatene al tuo Paese, prima di viaggiare impara ad essere
civile...». Così ogni volta che lei prendeva un biscotto, il giovane di colore
accanto a lei, senza fare un minimo cenno, ne prendeva uno anche lui.
Continuarono fino a che non rimase solo un biscotto e la donna pensò:
«Ah, adesso voglio proprio vedere cosa farà…!». Il giovane di colore,
prima che lei prendesse l’ultimo biscotto, lo divise a metà! «Ah, questo è
troppo», pensò e cominciò a sbuffare ed indignata si alzò di scatto,
borbottò a bassa voce «I cafoni dovrebbero restare a casa», prese le sue
cose, il libro e la borsa e si incamminò verso l’uscita della sala d’attesa.
Quando si sentì un po’ meglio e la rabbia era passata, si sedette su una
sedia lungo il corridoio per non attirare troppo l’attenzione e per evitare
altri incontri spiacevoli. Chiuse il libro e aprì la borsa per infilarlo dentro
quando... nell’aprire la borsa vide che il pacchetto di biscotti era ancora
tutto intero nel suo interno. Capì solo allora che il pacchetto di biscotti
uguale al suo era del giovane di colore che si era seduto accanto a lei e che
però aveva diviso i suoi biscotti con lei senza sentirsi indignato, schifato,
nervoso. Al contrario di lei che aveva sbuffato, ma che ora si sentiva
sprofondare nella vergogna...».
CHI SIAMO
Y A L L A
I
T
A
L
I
A
Il coordinamento di Yalla Italia è
curato da Martino Pillitteri.
Hanno collaborato a questo numero:
Ouejdane Mejri, 30 anni, tunisina.
Insegna al Politecnico
Susanna Tamini, 24 anni, Laurea in
Lingua Araba e Politica Internazionale
Fatima El Harki, 26 anni, di origine
marocchina. Master in diritti umani
Ouissal Mejri, 29 anni, dottoranda
in Studi Teatrali e Cinematografici
Rassmea Salah, 25 anni, laureata in
studi arabo islamici a Napoli
Lubna Ammoune, 19 anni, milanese
di origine siriana. Studia farmacia.
Randa Ghazy, 22 anni, egiziana. Ha
pubblicato 3 libri di successo
Karim Bruneo, 23 anni. Master in
Economia e Politiche Internazionali
Imane Barmaki, marocchina,
23 anni. Perito aeronautico,
frequenta il terzo anno di economia.
Rania Ibrahim, 33 anni, master in
marketing e relazioni pubbliche
Shady Hamadi, 21 anni, di origine
siriane. Studia scienze politiche
Fatima Khachi, 21 anni, di origine
marocchina. Studia scienze
linguistiche letteratura straniera
traduzione Meriem-Faten Dhouib
Intendiamoci, di bianchi, neri e gialli maleducati ce ne sono a
bizzeffe, ma non c’è alcuna relazione col colore della pelle, con la lingua,
l’etnia, la fede religiosa… Lo dice il buonsenso, ancor prima di questa
storiella (forse apocrifa) che sta girando su Facebook. Lo dice soprattutto
l’esperienza, quella che si fa con le persone in carne ed ossa, non ciò che si
crede di sapere leggendo i libri e i giornali.
La realtà spesso ci spiazza, perché è già oltre ogni nostra
immaginazione. Ali Hassoun, pittore italo-libanese, musulmano sciita,
dipingerà il drappellone del prossimo Palio di Siena. Sempre più ragazze
musulmane si sposano con italiani che non si convertono all’islam.
Giovani di ogni razza e colore si danno da fare per migliorare la società
impegnandosi nel volontariato. Un’associazione islamica esprime il suo
rammarico per le violenze di cui sono stati fatti oggetto i cristiani
egiziani…
Buone notizie dal fronte occidentale, ma roba da intenditori, da
ricercatori certosini, cose che non passano il muro dell’ignoranza,
dell’indifferenza, della stolida pigrizia con cui continuiamo a dividerci per
categorie, a chiuderci in gabbie precostituite, a negare spazio alla
speranza.
Eventi ben più epocali ci hanno spaventato di meno: dalle invasioni
barbariche ai Borgia, dall’inquisizione alla strage degli ugonotti…
evidentemente il benessere ci ha infiacchiti, addirittura un po’ instupiditi,
com’era stato del resto ampiamente previsto: il grande poeta T. S. Eliot
già nel 1925 profetizzava «è questo il modo in cui finisce il mondo. Non
già con uno schianto ma con un piagnisteo».
Con buona pace del professor Giovanni Sartori che dalle colonne del
Corriere della Sera pontifica sull’impossibilità dell’integrazione dei
musulmani, geneticamente alieni a suo dire, e profetizza disastri nel caso
venissero “italianizzati”: fortunatamente il mondo continua a girare e a
svilupparsi anche contro il parere di certi “esperti” che per ricredersi
basterebbe venissero a trovarci almeno una volta in redazione.
A
19
Y
A
L
L
A
I
T
A
L
I
A
MILANO, EGITTO. L’AVVENTUROSA STORIA SENTIMENTALE DI RANIA E MARCO
HO VINTO LA MIA BATTAGLIA
DELL’AMORE
(SENZA FARE GUERRE)
DI RANIA IBRAHIM
E
ra una mattina di fine luglio
1998. Ero nella mia casa de Il
Cairo, sentii i miei genitori
discutere in camera a porte
chiuse, sul fatto che avevano
sbagliato ad agire in quel modo frettoloso,
guidato dallo shock e dalla vergogna, e
pensai che avevo ancora una speranza.
Forse mi avrebbero fatto ritornare in Italia
da Marco, dai miei amici, dai miei affetti.
Era iniziato tutto a Milano circa due
mesi prima. Quel giorno di fine maggio
mi resi conto che la situazione sarebbe stata difficile da gestire quando vidi mia madre prendersi istericamente a schiaffi e
correndo per casa cercava di strapparsi i
vestiti di dosso. In quegli attimi, presa dal
panico, continuavo a chiedere a me stessa:
che cosa avevo fatto? Per caso avevo ucciso
qualcuno? Avevo rubato? Mi avevano trovato con 10 chili di cocaina all’aeroporto?
Insomma, non mi spiegavo il perché di
quella strana reazione. Tutto sommato
avevo solo detto a mia madre: «Mi sono
innamorata di Marco, un italiano e per di
più non musulmano»; e che ero andata
anche un po’ oltre al solito bacio e alla solita carezza, e che lui voleva venire a casa a
conoscerli, proprio per dimostrare i suoi
buoni intenti. Forse avrei dovuto usare un
po’ più di tatto? Non lo so! Fatto sta che la
reazione a questo mio “colpo basso”, fu un
biglietto aereo di sola andata prenotato all’istante per Il Cairo e una serie interminabile di urla e di litigi.
PASSAPORTO ADDIO
Da quel momento non ero più la figlia
modello, intelligente, brava studentessa,
ubbidiente, “mansueta e docile”, che spesso amici e parenti usavano per fare paragoni con le altre mie coetanee, un po’ meno “tranquille”. In pochi attimi ero la vergogna e il disonore della mia famiglia, mia
mamma ripeteva sempre: «La gente ci
mangerà la faccia, li hai fatti felici a tutti».
Sinceramente non capivo a chi si riferisse, ma probabilmente intendeva i conoscenti che vivevano a Milano o forse intendeva i miei parenti con i quali non scorreva proprio un rapporto idilliaco. Arrivati
in Egitto, i miei nascosero il mio passaporto. Ora dovevo “solo” sforzarmi di dimenticare tutto: Marco, l’università, i miei
amici, insomma in poche parole dovevo
cancellare tutto quello che fino ad allora
era stato semplicemente la mia vita. Trascorsero due interminabili mesi all’insegna di litigi, momenti di depressione,
stress, frustrazione, un clima teso e impregnato da un senso di ingiustizia che provavo giorno dopo giorno.
Dovevo solo riflettere e vergognarmi
per quello che avevo “combinato”, ripeteva mia mamma. Se penso che per il fattaccio fu anche tirato in ballo l’esorcista-santone di famiglia, oggi mi viene da sorride-
Quando ho rivelato ai miei che mi ero innamorata di
un italiano non musulmano, è successo il finimondo.
Mi hanno portato via il passaporto. Ma poi con pazienza...
re… Mi diede l’acqua del Corano da bere,
era convinto che qualcuno mi aveva mandato un “Jen” per farmi peccare, per invidia, non so da parte di chi e perché.
Dovetti bere infusi su infusi, e soprattutto pregare tanto… per un momento
stavo quasi per credere a tutte queste stupidaggini. Mia madre mi fece fare un pellegrinaggio di preghiera in quasi tutte le
moschee del Cairo: e forse questo è stato
l’unico aspetto positivo in tutta questa storia assurda. Per comunicare con il mio fidanzato, dovevo spedire le lettere in segreto, mandando la donna delle pulizie di nascosto in posta, ripagando il suo silenzio
con qualche “ghinee”, un paio di scarpe o
un mio vecchio paio di pantaloni.
EPPURE I MIEI GENITORI...
Eppure i miei genitori erano stati, fino ad
allora, abbastanza aperti, mi avevano cresciuto come una qualunque ragazza italiana, ero andata con la scuola qua e la per
l’Europa, dormivo con i miei compagni
maschi, insomma ero una ragazza come
tutte le mie amiche italiane. Nessuna differenza. L’unica forse era che non avevo il
passaporto bordeaux, ma verde, con l’aquila in bella vista e il permesso di soggiorno rinnovabile ogni quattro anni, ma all’epoca non c’erano i sentimenti di intolleranza di oggi verso gli stranieri.
Non credevo che innamorarsi di un
Marco e non di un Mohamed o un Mustafà creasse un’inversione di rotta a 360
gradi, anche perché i miei genitori con me
erano stati aperti anche in discussioni riguardanti tematiche che persino per parecchi italiani sono tabù: il sesso, l’omosessualità, l’impotenza sessuale, le droghe… un po’ tutto. Mi avevano cresciuto sin dall’infanzia senza farmi
sentire diversa, giocavo in cortile
a calcio con i maschi che ho
sempre preferito alle femminucce, andavamo in vacanza sulla riviera romagnola negli stessi stabilimenti balneari degli italiani, mia
mamma indossava il costume come le altre mamme, in casa si ascoltavano Mina,
Tenco, Gianni Nazzaro, Baglioni, ma anche Oum Kalthum, Abdel Halim Hafez.
L’arabo l’ho imparato verso i 13 anni,
quando mio padre portò a casa la parabola satellitare, che i miei vicini preoccupati
credevano fosse un apparecchio spia…
Guardavo i Mousalsal, soap opera e i film
egiziani… ho iniziato in questo modo a
conoscere l’altra parte di me che mi apparteneva di diritto, quella egiziana. Mi innamorai dei film di Omar Sharif, Faten Hamama, Amr Diab, insomma conobbi per
la prima volta l’Egitto grazie alla tv.
La svolta alla mia esperienza da romanzo credo sia avvenuta quando decisi
di parlare in modo diretto e aperto con i
miei genitori: io non avrei cambiato idea,
coinvolsi parenti, amici di famiglia, persino i vicini di casa, credevo che solo coinvolgendo gli estranei e tranquillizzando i
miei genitori avrei risolto la questione…
avevano bisogno di sentire che la società
non li avrebbe giudicati così negativamente come loro credevano, non dovevano provare quel senso di vergogna che purtroppo alcuni
genitori nelle stesse situazioni
affrontano, e a volte in modo drammatico, come nel
caso di Hina o Sanaa.
Bisogna cercare di
mediare, mettersi anche
nei loro panni e non essere egoisti; confronto e dialogo sono le
parole chiave, per lo
meno nel mio caso sono state le armi utilizzate per risolvere la situazione. È inutile, anzi
controproducente tirare
ancora di più la corda, cercando di scappare di casa o
comportandosi da “eroina innamorata”. Dissi loro: «Dovevate metterlo in previsione: era
molto più probabile che mi potessi innamorare di un italiano
visto che vivo in Italia, che di
un arabo». Non potevano
pretendere
che mi comportassi da araba egiziana
quando l’Egitto lo avevo conosciuto solo
nei villaggi turistici una volta all’anno.
Usai tutta la diplomazia possibile… alla
fine mi ricordo di mio papà, esausto dalle
nostre infinite discussioni, che si presentò
con il passaporto in mano e dentro il biglietto aereo per Milano: il volo era previsto per il giorno dopo. Oggi sono sposata
con Marco, ho tre bellissimi bambini, sono una cittadina italiana, purtroppo non
per “merito”, unico rammarico… è che
non mi è stata concessa per i miei 31 anni
trascorsi da cittadina modello nel Bel Paese, ma solo perché ho sposato un italiano.
Rania, egiziana, è venuta in Italia a due anni.
Oggi è sposata con Marco e ha tre figli.
20
Y
A
L
L
A
I
T
A
L
I
A
LE VITE DEGLI ALTRI. L’ODISSEA DI UN INSEGNANTE IN FUGA DALLA SIRIA
HASHIM, IL MIO PROF
CHE ORA È CLANDESTINO
DI SHADY HAMADI
«S
hady è la terza volta che ti squilla il telefono,
rispondi». Vado a vedere chi continuava a fare persistentemente squillare il mio cellulare.Vedo sullo schermo del telefonino un numero con il
prefisso +306, che poi scopro essere quello greco. «Strano!» mi dico, non ho nessun parente o amico in Grecia
e vedendo tre chiamate sul mio telefonino decido di richiamare quel numero. Quando dall’altra parte qualcuno ha risposto non volevo credeere alle mie orecchie:
era Hashim, il mio insegnante privato di lingua araba ai
tempi di quando ero a studiare in Siria. Gli domando:
«Hashim, come fai ad essere in Grecia? Tu non hai il passaporto!». E lui ribatte: «Ho trovato un’altra via: della
gente, a cui ho pagato 11mila dollari, mi farà arrivare in
Italia dove lavorando otterrò la cittadinanza».
Quando ero in Siria a studiare arabo, Hashim si era
fatto un nome tra noi studenti europei perché era un
uomo di cultura e un perfetto insegnante di arabo classico e un giorno decisi anch’io di andare al suo corso.
Hashim durante le nostre lezioni, che quasi sempre finivano in chiacchierate di storia e politica, mi aveva raccontato di essere un curdo siriano e che da generazioni
c’erano curdi in Siria che non avevano la cittadinanza
perché i loro padri o nonni tanti anni fa avevano provato a rivendicare l’autonomia del popolo curdo in Siria e
per boicottare il governo decisero di non pagare le tasse.
Per tutta risposta il governo li aveva privati della possibi-
DI OUISSAL MEJRI
U
n dvd al giorno toglie l’ansia dell’integrazione di torno.
Quando i miei amici stranieri vogliono
capire l’Italia, gli consiglio di vedere dei
film scritti e diretti da italiani. Un film diverso per ogni circostanza della vita. Ecco
la mia rassegna.
Ho suggerito Bianco e nero (2007) alla mia amica senegalese Joséphine che ha
un ragazzo italiano e che esita a fare il
grande passo. Quando l’ho invitata a casa
mia a fumare un narghilè, mi aveva detto
che era tesa perché avrebbe dovuto conoscere la futura suocera borghese italiana.
Bianco e nero in fondo, è un film dove anche se l’Italia esce ancora non prontissima
nell’accettare l’unione tra un italiano
bianco e una donna africana di colore, lascia bene sperare una donna straniera. L’idea che mi sono fatta dopo aver visto il
film è che gli uomini italiani saranno anche tendenzialmente infedeli, ma sono
disposti a mettersi contro amici, parenti e
colleghi pur di coronare il loro sogno d’amore indipendentemente dal colore della pelle e della religione del partner. Il numero di matrimoni misti è infatti in aumento. Gli uomini italiani saranno pure
dei mammoni, ma quando si tratta di
amore vero, diventano dei cuor di leone.
Poi sono stata a Torino a trovare Aziz,
un mio amico di Marrakech. Aziz lavora
come manovale in un cantiere edile, non
l’hanno ancora messo in regola, eppure
sono cinque anni che è in Italia. Il suo sogno è quello di aprire un negozio di fiori e
fare composizioni per i matrimoni. Sarà
lui ad organizzare le decorazioni floreali
per il mio di matrimonio. Voglio solo rose bianche e gigli, e so che farà un ottimo
Vedo sul cellulare una telefonata con
prefisso strano. Indago. Viene dalla
Grecia. Richiamo. Mi risponde un
insegnante di arabo dei miei anni
siriani. È curdo. È in fuga verso
l’Italia. Ha pagato salato
un’organizzazione per realizzare questo
suo sogno... Che ne sarà di lui?
lità di avere la cittadinanza siriana.
Qualche giorno dopo decido di chiamare Hashim
per sentire come sta. Un paio di squilli e risponde subito. «Pronto Hashim come stai? Come hai fatto ad arrivare in Grecia?». Con voce affannata mi dice: «Tutto bene Shady… quando al confine tra Siria e Turchia agli
uomini di questa organizzazione ho pagato il prezzo che
avevamo concordato, mi hanno dato un passaporto turco con un visto di entrata in Grecia e mi hanno detto
che da lì venire in Italia sarebbe stato un gioco da ragazzi. Ma da giorni sono qua chiuso in una casa. Non ti
preoccupare, chiamami domani».
Richiamo il giorno dopo ma il cellulare è spento.
Provo a chiamare tutti i giorni per 15 giorni. Nulla. Silenzio. Non sapevo dove sbattere la testa e cosa pensare.Quante storie avevo sentito al tg di immigrati che arrivavano dalla Grecia stipati come bestie nei camion! Finalmente dopo settimane che non sentivo Hashim mi
sono ritrovato una sua chiamata sul cellulare.
Richiamo subito. «Hashim dove sei?»; e lui: «Shady,
sono ad Atene. Mi hanno arrestato e messo in carcere
perché non avevo i documenti in regola. Sono uscito di
prigione non so come, ieri. Ho parlato con gli uomini
dell’organizzazione e mi hanno detto che tra 20 giorni
sarò a Milano, ma devo aspettare».
Ho parlato con Hashim almeno 4 o 5 volte nei successivi 20 giorni per non farlo sentire solo. Il 25 gennaio
scorso ho chiamato speranzoso di avere la grande notizia e sono rimasto allibito quando mi ha detto: «Shady
mi hanno detto che devo aspettare almeno altri 20 giorni, ancora!».
Che dire? Mentre io scrivo queste righe penso al mio
professore che è ancora rinchiuso in una casa in Grecia
insieme a chissà quanti in attesa della prossima bugia di
questi criminali. Ad Hashim è stata negata la cittadinanza in una terra dove è nato e che considera casa sua.
È scappato cercando qua in Italia una cittadinanza che
viene negata persino a chi è nato qua da genitori immigrati, che parla italiano e non conosce altra cultura se
non quella italiana...
QUALCHE BUON FILM
CONTRO L’ANSIA
DA INTEGRAZIONE
Quando i miei amici stranieri mi chiedono qualcosa
dell’Italia, suggerisco loro di conoscerla attraverso qualche
film. E per ognuno ho un titolo adatto. Eccone tre
lavoro. È molto bravo, ma a Torino non si
è ancora integrato perfettamente e sente
la mancanza del suo paese. È difficile per
uno straniero riuscire a realizzare i propri
sogni. Lui sta un po’ perdendo le speranze; gli ho detto di tenere duro perché nel-
la vita tutto è possibile. Ma visto che le mie
parole non sono efficaci, in effetti non sono una grande motivatrice, l’ho portato a
vedere Lezioni di cioccolato (2007). Dopo
tutto, i film ti danno spesso la carica e la
licenza di osare nei momenti in cui tutto
BIANCO E NERO. Una sequenza del film di Cristina Comencini con Fabio Volo.
va storto. Lezioni di cioccolato è un film
divertente che, pure se liquida la questione del lavoro in nero in maniera un poco
sommaria, fa vedere come - grazie al cioccolato - ci si possa sentire a casa anche in
terra straniera. Dalla mia esperienza, gli
italiani (a parte i soliti cafoni che esistono
in tutti i Paesi) sono grandi quando si tratta di farti sentire a casa tua. Gli chiedi una
mano e loro ti offrono un braccio.
Questa estate ho trascorso le vacanze
a casa, in Tunisia. Un adolescente, che mi
aveva sentita parlare al telefono in italiano, mi si avvicinò incuriosito. Voleva sapere se l’Italia è davvero il Paese dei balocchi, concezione tipica che i tunisini hanno dell’Italia prima di visitarla, e se potevo trovargli un lavoro. Gli ho sorriso e gli
ho detto che no, l’Italia non è esattamente così. È dura anche per gli italiani. E allora com’è?, ha ribattuto il giovane. A lui
ho consigliato di vedersi Cover Boydi Carmine Amoroso. La pellicola racconta con
grande sensibilità il rapporto che si instaura tra due uomini, uno rumeno e un
italiano, entrambi alle prese con il precariato. L’amicizia che lega i due uomini
permette loro di affrontare con più coraggio le preoccupazioni legate al presente e
il senso di incertezza nei confronti del futuro. Un rapporto intenso che gli permette di sfidare la vita con poesia continuando a sognare, al punto di desiderare di percorrere all’inverso le rotte dell’immigrazione e andare in Romania ad aprire un
ristorante sul Danubio insieme. Un film
che la dice tutta sulla condizione lavorativa dell’Italia.
Per la cronaca, il giovane che mi aveva
approcciata, dopo aver visto il film, è rimasto in Tunisia.
21
Y
A
L
L
A
I
T
A
L
I
A
ORDINARIA INTEGRAZIONE. LE STORIE DI BOUCHRA E SAMAR: CON IL VELO TRA CD E LIBRI
GUARDA CHI C’È ALLA CASSA
DI RASSMEA SALAH
N
atale. Come ogni anno mi si delega il compito di scegliere i regali per i nostri amici o parenti
cattolici. E come ogni anno la mia prima
ed unica tappa è la libreria Feltrinelli. Dopo un’estenuante attesa in coda, raggiungo l’ambita cassa, alzo lo sguardo per chiedere dei pacchetti regalo e ammutolisco.
Di fronte a me, una ragazza col velo. Proprio lì, alla cassa della Feltrinelli in piazza
del Duomo a Milano! Una ragazza araba,
musulmana, e per giunta velata. Non credo ai miei occhi, forse è un’allucinazione.
E invece è tutto vero. Decido quindi di invitarla per un caffè.
Lei è Bouchra El Khouti, 33 anni,
marocchina. È arrivata in Italia solo nel
2005 dalla piccola città di Kenitra, vicino
alla più famosa Casablanca, ma parla già
benissimo l’italiano. Moglie e madre di
un bimbo di quasi tre anni, lavora alla Feltrinelli dal giugno 2009 grazie a un progetto voluto dalla stessa casa editrice, in
collaborazione con il Comune di Milano,
dal titolo «Il razzismo è una brutta storia»
e volto all’inserimento lavorativo di un
gruppo di migranti per accelerarne l’integrazione sociale.
Sorride Bouchra e si dice soddisfatta
di lavorare in libreria, in mezzo a saggi e
romanzi, anche se non è il suo campo. Lei
infatti è una donna di scienza, laureata in
Ingegneria minerale a Marrakech, dove
ha portato a termine anche i suoi studi post laurea in inquinamento ambientale, tema su cui ha poi iniziato un dottorato
presso l’università Muhammad V di Ra-
DI SUSANNA TAMIMI
L
Lavora nella più grande libreria milanese. Parla con
centinaia di clienti ogni giorno. E incontra tanta simpatia.
Anche se ha il capo coperto. E non è la sola...
SCIENZIATA MAROCCHINA. Bouchra El Khouti, tra gli scaffali della Feltrinelli di Milano.
bat. Insomma, una scienziata fra i libri di
narrativa.
Le chiedo quale messaggio darebbe a
tutte le ragazze velate, nate o cresciute in
Italia, che temono di essere discriminate
nel mondo del lavoro a causa del velo. «Il
velo non è un ostacolo», afferma decisa
ma sorridente. «Il messaggio forte che
vorrei trasmettere loro è la compatibilità
fra la nostra identità islamica e la vita qui
in Italia. Bisogna essere sicure di se stesse,
convinte della propria religione ma non
bisogna per questo isolarsi o ghettizzarsi.
Dobbiamo invece essere attive nella società italiana e facilitare la nostra integrazione, avere una mentalità aperta ed essere pronte ad accogliere anche la cultura
italiana in certi suoi aspetti. Noi siamo
ambasciatrici del nostro Paese d’origine e
della nostra religione, dobbiamo quindi
dare un’immagine positiva di entrambi,
comportandoci al meglio».
Bouchra non è la sola ad essersi aggiudicata una borsa lavoro grazie al progetto
no chiesto se c’erano altri pediatri - italiani - nella zona. Episodi impensabili
prima.
Il dottore sorride e non si scoraggia.
Sa che la maggior parte dei suoi pazienti
gli è affezionata e lo rispetta ed è anche
consapevole che i vari dibattiti sull’Islam
hanno portato la gente a conoscere meglio questa religione. Per Natale, per
esempio, i suoi clienti erano soliti regalargli cestini con bottiglie di champagne e
salumi. Regali dall’aspetto invitante di cui lui non poteva godere. Negli ultimi tre Natali, invece, ha ricevuto
solo cestini “halal” con bottiglie d’olio, formaggi e panettoni. Gli chiedo se si sente italiano e risponde di sentirsi un medico, un arabo, un musulmano e un italiano.
Si sente un uomo che conserva, come tanti altri musulmani, molteplici identità.
Qualcuno potrà dire che quest’uomo rappresenta
un’eccezione tra tante altre storie differenti: storie di
mancata integrazione, di chiusura e fanatismo. Rispondo che l’eccezione in questo caso è lo stato di “straniero”. Essere in un Paese diverso e riuscire a conciliare la
propria cultura con il contesto circostante non è mai un
processo semplice. Lo dimostrano le varie “little Italy”
o “China town” sparse per il mondo, ma non esiste un
modo unico di essere straniero.
Tra i musulmani, c’è chi si aggrappa alle tradizioni e
sceglie di non abbracciare il presente. C’è chi decide di
rinnegare tutto ed assumere una nuova identità. Ma c’è
anche chi, come il nostro medico, opta per la via di mezzo e sceglie di camminare verso una vera integrazione;
un’integrazione basata non sull’alienazione, ma - come
da definizione - sull’interazione con l’identità altrui e la
partecipazione attiva alla vita comunitaria.
DOTTOR ABDEL BASET,
PEDIATRA.
IL MEDICO DI TUTTI
o attendo di fronte alla saracinesca
del suo ambulatorio di Cornaredo,
una cittadina alla periferia di Milano. L’elegante insegna in ottone comincia a raccontarmi un po’ della sua storia: «Dr.
Khader Hamdi Abdel Baset, medico chirurgo specializzato in pediatria».
Una voce allegra e cordiale improvvisamente mi distrae: il dottor Abdel Baset
è puntualissimo al nostro appuntamento.
La sala d’attesa è ancora vuota. Due file di sedie colorate sono disposte a semicerchio attorno ad un ampio
tavolino su cui poggiano
fogli di carta da parati, pastelli a cera e pennarelli. Il
dottor Abdel Baset spalanca la porta del suo studio e,
come da tradizione mediorientale, mi offre una tazza
di thé. Ci accomodiamo alla sua scrivania.
Lo studio ricorda tanti
altri ambulatori medici:
tante cartacce, un lettino, un computer, una bilancia ed
uno scaffale su cui spiccano grossi volumi di medicina.
Titoli sconosciuti, in inglese e in italiano, che affiancano un piccolo Corano. Osservo le pareti alla ricerca di
qualche altro simbolo religioso, ma il mio sguardo viene catturato dalla moltitudine di doni dei suoi pazienti
appesi qua e là: cartoline, disegni, collages...
850: è il numero dei pazienti in cura da lui. La maggior parte italiani, ma anche albanesi, cinesi, rumeni e
di altre nazionalità. Tra questi, anche cinquanta persone provenienti dal mondo arabo. Mi racconta delle
A Cornaredo, alle porte di Milano,
per il servizio sanitario c’è un camice
bianco arabo e musulmano.
Con 850 pazienti, quasi tutti italiani.
Che a Natale hanno smesso di
regalargli champagne e salame...
mamme e delle loro paure, di come, in fondo, si assomiglino tutte. La prima preoccupazione, di fatto, è la
felicità ed il benessere dei loro bambini. Poco conta la
diversa dieta alimentare o l’originalità delle singole culture.
Khader è arrivato in Italia nel 1968 ed ha studiato a
Parma. Ricorda gli anni universitari col sorriso. Anni di
festa, rivoluzione e amicizia. Non fece fatica a sentirsi a
casa. Oggi, afferma, gli italiani vivono l’arabo in modo
differente. Alcuni gli hanno domandato dopo l’11 settembre di vedere il suo certificato di laurea, altri gli han-
della Feltrinelli. Insieme a lei vi era anche
un’altra ragazza velata, Samar Mustafa,
ora alla cassa principale della Ricordi, sotto la centralissima galleria Vittorio Emanuele di Milano. Anche Samar è una
scienziata fra i cd: è infatti laureata in
Scienze geografiche presso la Cairo University in Egitto. Nata a Milano 26 anni
fa, ha però frequentato tutte le scuole in
Egitto per poi tornare qui.
«Ero la prima della classe all’università», ricorda con orgoglio ed umiltà. La
sua storia è contrassegnata da tanti “no”
nel mondo del lavoro per via del velo.
«Avevo ormai perso ogni speranza. Poi un
giorno, la mia insegnante del corso di italiano mi ha riferito di avermi iscritta al
progetto “Il razzismo è una brutta storia”
e da lì poi è iniziato tutto».
Le chiedo di raccontarmi le reazioni
dei clienti quando la vedono: «Nessuno
mi guarda male, certamente lo fanno con
curiosità, qualcuno mi saluta con un assalamu aleykum, altri mi dicono shukran
(grazie), altri ancora mi chiedono la mia
provenienza oppure mi fanno i complimenti per il mio italiano. Poi ci sono le
sciure che mi chiedono se non faccia troppo caldo con il velo ma alla fine mi dicono che sto bene».
Probabilmente le varie Bouchra e Samar rappresenteranno una novità ancora
per alcuni anni, ma ci auguriamo che fra
un decennio, magari meno, noi muslim
veline verremo viste e percepite con una
certa normalità, come parte integrante
della società, senza più suscitare la sorpresa o il clamore di nessuno.
22
Y
A
L
L
A
I
T
A
L
I
A
LINGUA DI CASA MIA. CONFESSIONI DI UNA MAMMA
FILASTROCCA ARABA
PER MIO FIGLIO
Lui non si meraviglia
ta la cultura che c’è dietro. Non parssendo nata nei primi giorni
a mio figlio in arabo vuol dire nedi sentirmi parlare in modo lare
dell’anno, colgo spesso l’occagargli quei sentimenti che per me
diverso dal papà,
sione del mio compleanno per
vanno espressi nella mia lingua mafare il punto della situazione e capire,
dre, che provengono da un cassetto
che è italiano.
ora che un anno nuovo si coniuga con
speciale della mia mente e del mio
Anzi, nei suoi borboglii
una nuova cifra nella mia età, quali
cuore.
progetti ho realizzato e quanti invece
Quanto al rimanere tunisini, i
nasce qualche volta un
ho tralasciato. Nei numeri passati di
miei discendenti potranno, grazie ad
suono decisamente arabo
Yalla Italia ho raccontato le mie speuna legge di cui andiamo fieri, riceveranze, i miei sogni ed ho espresso le
re la cittadinanza della loro madre,
tra le varie vocali latine...
mie paure. Rileggendo alcune mie rianche se il padre è non tunisino, diflessioni pubblicate mesi fa mi rendo
versamente da altri Paesi arabi che
conto che sono stati esauditi tanti di
non lo permettono. Questa cittadiquei sogni che a scriverli oggi sarebbero probabilmente
nanza non contempla nella sua acquisizione il fattore linsembrati edulcorati. Perché la realtà supera la finzione. Perguistico o tanto meno religioso, come qualcuno vorrebbe
ché siamo capaci di fare molto di più di ciò che ci si aspetta
invece introdurre nella legislazione italiana. Per approfondi fare. Abbiamo festeggiato il Natale qualche giorno dopo
dire l’argomento riprendo in mano alcuni miei vecchi apl’Aid El Kebir (festa principale musulmana) in una famipunti sul libro Islam e libertà di Tariq Ramadan e rileggenglia felicemente riunita e non divisa dalle differenze di relidole mi rendo conto quanto fossi stata ingenua, credulona
gione in essa presenti. Oggi canto filastrocche in arabo a
ed erroneamente ottimista. Come potevo immaginare
mio figlio che non si meraviglia di sentire la mamma parlaun’evoluzione così spaventosa del dibattito sulla presenza
re una lingua diversa di quella del papà, anzi nei suoi bordei musulmani in Italia? Pensavo fosse ovvio che le seconde
boglii nasce qualche volta un suono decisamente arabo tra
generazioni, almeno loro, si sarebbero sentite a casa loro,
le varie vocali latine. Ribadisco anche quello che affermavo
fra i loro, liberi di credere nel Dio che vogliono cercando di
nel numero dei matrimoni misti, che spesso si trova l’aniessere coerenti con ciò in cui credono così come con coloro
ma gemella a migliaia di chilometri dal luogo in cui uno nacon i quali vivono e costruiscono il futuro. Invece, le diffisce, appartenente a un’altra cultura o religione, che non socoltà che questo dibattito incontra oggi creano muri che la
lo ti completa ma ti arricchisce.
comunità musulmana fa fatica a scalare ma che fermano
Nel frattempo, mi è stata posta una domanda che mi ha
anche tanti tra quegli italiani che vorrebbero costruire inrisvegliato dalle mie conquiste felici e mi ha ributtato nel
vece di distruggere. Ho pianto alla lettura delle parole di chi
mondo che mi circondava, pieno di dubbi e di controversi è messo di traverso tra il diritto dei figli dei musulmani
sie. Su un blog un lettore mi ha chiesto: «Per quante geneimmigrati e il diritto alla cittadinanza. Ho pianto per la trirazioni i suoi discendenti dovranno rimanere tunisini, mustezza, per la rabbia ma soprattutto per lo spavento.
sulmani con ascendenze cristiane e parlare anche l’arabo?».
Passando dalla felicità di aver raggiunto nel mio piccoProprio in quei giorni di festa, il figlio di un’amica di familo quei sogni che esprimevo, senza però immaginare di viglia, ingegnere informatico immigrato nel Sud californiaverli in prima persona, alla tristezza di chi vede attorno a sé
no, era tornato a trascorrere le feste natalizie con sua mamtanto odio, intolleranza e rifiuto dell’altro, non voglio abma. Al suo seguito aveva la moglie statunitense e due merabassare le braccia. Sorrido alla vita che mi sfida e sfida tutti
vigliosi bambini di 10 e 12 anni. Una mia vicina era rimaquelli che ieri come oggi non hanno mai voluto accettare
sta inorridita dal fatto che i piccoli americani non capissero
l’associazione tra l’Italia e la parola razzismo. Sorrido pere non parlassero una parola di italiano. Probabilmente l’itaché rispetto la libertà di ognuno di essere ciò che desidera
liano, lingua dei loro nonni - ancora in vita - non è molto
iniziando da mio figlio, auspicando che gli altri rispettino
utile negli Usa ma perdere una lingua vuol dire smarrire tutanche la mia di libertà.
DI OUEJDANE MEJRI
E
DI IMANE BARMAKI
L
o confesso: ho nostalgia di mio
nonno! Ho sempre avuto qualche
attrito con lui, che è imam a Casablanca (lo vedete nella foto): ho 25 anni,
non sono ancora sposata (gravissimo!),
cerco sempre di essere indipendente, sostengo la causa del femminismo islamico.
Insomma, non sono la nipote che un
imam desidererebbe.
Ricordo con estremo piacere la mia testardaggine, durante l’adolescenza, nel voler
dimostrare a mio nonno che Dio non è altro che un’invenzione dell’uomo: se si ricava la causa partendo dal suo effetto si nota che se l’uomo è imperfetto anche la causa che l’ha generato è imperfetta. Erano le
mie teorie sul trascendente. Riuscite ad
immaginare la scena: un imam davanti alla propria nipote “miscredente”! La sua
reazione non è stata delle migliori, ma essendo tutti due testardi, nessuno voleva
mollare la propria posizione, anzi ognuno
di noi voleva convincere l’altro senza accettare la sua visione.
QUEL GRAFFITO
SUI MURI
DI MONACO
DI KARIM BRUNEO
«N
on amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri.
(…) Tra loro parlano lingue incomprensibili (…).
Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati,
violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici, ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati
in strade periferiche». Non sono le righe di un giornale xenofobo. Sono parole estrapolate da una nota contenuta nella relazione sugli immigrati italiani presentata all’Ispettorato per l’Immigrazione
del Congresso degli Stati Uniti d’America nel
1912. Nonostante sia passato un secolo, le stesse
espressioni, lo stesso linguaggio riecheggiano oggi
a volte nel nostro Paese, in modo diffuso, dai bar
alle sedi di partiti politici, passando per le istituzioni e la società civile.
Il pregiudizio e la paura generano la sensazione che
la convivenza con il diverso è impossibile. E, naturalmente, passano in secondo piano (se non direttamente nell’oblìo) i numerosi casi di successo e di
integrazione di immigrati, di convivenza pacifica
tra italiani e stranieri.
In realtà c’è un semplice motivo a causa del quale
la tesi del rifiuto non può essere accolta: non si tratta di decidere se aprire o meno le frontiere; la comunità di immigrati in Italia già esiste e in una democrazia il problema della convivenza va gestito
nel rispetto dell’individuo. E ancora, non si tratta
solo di rispetto dell’altro in qualunque sua forma,
ma anche consapevolezza di sé: ognuno di noi è,
anche senza volerlo, cittadino del mondo nel suo
quotidiano, quel cittadino lucidamente descritto
da un noto graffito disegnato a Monaco di Baviera: «Il tuo Cristo è ebreo e la tua democrazia è greca. La tua scrittura è latina e i tuoi numeri sono arabi. La tua auto è giapponese e il tuo caffè è brasiliano. Il tuo orologio è svizzero e il tuo walkman è coreano. La tua pizza è italiana e la tua camicia è
hawaiana. Le tue vacanze sono turche, tunisine o
marocchine. Cittadino del mondo non rimproverare il tuo vicino di essere... straniero».
NONNO, NON TI SEGUO
MA TI VOGLIO BENE
Lui è imam a Casablanca. Ogni volta che lo vedo mi
presenta un candidato marito. Ma poi vinco sempre io...
«Sì, non sono ancora sposata! E allora?»
Fatto per lui gravissimo: ogni tanto mi trovo coinvolta in incontri che solo mio non-
no riesce ad organizzarmi con futuri mariti che non ho mai visto (e che speravo di
non vedere!). È meglio di Cupido perché
è capace di trovarmi il partner meno adatto in base ai suoi desideri senza considerare minimamente i miei, nella speranza che
questo matrimonio «s’Allah da fare».
Ma vogliamo parlare di quando ho deciso
di fare il perito aeronautico alle superiori?
Era veramente difficile per lui accettare
che fossi l’unica ragazza della mia classe.
Ricordo ancora la telefonata dopo il primo giorno di scuola:
«Nonno, sono l’unica ragazza della classe»
«Ma sei sicura?»
«Sì, ne sono certa!»
Non riusciva ad accettare che sua nipote
avesse scelto una scuola dove non c’era il
problema di separare le femmine dai maschi, perché io ero l’unica femmina.
Nemmeno i miei compagni riuscivano ad
accettarlo. Non ero accettata nella mia
classe non perché ero extracomunitaria
ma perché ero una ragazza… cosa ci faceva una ragazza in un istituto aeronautico?
La cosa ancora più assurda è che la mia
scuola non era attrezzata per esigenze tipiche delle ragazze: nella succursale dove stavamo nel corso del primo anno non aveva
nemmeno lo spogliatoio per le ragazze…
E chi lo spiegava a mio nonno?
Non vi racconto della mia partecipazione
al Gay Pride. I frammenti di ricordi sono
tanti ma so che i suoi pensieri e le sue emozioni sono il motore di molti dei miei
comportamenti e che in qualche modo lui
cercava di trasmettermi la sua esperienza
senza tenere conto che io potessi navigare
controcorrente senza paura e sempre a testa alta. È il suo modo di volermi bene.
23
Y
A
L
L
A
I
T
A
L
I
A
MUSICA PER TUTTI. IL SUCCESSO DI UN RAPPER SIRIANO... MA ITALIANO
ZANKO, L’HIP HOP ISLAMICO
È UN CROCEVIA DI DIALETTI
DI RANDA GHAZY
I
l Femyso, acronimo per Forum of European Muslim
and Youth Organisations, ha organizzato un concorso per giovani musulmani europei chiamati a esprimere cosa l’Europa significhi per loro. Opere di diversi
campi artistici volte a raccontare un’identità europea multidimensionale sono state raccolte in Belgio, Germania,
Francia, Gran Bretagna, Svezia, Danimarca, Spagna, Austria, Ucraina e molti altri Paesi europei.
Tra i cinque finalisti ce n’era uno dall’Italia. C’era il
“nostro” Zanko. Zanko e il suo rap bilingue. Cosa avrà
convinto la giuria a premiare proprio lui?
Zuhdi, questo il suo vero nome, è nato a Milano da
genitori siriani, per poi trasferirsi per alcuni periodi a Parigi e a Montreal. I suoi testi non hanno un particolare legame con il territorio, anche se ammette: «Quando giro il
mondo sento che devo tornare a casa. Che devo tornare a
Milano».
Era in terza media quando la professoressa chiese alla
classe di scrivere un pensiero sul razzismo. Zudhi lo scrive
in rima. Avvicinandosi quasi casualmente all’hip-hop. Un
genere che lui chiama «psicoterapia», una «potenza multiculturale», un genere musicale «democratico» che non è
difficile fare, anche se «farlo bene magari è un’altra storia».
Un sentimento per cui ha lottato, e che ha acuito il
conflitto generazionale e per questo anche culturale con i
suoi genitori. In terza media quelle rime sul razzismo, oggi le sue canzoni. Ha anche scritto un pezzo su questo tema, dal titolo «Essere normale» (il video è appena uscito
ed è visibile su www.myspace.com/zanco1) discutendo
del termine normale, del fatto che l’informazione ottica
arrivi prima di quella uditiva. Nella canzone Zanko ci dice che normale significa solo ciò a cui sei abituato, mentre
ogni cosa diversa diventa anormale.
Per cui Zuhdi, sembrando normale, ovvero non sembrando arabo, non ha mai subìto il “razzismo dell’apparenza”, della fisionomia. Ma il suo impegno civile è continuo: partecipa alla compilation realizzata dalla Rete G2
Zuhdi è il suo vero nome. È nato a
Milano da genitori siriani. E a Milano
si sente a casa sua. Ma si sente un vero
cosmopolita, che mette insieme
la musicalità dell’arabo con un genere
che non c’entra niente...
ZANKO. «MetroCosmoPoliTow» è il suo ultimo cd
in collaborazione con il ministero della Solidarietà sociale «Straniero a chi», canta al concerto a Cernusco sul Naviglio in memoria di Abba, ragazzo italiano originario del
Burkina Faso ucciso a sprangate da due baristi, un anno
fa, dopo aver rubato un pacchetto di biscotti, ed anche il
suo ultimo disco è “impegnato”. Si chiama «MetroCosmoPoliTown», e parte dalla voglia di esprimere che la cultura hip hop è moderna, che tutte le metropoli hanno una
dimensione cosmopolita. Zanko ha vissuto in quattro
metropoli, tra cui Damasco, la più antica del mondo e
storicamente cosmopolita, tanto che spesso si chiede, visto il colore chiaro della propria carnagione, chi saranno
mai i suoi antenati. L’hip hop si inserisce in questi contesti cosmopoliti, e per questo nel suo cd ha voluto coinvolgere nove artisti di cui sei di origine straniera ma cresciuti
in Italia.
Si tratta del primo album di un artista di origine straniera cantato sia in italiano che nella propria lingua d’origine ed è l’album più multietnico della storia dell’hip hop
in Italia. Zanko crede che la tecnica canora araba sia una
delle più raffinate del mondo e che, come si dice in gergo,
il “flow”, l’onda sonora prodotta dalle parole, suoni particolarmente bene.
Coniuga la musicalità della lingua araba con un genere che non c’entra molto col mondo arabo, e lo fa con disinvoltura, padroneggiando le lingue e i dialetti arabi con
naturalezza. E tra le altre cose, fa anche ottime imitazioni
di alcuni dei dialetti italiani. Zuhdi è un ragazzo che non
ha paura di essere quello che è, e che, anziché dividere il
mondo tra bianco e nero, sceglie una scala di grigi. Come
lui stesso ammette, «non esiste niente di assoluto, nessuno è perfetto. Il mondo musulmano deve fare autocritica,
ma anche la società occidentale ha un sacco di falle».
Invece il momento storico, con il presunto scontro di
civiltà, convince tutti a «mantenere una posizione campanilistica, nel timore che la tua gente venga meno»,
Ma Zanko, no. Parla mille dialetti e preferisce la scala
di grigi.
NIENTE PAURE, LA REALTÀ
È PIÙ AVANTI DI QUANTO PENSIAMO
DI LUBNA AMMOUNE
L
a realtà è più avanti di quanto pensiamo. Appena pochi anni fa ero sempre
in terza o quarta fila, ascoltavo i relatori
alle conferenze e annotavo i pensieri che
più mi colpivano. Puntualmente ero tentata di porre una domanda a chi era intervenuto ma poi mi nascondevo per l’emozione. Quando ho conosciuto il mondo
di Yalla qualcosa è cambiato, improvvisamente, da un giorno all’altro. Mi è stato
svelato un lembo del mio futuro, quasi
fosse una profezia.
Allora ero incredula, oggi lo sono ancora, perché mi avevano avvisato che un
giorno sarei stata io dall’altra parte del palco, con un pubblico davanti ad ascoltarmi. Oltre all’esperienza di scrittura nata
con Yalla Italia nella mia vita è cambiato
qualcosa che mai avrei immaginato. Preferisco esprimermi con la penna che oralmente, ma qualcuno non ha esitato a incoraggiarmi e ho vinto i miei timori, an-
che se prima di avvicinare le labbra al microfono riemerge sempre il batticuore.
Ho iniziato a raccontare la mia esperienza e ho capito l’importanza di prendere la parola in pubblico. La vivo come
una grande responsabilità ed è una sfida
che si presenta spesso, permettendoci, insieme, di varcare la soglia. Così come cerchiamo di farlo con il nostro inserto mensile, lavoriamo per trasmettere un messaggio di normalità e pluralità nelle realtà
che ci chiamano. Ricordo che alle prime
conferenze venivano poste domande che
riguardavano argomenti a noi ampiamente noti, intimamente vissuti e quotidianamente approfonditi. Le domande?
«Perché porti il velo? È una tua libera scelta?»; «Pensi di essere integrata in Italia?»;
«Ti senti italiana o siriana?»; «Hai vissuto
crisi d’identità?»; «Ti senti discriminata?».
Domande legittime, anche se a volte, nel
corso della mia esposizione, avevo suggerito le risposte. Effettivamente trovarsi
una nuova italiana o un nuovo italiano
come siamo noi di Yalla, non lascia indifferenti.
Ma di fronte a queste domande i media sono rimasti indietro. Disquisiscono
sull’integrabilità dei musulmani e scriviamo seconda generazione d’immigrati (riferendoci anche a ragazzi nati e cresciuti
in Italia), senza capire che non per questo
le menti dei più si sono fermate. Anzi,
fuori dalla nostra porta esistono un’infinità di anime interessate, curiose e appassionate che sono andate oltre.
Pensavo di dire qualcosa di nuovo dichiarando di essere una cittadina europea
di fede musulamana mentre il pubblico,
che dà per scontato la nostra cittadinanza
italiana, incalza con domande che vanno
oltre le mie aspettative, a volte anche troppo impegnative perché richiedono più
specializzazione di quanto ne abbia io, appena ventenne. «Credete che a livello legislativo ci possano essere dei punti critici
in rapporto al diritto islamico?»; «Come
sarà la società di domani?»; «Che contributo di mediatori pensate di dare alla nostra realtà?»; «Quali sono le dinamiche
nelle coppie miste?». Ascolto i quesiti,
cerco supporto nei consigli del professor
Branca che è l’anima del nostro inserto e
che non esita mai a mostrarci quanto creda in noi. Osservo i volti di chi è nell’aula,
nascono anche delle intese di sguardi e
penso che non siamo eroi. Non siamo
neanche missionari. Vogliamo semplicemente cambiare le percezioni, discutere e
far discutere per capire.
Fino a qualche tempo fa concludevo
le mie testimonianze affermando che andrei a dormire molto più serenamente sapendo di aver cambiato la percezione anche solo di una persona attraverso i nostri
racconti. Ora guardo avanti con più fiducia che mai, perché al contrario di quanto
vogliono farci credere, la realtà è molto
più avanti di quanto pensiamo.
24
Y
A
L
L
A
I
T
A
L
I
A
UN SOGNO NEL CASSETTO. FATIMA È NATA IN MAROCCO, MA NON SI ARRENDE...
SCOMMETTI CHE UN GIORNO
SARÒ MARESCIALLO?
DI FATIMA KHACHI
«M
aresciallo Khachi». Questo è l’appellativo che più di tutti mi sta a cuore, la frase
per la quale sarei disposta a tutto (quasi
tutto) pur di sentirla. È il mio sogno ma che voglio diventi la mia realtà. Sono disposta ad affrontare qualunque ostacolo, dalla mia famiglia alla maledetta burocrazia. Quando confido questo mio desiderio/volontà, ricevo quasi sempre commenti di sorpresa che, nella maggior parte dei casi, si riassumono nella solita espressione
«Ma sei pazza?». È perché mai dovrei esserlo? Io non ci
trovo nulla di così strano. È un lavoro come tutti gli altri,
magari con qualche particolarità, che quindi lo rende
più accattivante, almeno per quanto mi riguarda.
Probabilmente suona molto strano all’orecchio che
una ragazza aspiri così tanto a far parte delle Forze armate italiane, ma la sorpresa è dovuta soprattutto alle mie
origini arabo- musulmane, come se queste caratteristiche fossero inconciliabili con l’essere maresciallo. Questa credenza è assolutamente assurda e spero che ci siano
altre persone che mi aiutino a dimostrarne l’invalidità
con la pratica. Il mio sogno più grande è di vedere un
giorno una donna in divisa e con il velo. Io comunque
non ci trovo nulla di così strano nel volere diventare maresciallo. È il mio sogno sin da bambina e adesso che sono abbastanza grande voglio realizzarlo.
Peccato che ci sia un “piccolo” ma determinante impedimento: la cittadinanza, che non ho ma che devo ottenere il più presto possibile. Non sarà certo la burocrazia a fermarmi perché io devo diventare maresciallo e soprattutto indossare la divisa. Quel giorno sarà il più importante della mia vita, forse anche più del giorno del
mio matrimonio.
Mai avrei pensato che la mia vita avrebbe preso una
tale piega: da quando ero piccola e vivevo ancora in Marocco, sognavo di diventare poliziotto ma la cosa mi sembrava così lontana, quasi irrealizzabile, tant’è vero che mi
vergognavo a confidarlo ai miei amici e famigliari. Invece oggi sto scrivendo un articolo e sto comunicando al
mondo intero questo mio desiderio. Grazie Italia! Questa è la cosa più bella che ho ricevuto da questo meravi-
DI FATIMA EL HARKI
S
ono di famiglia musulmana, ma
non potrei essere me stessa senza il
Natale. Il Natale mi ha sempre affascinata sin da piccolina, mi piace la curiosità negli occhi dei bambini, l’attesa con
cui aspettano Babbo Natale e la Befana.
Mi piace l’illuminazione che colora tutte
le realtà di arcobaleno. La magia che si respira nell’aria, l’atmosfera che riempie il
cuore di gioia e di allegria. La predisposizione ad essere più buoni e migliori, evitando di arrabbiarsi, perché sembra non
ci sia nulla di tanto importante da poter
togliere il sorriso.
In famiglia non festeggiamo il Natale
solo per quanto riguarda gli addobbi natalizi e la cerimonia in Chiesa; per il resto,
forse anche involontariamente, il Natale
è presente anche in casa mia.
La cosa che più adoro è fare il presepe,
sia quello in casa con le statuine sia quello
vivente che organizziamo nel mio paesino. La mia amica del cuore conoscendo
questa mia passione, tutti gli anni, mi
chiama a casa sua a fare l’albero e il presepe. Mi sembra di tornare bambina, a quella spensieratezza e serenità con cui i più
«Ma sei pazza?», mi dicono quando
spiego cosa voglio fare “da grande”.
Voglio la divisa. E la voglio italiana.
Unico problema: non ho la
cittadinanza. Ma amo troppo questo
mio secondo Paese. Per cui alla fine
la spunterò. Sono sicura...
glioso Paese: la libertà di sognare e la possibilità di realizzare i miei sogni. Sono perfettamente
certa che se avessi continuato a trascorrere la mia vita intera in Marocco, non avrei mai avuto il
coraggio di aspirare a diventare maresciallo. Se
lo sapesse mia nonna
o i miei zii verrebbe loro l’infarto!
Ma io stessa
sarei stata
diversa e
meno
combattiva, anche
se le condizioni, almeno
burocratiche, sarebbero
state favorevoli. Infatti non avrei
avuto il problema della cittadinanza. Invece
in Italia è il contrario, essendo quest’ultima l’unico ostacolo. È giustissimo che per far parte delle
Forze amate il Paese riconosca solo i figli dello suo
sangue. Anch’io sono una figlia, seppure acquisita
ma non ancora riconosciuta, come tanti altri figli
rinnegati per le complicate procedure per “legittimarsi”.
Hanno ragione le persone che mi stanno attorno a dirmi
che sono italiana più di quanto credessi. Io voglio poter
difendere il mio secondo Paese, la mia gente, con la quale ho condiviso e condividerò anche in futuro i momenti più importanti della vita, belli e brutti. Il mio futuro è
qui, volente o nolente, così
come quello di numerose altre persone che si trovano nella mia
condizione
d’immigrata
di seconda
generazione.
Bisogna pur
rimediare alla costante
fuga dei
cervelli dei
figli legittimi della
madre
Italia,
no?
A ME PIACE IL PRESEPE
(E FAREI SEMPRE
LA PASTORELLA)
Sono di famiglia musulmana, ma non potrei essere me
stessa senza il Natale. Mi piace ritornare nella Betlemme di
quei tempi e rivivere quella storia che tutti conosciamo...
piccoli riescono a vivere il presente senza
preoccupazioni e senza proiezioni verso il
futuro o il passato. Per quanto riguarda il
presepe vivente, questa realtà si ripete nel
mio paesino oramai da decenni. Quando
ero piccolina ho iniziato facendo l’angioletto e cantando canzoni al Bambin Gesù. Crescendo ho sempre fatto la pastorella.
Nonostante passino gli anni, la sera
della vigilia continua ad essere una delle
serate che nell’arco dell’anno preferisco.
So che quella sera sarà speciale, che ci sarà
quell’atmosfera propria del Natale. Mi
piace ritornare nel passato, nella Betlemme di quei tempi antichi e rivivere quella
storia che tutti noi conosciamo. Maria
gravida sull’asino con Giuseppe che la
guida di locanda in locanda per trovare un
luogo dove far nascere quella creatura così speciale, che finirà per venire al mondo
in una gelida stalla, riscaldata però dal calore degli animali e delle persone che da
subito si accingono a portare doni a quella, già, meravigliosa creatura.
Amo il Natale e le tradizioni che si ri-
Fatima Khachi
21 anni: il sogno di vestire la divisa.
petono tutti gli anni allo stesso modo, ma
che regalano sempre nuove emozioni.
L’unica cosa che non amo sono i regali,
non mi piace farne e nemmeno riceverli,
questa è la cosa che, secondo me, allontana dall’essenza del Natale e lo rende una
festa “commerciale”.
Mi dispiace anche, quando le persone
non mi porgono gli auguri perché sanno
che sono marocchina e allora partono dal
presupposto che io sia musulmana e che
dunque il Natale non possa essere una festa per me.
Ognuno può interpretare questo mio
amore per il Natale a suo piacimento o come gli torna più comodo. Io non so cosa
sia, so solo che questo non mi fa sentire
meno musulmana o più cattolica, non mi
rende più italiana o meno marocchina,
semplicemente amo il Natale. Amo il Natale come si può amare un giocatore di calcio, un quadro o una canzone che segna
così profondamente la nostra esistenza e
senza la quale la nostra vita avrebbe sicuramente un senso diverso. Amo il Natale
e mi manca tanto quando, per un qualsiasi motivo, non riesco a passare la Vigilia di
Natale a Pietracolora, il paesino dove vivo.