Con la voce degli altri

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Con la voce degli altri
Con la voce degli altri
Un canto d’amore con la voce degli altri. È quando la voce degli altri è intonata
alla propria invocazione, alle assonanze del proprio io. È anche questo Poeti
innamorati di Patrizia Valduga (Interlinea, Novara 2011, pagg. 96), “da Guittone a
Raboni un’antologia di Patrizia Valduga”, con una dedica struggente all’amore
dell’autrice, Giovanni Raboni (1932-2004), una delle poesie d’amore più belle del
Novecento.
Autoantologia con la voce degli altri? Ovvio, la Valduga è una delle più raffinate
autrici italiane1. Inevitabile quindi, come per ogni antologia, il calcolo degli esclusi2.
Ma Patrizia Valduga non vuole documentare (che senso avrebbe, se non didattico?),
Poeti innamorati non è un altro libro-cioccolatino per S. Valentino, è un nuovo libro
di Patrizia Valduga con la voce degli altri. La scelta è libera, sceglie chi le piace:
“Fino al Quattrocento nessuno avrà quasi niente da ridire, ma subito dopo ci sarà
chi lamenterà l’assenza di quello e la presenza di questo. Perché, ad esempio, non
ho messo Buonarroti? Perché, a mio parere, si è scambiata per grandezza poetica la
rudezza di un geniale dilettante. Perché non ho messo Penna? Perché la sua voce
mi sembra assai flebile. Perché non ho messo Gozzano? Perché, tolte le polverose
carabattole della nonna, quello che resta è già tutto in Pascoli […] Considero
Leopardi un grande prosatore e pensatore, ma mi pare poeta tutto volontà e niente
istinto: il più amato dagli italiani, che scriveva i suoi “canti in prosa” e poi li voltava
1
Nata nel 1953 a Castelfranco Veneto, Patrizia Valduga ha pubblicato Medicamenta (Guanda 1982),
Medicamenta e altri medicamenta (Einaudi 1989), Donna di dolori (Mondadori 1991), Requiem (Marsilio
1994), Corsia degli incurabili (Garzanti 1996), le stupende Cento quartine e altre storie d’amore (Einaudi1997)
e versioni di John Donne, Molière, Crébillon fils, Mallarmé, Valéry, Kantor, Shakespeare (è fresco di stampa per
Einaudi Riccardo III).
2
Fu clamorosa, per esempio, l’esclusione di Zanzotto da Poesia italiana del Novecento a cura di Edoardo
Sanguineti, Einaudi, Torino 1969, con ampia presenza dell’ex Gruppo 63, due volumi comunque di eccellente
analisi critica e filologica.
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in endecasillabi e settenari, qui è rappresentato con una poesia che, se la si legge
subito dopo quella di Monti, rivela tutta la sua letterarietà programmata3 (p. 6).
Giudizi critici liberi, ma personali, naturalmente.
La Presentazione annuncia il pensiero della Valduga sulla poesia d’amore: “E poi
i poeti non sono forse sempre innamorati? Quando non sono innamorati di
qualcuno o di qualcosa, sono perdutamente innamorati della loro lingua” (p. 5) e,
citando Attila Jószef, “l’amore dei poeti è come l’amore degli adolescenti, che
vogliono essere quello che non sono, che vogliono che gli altri siano quello che non
sono, che vogliono dare l’amore a chi non lo vuole, che perdono l’amore appena lo
possiedono, che se ne stancano appena lo conquistano” (p. 5).
CHI C’È
Gioielli, gioielli della lingua e della storia della lingua, che è bello leggere in
sequenza dal Duecento a oggi, per il solo piacere della lettura. Il sonetto di Guittone
d’Arezzo giocato sulla parola gioia:
Tuttor ch’eo dirò “gioi’ ”, gioiva cosa,
intenderete che di voi favello,
che gioia sete di beltà gioiosa
e gioia di piacer gioioso e bello […]4
Cavalcanti, Angiolieri, Dante (“Ne li occhi porta la mia donna Amore” da Vita
nova), Cino da Pistoia, Petrarca (“S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?”).
Un testo raro e stupendo, che la Valduga cita dalle “Orazioni di Buonaccorso di
Montemagno il Giovine con le Rime di Buonaccorso di Montemagno il Vecchio da
un’edizione napoletana del 18625, qui a p. 18, è un capolavoro della lirica del primo
Quattrocento sull’amore dei poeti come la Valduga lo descrive nella presentazione:
3
“La sera del dì di festa”, pp. 49-50.
p. 11.
5
Stamperia di F. Ferrante, Napoli 1862, p. 97; Buonaccorso da Montemagno: Pistoia, 1391 ca.-Firenze, 1429.
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Un pianger lieto, un lacrimar soave,
un temer pace, un disiar sospiri,
un empier d’impossibili desiri
un cor, che il suo languir caro e dolce ave;
pruovo, e sento in un dì, gioiose e prave
passion fra diletti, e fra martiri;
né so donde mi vien, chi a aver mi tiri
servitù cara, e libertà sì grave.
Ché se per sua natura ogn’intelletto
il suo mal fugge, e se il suo ben disia,
chi è, che in tal error m’inveschi e involvi?
Però, cortese ingegno, alto e perfetto,
al profondo dubbiar la mente mia
scura, aspra, e rozza, illustra, apri e dissolvi.
L’antologia continua con Pulci, Boiardo, Lorenzo de’ Medici (“Tu non sai pigliar
partito: / tu vorresti e poi non vuoi, / poi ti torna l’appetito: / servir vuo’ mi e non
sai poi”6), il Poliziano, Sannazaro (una sestina quasi leopardiana: “Dal dì che gli
occhi miei sbandiro il sonno / e ‘l letticciuol lasciai, per starmi in terra, / i dì seren
mi fur torbidi e foschi, / campi di stecchi le fiorite piagge; / tal che quando a’
mortali aggiorna il sole, / a me si oscura in tenebrosa sera.”7). È Ariosto a
confermare il tormento d’amore: “[…] Io voglio, ma io non so quel ch’io mi voglia; /e
volendo mi doglio: ah duro fato, / che senza alcun dolor sempre mi doglia! […] Ma
nova voglia ancor resta nel core, / e senza mal provar, provo tormento / con certo
non so che lieto dolore […]”8.
Dopo il latino del Folengo, è Ruzante la vera sorpresa, da La Betìa, assoluto
capolavoro della lingua (impagabile “e sì me sbate e sbròmbola el magon”9), cioè
quell’amore erotico, carnale, che nei suoi versi la Valduga canta nei metri della
lirica classica e che è, anche in questa antologia, una scelta critica. In Ruzante è
l’amore-ventre, l’amore dell’uomo sulla terra. Via via, Poeti innamorati continua con
6
p. 21.
pp. 24-25.
8
pp. 26-27. La Valduga cita da Lirici del Cinquecento, a cura di Luigi Baldacci, Longanesi, Milano 1975, pp.
205-206.
9
p. 29.
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Giovanni della Casa, Strozzi, le uniche due donne – Chiara Matraini e Gaspara
Stampa -, Tasso, Chiabrera, Marino (tanto per gustare: “[Amore] Desta la voglia e
non l’appaga appieno, / tempra la fiamma e non spegne l’ardore, / m’alletta il senso
e non mi sazia il core, / m’accoglie in braccio e non mi vuole in seno.”10), Lubrano,
Francesco de Lemene, Paolo Rolli, Metastasio, Parini (un’ode al disincanto
dell’ironico illuminista), Alfieri, Monti (assolutamente leopardiano, e premettendolo
a La sera del dì di festa la Valduga gioca con un’elegante perfidia intellettuale: in
Monti leggiamo: “vaghe stelle!”; “Oh rimembranze! oh dolci istanti! io dunque, /
dunque io per sempre v’ho perduti, e vivo? / E questa è calma di pensier? son
questi / gli addormentati affetti? Ahi, mi deluse / della notte il silenzio, e della muta
/ mesta Natura il tenebroso aspetto! / Già di nuovo a suonar l’aura comincia / de’
miei sospiri, ed in più larga vena / già mi ritorna su le ciglia il pianto”11). Porta,
Foscolo, Belli, il già citato Leopardi, Prati, Carducci, Pascoli (Rammarico, non è delle
sue migliori), D’Annunzio.
E arriviamo al Novecento. Qui è inevitabile il gioco delle presenze e delle assenze,
legittime le une e le altre in questo canto d’amore della Valduga (Poeti innamorati
non è un’antologia storica, non lo vuole essere, è un libero canto). Troviamo Saba,
un bellissimo Rebora (“Così l’attimo va, / così sfiorarsi e partire, / così due cuori si
lasciano: / ma dove toglie amor forse s’invera”12), un delizioso Palazzeschi, Delio
Tessa (con traduzione), Ungaretti, Montale, Betocchi, il Sereni de Gli strumenti
umani, il sempre grande Mario Luzi, Zanzotto (Collassare e pomerio da Fosfeni,
1983), Giudici e il testo stupendo che chiude l’antologia, che ne è forse la chiave,
dalle Canzonette morali
di Giovanni Raboni (1986). È un trepido inno, quello di
Raboni: malinconico, delicato, vive con leggerezza anche il dolore, con amore
l’addio: “Il cuore che non dorme / dice al cuore che dorme: Abbi paura. / Ma io non
sono il mio cuore, non ascolto / né do la sorte, so bene che mancarti, / non
perderti, era l’ultima sventura.” (l’amore è di chi ci lascia…). “Solo questo domando:
esserti sempre, / per quanto tu mi sei cara, leggero”, versi di p. 86 che suggellano il
libro della Valduga (non a cura della Valduga) a p. 93.
10
p. 36.
pp. 44-46.
12
p. 61.
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CHI NON C’È
Mettiamola così: la libera scelta personale di Poeti innamorati, canto di Patrizia
Valduga, ovviamente divide, come ogni antologia. Ma Poeti innamorati
non è
un’antologia, è un libro cantato da Patrizia Valduga con la voce degli altri. Nelle
note a margine del libro, oltre a non condividere i giudizi letterari su Leopardi e
Gozzano, possiamo solo annotare – in modo personale – le assenze. Tre nomi su cui
si può discutere: Penna, Pasolini, Alda Merini. Ma su tutte spicca l’assenza di
Franco Fortini (1917-1994), autore in anni lontani (1947) di una delle poesie più
struggenti e intense della lirica del Novecento, discorsiva, dal movimento musicale
più che metrico, come una sinfonia di Mahler. S’intitola “Camposanto degli inglesi”
ed è pubblicata in Poesia e errore. È una poesia sul tempo: il tempo che sfuma i
dettagli del ricordo, una fotografia sbiadisce, il bianco e nero tende all’ocra, un volto
ingiallisce, non lo leggi più, ma è intatto l’odore dell’aria, degli sterpi che bruciano,
l’odore d’ottobre, la bocca nel bacio lenta e docile uva, il suono dei passi sulla
ghiaia. E le parole invocano, innamoratissime, un tempo che non c’è più. La
trascriviamo.
Ancora, quando fa sera, d’ottobre,
e pei viali ai platani la nebbia,
ma leggera, fa velo, come a quei nostri
tempi, fra i muri d’edera e i cipressi
del camposanto degli Inglesi, i custodi
bruciano sterpi e lauri secchi.
Verde
il fumo delle frasche
come quello dei carbonai nei boschi
di montagna.
Morivano
quelle sere con dolce strazio a noi
già un poco fredde. Allora m’era caro
cercarti il polso e accarezzarlo. Poi
erano i lumi incerti, le grandi ombre
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dei giardini, la ghiaia, il tuo passo pieno e calmo
e lungo i muri delle cancellate
la pietra aveva, dicevi, odore d’ottobre e il fumo
sapeva di campagna e di vendemmia.
Si apriva la cara tua bocca rotonda nel buio
lenta e docile uva.
Ora è passato
molto tempo, non so dove sei, forse vedendoti
non riconoscerei la tua figura. Sei certo
viva e pensi talvolta a quanto amore
fu, quegli anni, tra noi, a quanta vita
è passata. E talvolta al ricordare
tuo, come al mio che ora ti parla, vana
ti preme, e insostenibile, una pena;
una pena di ritornare, quale
han forse i poveri morti, di vivere
là, ancora una volta, rivedere
quella che tu sei stata andare ancora
per quelle sere di un tempo che non esiste più
che non ha più alcun luogo.
Anche se io scendo a volte per questi viali
di Firenze ove ai platani la nebbia,
ma leggera, fa velo e nei giardini
bruciano i malinconici fuochi d’alloro.13
aprile 2011
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Poesia e errore venne pubblicato da Feltrinelli nel 1959, raggruppava la maggior parte delle raccolte
fortiniane – Foglio di via, Una facile allegoria, In una strada di Firenze, I destini generali – con componimenti
inediti o pubblicati su riviste. La seconda edizione (Mondadori 1969) modifica il titolo in Poesia ed errore,
esclude una parte delle poesie giovanili e riporta un diverso ordine dei testi. Altra edizione nel 1987 per
All’insegna del pesce d’oro e il titolo Versi primi e distanti 1937-1957, confluita poi nel 1990 in Versi scelti
1939-1989 per Einaudi.
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