Medicamenta e altri medicamente di Patrizia Valduga

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Medicamenta e altri medicamente di Patrizia Valduga
Atlante digitale del '900 letterario
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Medicamenta e altri medicamenta
di Patrizia Valduga
In Medicamenta e altri medicamenta
(Torino, Einaudi, 1989¹, poi 2015, con
introduzione di Luigi Baldacci) la poetessa
sfoggia i risultati della sua ricerca sul
linguaggio, la parola è il fulcro dell’intera
opera a partire dallo stesso titolo
attraverso cui Valduga si esprime
servendosi di un lessico raro e formale
ma ricercando simultaneamente
«farmaci, veleni, filtri d’amore» che
dovrebbero proteggere la donna del
poema, ma le si ribellano e la
sopraffanno. All’interno dell’opera la
parola assume l’accezione di anceps, dal
momento che si presenta come innocua,
logora e semplice ma è in realtà un
ostacolo che possiede l’autrice, ed ecco
che la parola non è più letteraria, come
se Valduga rovistasse nel guardaroba
della tradizione, si aggiustasse addosso i
vestiti e si accorgesse che non è più lei a
indossarli ma loro a indossare lei. Il
risultato è il prodotto di un meccanismo
complesso, come dice la stessa poetessa
parlando di Pascoli: la sua poesia è come
un orologio, semplice alla vista ma
estremamente astruso all’interno. Questo
linguaggio non può andare avanti, è
costretto a tornare indietro e a «lavorare
sui rottami», come la fenice esso si
uccide da antico e risorgendo dalle sue
ceneri diventa moderno, ma nuovamente
si ferisce e da moderno ritorna ad antico
in continua metamorfosi: «Mi dispero
perché/ non ho che poche erose
scrofolose/parole, a darsi all’ozio solo
intente/che non sanno far niente».
Il poema si apre con una terzina dal
canto dei ladri che reindirizza sia autore
che lettore all’unico modello accettabile
per chi, non avendo più alcuna possibilità,
le vuole ripetere tutte, Dante. Oltre alla
problematica retorica lo strabordante
desiderio amoroso e sessuale costituisce
uno dei temi fondamentali dell’opera;
esso si rinnova di volta in volta non
essendo mai del tutto appagato ed è
enfatizzato dalla parola: «Sa sedurre la
carne la parola / prepara il gesto,
produce destini…». Il distico costituisce
l’introduzione alla Notte dei sensi, prima
sezione del poema, che presenta temi
quali dissipazione fisica e morale e
ossessiva necessità di un io da torturare
come recita l’incipit di una delle prime
poesie dell’opera: «Vieni, entra e coglimi,
saggiami provami ... / comprimimi
discioglimi tormentami ... / infiammami
programmami rinnovami». La ricorrente
carnalità e il dissidio interiore tra
desiderio dell’esperienza erotica e fuga da
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essa sono evidenziate da un’opposizione
tra mens e corpus, chiaro elogio alla
poesia petrarchesca, che si riflette in
alcuni endecasillabi caratterizzati da
coppie antitetiche («nuocimi, perdimi e
trovami, giovami») che generano una
climax. Nel sonetto Ti voglio far provare il
bel piacere si lascia intendere la volubilità
dell’io lirico espressa nei primi versi della
poesia: «Ti voglio far provare il bel
piacere / pur mio malgrado? Lasciami
tranquilla!». Nella «marea d’amore»
dell’io lirico è chiara la ricerca dell’eccesso
e il rifiuto della moderazione nel piacere:
«Mi sto qui tutta fuori di me. O dio / dio
d’amore, e di sorte, dove il senso…». Per
la poetessa il piacere è tutt’altro che puro
godimento bensì insieme di contrasti tra
bene e male vissuto come sopraffazione.
La seconda sezione, Notti incolori, si
apre con una citazione dall’ottavo canto
dell’Adone di Giovan Battista Marino, che
esprime l’ardore degli amanti Venere e
Adone durante la consumazione del loro
matrimonio. Alla sopraffazione subita
nelle Notti dei sensi si contrappone la
piccola vendetta dell’io lirico che trae
l’amante in un «agguato», lo «incatena»
e lo «inchiavarda» al letto. L’odi et amo
catulliano si ripercuote nei versi
successivi: «Tu del mio cuore non ti sei
curato / Dal giorno astratto, da questo
disfatto / alenava nel buio. Te ne vai? /
Né cuore avrai di curartene ormai». Il
soggetto straziato dall’allontamento
dell’oggetto del desiderio si abbandona
all’eros attraverso l’ invocazione
dell’amante ed ecco dissolversi l’odio e
ricomporsi l’amore: «Solo diceva Torni?
quando torni? / Fuori la notte rifranava, a
brani / si sfaceva... Oh taci! ... È tempo
che torni / e mi baci...». Il soggetto si
lascia possedere dalla passione per
l’amante ma, nonostante sia invasato da
un tale ardore che «per la voglia scoppia
e si sconsola», cerca di frenare l’impeto
erotico: «Oh se potessi scagliarmi al suo
collo / e non destarlo…». Attraverso la
notte e il tempo l’io lirico si propone di
dimenticare l’amante, il tempo deve
«raschiarlo via da cuore e mente», «E
converrà che la notte mi amichi». Il
tentativo di obliare fallisce e «si avvia un
lungo toccare / Cresce e non può
aspettare… / Poi lenti baci e tenaci… / e
baciare a baciare / incìta…». La necessità
di esprimere tali sentimenti e pulsioni si
incanala in un vortice di parole che la
poetessa deve vomitare su «qualcuno che
la ascolti».
Una citazione dalle Rime d’amore di
Torquato Tasso costituisce l’esordio della
terza sezione dell’opera, ovvero Notti
mancate: «Ma stabile aura non mi par
che spiri: / ond’io sovente prendo altro
consiglio / e raccolgo le vele a’ miei
desiri». Gli ultimi versi della
novantaduesima lirica tassesca dalla
notturna atmosfera silenziosa e vibrante
di occulti sospiri esprimono ormai una
logica asimmetrica, una coscienza di
ritmica aritmia: «Ti confortino i ritmi delle
cose… / io son ritmata sui balzi del
cuore», è la frenesia fisica a dare il ritmo
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ai versi, la naturale incostanza dell’uomo
che lo fa «andare errando». Dunque
l’amante è visto come nemico da
sconfiggere e di nuovo l’attenzione si
sposta sulla parola. L’utilizzo del lessico
guerresco enfatizza la conflittualità e il
desiderio di vittoria sull’amante: «Amor
m’impiaga ma mi sto armando: / chiuso
sarai nella trappola e preso. / Quando
sensuale sia la sera, quando ai sensi sale,
in insidie che ho teso / cadrai disteso per
telecomando / mio bell’amore, d’un colpo,
indifeso…». Sebbene il ruolo del nemico
sia chiaro, esso rimane pur sempre un
nemico-amante e l’io lirico si dispera:
«non ho parole / che ad attrarti e tenerti
sian ventose / né a impaurirti parolepistole / del pari del vetriolo perniciose /
non ne ho, per colpirti, come mole /
attive maledette e contagiose / neanche
ne ho armate o di gran mole / o lievi, per
sfiorarti o voluttuose / e termometriche, o
anche al tornasole / d'intimità segrete in
più curiose / di contese, in riserve nere,
spose / al piacere; nemmeno di
insidiose / ne ho, quelle che in cuore
sono esplose / e non lasciano mai intatte
le cose». Il soggetto vuole comunque
appagare il desiderio e non estinguerlo
dal momento che «ha il fegato avvinato
avvelenato» e ormai il nemico-amante è
diventato il «non amante amato». Il non
raggiungimento dello scopo, l’unione con
l’oggetto d’amore, fa sì che la realtà della
vita perda di senso: «Di vacuità, vacazioni
di sé / in assenze… e il futuro che sta là /
e non si fa presente… né si sa / se
rinnegarlo o prevenirlo in sé…/ Darsi uno
scopo che ancora non è / vita… se il
vacuo invita o addita…»; pertanto il
soggetto si rifugia nella notte, comparsa
già in precedenza in soccorso alla donna
fremente. La ricerca retorica non ha fine,
la terza e ultima sezione si avvia al
termine con una citazione ripresa dalla
Tosca per esplicitare la sconfitta verbale
contemporanea: «Frissi d’amor con arte,
d’amor scrissi / senz’arte» e si conclude
con un estratto dal Qohelet, testo della
bibbia ebraica e cristiana: «Si stanca
qualsiasi parola / Di più non puoi fargli
dire».
Dove i Medicamenta si concludono si
apre una sezione di Altri medicamenta,
scritti e aggiunti successivamente ai
primi. La costanza e la determinazione
della figura femminile appaiono visibili
attraverso una citazione dai Madrigali di
Giovan Battista Strozzi: «E son già stanco
e vinto; né per questo / m'arrendo, né
m'arresto». La sezione prosegue in
un’alternanza di ricordi e attimi presenti
nei quali si fa emblematica l’alcaica
tematica del cibo e del vino, come
afferma la stessa poetessa: «Il mio
Donna bambina ma di troppe brame
finisce così: «poco lega l’amoroso
legame… / Oh cuore che mi caschi! Che
rimane? / un annientato niente. E ho
anche fame». Uno stesso quinario finale
riporta i pensieri al terra-terra dei bisogni
fisiologici.
La lirica finale dell’intera opera suggerisce
che l’unica cosa che rimane all’io lirico è
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la memoria tanto che «l’avvenire è nel
passato». Gli ultimi versi che sintetizzano
tutto il percorso erotico lasciano l’amaro
in bocca al lettore: «O ombra del morire,
se in agguato / alla memoria chiami il
tempo andato / lo chiami come un sogno
già sognato / su un amore che zoppo è
sempre andato / né medica la morte, se
è malato / se vive come un morto
sotterrato». La conclusione del poema è
lasciata a una citazione di Prati: «Per
illepido riso o fatuo pianto / se del mondo
dei vivi è poco degno / questo mio libro e
il breve ultimo canto / a te; fabbro di
feretri, consegno».
Bibliografia, sitografia:
Patrizia Valduga, Medicamenta e
altri medicamenta, Torino, Einaudi,
1989
www.criticaletteraria.org
www.youtube.com:
Patrizia
Valduga si racconta
Autografo 46 - I novanta di
Zanzotto, Novara, Interlinea, 2011
Contributo
Marta Martiriggiano (classe V B, L.
C. Virgilio, Roma)
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