AA Il quarto maggiore versione finale
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AA Il quarto maggiore versione finale
IL QUARTO MAGGIORE Piccolo commento alla Costituzione a partire dagli scritti di Carlo Cattaneo “Una formidabile galleria di ingegni e di personalità… A cominciare, s’intende, dai maggiori: si pensi, non solo a quale impronta fissata nella storia, ma a quale lascito cui attingere ancora con rinnovato fervore di studi e generale interesse, rappresentino il mito mondiale, senza eguali - che non era artificiosa leggenda - di Giuseppe Garibaldi, e le diverse, egualmente grandi, eredità di Cavour , di Mazzini e di Cattaneo”. Giorgio Napolitano. Discorso al Parlamento per i 150 anni dell’Italia unita. 17 marzo 2011. Anno scolastico 2010-2011 Opera collettiva degli studenti del corso di Diritto ed economia dell’Istituto Sassetti - Peruzzi di Firenze: Riccardo Arrigucci, Claudio Battaglini, Natasha Bonfiglio, Deborah Bottazzi, Nejoua Elyoussefi, Fatima Zahra Ennassiri, Ilaria Fronzoni, Cristina Mircea, Samantha Merico, Massimiliano Nannucci, Niccolò Petri, Marika Rapicano, Marina Vasyutenko, Josseline Esther Vicente, Lisa Zara. A cura dell’insegnante di diritto ed economia, Prof. Aurora Preosti. IL QUARTO MAGGIORE Piccolo commento alla Costituzione a partire dagli scritti di Carlo Cattaneo pag 1 Indice Premessa PROF. AURORA PREOSTI 2 Art.1 CLAUDIO BATTAGLINI 3 Art. 2 NATASHA BONFIGLIO 7 Art.3, comma 1 JOSSELINE ESTHER VICENTE 11 Art.3, comma 1 NATASHA BONFIGLIO 14 Art. 3, comma 2 RICCARDO ARRIGUCCI 16 Art. 4 comma 1 MASSIMILIANO NANNUCCI 20 Art. 4 comma 2 CLAUDIO BATTAGLINI 23 Art. 4 comma 2 LISA ZARA 24 Art. 9 comma 2 LISA ZARA 27 Art. 4 comma 2 ILARIA FRONZONI 28 Art. 4 comma 2 DEBORAH BOTTAZZI 34 Art. 5 NICCOLO’ PETRI 39 Art. 9 FATIMA ZAHRA ENNASSIRI 44 Art. 11 NEJOUA EL YOUSSEFI 47 Art. 21 MARINA VASYUTENKO 50 Art. 27 MARIKA RAPICANO 53 Art. 33 LISA ZARA 55 Art. 34 SAMANTHA MERICO 59 Art. 37 comma 2 CRISTINA MIRCEA 63 Vacanze SAMANTHA MERICO 66 1 Premessa “Noi non possiamo rinchiuderci a lungo in un solo argomento. Noi qui non dobbiamo scrivere a fondo una od altr’opera; noi, per quanto valgono le nostre forze, vogliamo agitare tutta la scienza, svegliare tutti gli interessi, gettare a destra e a sinistra i nostri studi altrui, per suscitare e incalzare i pensieri della nazione, le sue speranze, i voleri, gli ardimenti”.1 Carlo Cattaneo Nel 1849, con l’armistizio di Vignale, l’Austria chiese per i danni di guerra un risarcimento molto piccolo, ma impose queste condizioni: lo scioglimento dei corpi di volontari e l’isolamento politico dei democratici. In quest’ultimo intento, senza dubbio, gli austriaci sono ben riusciti! Ad oggi, Cattaneo, Ferrari e Pisacane sono quasi scomparsi dagli scaffali delle librerie italiane. La prima copia cartacea dell’Introduzione alle Notizie naturali e civili sulla Lombardia che sono riuscita ad avere, e che proveniva da una biblioteca frequentata dal fior fiore dell’intelligenza italiana, la biblioteca della Scuola Normale di Pisa, era già stata rilegata una volta per vecchiezza, ma le sue pagine erano ancora intonse, legate a due a due: quella copia non era stata mai letta da nessuno. Io l’ho lasciata e restituita così, a testimonianza; ma ne ho cercata subito un’altra, perché la libertà va tenuta nelle mani. “Il Quarto maggiore” è stato scritto dagli alunni delle mie classi per celebrare il centocinquantenario dell’unità d’Italia e il suo titolo è un riconoscimento al Presidente della Repubblica, che nel discorso del 17 marzo alle Camere riunite ha citato Cattaneo insieme con Garibaldi, Mazzini e Cavour come i quattro maggiori protagonisti del processo di unificazione nazionale. Pur essendo basato su scritti retrodatati di almeno cento anni rispetto ad essa, questo lavoro vuole essere un piccolo commento alla Costituzione repubblicana; per riuscire nell’intento, esso si affida alle qualità metastoriche e profetiche di Cattaneo, che sono comuni del resto a tutta quella parte degli scrittori di filosofia civile che si è formata, anche solo parzialmente, sulle opere di Giambattista Vico (penso in particolare a Michelet). Assegnato agli studenti di un istituto professionale per il commercio, il lavoro si proponeva anche di saggiare la loro capacità di comprendere un testo di diritto ed economia che avesse allo stesso tempo qualità letterarie. Da questo punto di vista l’esito è incerto: i miei interventi sui saggi degli studenti sono stati talvolta molto consistenti, anche sulle semplici parafrasi; l’attesa dei loro elaborati è stata estenuante, e in molti casi la loro consegna è arrivata irrimediabilmente tardi. Sempre ho dovuto incoraggiare i miei allievi e fare appello a un’autostima che non avevano. E quando anche si siano mostrati capaci di comprendere le notizie civili, gli studenti non hanno potuto affrontare quelle naturali, questo è certo. Ho letto a tutti, alunni italiani e stranieri, dalla prima alla quinta, il primo paragrafo delle Notizie naturali e civili sulla Lombardia: tutti sono stati attenti, molti di loro anche sinceramente ammirati, ma pochi hanno capito e nessuno si è offerto di lavorare su quel testo. Molti dei libri che con tanta difficoltà mi ero procurata e che ero avida di leggere sono rimasti a giacere negli zaini per sei mesi, non letti; qualche tema importante è stato affidato all’alunno sbagliato. Salvo l’inserimento da parte mia di una piccola nota al tema delle professioni collegate alla scuola, c’è una grande lacuna, il commento all’art. 7; ma questa è voluta. Chi lo desideri, può leggere gli scritti Ai carabinieri ticinesi (1852 - 1858) o scegliere qualcuno degli articoli Pel tiro cantonale di Mendrisio, di Bellinzona, di Locarno, di Lugano, La lettera settima ai liberi elettori e Il clero. Anche Cattaneo li tenne in parte inediti, lasciandoci un saggio consiglio. Sollecitato dall’invito della Regione Toscana alle scuole per la celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, questo lavoro non aderisce a nessun progetto. Perché ho scelto, da molti anni, questa strada. Prof. Aurora Preosti 3 giugno 2011 1 Carlo Cattaneo, Scritti politici, IV, Firenze, 1965, pag. 235 2 Art. 1 Cost. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. “L’impresa dei cittadini era molteplice, abbracciando ella ad un tempo l’acquisto dell’indipendenza e quello della libertà”.2 Carlo Cattaneo Claudio Battaglini La nostra Costituzione comincia con 12 articoli che racchiudono tutti i nostri principi fondamentali. Il più importante e, secondo me, il più bello è l’articolo 1. Comincia con le parole: “L’Italia è una Repubblica democratica”. Queste parole sono il punto d’arrivo di una storia che, dopo secoli di divisione, aveva finalmente condotto all’unificazione politica dell’Italia nel segno della democrazia, ovvero della sovranità popolare. Perché proprio il popolo era stato protagonista di quei moti che avevano guadagnato all’Italia l’indipendenza e la libertà. Del ruolo della cittadinanza nella costruzione dell’unità nazionale attraverso la rivoluzione è assertore e testimone d’eccezione Carlo Cattaneo. Nel raccontare gli eventi che prepararono l’insurrezione di Milano del 1848, Cattaneo nega che “il moto rivoluzionario in Italia movesse dai signori, per calare passo passo ad una cittadinanza ignara e servile”3: no, l’anima della nazione non era il patriziato, spesso retrivo e volentieri asservito ai dominatori austriaci, bensì “l’ordine cittadino”, nel quale più numerosi erano gli uomini di cultura e più fervida la volontà di liberare la nazione dallo straniero. I fatti vissuti e descritti da Cattaneo datano esattamente ad un secolo prima dell’entrata in vigore della nostra Costituzione. La Costituzione, infatti, entrò in vigore il primo gennaio 1948; cento anni prima, il primo gennaio 1848, lo sciopero del fumo, a Milano, dava inizio a quello straordinario anno di insurrezioni che rimase proverbiale in Europa. “Il generalissimo Radetzki, attorniato da uno stato maggiore di teutomani, agognava al momento di far sangue e roba, millantandosi di voler rifare in Italia le stragi di Galizia. Come dubitarne, quando si vedeva comparire nello stesso tempo in Brescia con autorità militare il carnefice Benedek, e con autorità civile il fratello del carnefice Breindl? Al primo di gennaio, i giovani di tutto il regno si erano invitati fra loro a non fumar più tabacco, per togliere alla finanza austriaca una delle sue principali entrate. Lo stato-maggiore distribuì tosto trentamila cigari ai soldati, e dando loro quanto denaro bastasse ad ubriacarli, li mandò ad attaccar briga in città. I medici delle prigioni riconobbero nella via bande di condannati, alcuni in atto di fumare per irritare il popolo, altri in atto d’urlare dietro ai soldati che fumavano. Alla sera del 3 gennaio, granatieri ungaresi e dragoni tedeschi si avventavano colle sciabole sulla gente che moveva pacifica per la città; evitando i giovani, ferivano e uccidevano vecchi e fanciulli. Si seppe che arrestati molti cittadini si trovarono senz’armi; onde fatta manifesta la vile insidia dei militari, molti dicevano apertamente: un'altra volta noi pure saremo armati; e si vedrà!”4 La nostra penisola era allora in gran parte asservita all’Impero austriaco e divisa in sette stati indipendenti l’uno dall’altro: il Regno di Sardegna, il Regno Lombardo-Veneto, il granducato di Toscana, il Regno delle Due Sicilie, lo Stato Pontificio e i ducati di Parma e Modena. Dal gennaio al marzo 1848 in Europa si susseguono molti moti ed insurrezioni: 2 Carlo Cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848 – Il 1848 in Italia – Scritti 1848-1851, Torino, 1972, pag. 29 ibidem, pag. 25. 4 ibidem,. pag. 40 3 3 “Ciò che pochi giorni addietro era meno che una speranza, era un sogno, oggi è un fatto: un fatto splendido, vasto, universale. Tutta l’Italia, tutta la Francia, tutta la Germania, la Danimarca, la Boemia si sono trasformate ad occhio veggente in sessanta giorni. Il 12 di genaio, a mezzodì, andavano al palazzo del vicerè di Sicilia le donne palermitane vestite a bruno a prendere la risposta fatale; e tornando repulse e dolenti, davano ai fratelli e alli sposi il segno del combattimento. Si combatteva e si vinceva tosto in Sicilia. E pochi giorni dopo in Francia. E pochi giorni dopo, nell’antico inviolato nido della schiavitù, in Vienna. Si vinceva senza combattere a Baden, a Stuttgarda, a Monaco, a Buda. Era una guerra sola, un solo nemico, dovunque vigilante, dovunque armato, dovunque a fronte delli inermi; il premio della vittoria era da per tutto il medesimo: la libera parola; i giudicii in publico; le finanze palesi; la fede reciproca fra governanti e governati. Qua il principato ereditario, colà un comitato elettivo; li chiamano la republica e il regno; cose d’opinione, di tradizione, di forma; ma in sostanza la cosa publica per tutti e da per tutto.”5 Cattaneo era sfavorevole all’insurrezione popolare: in mancanza di un esercito, infatti (le milizie italiane erano state disperse fra i reggimenti austriaci ai confini dell’Impero), una ribellione di popolo sarebbe stata priva di sostegno e avrebbe significato esporsi alle rappresaglie di generali spietati, alla rapina e alla violenza dei soldati austriaci, in una parola agli spiriti vendicativi di quell’impero di cui la Lombardia era solo piccola parte.6 Il piano di Cattaneo era molto diverso: sarebbe bastato, a suo modo di vedere, “tenere i nemici nel duro e spinoso campo della legalità”. “Era fatto palese che le finanze imperiali stavano in mali termini, e che le diverse nazioni, fatte conscie di sè, tendevano a smembrare l’imperio. A poco a poco l’esercito imperiale sarebbe caduto nell’impotenza e nella dissoluzione; poichè ogni popolo avrebbe cominciato a tenere a sè i suoi denari e li uomini, e ad armarsi in casa propria. In mezzo a codesto disfacimento, i doviziosi sussidii che dalla Lombardìa sola si potevano sperare, avrebbero adescato il ministerio medesimo delle finanze a farsi nostro sostenitore contro li arbitrii della polizìa, e a venderci a ritagli la libertà; e infatti i banchieri viennesi, nel dissesto imminente delle finanze, avevano già sollecitato più volte il Consiglio di venire a qualche temperamento con noi. Ci saremmo dunque avviati alla libertà per una serie di franchigie, come accadde in Inghilterra e altrove; il che sarebbe però avvenuto con quella velocità colla quale ogni principio politico ai nostri giorni si svolge. Ciò posto, bastava tenere i nostri nemici nel duro e spinoso campo della legalità; poichè la violenza e la guerra ci avrebbero in quella vece consegnati alla prepotenza militare, porgendo al nemico un altro modo di vivere a nostre spese”.7 Il 17 marzo arriva a Milano la notizia dell’insurrezione di Vienna: è stata abolita la censura, c’è libertà di parola. Forte di questo nuovo potere, Carlo Cattaneo scrive quella notte un articolo intitolato: PRIMO PROGRAMMA DI UN GIORNALE LIBERO IN MILANO; ARMI E LIBERTA’ PER TUTTE LE NAZIONI DELL’IMPERIO, OGNUNA ENTRO I SUOI CONFINI Cattaneo si propone di portarlo a stampare la mattina dopo, ma i cittadini, che hanno stima e fiducia in lui, bussano più volte alla sua porta: lo vogliono a capo della sollevazione. Ha inizio così l’insurrezione milanese. La portata storica di questo evento è grandissima, per diverse ragioni. La principale, in rapporto con il carattere democratico della nostra Repubblica e con il testo del primo articolo della Costituzione, è che all’insurrezione parteciparono i popolani: “Ma la maggior turba delli uccisi doveva ben essere fra li operai; le barricate e li operai vanno insieme ormai come il cavallo e il cavaliere. Il sacro mestiere delli stampatori ebbe cinque morti, e troviamo fra i morti anche un legatore. Vi sono tre machinisti, un incisore, un cesellatore, un orefice. Dei lavoratori di ferro e di bronzo morirono non meno di quindici … Ed è pure glorioso all’arte de’ calzolai il numero di tredici uccisi. Dei sarti caddero quattro; tre cappellai; e venti tra verniciatori, doratori, sellai, tessitori, 5 Carlo Cattaneo, Primo programma di un giornale libero. Il 1848 in Italia – Scritti 1848-1851. Torino, 1972, pagine 3 e4 6 “La Lombardìa è piccola parte d’un imperio più vasto della Francia. Sommoverla a tumulto, era esporla senz’esercito alla vendetta di generali feroci, abbandonare le città nostre alla rapina, le famiglie nostre alla violenza dei barbari; cimentare le speranze stesse della libertà. Chi amava la patria, doveva arretrarsi a quel pensiero, e rivolgere la mente a meno incerti e men disastrosi disegni”. pag. 29 7 Carlo Cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848 – Le dimostrazioni. 1972 in Il 1848 in Italia – Scritti 1848-1851. Torino, 1972, pag. 30 4 filatori, guantai e anche un parrucchiere. V’ha una decina di muratori, scalpellini e d’altre arti edilizie. L’agricoltura ebbe le sue vittime nel fittuario Molteni, in un giardiniere, un ortolano e sei contadini. Un cadavere diedero le guardie di finanza e due i valorosi pompieri. Abbiamo infine parecchi facchini e giornalieri, e altri ignoti di mestiere e di nome … L’unica relazione che forse potrebbero avere codesti registri col patriziato è una lista di circa diciotto tra servitori, cocchieri, cuochi e portinai … Grande più che non si crederebbe è il numero delle donne uccise; alcune lo saranno state per case, ma molte per coraggio e per amore”8 Essi agirono inventando di tutto e di più, procurandosi armamenti di fortuna, fondendo essi stessi le palle di cannone e recuperando i proiettili nemici9, e non furono mai sanguinari, perché non vollero spargere sangue al di fuori delle linee di battaglia. Quando venne catturato il conte Bolza, capo della polizia austriaca, gli insorti lo portarono da Cattaneo per sapere cosa dovevano farne e ricevettero per risposta queste parole: “SE LO AMMAZZATE FATE UNA COSA GIUSTA, SE NON LO AMMAZZATE FATE UNA COSA SANTA”. Dopo i cinque giorni di insurrezione l’esercito di Radetzki era in fuga: “Non era arduo per noi rompere tutti i ponti, rovesciare nei rivi le strade, arrestare le aque e farle rigurgitare sui prati, atterrare le continue piantagioni che li orlano e li attraversano, avviluppare il nemico in una palude artificiale, ove il passo dei cannoni e dei carri fosse impossibile. Fra noi si suol dare a quella moltitudine di fossati il nome appunto di rete: e tale precisamente appare a chi la vede disegnata nelle carte. Ma l’esperienza non aveva rivelato ancora al popolo quanto efficace difesa egli avesse”.10 E qui si fece vivo il re del Piemonte, Carlo Alberto, che nel 1821 aveva tradito i compagni abbandonandoli alla condanna a morte o all’esilio, e di cui Cattaneo ha lasciato un giudizio non lusinghiero. Carlo Alberto era, per Cattaneo, “un giovine congiurato divenuto re”11, e la sua politica si riassumeva in questi termini: “Carlo Alberto era mosso alla guerra da molte ragioni. Voleva anzi tutto continuare l’avita tradizione della sua casa di scendere coi secoli e col Po … Voleva poi salvare in Italia la parte retrograda … L’improvviso risurgere della repubblica francese apriva il campo ad un profondo rimutamento di tutta l’Europa. La corte di Torino doveva supplire all’officio che la vacillante Austria non poteva sostenere ormai più, di proteggere e appuntellare le opinioni stantìe … Il nome della libertà attraeva li animi nostri verso la Francia. Necessitava dunque d’intercettare quella vibrazione magnetica che moveva dalla Transalpina alla Cisalpina. Tale è l’officio avito e perpetuo della casa di Savoia … È meno amaro a quella corte l’essere calpestata dall’Austria, che protetta dalla Francia. Meglio perire, che implorare quelli aborriti soccorsi. Far da sé. 12 Fu con quella fatale parola che Carlo Alberto si strinse in alleanza con noi.” Di contro al ruolo assunto dalla corona di Savoia nella cacciata degli austriaci, Cattaneo propugnava per l’Italia l’ideale repubblicano. Ecco come egli parla della repubblica nella nostra storia: “Tutte le istituzioni in Italia hanno da tremila anni una radice di republica; le corone non vi ebbero mai gloria” [...] “Roma, l’Etruria, la Magna Grecia, la Lega di Pontida, Venezia, Genova, Amalfi, Pisa, Fiorenza, ebbero dal principio republicano gloria e potenza. Mentre in Francia il vocabolo di republica suona tuttavìa straniero, nella istoria d’Italia risplende ad ogni pagina; s’intreccia alle memorie del patriziato e della chiesa; sta nelle tradizioni delle genti più appartate. Gridar la republica nelle valli di Bergamo o del Cadore è così naturale come gridare in Vandea viva il re! 8 Carlo Cattaneo, Registro mortuario delle barricate di Milano. 3 luglio 1848 in Italia del popolo in Carlo Cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848 –in Il 1848 in Italia – Scritti 1848-1851. Torino, 1972, pag. 83 . 9 “Si facevano cannoni di legno cerchiati di ferro, tanto che reggessero a certo numero di colpi; si faceva polvere e cotone fulminante; si fondevano palle; si raccoglievano con cura i proiettili nemici …” Carlo Cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848 – Il consiglio di guerra. 1972 in Il 1848 in Italia – Scritti 1848-1851. Torino, 1972, pag. 66 10 Carlo Cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848 – Il comitato di guerra. 1972 in Il 1848 in Italia – Scritti 18481851. Torino, 1972, pag. 85 11 Carlo Cattaneo, Considerazioni [sulle cose d’Italia nel 1848]. in Il 1848 in Italia – Scritti 1848-1851. Torino, 1972 12 Carlo Cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848 – La politica di Carlo Alberto. in Il 1848 in Italia – Scritti 1848-1851. Torino, 1972 5 L’avversione d’una parte dei nostri patrizii per la republica è cosa di recente origine; provenne loro dalli stranieri; e per effetto d’avvenimenti che non appartengono alla patria nostra.”13 Ma il 17 marzo 1861 il successore di Carlo Alberto è proclamato re d’Italia e la legislazione piemontese viene estesa a tutto il Paese. È l’Italia finalmente unita, sì, ma è un’Italia triste e malridotta; milioni di lavoratori “estenuati dalla miseria e dalla disoccupazione forzata, si dirigono verso altre terre più ospitali”14, i bambini vengono venduti dalle famiglie e mandati a lavorare nelle miniere e nelle vetrerie francesi o a mendicare come suonatori d’organetto nelle strade di Londra. Dovranno passare ancora cento anni dopo l’insurrezione di Milano, perché l’Italia – superati il fascismo, le leggi razziali e la guerra – realizzi, con la Resistenza, il sogno repubblicano e democratico del Risorgimento. È appunto questa, repubblicana e democratica, l’Italia descritta dall’art. 1 della Costituzione. 13 Carlo Cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848 – La politica di Carlo Alberto. in Il 1848 in Italia – Scritti 1848-1851. Torino, 1972 14 Luigi Einaudi, Il problema dell’emigrazione in Italia.(16 marzo 1899) in Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893 - 1925) , vol. I, Torino 1959. 6 Art. 2 Cost. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. “La morale pubblica non è una favola immaginata dagli scrittori, e non si viola impunemente nemmeno dai potenti.”15 Carlo Cattaneo Natasha Bonfiglio La schiavitù è un male molto antico; il cristianesimo l’aveva combattuta e vinta, ma essa continuava ad esistere ed era ripresa in Europa dopo la metà del Duecento, quando l’aumento della ricchezza e del lusso stimolava la ricerca di merci esotiche e rare, e lo schiavo era appunto una “mercanzia”. 16 Con le Crociate, cristiani e musulmani si facevano reciprocamente schiavi, “i genovesi, i veneziani e i fiorentini commerciavano schiavi di origine balcanica, armena, russa, circassa, mentre nei porti berberi i trafficanti siciliani, provenzali, aragonesi acquistavano per lo più mori o negri provenienti dal Sudan..”17 Nella sua Storia della guerra civile americana Raimondo Luraghi cita Alexis de Tocqueville: “Il Cristianesimo aveva distrutto la schiavitù; i cristiani del sedicesimo secolo l’hanno ristabilita; essi tuttavia non l’hanno mai ammessa che come un’eccezione nel loro sistema sociale, ed hanno preso cura di limitarla ad una sola delle razze umane. In tal guisa essi hanno inferto all’umanità una ferita meno larga, ma infinitamente più difficile a curarsi”.18 Leone Africano, lo scrittore più volte citato da Cattaneo, era schiavo di papa Leone X. Lo schiavo era una merce preziosa, destinata a soddisfare esigenze di lusso, e mai o quasi mai inserito nel normale processo produttivo. Quando il fenomeno della schiavitù si estese alle colonie inglesi d’America, accadde qualcosa di diverso dal punto di vista economico perché qui divenne un sistema di produzione. Il lavoro schiavistico non era compatibile con le attività commerciali e manifatturiere del Nord e il clima ed il terreno non erano adatti allo sviluppo delle piantagioni e al lavoro degli schiavi; gli yankees, prevalentemente mercanti e navigatori, realizzarono con la tratta degli schiavi guadagni colossali, ma fu nel Sud che l’economia schiavistica diventò un modo di produzione. La gente del Sud era preoccupata per le conseguenze che l’economia schiavistica avrebbe prodotto: la dipendenza dal lavoro servile, il pericolo delle insurrezioni, e tutti i problemi di coesistenza; ma quando le colonie del Sud emanarono provvedimenti per vietare l’introduzione di nuovi schiavi, i provvedimenti furono subito annullati dal governo di Londra. All’acquisto dell’indipendenza, si profilò l’intenzione di attuare un’abolizione graduale della schiavitù; la Costituzione degli Stati Uniti, il 17 settembre 1787, all’art. 1 della sezione IX, affermava: 15 Carlo Cattaneo, Compenso ai coloni britannici per la liberazione dei negri, in Industria e Scienza Nuova, Scritti 1833-1839, Torino, 1972, pag. 11 16 Raimondo Luraghi, Storia della guerra civile americana, Milano, 2011, pag. 43. 17 Ibidem, pag. 44. 18 A. De Tocqueville, De la democratie en Amérique, Paris, 1848, vol.I, pag. 35 in Raimondo Luraghi, Storia della guerra civile americana, Milano, 2011, pag. 43. 7 “L'immigrazione o l'importazione di quelle persone, che ciascuno degli Stati attualmente esistenti ritenga opportuno ammettere, non sarà vietata dal Congresso prima dell'anno 1808; ma, per ogni persona importata si potrà far gravare una tassa o un dazio, non superiore ai dieci dollari”. Nel Sud gli schiavi costituivano il 40% della popolazione e la maggioranza lavorava nelle piantagioni. Mentre nelle piccole piantagioni gli schiavi non erano altro che servitori, quasi membri della famiglia, in quelle di grande estensione la loro condizione era disumana. Il loro orario di lavoro era fissato per la legge a quindici ore lavorative. Gli schiavi avevano alcune “armi” di difesa, quali la fuga, che era severamente punita, o il sistema di lavorare con svogliatezza e con trascuratezza; oppure si davano malati, e i proprietari cedevano perché lo schiavo rappresentava il capitale investito. Nessun proprietario terriero era interessato a possedere schiavi denutriti ed erano dati agli schiavi, settimanalmente, farina, caffè, melassa, tabacco e, in alcune piantagioni, il bacon. I proprietari terrieri dedicavano attenzione ai bambini neri: era nel loro stesso interesse che i figli degli schiavi crescessero sani e forti, perché erano altre braccia gratis da poter sfruttare senza dover mercanteggiare qualche altro schiavo. Ritenevano d’altra parte di non dover lesinare sul cibo perché altrimenti essi avrebbero provveduto da loro, rubando. Jefferson diceva che lo schiavo era naturalmente portato a prendere qualcosa a chi gli prendeva tutto. 19 Sul piano giuridico lo schiavo non poteva possedere nulla, essendo egli stesso non un uomo ma una cosa, e tutto ciò che egli aveva era di diritto proprietà del padrone. In alcune piantagioni gli schiavi si coltivavano un piccolo orticello, naturalmente se l’orario di lavoro consentiva questo, e l’orto era situato presso l’abitazione dello schiavo: una capanna di tronchi d’albero di nove - dieci metri per otto, con camino; questa era la migliore abitazione offerta, perché le capanne potevano essere di non più di cinque metri, senza finestre ovviamente. Il vestiario era misero: annualmente il padrone faceva avere allo schiavo qualche pantalone, la camicia da lavoro e un paio di scarpe; con i loro risparmi, gli schiavi si acquistavano degli abiti per i loro pochi giorni festivi. Lo schiavo era esposto all’arbitrio del padrone, che poteva commerciarlo come un qualunque oggetto, senza riguardo per i sentimenti. Le donne che non riuscivano ad avere figli erano vendute; a volte erano venduti i bambini; la separazione di queste famiglie in seguito a vendita rappresentò uno degli aspetti più dolorosi della schiavitù.20 Per la vendita, gli schiavi erano messi all’asta, esaminati minuziosamente e fatti perfino spogliare. Un’altra terribile questione era il commercio sessuale: i padroni disponevano liberamente delle schiave come volevano; i figli nati da quei rapporti erano moltissimi. I padroni sottoponevano gli schiavi a maltrattamenti, anche a pene corporali: la più usata era la frusta e anche i migliori piantatori ne facevano uso. Esistevano leggi che sottoponevano a pene severe coloro che uccidessero o torturassero uno schiavo, ma ai neri era vietato di testimoniare contro i bianchi e le sentenze contro i seviziatori erano miti. Furono votate leggi restrittive della poca “libertà” lasciata agli schiavi: in numerosi stati del Sud, era vietato ai neri di riunirsi senza la presenza di un bianco e non era concesso trovarsi fuori della piantagione senza un permesso scritto dal padrone; pattuglie di sorveglianti dovevano vigilare per questo. L’economia schiavistica portò i coltivatori del Sud alla rovina economica. Quando tra gli anni Trenta e Sessanta lo sviluppo dell’industria trasformò l’agricoltura degli Stati del Nord introducendo le mietitrici meccaniche e le altre nuove macchine agricole, fu impossibile competere con il Nord negli investimenti, perché tutto il capitale disponibile era investito nella mano d’opera schiava, e fu impossibile ricorrere alla massa di immigrati perché la schiavitù cacciava il lavoro libero. “L’immigrazione forniva al nord mano d’opera ottima e che non costava 19 20 Ibidem, pag. 54 Ibidem, pag. 59 8 nulla eccetto il salario; gli schiavi nel meridione costavano sino a 1500 dollari l’uno, senza contare le spese di mantenimento”.21 Negli Stati Uniti la schiavitù è stata abolita solo dopo la guerra civile americana, nel 1865. Interventi di Carlo Cattaneo sulla questione degli schiavi (1833-1860) Sembra non esistere questione economica, politica o sociale che Carlo Cattaneo non affronti in uno o più dei suoi moltissimi scritti. Su uno stesso problema egli torna, anzi, generalmente più volte nel corso degli anni: ne segue l’evoluzione, suggerisce soluzioni, commenta l’operato dei governi e le tendenze delle società; non tralascia alcun argomento, per quanto particolare e concreto possa essere, ma non usa argomenti retorici o altisonanti e si muove di continuo, con metodo, fra l’analisi minuta dei dati e la sintesi. Anche sulla questione dello schiavismo Cattaneo torna più volte. Nel 1833 [sul Bullettino di notizie statistiche ed economiche italiane e straniere annesso agli Annali universali di Statistica, Economia pubblica, Storia, Viaggi e Commercio, 37, 1833, 384-87] egli pubblica un articolo dal titolo Compenso ai coloni britannici per la liberazione di negri.22 Dando qui per acquisito che la causa della liberazione degli schiavi sia ormai del tutto condivisa dall’opinione pubblica, Cattaneo affronta il problema se sia giusto o meno offrire dei compensi ai coloni britannici in cambio della liberazione dei loro schiavi. Alla base dell’intervento sta la convinzione, esplicitamente affermata all’inizio, che l’estremismo, anche quando applicato alla verità e alla giustizia, è irrealistico e quindi nocivo, poiché non produce soluzioni concrete. Perciò, secondo Cattaneo, non è utile sostenere, come fanno “i zelatori della dignità umana”, che ai coloni non si deve alcun compenso, più di quanto non lo si dovrebbe “ai ladroni o ai pirati”. Poiché i coloni versano in condizioni di grave debito economico, Cattaneo suggerisce, in nome del perseguimento positivo di un riequilibrio generale delle buone condizioni di vita, alcune possibili soluzioni che prevedano, a fronte della liberazione degli schiavi, un indennizzo economico ai coloni. “Altronde, giova tener viva nei popoli la certezza che la proprietà, acquistata a lettera di legge, è inviolabile” e “le nazioni hanno un grande esempio per imparare che coloro che s’ingolfano in sistemi riprovati dalla morale e dal diritto, e quindi dalla vera economia, consumano presto o tardi la propria ruina; e cagionano tardo pentimento anche a quelli che prostituirono le sacrosante ragioni della legge per proteggere l’altrui iniquità. La morale pubblica non è una favola immaginata dagli scrittori, e non si viola impunemente nemmeno dai potenti.”23 L’anno successivo (1834) Cattaneo torna sull’argomento schiavitù con un brevissimo intervento: America – Pertinace continuazione della tratta dei Negri [sul medesimo Bullettino di notizie etc., 1834, I, 215].24 Questo articolo ha un carattere diverso dal precedente. Quello era di taglio politicoeconomico, piuttosto tecnico, e il tono con cui era scritto era nel complesso positivo, pacato, fin dall’apertura che dava per acquisita nella società civile la causa dell’abolizione della schiavitù. L’articolo del ’34, invece, nella prima parte si presenta come una cronaca: riferisce dell’azione britannica contro il commercio negriero che gli Americani continuano a esercitare; in particolare racconta che il tenente della marina britannica Bolton, dopo 9 mesi di pressione e anche di vero e proprio combattimento, ha finalmente liberato 1010 neri che venivano portati all’Havanna su navi negriere. Non si tratta di cronaca distaccata: la partecipazione di Cattaneo è evidente in espressioni come “i mercanti di carne umana”, “il prode marinaio Bolton”. Nelle ultime righe dell’articolo, la passione con cui Cattaneo segue e interpreta gli eventi è molto evidente e lo stile si fa drammatico, 21 ibidem, pag. 94. Carlo Cattaneo, Industria e Scienza Nuova, Scritti 1833-1839, Torino, 1972, 8-13. 23 Ibidem, pag. 11. 24 Carlo Cattaneo, Scritti politici, I , Firenze, 1964, pag. 63 22 9 pur nella concisione. L’autore esplicita la propria posizione di condanna e riprovazione per il mercato di schiavi che ancora viene praticato e indica con vigore la soluzione da perseguire: “né sarà mai possibile di sradicarlo combattendolo sui mari, se colla forza non si costringono tutti i governi renitenti ad abolire il nefando diritto di proprietà sugli schiavi”. Di taglio ancora diverso è l’articolo Fatti che potrebbero servire per una storia naturale comparata degli animali politici. Prepotenza del più forte. La schiavitù tra le specie delle formiche, di molti anni più tardo [fu pubblicato anonimo in Politecnico, 9, 1860, 119-20].25 Qui l’autore muove da un’osservazione naturalistica relativa al comportamento delle formiche: alcune formiche ne schiavizzano altre (più deboli fisicamente). Le formiche fosche sono quasi tutte ridotte in schiavitù dalle formiche sanguigne; “esistono per altro delle comunità indipendenti; ed è dato talora di assistere ad alcune di quelle epoche fatali in cui alcuno di quelli staterelli perde la sua indipendenza”. La descrizione si conclude con la considerazione che gli animali che si fanno servire da altri perdono completamente la loro autonomia e le loro capacità. La formica rufescens, che ha una quantità di formiche schiave, è ridotta a dipendere assolutamente da queste. “Non sa fabbricare il suo nido, non sa determinare le proprie emigrazioni, non sa raccogliere cibo né per sé, né pe’ suoi piccoli, né sa nutrire sé stessa”. Solo nelle ultime righe Cattaneo rende esplicita quell’analogia fra le abitudini di queste formiche e i comportamenti di certe società umane, che era implicita in tutta l’analisi naturalistica compiuta prima. E, pur nell’estrema serietà della sua tesi, lo fa con una certa ironia e leggerezza, immaginando che in futuro le formiche schiavizzate facciano la rivoluzione: “sarebbe curioso che, come la nostra generazione assiste all’atto in cui quella razza infelice ha perduto la propria indipendenza, qualche età dei nostri posteri si trovasse all’epoca della rivoluzione, che ripetesse cioè quello che avviene tante volte nella storia delle società umane”.26 25 26 Carlo Cattaneo, Scritti politici, I, Firenze, 1964, pag. 229 Carlo Cattaneo, Scritti politici, I, Firenze, 1964, pag. 230 10 Art. 3 Cost. primo comma. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Gli ebrei sono pastori ma non contadini. Celso variamente li chiama “i senza casa”, oppure “coloro che vivono sui carri”, oppure “coloro che dormono sotto la tenda per nutrire l’armento”. E’ l’assenza di ruralità che li ha resi invisi? La vita rurale è elementare e innocente. E’ la vita esemplare. E’ la vita che tutti dovremmo vivere, perché ce ne siamo staccati?27 Alberto Savinio Nel 1835 Cattaneo si rivolge a tutti i governi d’Europa, dimostrando che avrebbero interesse ad abolire ogni disuguaglianza fra i cittadini cristiani e israeliti per tre motivi fondamentali: per richiamare capitali in sussidio “all’universale rigenerazione dell’agricoltura”, per correggere almeno in parte il rapido incremento del debito pubblico e per “sovvenire al crescente pauperismo delle masse cristiane.” L’analisi di Cattaneo spiega tutti gli svantaggi economici della proprietà fondiaria, e soprattutto il fatto che “le ricchezze prediali riescono in realtà meno trasferibili e girabili di tutte”, e nello stesso tempo tutto il prestigio che la nostra cultura conferisce alla proprietà terriera, e dunque tutta la diabolica astuzia del potere che stabilisce il divieto per creare diffidenza verso chi vive diversamente da noi. “Diffidiamo di chi vive diversamente da noi. Colui fa quello che io non faccio, conosce quello che io non conosco; dunque mi giudica. Gli ebrei infatti rappresentano la presenza estranea, e nel Medio evo erano chiamati “i testimoni”. 28 Josseline Esther Vicente DIRITTO, ECONOMIA, MORALE Le interdizioni imposte dalla legge civile agli israeliti La parola “usura” nel nostro linguaggio indica l'illegale ed esoso interesse del denaro prestato, ed il nome usuraio enuncia avidità, mala fede e crudeltà. Ma intorno al IV secolo il nome usuraio, già assai disprezzato, comprendeva anche il più giusto e onesto frutto dei capitali. «Era quello un secolo di miseria e d'ignoranza». Non si era in grado di concepire che senza capitali di qualunque genere, sia propri che prestati, non esisteva né commercio, né agricoltura, né produzione né tanto meno reddito. «Si credeva che capitale e denaro fossero sinonimi” e poiché il denaro non produce frutti, [...] “chi aveva il suo patrimonio in terre, in case e in bestiami poteva in buona coscienza godersene il reddito; ma chi per sua disgrazia si trovava ad averlo in denaro, non aveva diritto a trarne alcun frutto; e ch’era tenuto a prestarlo gratuitamente.”29 “Se conti ricevere più che non hai dato, sei feneratore”30 27 Alberto Savinio, Narrate uomini la vostra storia, Nostradamo, Milano, 1984, pag. 187 ibidem, pag. 187 29 Carlo Cattaneo, Interdizioni israelitiche, Fazi editore, 1995, pag. 91 30 dal latino fenus, usura 28 11 Gli Israeliti erano, per le loro tradizioni, propensi alla vita agreste ed ostili al commercio e non sembra che nell’antichità avessero la fama di conoscere l'arte di accumulare tesori. Molte altre nazioni o colonie mercantili come Fenici e Greci, o persino gli stessi cavalieri romani, avevano già messo mano sui più proficui settori del commercio, come il cambio, l'usura e le finanze. Non è chiaro se la legge romana proibisse agli Ebrei la proprietà o “altro diritto concesso agli altri sudditi peregrini”, ma fu in mezzo alle miserie e alla confusione del Medioevo che gli Israeliti, liberi dall'influenza delle surreali e aristoteliche opinioni altrui, si ritrovarono fra le mani la maggior parte del traffico feneratizio, i cui guadagni crescevano quanto più cresceva la miseria universale. “Mentre i villani faticavano sull’aratro e i cavalieri, malinconici e ottusi, se ne andavano carichi di ferro verso il combattimento e la morte, loro i “senza casa” occupavano le città, praticavano i commerci, si circondavano del profumo delle spezie, accumulavano l’oro”.31 Di conseguenza gli Ebrei dominarono tutti i traffici, che quanto più erano difficili tanto più erano lucrosi. Ma non gli era permesso trasformare in proprietà fondiarie tali guadagni, «per la natura stessa dell'ordine feudale che confondeva la possidenza colla signoria. [...] I guadagni accumulati, ripulsi dal corso naturale che li spinge alla possidenza, rigurgitarono adunque nell'usura»32. Innumerevoli furono le pene che gli Ebrei dovettero subire. Nel 1179 il re Filippo Augusto, dopo aver tolto agli Israeliti del suo regno tutti gli oggetti preziosi e i loro crediti ed avergli confiscato due anni dopo tutti i loro immobili, li scacciò nel 1182 dal regno, privando il paese dell'unica classe ingegnosa, trafficante e affarista. Dopo poco però fu costretto a vendere agli Ebrei la licenza del ritorno. Non diversa fu la situazione in Francia, dove Filippo il Bello fece incarcerare in una notte tutti gli Ebrei del paese, appropriandosi dei loro crediti e costringendoli a vendere tutti i loro mobili e immobili; poi li cacciò dal paese con minaccia di morte a chi faceva ritorno. «Molti perirono sulle vie di stanchezza e dolore» ma mantennero sempre l'amore della loro terra, nonostante le svariate avversità e malignità a loro inflitte. Vi tornarono in gran numero ma «costretti a mutar paese, preferivano alla vita la morte». Agli ebrei non solo era vietata la proprietà della terra, era vietata anche la proprietà della casa, anche della casa di abitazione e in qualche legislazione anche il diritto di soggiorno. Nella notte del 4 agosto 1789 l’assemblea nazionale abolì in Francia tutti i privilegi e proclamò l’uguaglianza di tutti i cittadini, ma non tolse le interdizioni civili che gravavano sugli Ebrei. Per due volte vennero prorogate. Solo nel 1791 gli Ebrei nati in Francia venne compresi tra i cittadini.33 Trent’anni dopo la dichiarazione dei diritti dell’uomo e la proclamazione dell’uguaglianza, la legislazione svizzera vietava ancora agli ebrei il possesso della terra. Due ebrei francesi avevano acquistato delle terre nel cantone svizzero di Basilea Campagna , ma il contratto venne annullato dalle autorità della città di Basilea, che applicavano in questo gli antichi statuti della città. I trattati della Svizzera con la Francia impedivano però di trattare i cittadini francesi in modo diverso da come la Francia trattava i cittadini elvetici. “ I fratelli Wahl sono in Francia indubitabilmente francesi. Può forse avvenire che siano francesi in Francia e siano non francesi all’estero?”34 Cattaneo non si lancia in grandi e nobili perorazioni, che considera controproducenti. Semplicemente analizza da molti punti di vista la proprietà immobiliare. “Le ideologie dei tempi passati influenzano sempre, anche segretamente, l'opinione del nostro presente, e quindi permane tuttavia una certa convinzione dell'eminenza della proprietà fondiaria, la quale non viene considerata solo una semplice proprietà ma un onore, un onore che in certi paesi veniva chiamato 31 Alberto Savinio, Narrate uomini la vostra storia, Nostradamo Milano, 1984, pag. 187 Carlo Cattaneo, Interdizioni israelitiche, Fazi editore, 1995, pag. 95 33 ibidem, pag. 71 34 ibidem, pag. 74 32 12 signoria”. «Laonde alcuni credevano che concedendo agli Israeliti il diritto di possidenza si conferiva loro un grado d'onore di cui non siano degni».35 Analizza gli effetti economici conseguenti alla esclusione degli ebrei dal possesso delle proprietà fondiaria e trova in questa esclusione la principale ragione della loro ricchezza. “La maggior parte dei possessi prediali fu per molti secoli, ed in molti paesi, è tuttavia vincolata a certe discendenze, a certi titoli, a certi offici, e soggiace perciò ad una legale inalienabilità. Dove poi non sono questi legami, prevale almeno quel sentimento misto di affezione, d’orgoglio e d’abitudine che incatena le famiglie ai loro aviti possedimenti anche quando il loro meglio consiglierebbe di cederle ad altri”. Proprio a causa dell’interdizione della proprietà immobiliare, gli ebrei detengono la loro ricchezza in forma di capitale che è ricchezza mobile, la più vantaggiosa delle forme di investimento. “Con vietare pertinacemente a un popolo disperso l’onore della possidenza e ogni altro decoro della vita, esse medesime lo tennero assiduamente confitto nell’unica idea di arricchirsi, sebbene vivessero persuase che ciò fosse a loro detrimento. E quelle odiose interdizioni furono la causa costante che lo spinse ad essere nel tempo stesso una delle più tribolate tra le umane stirpi e la più opulenta di tutte” 35 ibidem, pag. 109 13 Art. 3 Cost. primo comma. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. “I nostri avi condannavano l’Ebreo a vivere di usura e di baratti; e poi lo maledicevano come usurajo e barattiere. Poi intraprendevano a combattere con minuti regolamenti, con vane limitazioni, con irrite penalità una necessità ch’essi stessi avevano creato” 36. Carlo Cattaneo Natasha Bonfiglio Le interdizioni del libero vestiario Quando lo sviluppo economico di classi considerate inferiori tende in apparenza a livellare le differenze verso l’alto, si ricorre alla coattività: cioè si impone a quelle classi di conservare un abbigliamento che renda manifeste le differenze sociali. Parallelamente, i ceti privilegiati si affrettano ad abbandonare fogge, tessuti, usi quando questi vengono adottati dalle classi inferiori per spirito di imitazione e desiderio di emergere.37 La grandissima importanza che ha l’abbigliamento nella vita sociale come manifestazione del proprio rango è documentata nelle leggi suntuarie, che avrebbero dovuto essere un mezzo di repressione del lusso. Nella premessa si dichiarava che il lusso era causa di rovina economica delle famiglie e che il timore delle spese familiari scoraggiava perfino i matrimoni. Nella legge promulgata a Perugia, Anno 1506, con titolo <<Riforma>> per regolare la qualità del vestire, il comma 14° proibisce a tutte le donne di <<portare veste alcuna, la quale abbia de stragino (strascico) o coda più dei doi piedi pigliando la mesura quando la donna è senza pianella>>. Singolare l’ultima precisazione, dovuta al fatto che la fine malizia femminile aveva escogitato subito lo stratagemma di far misurare la veste indossando scarpe alte. 38 Relativamente all’abbigliamento come fattore di identificazione sociale, si ricorda che a Firenze, nel 1464, venne concesso alle serve, alle balie e alle schiave <<una cioppolina>>, ma soltanto di colore nero (il diminutivo fa intendere che doveva essere senza strascico).39 Simili leggi prevedevano pene crudeli: alle disobbedienti toccava di essere frustate pubblicamente in giro per la città. Pene ancor più infamanti erano riservate alle meretrici e ai mezzani che si sottraessero all’obbligo di portare i segni prescritti dalla legge al fine di distinguerli a prima vista dal resto della popolazione. Le donne protestavano perché le leggi scritte dagli uomini si occupavano di presunti falli delle donne, mentre trascuravano quelli maschili. Sebbene il lusso maschile non fosse inferiore a quello femminile, per cento divieti rivolti alle donne, ve ne sono a stento due o tre riguardanti gli uomini. L’abbigliamento è legato anche alla caratterizzazione politica: notissima la distinzione tra bianchi e neri a Firenze. L’influsso straniero porta innovazioni nell’abbigliamento. Il costume del popolo più potente e civile si estende agli altri e l’adozione delle vesti di un altro popolo è un segno di sottomissione. Carlo Cattaneo, nelle Interdizioni israelitiche, dedica un capitolo alle interdizioni del libero vestiario. Gli ebrei sono descritti come persone ricche, inermi e isolate. I loro immensi tesori, accumulati nel corso del tenebroso Medioevo, avrebbero stupito la moltitudine se si fossero manifestati con gli sfarzi del lusso; ma il resto della società si unì per impedire la ‘concorrenza’ ebraica e impose segnali degradanti agli ebrei. Venne nel tempo emanata una serie di leggi. 36 Carlo Cattaneo, Interdizioni israelitiche, Fazi editore, 1995, pag. 142 Rosita Levi Pisetzky, Moda e costume, in Storia d’Italia, 16, Einaudi - Il sole 24 ore, 2005 pag. 944 38 ibidem, pag. 942 39 ibidem, pag. 946 37 14 Le leggi venete comandano ai giudei di portare un segnale per essere riconosciuti. Carlo V prescrive come ordinanza un cappuccio giallo all’uomo e un pezzo di tela gialla alla donna. Il codice Piemontese del 1770 comanda che i giudei debbano portare, tra il petto e il braccio destro, un segno di color giallo dorato di seta o di lana. Il codice Estense del 1771 comanda di portare nel cappello un nastro di color rosso, alto un dito. Leone africano40 dice a Fez: <<Né alcun di loro può portar scarpe, ma usano certe pianelle fatte da giunchi marini, e in capo alcuni dolopani neri. Quegli che vogliono portar berretta conviene che portino insieme un panno rosso attaccato alla berretta>>. Parlando di Tlemsen dice: << V’ha una gran regione o contrada che dir la vogliano, nella quale si stanno molti Giudei, quasi tutti egualmente ricchi; e portano in capo dolopani gialli per esser conosciuti dagli altri>>.41 I popoli maomettani forse furono i primi istitutori di queste distinzioni. Pier Giovanni Domini riferisce che nell’Islam sono radicate fin dai tempi classici le disposizioni riguardanti il colore del copricapo per distinguere i credenti dai non credenti – blu per i cristiani, giallo per gli ebrei, rosso per i samaritani – così come l’obbligo di una fascia alla vita dello stesso colore o la proibizione di andare a cavallo.42 Mentre le classi sociali abbienti si struggevano per scalare la vetta del successo, dissipando nel lusso i capitali di un’industria e di un commercio nascente, la legge teneva gli ebrei lontani da questa corsa al lusso, favorendo in questo modo, da parte loro, il risparmio e l’accumulazione del capitale. 40 Leone Africano (Granada 1483 - Tunisi 1552), geografo arabo, catturato in mare da corsari cristiani, fu battezzato con questo nome in onore di Leone X; ritornò successivamente in Africa e all’Islam. Scrisse, oltre a varie opere in latino, la Descrizione dell’Africa (1550), opera che ci consente la conoscenza dell’Africa del suo tempo. [Enciclopedia Biografica Universale] 41 Carlo Cattaneo, Interdizioni israelitiche, Fazi editore, 1995, pag. 167 42 Pier Giovanni Domini, Il mondo islamico, breve storia dal cinquecento a oggi,in Storia Universale, vol. 28, Milano, 2005 15 Art. 3 Cost. secondo comma È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Fra il ricco padrone delle terre, delle case e delle macchine e il povero giornaliero, senza terra, senza tetto, senza pane, deve per necessità intervenire un principio di equità e di providenza publica, quali li vediamo luminosamente rifulgere nelle leggi romane. Il fondamento di tali providenze, qualunque siano, sarà sempre quello di eguagliare le sorti, eguagliando anzi tutto le intelligenze. Carlo Cattaneo Riccardo Arrigucci La grande carestia dell’Irlanda (1846 - 1847) “Tutti i fatti dell’universo fisico e morale hanno una legge; e quando la scienza poté rinvenirla, essa poté anche, senza rischio, e come se delineasse l’orbita nota d’un astro, parer presaga delle necessità che si celano nel seno del futuro.”43 Carlo Cattaneo L’Irlanda nel 1846-7 fu colpita da una grave carestia che fece sparire dall’isola un quarto della popolazione. “ Di otto milioni di abitanti, due milioni in breve sparirono: -settecento mila consunti dalla fame: - gli altri per emigrazione …” Le cause di questa carestia sono state molteplici: - Il brusco incremento demografico negli anni precedenti alla carestia. - Le condizioni dell’agricoltura irlandese. -Ma principalmente si diffuse una patologia delle patate, che distrusse quasi tutto il raccolto dell’anno. La popolazione irlandese non era sviluppata economicamente e non partecipava allo sviluppo industriale europeo nonostante la vicinanza all’Inghilterra; l’economia del paese era basata sull’allevamento dei bovini, che venivano in parte venduti agli altri paesi, e sulla coltivazione di cereali e patate, anche esse destinate in parte alla vendita. Il popolo si alimentava principalmente di patate e di frumento. Quando si manifestò la patologia delle patate, un sesto del raccolto fu infettato e molte persone, non avendo cibo a sufficienza, morirono, poiché il frumento o gli altri alimenti bastavano solo per 140.000 persone. “Ciò che il riso è nell’India, la patata è nell’Irlanda; quindi in ambo i paesi una sola intemperie che danneggi quell’unico produtto apporta universale carestia, nel che peggiori sono le sorti dell’Irlanda; poiché la patata non si conserva d’anno in anno come il riso, né come il riso può trasportarsi da paese a paese.” Cattaneo scrive nell’ottobre 1843 - gennaio 1844, quindi due anni prima del manifestarsi della carestia, una memoria sullo stato economico dell’Irlanda, studiando le migliaia di testimonianze e rapporti di un’inchiesta del parlamento britannico e, applicando le leggi dell’economia, prevede l’imminente carestia. “Intesi dimostrare che causa suprema di miseria era il vizioso modo dei possessi e degli affitti. Perocché, non porgendo alcuna sicurezza, precludeva ogni afflusso di capitali, ogni stabile miglioramento e avvicendamento e qualsiasi altr’opera di buona agricoltura. E riducendo il vitto delle moltitudini ad un’unica derrata d’infimo valore, e il lavoro del colono a 43 Carlo Cattaneo, Prefazione alle memorie d’economia publica, in Scritti politici, vol. IV, Firenze, 1965, pag. 35 16 poche giornate dell’anno, non lasciava margine alcuno sul quale le popolazioni potessero ritirarsi se mai quell’unica derrata e il frutto di quell’unico lavoro per qualche infausto caso avessero a fallire.”44 L’alimentazione dei contadini italiani “Quando la fame dice davvero e non c'è altro da mangiare, anche le vecce diventano squisite! La fame non ha capricci né ghiottonerie”. Il colombo a Pinocchio Fino alle soglie della seconda guerra mondiale l’agricoltura costituiva in Italia più della metà di tutte le occupazioni. All’epoca dell’unità d’Italia addirittura i sette decimi della popolazione erano dediti all’attività agricola.45 L’alimentazione nei bilanci familiari giocava un ruolo importante: circa i tre quarti dei salari erano impiegati per comprare il cibo46. In quegli anni la popolazione era divisa sostanzialmente in due classi sociali: borghesi e contadini. Ricchi e poveri. I contadini praticavano un’agricoltura di pura sussistenza. La borghesia era formata dalle famiglie più agiate che, non avendo problemi economici, non avevano la preoccupazione del cibo. Rispetto ai contadini potevano mangiare le più prelibate delizie, i loro pranzi erano formati da carni rosse e bianche con contorni di verdura, il tutto accompagnato da vino e acqua. 44 La straordinaria capacità di analisi impressionò gli inglesi e alla fine del 1846 il governo inglese, per mezzo del governo di Vienna, mandò in Italia una serie di domande. Cattaneo rispose con cinque lettere che costituiscono, come era stato il saggio sulle Interdizioni Israelitiche, un’importante sintesi tra diritto ed economia, sulla strada indicata dal suo maestro G.D Romagnosi . La fertilità della terra è sì collegata alle irrigazioni, ma anche agli asciugamenti (gli scoli e le marnature) : in sostanza è collegata alle grandi opere e quindi al capitale. “In Irlanda, in India e in Africa non importa tanto arrecar dall’Italia o dall’Inghilterra piuttosto l’arte delle irrigazioni che quella degli asciugamenti, quanto i principi legali che fomentano la fiducia del colono e del capitalista, e promuovono in generale il lavoro sotto qualunque forma, lasciando che poi l’intelligenza liberamente lo adatti alle terre, ai climi e alle variabili dimande del mercato”. [Prefazione alle memorie d’economia publica, pag. 37] In Italia furono le città le vere madri dell’agricoltura, perché, per effetto di quegli stessi ingenti capitali che l’irrigazione esigeva, “si svolse l’indole industriale e speculativa delle lunghe affittanze, quindi gli affitti anticipati, quindi un ordine di lavori sciolto da ogni personale ingerenza del proprietario” e si portarono in agricoltura le pratiche mercantili e urbane delle consegne, delle riconsegne, della partecipazione ai miglioramenti e dei bilanci. Tutto questo era sconosciuto alle altre agricolture. Altrettanto ignota agli altri paesi era la continua ispezione, usuale in Lombardia, di un corpo di ingegneri, incaricato delle acque e poi delle consegne e dei bilanci. L’agricoltura lombarda era dunque oggetto di una generale e perpetua soprintendenza che diffondeva i buoni esempi di innovazioni. Nata in Lombardia, studiata da Arthur Young e da lui portata in Inghilterra e in Scozia, , l’alta cultura (high farming) dovrebbe tornare in Italia e propagarsi alla Sardegna, alla Maremma, all’Agro Romano, alla Puglia. Sono i geologi, i chimici e gli agronomi a decidere i destini dell’agricoltura italiana; “bisogna oramai che l’insegnamento razionale dell’agricoltura venga stabilito in ogni provincia; sarebbe triste economia farne risparmio” [Prefazione alle memorie d’economia publica, pag. 40]. [N.d.C] 45 Stefano Somogyi, L’alimentazione nell’Italia unita, in Storia d’Italia, 16, Torino, 1973, pag. 843. Secondo l’ ISTAT le spese per l’alimentazione costituiscono ora mediamente meno del 20% dei consumi degli italiani 46 17 Il vitto del contadino In Lombardia anche la polenta è un cibo di lusso; F.Cardani e F. Massari, occupandosi delle Condizioni economiche-rurali del contadino comasco, milanese, pavese, lodigiano (1865) 47, descrivono il pasto del bracciante agricolo: “Pane di granoturco mal cotto, umido e rancido, e minestra nella quale si ammanniscono le materie più scadenti, quando non siamo anche nocive, riso e pasta della peggiore qualità, legumi vecchi e guasti, verdure non lavate, un po’ d’olio o di lardo rancido od anche grasso, ecco la minestra che si prepara a chi lavora suoi campi del fittabile, ecco lo scarso pasto per un uomo che stenta sulle terre lombarde”. In Umbria si facevano due pranzi al giorno. Il primo consisteva in una torta o focaccia di granturco; il secondo in legumi o pasta fatta in casa senz’uovo, o erba cotta (cavoli o rape) condita con pochissimo olio d’oliva o con grasso suino, e torta o pane di granturco.48 In Calabria “il contadino deve in generale dare tutto il lavoro che comporta la sua forza fisica ed il genere di cultura del terreno e riceve in cambio lo stretto necessario per vivere il peggio che sia possibile, in un paese dove la vita materiale, poco comoda per tutte le classi a cagione della mancanza di civiltà e di commercio, è ridotta per le classi inferiori alla sopportazione di tutte le privazioni compatibili col durare dell’esistenza”.49 Pasquale Villari così racconta la vita dei contadini pugliesi: “sono comandati da un massaro, che somministra ogni giorno a ciascuno, per conto del padrone, un pane nerastro e schiacciato di peso di un chilogrammo, che si chiama << pan rozzo>>. Questo contadino lavora dall’alba fino al tramonto, alle dieci del mattino riposa e mangia un po’ del suo pane. Alla sera, cessato il lavoro, il massaro mette sopra un gran fuoco, che è in fondo al camerone, una gran caldaia in cui fa bollire dell’acqua salata con qualche goccia di olio. Questa è la zuppa di tutto l’anno che chiamano <<L’acqua-sale>> né altro cibo hanno mai, salvo nel tempo della mietitura, quando si aggiungono da uno a due litri e mezzo di vinello, per metterli in grado di sostenere le più dure fatiche. Questi contadini serbano poi ogni giorno un pezzo del loro pane, che vendono o portano a casa per mantenere la famiglia. Ricevono uno stipendio di sole 132 lire all’anno ed in natura mezzo tomolo di grano e mezzo tomolo di fave, che loro spetta secondo il raccolto”.50 Un’inchiesta del 1885 Nel 1885 viene disposta dal ministero dell’interno un’ Inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie dei Comuni del Regno; i risultati contengono dati sulle razioni alimentari medie settimanali di un operaio. Gli elementi alla base della nutrizione di un operaio erano al Nord il pane di frumento con poca pasta ma con molta farina di granturco e di riso, al Centro pane e pasta, “con discreto apporto di farina di granturco (nei mesi invernali soprattutto) e con moderato uso di riso”; anche al Sud abbondavano il pane e la pasta, con essenza di granturco e l’uso di appena pochissimo riso. 47 L’alimentazione nell’Italia unità. Società lombarda di economia politica, Milano 1865. in Stefano Somogyi, cit. pag. 845. 48 G. Baldaccini, Condizioni agricole ed economiche del territorio di Caonara, Foligno 1882, in Stefano Somogyi, cit. pag. 848 49 L. Franchetti, Condizioni economiche ed amministrative delle province napoletane, Abruzzi e Molise, Calabria e Basilicata. Appunti di viaggio, Firenze 1875, in Stefano Somogyi, cit., pag. 845 50 E. Raseri, Materiale per l’etnologia italiana raccolti per la Società Italiana di Antropologia ed Etnologia, capp.V e VI; Alimenti e bevande prevalenti nella alimentazione dei poveri ed in quella dei ricchi, in <<Annali di Statistica>> serie II, vol. VIII, del ministero di agricoltura, industria e commercio, Direzione di statistica, Roma 1879. in Stefano Somogyi, cit. pag. 846 18 Il pranzo dei nobili. I nobili si riservavano, specie nelle occasioni importanti, ricchi banchetti con apparecchiatura fine, vini di pregio e sontuose preparazioni. Una suggestiva testimonianza letteraria è quella del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, che ci descrive i timballi di maccheroni che il Principe di Salina fa servire ai suoi invitati su vassoi d’argento, in apertura del primo pranzo a Donnafugata, con fegatini, ovetti duri e sfilettature di pollo, prosciutto e tartufo in crosta profumata di zucchero e cannella.51 Ancora più lauta la mensa dei monaci descritta da Federico De Roberto nei Viceré “Ogni giorno i cuochi ricevevano da Nicolosi quattro carichi di carbone di quercia, per tenere i fornelli sempre accesi, e solo per la frittura il Cellerario di cucina consegnava loro, ogni giorno, quattro vesciche di strutto, di due rotoli ciascuna, e due cafissi d'olio: roba che in casa del principe bastava per sei mesi.” “In città, la cucina dei Benedettini era passata in proverbio; il timballo di maccheroni con la crosta di pasta frolla, le arancine di riso grosse ciascuna come un mellone, le olive imbottite, i crespelli melati erano piatti che nessun altro cuoco sapeva lavorare; e pei gelati, per lo spumone, per la cassata gelata, i Padri avevano chiamato apposta da Napoli don Tino, il giovane del caffè di Benvenuto.” Eppure la Regola di san Benedetto diceva: «Ognuno poi s'astenga dal mangiare carne d'animali quadrupedi, eccetto gli deboli et infermi». 52 51 52 G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Arnoldo Mondadori Editore, Milano,1995 , pagine 82-83 Federico de Roberto, I Viceré, Torino, 1990, pagine 189-190 19 Art. 4 Cost. primo comma. La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Mentre una parte della famiglia [...] alleva all’amore del suolo nativo la povera prole, un’altra parte scende al piano ad esercitarvi qualche mestiere; o si sparge trafficando oltremonte, e riporta alla famiglia i risparmi, che le danno la forza di continuare la sua lotta colla natura e colla povertà. Carlo Cattaneo Quando Carlo Cattaneo scriveva, l’emigrazione in Italia aveva per certi aspetti caratteri molto vicini a quelli attuali: allora emigravano le istitutrici e gli ingegneri; oggi, degli italiani, a emigrare sono i laureati e i ricercatori. Agli ingegneri, in particolare a quelli che avevano studiato gratuitamente nelle scuole e nelle università pubbliche, Cattaneo propone, una volta arrivati ad esercitare la professione, di “assistere paternamente” i condiscepoli costituendo una “perpetua società di emigrazione e ripatrio”53; suggerimento che si potrebbe accogliere anche oggi. Cattaneo aveva personalmente vissuto il destino dei rifugiati politici; lui, economista, a Parigi aveva dovuto sopportare prediche sulla necessità di introdurre in Italia “gli asili dell’infanzia, le casse di risparmio e le strade ferrate”; lui, stratega della legalità e poi capo vittorioso delle Cinque giornate, aveva dovuto ascoltare con pazienza il consiglio di aspettare “che il popolo si facesse maturo”. E sentì la fatica di ricondurre ogni volta al vero le opinioni capovolte dei suoi interlocutori: “e mi era molesto, e mi pareva indegno”. Per questo si decise a scrivere, in francese, in un mese, quella semplice “relazione degli ultimi fatti” che diventerà il poema epico del nostro Risorgimento. La Giunta d’insurrezione italiana, di cui faceva parte anche Giuseppe Mazzini, si era rifugiata in Svizzera e da lì aveva inviato Cattaneo a “ verificare in Parigi, quali speranze mai colà rimanessero alla tradita nostra causa”. Cattaneo vi giunse il 16 agosto 1848, dieci giorni dopo che i soldati di Carlo Alberto avevano consegnato Milano a Radetzky. “Trovai quegli uomini di Stato profondamente ignari delle cose nostre e [...] li rinvenni imbevuti d’opinioni insoffribilmente vituperose a’ miei cittadini, e a tutta l’Italia. D’altro non mi rispondevano che delli eroici sforzi del re Carlo Alberto, stoltamente sventati dalla discordia, viltà e perfidia nostra. Non aveva, a creder loro, la libertà fra noi fondamento alcuno di popolo; la moltitudine era fra noi d’animo tanto austriaco, che a stento l’esercito regio aveva potuto ridursi in salvamento, e proteggere nell’ardua sua ritirata quei pochi gentiluomini, i quali nella squisita educazione e nei lunghi viaggi avevano attinto qualche svogliata e fioca aspirazione di libertà e nazionalità. Il restante popolo, affatto lazzarone, attendeva solo il ritorno delli stranieri, per dare di piglio nelli averi e nel sangue delli nemici dell’indipendenza e di Carlo Alberto; aveva incendiato i sobborghi di Milano; e se non era la saviezza e prontezza dei generali austriaci a occupare la città immantinente dopo la partenza del re, l’avrebbe arsa e saccheggiata, anche per suggestione dei republicani. Si citavano li articoli della Allgemeine Zeitung, che parimenti attestavano essere tutto il moto d’Italia raggiro di pochi nobili, di pochi individui della razza bianca, la quale opprimeva e spolpava la razza bruna, indigena delle campagne d’Italia, e costantemente e vanamente difesa dalli amministratori austriaci!”54 Negli ultimi mesi noi abbiamo assistito con una certa vergogna al consimile trattamento fatto dai federalisti nostrani agli intellettuali tunisini. 53 Carlo Cattaneo, Sulla riforma dell’insegnamento superiore nel Ticino in Tutte le opere, Scritti del 1948, IV, Arnoldo Mondadori Editore, 1967, pag. 899 54 Carlo Cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra, Scritti 1848 - 1851, Torino, 1972, pagine 13 - 14 20 Massimiliano Nannucci Quando gli albanesi eravamo noi Gli emigranti e il razzismo Espatri dalle regioni italiane 1901 - 1915 Totale espatriati = 8.768.680 fonte: Centro studi emigrazione - Roma 1978 Tra il 1861 e il 1985 sono partiti dall’ Italia più di 29 milioni di cittadini, un numero quasi equivalente all'ammontare della popolazione al momento dell'Unita d’Italia (25 milioni nel primo censimento italiano). Si trattò di un esodo che toccò tutte le regioni italiane. Tra il 1876 e il 1900 interessò prevalentemente le regioni settentrionali: il 47 per cento degli emigranti partiva dal Veneto (17,9%), dal Friuli-Venezia-Giulia (16,1%) e dal Piemonte (12,5%). Nei due decenni successivi il primato passò alle regioni meridionali, con quasi tre milioni di persone emigrate soltanto da Calabria, Campania e Sicilia, e quasi nove milioni da tutta Italia. Nel 1901-1915, periodo che coincide con l’ industrializzazione italiana, si ebbe la “grande emigrazione”. L’ emigrazione di questo periodo è soprattutto extraeuropea: il 45% degli emigranti (prevalentemente meridionali) espatriano in America. La media annuale, 600 000 partenze, porta il totale del periodo a 9. 000. 000 di persone. Come eravamo visti dalla gente che ci ospitava ? Nell’Orda, libro scritto da Gian Antonio Stella, giornalista e scrittore del Corriere della sera, è possibile capire in che situazione eravamo noi italiani in quel periodo oscuro vissuto dai nostri padri. Quando gli “albanesi” eravamo noi, espatriavamo illegalmente a centinaia di migliaia, ci linciavano come ladri di posti di lavoro, ci accusavano di essere tutti mafiosi e criminali. Quando gli “ albanesi” eravamo noi, vendevamo i nostri bambini agli orchi girovaghi, che gestivano la tratta delle bianche, seminavamo il terrore anarchico ammazzando capi di stato e poveri passanti ed eravamo così sporchi che ci era interdetta la sala d’aspetto della terza classe. Quando gli “albanesi” eravamo noi, ci pesavano addosso secoli di fame, ignoranza, stereotipi infamanti. Quando gli “albanesi” eravamo noi, era solo ieri. 21 Le vignette inglesi raffigurano in questo modo gli italiani: lustrascarpe, suonatori d’organetto, spazzacamini. <<Mezzo chilo 'e spaghett' e un fazzulett' al collo, lo stilett' e calzoni ' fustagno, metti l'aglio che inghiott' a boccate bestiali e un talent' a lustrare stivali.>> (Life, 1911, Historical Pictures Service, Chicago) 22 Art. 4 Cost. secondo comma Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. “Ma la maggior turba delli uccisi doveva ben essere fra li operai; le barricate e li operai vanno insieme ormai come il cavallo e il cavaliere” Claudio Battaglini Mestieri e professioni dal registro mortuario delle barricate di Milano L’elenco dei morti delle Cinque giornate, che è il più commovente elenco dei nostri eroi, è anche un importante documento per conoscere le professioni. “Fino al 31 di marzo si registrarono morti di ferite più di trecento. Attribuiti all’ordine dei possidenti ne riscontrammo tre soli, e tutti popolani … Qui non v’è orma di patriziato … Ma tornando a rimestare il cumulo dei cadaveri, vi ravvisiamo fra i più segnalati un Augusto Anfossi già mercatante e militare in Oriente e audacissimo condottiere alli assalti. Vi troviamo tre giovani ingegneri, Luigi Stelzi, Carlo Carones e Andrea Cassanini; l’istitutore Boselli e il prete Marco Lazzarini trucidato nel presbiterio di San Bartolomeo. Troviamo l’ispettore della strada ferrata di Monza Gerolamo Borgozzi, venuto con una squadra a soccorso della città; troviamo il giovine ragioniere Tomaso Barzanò; tre studenti Perimoli, Chiapponi e Campato; due impiegati, Giacomo Caccia e Carlo De Ceppi; tre scrivani; il cavallerizzo Foscati e il suggeritore teatrale Misdari. Il commercio è rappresentato da due mercanti, due mediatori, e tre o quattro commessi … Contammo non meno di 26 venditori di vino, d’olio, di latte, di droghe, di salumi, di frutta, di pane. Ma la maggior turba delli uccisi doveva ben essere fra li operai; le barricate e li operai vanno insieme ormai come il cavallo e il cavaliere. Il sacro mestiere delli stampatori ebbe cinque morti, e troviamo fra i morti anche un legatore. Vi sono tre machinisti, un incisore, un cesellatore, un orefice. Dei lavoratori di ferro e di bronzo morirono non meno di quindici … Ed è pure glorioso all’arte de’calzolai il numero di tredici uccisi. Dei sarti caddero quattro; tre cappellai; e venti tra verniciatori, doratori, sellai, tessitori, filatori, guantai e anche un parrucchiere. V’ha una decina di muratori, scalpellini e d’altre arti edilizie. L’agricoltura ebbe le sue vittime nel fittuario Molteni, in un giardiniere, un ortolano e sei contadini. Un cadavere diedero le guardie di finanza e due i valorosi pompieri. Abbiamo infine parecchi facchini e giornalieri, e altri ignoti di mestiere e di nome … L’unica relazione che forse potrebbero avere codesti registri col patriziato è una lista di circa diciotto tra servitori, cocchieri, cuochi e portinai … Grande più che non si crederebbe è il numero delle donne uccise; alcune lo saranno state per case, ma molte per coraggio e per amore, e alcune per ferocia dei nemici [...]. Vediamo indicata una levatrice, una ricamatrice, una modista, e tra quelle che si dicono alla rinfusa cucitrici alcune giovinette. Quante storie di semplice affetto e d’inosservato dolore vi stanno riposte! o poeti, interrogate questi sepolcri e siate poeti della vostra gente”.55 55 Carlo Cattaneo, Registro mortuario delle barricate di Milano, 3 luglio 1848 in Italia del popolo. Dell’insurrezione di Milano nel 1848,in Il 1848 in Italia – Scritti 1848-1851. Torino, 1972, pag. 83 23 Art. 4 Cost. secondo comma Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. “Il principio che abbisogna alle facultà italiane è adunque ciò che in economia si chiama divisione del lavoro; è ciò che in psicologia si chiama analisi. La sintesi sarà l’Italia.” Carlo Cattaneo Dell’art. 4 della Costituzione è stato commentato soprattutto il primo comma, che dovrebbe impegnare i governi a una politica economica capace di sconfiggere la disoccupazione e le cause dell’emigrazione; il secondo comma dell’articolo è stato a torto oggetto di minor considerazione, ma il diritto al lavoro meglio si realizzerebbe se tutti potessero esercitare una vera scelta della propria professione, sulla base dell’analisi delle proprie possibilità e questa scelta trovasse sostegno nell’orientamento e nella successiva istruzione. Gli scritti di Cattaneo sulla riforma della scuola si muovono su questa linea. Tutti gli ordini di scuola e tutte le facoltà sono fatte oggetto d’analisi e di proposta riformatrice ma, all’interno della discussione stessa sulle discipline universitarie, compenetrata con questa, è presente la discussione delle condizioni di lavoro e il disegno dell’organizzazione delle carriere professionali future. Le discipline e i programmi universitari sono proposti delineando il destino personale degli allievi nel momento in cui saranno parroci, medici, farmacisti, ingegneri e architetti nelle città e nei paesi d’Italia. Il medico percorrerà per chilometri e chilometri le strade della sua condotta e con l’avanzare dell’età la sua stanchezza deve trovare sollievo in più percorribili distanze: è dunque sull’alleggerimento di questa fatica che deve essere costruita la progressione della sua carriera; il parroco avrà in beneficio una terra da coltivare, e i contadini della sua parrocchia dovranno poter imparare da lui; il farmacista nella sua bottega, recapito delle dicerie del villaggio, potrebbe essere il promotore delle scienze naturali e dell’industria invece che custode dei pregiudizi e disprezzatore degli studi; la responsabilità degli ingegneri e degli architetti rurali riguarda anche i materiali di costruzione, che influenzano la salute e la sicurezza degli uomini, e i più minuti particolari del paesaggio, fino alle “cantine, ghiacciaj, granaj, casare, aje, letamai, forni, seccatoj, ventilabri, torchi, pressoj”. Per la sua relazione Cattaneo rischiò la deportazione. Lisa Zara L’università e le professioni56 Parroci La facoltà di teologia va integrata con antichità sacre ed erudizione orientale. Gli allievi sono per lo più destinati alle parrocchie rurali, quindi sarebbe utile proporre loro, accanto alla formazione consueta, anche studi di agricoltura. Avvocati e giudici Le facoltà di giurisprudenza sono in un momento di “manifesto oscuramento”, non danno più le basi del diritto: il diritto romano, che a suo tempo costituiva la base per la formazione, è studiato superficialmente, in modo arido e pedestre. Gli allievi non se ne procurano nemmeno il testo. “ I professori consumano troppa parte dell’anno ad interrogare per estorcere ai giovani svogliati una involontaria attenzione”. Per cambiare questo stato di cose sarebbe utile far fare agli studenti con 56 Carlo Cattaneo, Sugli ulteriori sviluppi del pubblico insegnamento in Lombardia, in Tutte le opere, Scritti del 1948, Arnoldo Mondadori Editore, 1967, pag. 3- 54 24 una certa frequenza delle ricerche scritte oppure orali su un testo antico e su qualche grande autore. Quello che manca all’università è l’insegnamento della storia del diritto che, partendo dal diritto romano, ne segua lo sviluppo sotto l’influenza del diritto canonico, delle leggi barbariche e degli statuti municipali e provinciali fino ai nostri codici: un tale insegnamento porterebbe i ragazzi a capire l’ordine civile che ora regna e la ragione e il senso delle leggi vigenti. Manca uno studio del diritto patrio. Manca inoltre una materia che si potrebbe chiamare filosofia civile, di cui fa parte anche lo studio della logica giuridica, cioè la dottrina delle prove, che costituisce la base per la procedura civile e penale. Troppo tempo è dedicato alle particolarità materiali della procedura, che invece si impara più con la pratica che con lo studio. Carlo Cattaneo trova inoltre nell’insegnamento del diritto una grave carenza di impostazione, poiché esso avviene attraverso il solo studio delle leggi in vigore, mentre sarebbe utile presentare ai ragazzi le nuove dottrine, come il nuovo calcolo delle pene perché “la gioventù deve prepararsi a quei pensieri che l’attendono in seno alla società.” Medici condotti La situazione dei medici condotti è meno appetibile rispetto a quella dei loro colleghi degli ospedali urbani: lo stipendio dei medici condotti è basso, considerando che devono pagare di tasca loro anche chi li sostituisce per malattia o per assenza. Sono condizionati nel loro operare dai commissari dei comuni e soprattutto dal fatto che vengono rieletti ogni tre anni, il che li costringe a evitare contrasti con le famiglie dei maggiorenti. Ci sono condotte più o meno difficili secondo l’estensione territoriale e la popolazione. Secondo la riorganizzazione proposta da Carlo Cattaneo, si dovrebbero individuare condotte abbastanza equivalenti per popolazione residente e per estensione e difficoltà del cammino, assicurando ai medici uno stipendio minimo certo, sulla base di una suddivisione in tre classi. I medici più giovani dopo il biennio di pratica ospedaliera dovrebbero essere inquadrati nella prima classe. Dopo questa esperienza possono essere inquadrati nelle altre classi meno disagiate e successivamente al servizio degli ospedali urbani e delle amministrazioni urbane e regie. Farmacisti Una delle facoltà che offre una preparazione inadeguata rispetto alla successiva attività professionale è quella di farmacia. Per fare il farmacista al tempo di Cattaneo bastava aver fatto degli studi di grammatica e poi otto anni di lavoro in una farmacia qualunque. La sola esperienza non preparava adeguatamente alla professione: molto spesso i farmacisti erano commercianti, più che professionisti in grado di preparare i medicinali prescritti. Già il fatto di non avere lunghi studi alle spalle creava difficoltà nel capire le ricette, scritte spesso in latino; inoltre, non essendo richiesti né studi di chimica né studi di botanica, i farmacisti spesso non erano in grado di valutare, di mescolare, conservare e misurare i principi attivi delle erbe e dei materiali che maneggiavano. Cattaneo propone di affiancare al triennio filosofico la pratica ufficiale, da non farsi presso una qualunque farmacia, ma negli ospedali o presso gli studi degli obitori o presso stabilimenti di preparazioni retti da dottori in chimica e farmacia. Ingegneri Ma la facoltà che dovrebbe subire una riforma radicale è quella di ingegneria. La proposta di Cattaneo è quella di aggiungere agli studi di base indirizzi precisi che possano offrire una preparazione più specifica e realizzare la suddivisione delle facoltà come applicazione del principio della divisione del lavoro. Le Professioni che richiedono competenze specifiche e per le quali è necessario istituire dei rami di perfezionamento sono quelle degli “ingegneri-architetti, ingegneri idraulici, ingegneri censuarii, ingegneri meccanici, ingegneri militari, ingegneri minerari, ingegneri navali, geografi, ferroviarii”. Nella sua proposta, Cattaneo identifica due concetti, certamente essenziali nella fase storica del primo sviluppo industriale della società lombarda. 25 Il primo consistente nel rilevare che le abilità conseguite attraverso l’esperienza del lavoro non sono sufficienti se non sono unite ad un adeguato corredo di conoscenze. Il ‘saper fare’ e il ‘sapere’ devono cessare di essere due poli distinti e distanti nella formazione del lavoratore. Si riferisce evidentemente alla grande massa di lavoratori manuali che possiedono grandi abilità ereditate dalla tradizione, ma che sono sprovvisti di basi culturali specifiche. Già negli Scritti politici Cattaneo si esprime così: ”.. un ammaestramento ..che li abilitasse a render ragione scritta di ciò che talora sanno operare senza poterne offrire condegna e persuasiva spiegazione .” 57 Il secondo, quasi nello spirito della moderna società tecnologica a noi contemporanea, nell’intuire che in una società sviluppata e diversificata l’ampliamento dei compiti dell’ingegnere ( ma lo stesso può estendersi anche a tutte le altre professioni) reclama la specializzazione del sapere e dell’esperienza. 57 Carlo Cattaneo, Sulla riforma dell’insegnamento superiore nel Ticino, in Scritti politici, III, Firenze, 1965, pag. 88 26 Art. 9 Cost. secondo comma artistico della Nazione. [La Repubblica] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e “La proporzione e l’armonia non costano nulla ; e nelle costruzioni l’ordine può essere anche un risparmio”. Lisa Zara Gli architetti “Vorrei che mirando al profitto, e non dimenticando mai la salubrità, si porgessero alla imaginazione della gioventù modelli svariati di rustica e non dispendiosa eleganza per le dimore sì degli agiati possidenti e fittuarii, sì delle famiglie lavoratrici. La bellezza risulta principalmente dall’armonica proporzione e disposizione delle parti. Ma la proporzione e l’armonia non costano nulla ; e nelle costruzioni l’ordine può essere anche un risparmio. Un casolare può essere semplice e povero, e tuttavia bello come una bella contadina. Dando il primo impulso a questa sociale riforma anche tra noi, vi fareste benemerito eziandio dell’arte. La quale, accentrando avaramente e superbamente il bello in poche ville per lo più deserte [e] dilapidate, lasciò sempre spaziare sulla vasta superficie delle campagne italiane l’odioso regno del brutto e del sordido”.58 58 Carlo Cattaneo, Di alcuni rami d’insegnamento scientifico da istituirsi in Milano, in Scritti politici, III, Firenze, 1965, pagine 103-105 27 Art. 4 Cost. secondo comma. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. “L’istruzione delle donne povere, negletta e quasi vietata nei passati secoli, va sempre più avvicinandosi a quella degli uomini, e prepara madri di famiglia che non tramanderanno in perpetuo la superstizione e la rozzezza. I nostri bachi da seta non saranno più in preda di gente che non sa leggere nemmeno le cifre del termometro”. Carlo Cattaneo 59 Le donne possono ora, e potevano nell’Ottocento, adempiere al dovere di esercitare una professione per loro scelta? Quali erano le professioni femminili? Nel registro mortuario delle Cinque giornate appaiono una levatrice, una ricamatrice, una modista e alcune giovinette indicate come cucitrici, ma ci sono professioni femminili senza nome. Cattaneo conosce bene le professioni e si lamenta dell’indicazione imprecisa sulle cucitrici. L’indicazione imprecisa è però una manifestazione della condizione del lavoro femminile. Alcune occupazioni si svolgevano tra le pareti di casa o nascostamente, alcune sono scomparse senza che ne rimanesse neppure il nome a renderne ragione. E che tipo di professioni sono la prostituta e la maga? Si dichiarano forse sulla carta d’identità? E spostandosi all’estremo opposto della scala, come si definisce l’attività di una nobile signora che anima un salotto culturale, ricevendo gli artisti, gli intellettuali e gli uomini politici? Le prostitute di Parigi60 Nel giugno del 1837 Cattaneo ospita negli Annali Universali di Statistica un articolo del dottor Antonio Marzini sui risultati di un’inchiesta sulla prostituzione a Parigi. L’allineamento della colonna dei dati con quella delle cause determinanti o con quella del grado di istruzione è ancora il modo più corretto di parlare di questo altro mestiere delle donne. Provenienza 12.707 iscritte a Parigi in quindici anni dal 16 aprile 1816 al 30 aprile 1831; 24 non hanno saputo indicare il loro paese natale; 31 sono venute da Paesi fuori d’Europa ( 18 americane, 11 africane, 2 asiatiche); 451 appartenevano a Paesi stranieri alla Francia; 12.201 erano nate nei dipartimenti. Grado di istruzione ( dai dati forniti dalle Carte che sono obbligate a sottoscrivere al momento dell’iscrizione): su 4.470 prostitute nate ed allevate a Parigi 2.332 non hanno potuto firmare 1.780 scrissero assai male 110 scrissero bene e benissimo 248 non hanno somministrati dati precisi 59 Carlo Cattaneo, Prospetto statistico dell’istruzione elementare in Lombardia nel triennio 1835 – 1837, Scritti politici, vol. III, Firenze, 1965, pag. 50 60 Antonio Marzini, Della prostituzione a Parigi, Annali Universali di Statistica, aprile, maggio e giugno 1837, Milano, 1837, pagine 23 - 43 28 Condizione alla nascita delle 1182 nate a Parigi legittime naturali 946 119 naturali, ma riconosciute 118 totale delle figlie naturali 237 proporzione delle figlie naturali 1 su 3,99 totale delle figlie naturali 385 proporzione delle figlie naturali 1 su 7,78 Condizione alla nascita delle 3.667 dei Dipartimenti legittime naturali 2.297 252 naturali, ma riconosciute 133 Cause determinanti Cause determinanti nate a Parigi nate nei capoluoghi nate in paesi stranieri 62 totale 405 nate nelle nate nelle sottoprefettu campagne re 182 222 eccesso di miseria, assoluta privazione del necessario perdita di padre e madre, espulsione dalla casa paterna, abbandono completo per sostenere parenti vecchi ed infermi primogenite senza padre né madre per alimentare fratelli, sorelle e nipoti donne vedove e abbandonate per sostenere il peso di numerosa famiglia venute a Parigi dalle province per nascondersi e trovar risorse condotte a Parigi e abbandonate da militari, commessi, studenti e altre persone serve sedotte dai padroni e poi cacciate via semplici concubine che hanno perduto l’amante totale 570 647 201 157 211 39 1255 37 0 0 0 0 37 29 0 0 0 0 29 23 0 0 0 0 23 0 187 29 64 0 280 0 185 75 97 47 404 123 97 29 40 0 289 559 314 180 302 70 1425 1988 1389 652 936 218 5183 1441 29 Ilaria Fronzoni LE PROFESSIONI FEMMINILI Nell’ Ottocento la vita delle donne era caratterizzata dal compiere insieme mansioni domestiche e lavoro. I compiti erano differenziati, ma venivano svolti da uomini e donne nello stesso ambiente; sia quelli che riguardavano la famiglia, sia quelli attinenti alla produzione. Il contadino aveva bisogno della moglie così per i lavori agricoli come per cucinare; l’artigiano e il piccolo negoziante ne avevano bisogno per mandare avanti la loro bottega. Le occupazioni femminili si svolgevano per la maggior parte del tempo in qualche ambiente domestico; anche gli uomini non sposati, assunti come servitori o braccianti agricoli, vivevano in “casa”. Quando scomparvero le occupazioni “proto-industriali” (tessitura con il telaio a mano, lavori di intreccio ecc..), l’industria domestica diventò soprattutto un tipo di lavoro sottopagato e le donne lo svolgevano nell’abitazione rurale, nella soffitta o in cortile. L’industria domestica consentiva almeno alle donne di combinare un lavoro retribuito con la possibilità di accudire in qualunque modo alla casa e ai figli. Con l’industrializzazione, casa e luogo di lavoro si separarono, gran parte delle donne furono escluse dall’economia pubblicamente riconosciuta e ciò aggravò la loro tradizionale inferiorità rispetto agli uomini. Il ruolo di “casalinga” diventò una funzione primaria. Chi “guadagnava il pane” era l’uomo, le donne non dovevano mantenere la famiglia: quindi si poteva pagarle meno. Questo rafforzava la tradizionale convinzione che il lavoro femminile fosse di tipo inferiore. La “chance” migliore che la donna aveva per procurarsi più reddito, era quella di unirsi a un uomo in grado di guadagnare molto. A parte la prostituzione di alto bordo, la carriera più promettente per lei era il matrimonio. Le filatrici in Calabria Nel corso dell'Ottocento e del Novecento, l'allevamento del baco da seta era una fonte importante di integrazione del reddito per le povere famiglie contadine. Le donne filavano e tessevano nei casolari di campagna, sotto il porticato, nelle stalle o a cielo aperto. Nelle case i bachi venivano sistemati nei locali in cui viveva la famiglia stessa, la cucina, le stanze vicine,e addirittura le camere. I bachi divenivano, per amore o per forza, parte della famiglia e a volte si finiva per ritrovarseli nel letto. Alcuni contadini producevano in proprio il seme-bachi per l'allevamento, altri lo compravano o ricevevano i bachi appena nati. La schiusa delle uova avveniva nella seconda metà del mese di aprile, da quel momento iniziava il lavoro, che diveniva sempre più impegnativo durante la veloce crescita delle larve. e proseguiva nelle case contadine per una quarantina di giorni. La filatura domestica era svolta dalle donne contadine. Il procedimento, partendo dai bozzoli essiccati, prevedeva le seguenti operazioni: 1. 2. 3. 4. scaldare dell'acqua in un pentolone, in genere di rame, detto "caddara" immergere una manciata di bozzoli nell'acqua attendere che i bozzoli si schiudessero un po' con le mani immerse nell'acqua caldissima si prendevano i capi del filo e si filava La donna che filava era solitamente aiutata da una bambina che provvedeva a mantenere una scorta di bozzoli e faceva girare l'aspo attorno al quale veniva filata la seta. Questo sistema anticipava la lavorazione eseguita nei primi opifici: le filande a fuoco diretto. La filanda si occupava della prima fase di lavorazione della seta: i bozzoli consegnati dai contadini che avevano allevato i bachi venivano essiccati in modo tale da far morire la crisalide dopodiché si procedeva alla loro filatura. 30 Le filatrici utilizzavano bacinelle d'acqua mantenuta ad una temperatura tra i 70 ed i 75 °C mediante una fiamma sottostante alimentata a legna e procedevano per fasi: 1. 2. 3. 4. 5. immergevano i bozzoli essiccati nelle bacinelle di acqua calda liberavano i bozzoli a mollo da possibili impurità attendevano che l'acqua calda, sciogliendo la sericina, ammollasse un po' il bozzolo afferravano l'estremità delle bave di alcuni bozzoli e ne creavano un filo avvolgevano il capo del filo in un aspo dando allo stesso tempo un numero determinato di torsioni Ogni filatrice aveva una o più aiutanti, in genere bambine. Queste ultime controllavano la scorta di bozzoli da filare, verificavano che il fuoco sotto la bacinella fosse sempre acceso e provvedevano alla sua alimentazione. Una bambina aiutava la filatrice facendo girare la ruota che muoveva gli aspi. Nelle filande a fuoco diretto si lavorava a cielo aperto oppure in grandi stanze illuminate da finestroni oppure da lumi a petrolio nei periodi in cui l'illuminazione naturale era scarsa. I primi opifici rimanevano aperti dalla fine di giugno a ottobre e la giornata lavorativa arrivava fino a sedici ore senza interruzioni. Donne adulte e bambine, provenienti da famiglie povere, erano disposte a lavorare in condizioni di estremo sfruttamento per salari bassissimi che comunque erano importanti per poter vivere. Attorno alla metà dell'Ottocento le filande “a vapore” iniziarono a soppiantare quelle a fuoco diretto. Le bacinelle non erano più riscaldate dai fornelli a fuoco diretto ma da una grande caldaia che soddisfaceva il fabbisogno dell'intera filanda. La caldaia, alimentata a legna, scaldava la massa d’acqua del fiume incanalata negli impianti. Una volta raggiunta la temperatura di circa settantacinque gradi, l’acqua veniva mandata per caduta nelle bacinelle: in una fila venivano messi a mollo i bozzoli, ed in un’altra venivano filati. L’ingresso del vapore nell’industria serica determinò un cambiamento decisivo nella specializzazione del lavoro e facilitò il decollo della produzione a carattere industriale. La specializzazione del lavoro diede vita ad alcune figure professionali distinte: La scopinatrice aveva il compito di trovare il capofilo per consentire la dipanatura del filo dai bozzoli. La scopinatura prende il nome dalle scopine di saggina con cui venivano inizialmente strofinati i bozzoli. Per favorire la scopinatura i bozzoli andavano liberati dalla lanugine che li ricopriva. Tale operazione era nota come spelaiatura. Molto spesso le scopinatrici erano bambine abbastanza alte da raggiungere il livello della bacinella piena d'acqua a 75 °C, nella quale riponevano una certa quantità di bozzoli. Con le mani sempre in ammollo nell'acqua passavano e ripassavano i bozzoli fin quando il capofilo fuoriusciva da tutti. A questo punto raccoglievano i bozzoli con un pentolino forato e li passavano alla filatrice seduta di fronte. La filatrice creava il filo di seta unendo il capofilo di più bozzoli, il cui numero variava in base al titolo, cioè alla qualità, che doveva possedere il filo. Man mano che il filo si avvolgeva sull'aspo era necessario impartire al filo un numero opportuno di torsioni e verificare che il diametro si mantenesse costante. Gli aspi completati venivano riposti in cassette di legno. Ogni filatrice sorvegliava più aspi contemporaneamente e doveva possedere doti di abilità, prontezza di riflessi ed esperienza. I controlli a fine giornata erano severissimi, sia sulla quantità filata sia sulla qualità del filo ottenuto. L'annodatrice interveniva quanto si rompeva il filo sull'aspo riagganciandolo con un nodo particolare, quasi invisibile, in modo tale da permettere il proseguimento della filatura. Ogni annodatrice si serviva di più filatrici rimanendo alle loro spalle pronta ad intervenire. L'assistente ricopriva un ruolo di particolare prestigio ottenuto grazie ad una maggiore specializzazione. L'assistente sorvegliava tutte le fasi del lavoro e faceva rapporto al proprietario o al direttore sull'andamento della produzione, segnalando eventuali scorrettezze o ritardi. 31 Vincenzo Padula, “Dello stato delle persone in Calabria” 61 Una donna calabrese vale quanto un uomo d’ogni altro paese. Vive sulle montagne? Gonna di colore vermiglio. Vive sul mare? Gonna azzurra. “Ti fissa sopra lo sguardo? Ti raddoppia la vita. Ti fissa sopra il fucile? Te la toglie.” Ma se la donna è “zitella”? l’opinione sul suo conto è tutt’altra! La zitella fabbrica il pane? Questo le cresce nelle mani, ed anche senza lievito crescerà gonfio, bello e poroso più del pane fermentato. Una famiglia compra un bicchiere, una bottiglia o un “orciuolo”? per fargli prendere un buono odore, la prima persona a porvi sopra le labbra deve essere la zitella. Qualcuno ha un’infiammazione agli occhi? L’unico farmaco in grado di guarire tale male è la saliva della zitella. “La donna più corrotta e l’uomo più dissoluto non osano in Calabria profferire una parola meno che onesta innanzi a lei.” La zitella è santa come un altare. Le impastatrici di liquirizia Le donne impastatrici lavorano nelle fabbriche di liquirizia. Nei “conci” di liquirizia si lavora di giorno e di notte e il fattore dispone di sedici concari, un capoconcaro, un trinciatore, sei molinari, un falegname, due acquaiuoli, un pescatore di legna, un fanciullo marchiatore e sedici impastatrici. Le impastatrici sono in peggiore condizione. Tutte in fila con avanti un tavolozzo di legno-noce e ciascuna con un utello alla sua destra. Il capoconcaro scodella nel mezzo del tagliere un pastone bollente; le donne si versano nelle mani un filo d’olio dall’utello e con le dita estreme spiccano la pasta scottante facendo smorfie di dolore con il viso. Il fattore li si avvicina per ogni “nonnulla” e le picchia sulle spalle con quel “legno maledetto”. Quando la pasta diventa dura, le donne raddoppiano il maneggio: i lombi, i polsi travagliano con più lentezza, ma con forza maggiore; il dorso delle mani si fa gonfio e pieno di lividi, il sudore li scivola dalla fronte. “Con quel lavoro lì non ci restano lombi, non ci restano polsi, si raccattano caldane, fabbri, sbalordimenti di testa. Bisogna che la liquirizia si assodi a furia di sputarvi sopra e di maneggiarla; bisogna che vada, cadendo a terra, in contento il fattore; quando i pennellini non gli sembrano sodi abbastanza; gli si disfà, e rimette nel caccavo, e liquefatti e bollenti vuole che si rimpastino. A non scottarci le mani le ungiamo di olio; e ne avessimo almeno a sufficienza! Spesso dobbiamo comprarlo di nostro. La mattina ci si accorda un po’ di tregua, e ci mettiamo al lavoro con due ore di sole alzato; e spendiamo quel po’ di tempo ora a fare il pane, ora a lavare, ed imbucatare i panni agli uomini nostri” Se un concaro non ha moglie, chi gli fa il bucato? Una delle impastatrici e, per tutti i sei mesi di lavoro e di dimoro, le dà 85 centesimi. Lavorano di notte e di giorno e spesso con la febbre addosso perché il “fattore è un cane” che non conta la giornata quando sono malate. Qua le mogli si dividono barbaramente dai mariti e questi, per vederle, pagano una multa pari a 6 mesi di lavoro. Quando il sole tramonta, la manifattura si chiude; chi si trova fuori resta fuori, sia che piova, sia che nevichi. E quando la mattina rientrano nella fabbrica, paga i soliti 85 centesimi di multa. Così il meschino guadagno di sei mesi se ne va tra le multe e le medicine.62 La magara63 La magara è pallida, alta e magra; si è destinata al diavolo da cui ottiene tutto a patto di far del male altrui. La donna ritenuta come tale è generalmente temuta; ottiene tutto dai vicini e non le viene negato nulla dalle contadine quando entra in casa loro. Le donne ricorrono alla magara per 61 62 63 Vincenzo Padula, Dello stato delle persone in Calabria in http://www.liberliber Vincenzo Padula, Dello stato delle persone in Calabria in http://www.liberliber Vincenzo Padula, Dello stato delle persone in Calabria in http://www.liberliber 32 ottenere filtri. Polveri credute filtri potenti. La magara tocca i ragazzi e li storpia, i mariti e li fa impotenti; quando uno di loro è insofferente, la magara consiglia alla moglie di mangiarsi una gallina nera di venerdì, e buttarne via le penne in sette strade diverse. Per fare ammalare un uomo, la magara ficca dei chiodi in una mela o in una testa di gallo e la mette sulla sua casa e nella via per cui passa. Un calabrese è spaventato da un batuffolo di cenci che incontra per la strada perché crede sia una fattura. In Calabria usano fare pellegrinaggi nelle chiese e nei paesi dove si crede che si trovi una magara; tutte le malattie incurabili sono riferibili alla magia della bella donna. Quando si crede che il malato sia afflitto da una magia, si chiama la rimediante. Questa donna si siede vicino al malato e lo guarda attraverso le dita delle due mani aperte e sollevate. Poi geme, pronuncia tre parole. Se dice: “I polpastrelli mi lucono” è certa di aver sciolto la magia; se dice: I polpastrelli li veggo oscuri” è segno che la morte dell’infermo è irriparabile. “Per levarsi di dosso l’insidia della magara si porta addosso un abitino con dentro una corda di camoana, un orecchio di cane, una “palla omicida”, un pezzo di stola benedetta, sale, miglio e tre foglie di agrifoglio, portato nella mano dritta e che non abbia passato fiume.” Le magare hanno potere sui fanciulli; finché il neonato è senza nome, le madri mettono sulle finestre un pezzo di sale e un altro di “acciaro”. In tutti i venerdì non si parla mai di magare poiché il venerdì le magare girano per le strade. Un’altra magia che usano le magare: se vogliono che Tizio sposi Caia la magara gira tre chiese e lascia in ciascuna un paio di paternostri. Poi dalla mano di tre morti toglie la falange media del dito medio e la riduce in polvere, dopodiché la dà a mangiare a Tizio. Oppure fa un manichino di cera o di pasta, se lo mette nel seno e stando davanti all’altare di S. Antonio prega così: “Sant’Antoniu ch’ ‘e Francia venisti/E tridici grazie fu chi portasti/Dunamìnne sia a mia/ Pè li dari a chi vuogl’iu/.Una la mintu alli piedi/Chi pe mia venissi vulenteri;/una la mintu alli gammi/chi pe mia venissi volannu/,una la mintu allu cori/chi pe mia ni spinni e mori;/ una la mintu alli mani/chi pe mia fussi vurgali;/una la mintu alla capu,/ chi pe mia cadissi malatu,/non pe murir, Sant’Antoniu miu,/ma pe voliri chiù beni a mia.”64 64 Vincenzo Padula, Dello stato delle persone in Calabria in http://www.liberliber 33 Art. 4 Cost. secondo comma. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. I assure you all this talking is too much for my nerves. I am too old; I must go home. I have no interest in every thing is going on in my presence.65 Carlo Cattaneo 65 Il brano è contenuto in una delle lettere, quella del 2 aprile, scritte da Cattaneo alla moglie da Firenze in occasione della sua accettazione del mandato parlamentare nel 1867, dopo tutti i precedenti rifiuti. La serie dei messaggi indirizzati alla moglie comincia con un dispaccio telegrafico del 29 marzo da Bologna (“Ore tre sono arrivato felicemente in Bologna parto per Firenze Cattaneo”) e termina con i telegrammi del 18 aprile (“Questa sera resterò in Milano. Domani spero rivederti Cattaneo”) e del 19 aprile 1867 (“E’ necessario che mi fermi qui oggi. Dunque a domani Tuo Cattaneo”), ed è preceduta da un’ annotazione del 26 marzo: Cattaneo si prepara per il viaggio vendendo una doppia cartella di obbligazioni demaniali “del valore di lire sterline 40, pari a franchi mille e dieci”. Cattaneo scrive alla moglie tutti i giorni, in italiano o in inglese, in una prosa – come appare dalle lettere – piana e familiare, molto vicina all’italiano di oggi e molto lontana dallo stile severo dei suoi libri. Morirà meno di due anni dopo, nella notte dal 5 al 6 febbraio 1869 (il 3 febbraio Mazzini salì a vederlo), e lui è come non ce lo aspettiamo; non è Cattaneo: è Carlo, è Charles, e poi, il 7 aprile, due giorni prima che gli capiti di perdere un dente, è Charly. Una dimensione privata e toccante della sua personalità, che negli scritti pubblici non è lasciata trasparire. Come non è lasciata trasparire quella dose di spirito, quell’intimità giocosa di espressioni come “Saluta i gatti, i gattini e le gattesse e le rattesse” (lettera del 4 aprile), riservate alla corrispondenza con la moglie. Il 30 marzo, nella prima lettera da Firenze, in inglese, descrive Giuseppe Ferrari in questi termini: “Ferrari came to see me; and was walking across my room and round to it for a long hour, talking high politics and revealing to his unexperienced friend some of the most absurd mysteries of Parliament”. La seconda lettera (31 marzo) è in italiano ed è una delle più interessanti: “ Anna mia cara, ieri è venuto a trovarmi Mario; che si conserva florido e giovane e mi condusse alla sala di lettura di Vieusseux, dove la Jessie stava lavorando per le sue corrispondenze inglesi. Vennero anche Bertani, Crispi, Gutierrez e Cristoforo Negri; è inutile dirti che sono tutti grigi. Oh che sciocchezza! Ho veduto anche De Boni; ed ebbi un lungo discorso con Asproni, che ti saluta cordialmente. Io credo d’avere sciolto il gran quesito di poter publicamente fare la mia parte in Parlamento anche stando a casa mia, almeno quasi sempre. Ho percorso il Lung’Arno; e mi pare molto abbellito; forse è perché il fiume è pieno, che mi rammento le rive della Senna. Per farti tacere quando vorrai mostrarti annojata perché io canto, devi saper che un giovane studioso di frenologia che vidi in casa di Rosmini, notò nella mia zucca puramente e unicamente l’organo musicale! oh povera mia filosofia! Io alloggio all’Albergo di Nova York a destra dell’Arno, presso il ponte più basso, d’onde in linea sempre retta si va a Porta Romana e alla via del Campuccio ( a destra della stessa Porta, mentre a sinistra vi è il giardino di Boboli); in via del Ca[m]puccio sta Crosbie in un bell’appartamento con bella scala, bella anticamera e bella sala, grande come quattro volte la nostra e alta il doppio. Adesso devo andare da Negri per un’adunanza a proposito di fondare una società geografica. Ricordati poi di scrivermi una riga almeno. Ti raccomando sempre i gatti, le gatte e le altre solite bestiole. Addio Tuo Carlo” La serenità dei primi giorni è finita qui; la lettera del 2 aprile contiene già la decisione: “I must go home” e le lettere successive esprimono soltanto la buona educazione di chi non vuol troncare troppo precipitosamente e vuole fuggire senza parere. 2 aprile My dear Anna Last night I went to Crosbie. I saw two of his daughters and a young lady who lives with them. The widow was in her room; she is ill; and so is her aspirant. To morrow I must go to see Mario’s villa out of town. To day I was very busy in writing something that I must send to the Milan Gazzetta. I hope to have found out a plan , in order to have an active part in the march of Parliament, and in this same time to be in liberty to go home. I assure you all this talking is too much for my nerves. I am too old; I must go home. I have no interest in every thing is going on in my presence. Farewell my dear Your Charles 3 aprile Cara Anna, sono qui sotto sequestro di Mario che mi vuol condurre a Bellosguardo. Ti saluto e in fretta parto. Tuo Carlo 34 April 4 My dear, only to day I received your letter with the enclosed to Crosbie; I will bring it to him to night. Yesterday I dined out of town in Mario’s place, upon a hill, at Bellosguardo; they had invited the two young ladies Borselli - Nathan; [...] After dinner, came there Bertani, with Dolfi, the florentine baker, a real giant with a large paunch and something of an American about him. [...] Yesterday came here Matteucci, the ex minister of public instruction and senator. The affairs of the Ricasoli ministery are going down the hill as well as every thing of the moderate party; they deserve it well. A few minutes ago, Ricasoli resigned his powers with all his party. No body knows what can come out of all this. I forgot to tell you that Lord Wodehouse has taken the new title of lord Kimberly! I am pressed by many people to go to parliament. On the contrary I am convinced it is the moment in which I must use the greatest reserve. They seem to look at me as a curious beast just different enough from them, [...]. Today I received a letter from my nephew Piero; he is at Mantua; his sister at Vinago near Sesto Calende is just in family way as it has been her habit during a dozen of years. Saluta i gatti, i gattini e le gattesse e rattesse. Non ho notizie da Cecovi. Saluta i soliti. Addio. Tuo Carlo April 5 I write from Crosbie’s parlour; they came to take me at my inn and brought me in their carriage a long walk in the town and the Cascine. We are going to table and I’ll tell you all things to morrow. I got your most affectionate letter. I think Crosbie was writing to you to day. Farewell Your Charly Sabbato 6 aprile Anna cara ieri, dopo aver girato in carrozza un pajo d’ore colla S.ra Crosbie e due figlie e averti scritto al ritorno alcune righe, ho pranzato con loro. Quando più tardi eravamo a prendere il tè, ho veduto anche la vedovina ammalata e il suo sposo. Oggi v’è un’incertezza grande sulla possibilità di trovare nuovi ministri, nessuno vuol incaricarsi di far qualche centinajo di milioni di risparmi, e chi ha saputo fare sì enormi debiti non sa dire come si possano pagare. Io ho scritto una Prima lettera a’ miei elettori; comparirà qui nel Diritto che arriverà in Lugano domenica sera, e credo nella Gazzetta di Milano che arriverà Domenica mattina. Mi servirà di scusa per non andare in Parlamento; ove tutti sono d’accordo che pel momento non mi conviene andare. Ho parlato con molti Sardi, Siciliani, Calabresi, Apugliesi, Toscani, Veneti; e tutti mi dicono lo stesso, appunto perché danno importanza a conservarmi la mia posizione e amano ch’io non la perda. La posizione del re si è resa molto difficile; non pare che possa proseguire come ha fatto fin qui. Io non resterò qui che qualche giorno ancora. E a dirti il vero sono molto stanco delle infinite ciance che ho dovuto fare, per conoscere lo stato degli animi. Dunque a rivederci presto. Firenze è bella, ancor più bella che non mi sia sembrata la prima volta; ma è una vita in aria, come quella delle rondini. E le rondini amano a tornare d’onde son partite. Addio, mia cara. Se mi scrivi, indirizza: Dr. C. Cattaneo - Deputato al Parlamento - Firenze - (Albergo Nova York, 23) April 7 Dear Anna Here I am in the hands of that awful monster that you call Bertani. He leaves me only the time to say to you that I am well. Have you seen my letter to my electors? read it; and give me your opinion. But Bertani calls me to order with the most unmerciful cruelty. Then farewell and give my love to your cats and rats. Good night Your Charly lunedì 8 aprile [...] Qui le cose non si avviano bene; il ministero è a disposizione dei soliti; cose vecchie e nomi vecchi. Tutti parlano di guerra d’alleanza francese e austriaca; ma dalla Francia vengono cattive notizie. Io concluderò alcune cose, poi partirò. Hai letto la mia lettera agli Elettori nella Gazzetta di Milano di sabbato 6 aprile, ovvero nel Diritto di domenica 7 aprile? A rivederci presto; sono annojato Tuo Carlo 9 aprile Mia cara, questa mattina ho perso un dente! Addio! Ieri sera Miss Anna Crosbie e la sua Governante sonarono a quattro mani un pezzo dell’Africana. [...] 35 Oggi il nuovo ministero è ancora sossopra. Mi pare che il Governo abbia perduto la bussola. Sta mattina ho avuto una lettera della S.ra Giovannina! in risposta alla mia lettera agli elettori. Entra Macchi con Lampertico. Chiudo e mando alla posta tuo Carlo 10 apr My dear Anna, Yesterday the Marios brought me to dine at Mr Trollope, who is building a villa out of town with the greatest elegance and taste. After dinner his young wife and the daughter of his former wife played and sang in various languages [...] The Marios accompanied me home. This morning here came the two proprietors of the Gazzetta di Milano to know the real state of things, they spoke with my friends and were persuaded of the opportunity of my behaviour; they told me my letter to electors had the most favourable effect; and they promised to follow the course. I pointed, in order to put in the clearest light that the opinion at large as well in Milan as every where answered the appeal I made. [...] I am litterally weary and sick of this life. The behaviour of the would -be ministers and all the set, is as foolish as it can be. They put in the most glazing evidence their imprudence, ignorance and impotence. The members of the left keep out of the way and leave them all the liberty they want to discredit themselves. But what have I to do with all this? Really this was not the proper way for me, although it may contribute to give a better direction to all the machinery. The muddy Arno is getting dry. Really I begin to think that the New York hotel is the same when we were lodged 25 years ago, although a great addition was made to it, and another hotel of the same name is on the opposite part of the way. A long line of new palaces and hotels begins from thence and extends for half a mile along the Arno in the direction of the Cascine. Adieu, my Dear; wait for me in a few days and remember me to cats and rats. Yesterday I had a letter from Mr Cecovi. Your Carlo 12 aprile oggi ti ho telegrafato per non lasciarti senza notizia di me; poiché tanto t’interessi alla mia sorte. Ieri sono passato tutto il giorno da una persona all’altra; e non trovai più tempo di scriverti. Ho pranzato da Crosbie e ho visitato il giardino ch’é addossato alle mura antiche di Firenze con una bella torre e magnifiche piante, cipressi antichi, pini e altri. Vi sono nel giardino due altre ville abitate da Americani. Crosbie paga ottomila franchi per la sua! questo ti darà un’idea del vivere di Firenze. Io pago qui per una camera franchi tre al giorno: in tre mesi mi costerebbe come tutta la nostra casa in un anno. Mi sono persuaso che la stanza che abito fa parte dell’albergo che abbiamo abitato nel 1842 e che se ben ti ricordi aveva una terrazza che guardava l’Arno verso il ponte alla Carraja, ch’è il più basso. Pare che il nuovo ministro Ratazzi si metterà sotto la protezione della sinistra, la quale in questo momento rappresenta veramente la maggioranza della nazione. Tutte le consorterie sono in gran decadimento. Le idee federali prendono forza; e alla testa di questo movimento è Torino. Si può dire che il rinnovamento dell’Italia comincia adesso. Ieri mi sono lavato alle otto e ho fatto collazione alle quattro. Tu sta tranquilla e buona. Ritorno presto. Saluta i gatti, e i ratti. Tuo Carlo Sabbato 13 aprile Mia cara Ieri mi sono trattenuto per due volte in casa di Ferrari, che si prepara a fare un’interpellanza a Ricasoli sulle ragioni della sua ritirata dal ministero. In tutti questi argomenti, io non ho nulla a fare e ben poco a consigliare. [...] Qui il ministro Ratazzi promette grandi riforme nella corte, nel governo e nell’esercito; e in tal caso avrà sempre i voti della sinistra; ma nessuno pensa di entrare nel suo ministero, nemmen Crispi e Mordini. Intanto i partigiani di Ricasoli, e i Perseveranti e gli altri antichi realisti dicono tutto il male possibile del re, perché ha voluto ricorrere a Ratazzi. Anche la maggioranza dei deputati e senatori piemontesi sono pieni d’odio contro il re per l’abbandono di Torino e la strage del settembre 1864; si può dire che il Piemonte, per sentimento di vendetta, aspira alla repubblica. Insomma, cara mia, sotto alla superficie dell’unità, vi è un forte movimento federale. E’ perciò che il re vuol servirsi di Ratazzi per avviare un dicentramento che non comprometta il suo potere, ma tutte queste cose sono d’una terribile difficoltà. Io non sono adatto a ingolfarmi in siffatti labirinti. E perciò, mia cara, il parlamento non è la mia strada, e non devo impegnarmi, se non in quanto posso essermi impegnato co’ miei elettori. Ho ricevuto oggi una seconda lettera di Cecovi; dì a Tobia di salutarlo con tutta la sua famiglia e di ringraziarlo delle notizie che mi dà. Qui nessuno pensa che il Gottardo vi sia nel mondo. E quelli che a Lugano credono che alcuno qui possa partecipare alle loro insulse ostilità mostrano solamente d’essere imbecilli come sono maligni. 36 Deborah Bottazzi La posizione direttiva occupata dalle donne. Il salotto di Emilia Peruzzi La formazione di un’identità nazionale Italiana si è creata anche grazie al ruolo che nell’800 hanno svolto i salotti letterari. Questi, sorti sul modello dei salotti francesi affermatisi durante il Settecento, erano una via di mezzo tra la società e la familiarità domestica. Benché i salotti fossero già presenti da molto tempo, la loro età d’oro fu proprio quella del Risorgimento. La padrona di casa aveva la funzione di fulcro e riferimento nello sviluppo dei rapporti che intercorrevano tra i vari frequentatori, stabili od occasionali che fossero, fungendo da catalizzatore delle conversazioni che si intrattenevano e, in qualità di ospite, rendeva possibili tutti gli eventi, adoperandosi per mantenere vivi i rapporti con vari personaggi letterari, politici, mondani che, tutti, contribuivano a dare lustro al salotto con la loro presenza più o meno assidua. A tal fine era solita tessere una nutrita corrispondenza con chi risiedeva altrove ed era presente nel salotto solo occasionalmente, cercando così di mantenere vivi i legami e incoraggiando gli interlocutori a farle visita non appena fosse possibile. Infatti i salotti letterari si distinguevano da altri luoghi di incontro intellettuale proprio per la posizione direttiva occupata dalle donne. Un altro cambiamento rispetto al passato si può notare dalla eterogeneità dei ceti che frequentavano i salotti, i quali erano sì tenuti di solito da famiglie di origine aristocratica ma l’accesso ad essi era conseguente più a meriti intellettuali che non all’appartenenza ad un determinato ceto. La padrona di casa si adoperava a creare contatti con frequentatori che avevano il potenziale per iniziare una promettente carriera nella politica o nelle arti. Olimpia Savio Rossi, che teneva uno dei salotti più importanti di Torino capitale, scrisse su questo punto a Emilia Peruzzi, conosciuta per il suo salotto di Firenze: “Il suo salon cosi gentilemente tenuto, amica mia, ha fatto un gran bene tra noi dal lato sociale: in quel trovarsi lì di tutti i partiti, di tutte le classi, dalla D'Arrillay alla Todirof, da Mons.De Stackelbert a Nardini, ha fatto si che si sono diminuite molte antipatie, e rimosse certe barriere fino a tempi nostri quasi insuperabili salvo per pochi eletti, tra le varie caste sociali, le femminili in specie”. Mia cara conserva la tua salute e credimi sempre tuo Carlo. 15 aprile 1867 Mia cara Ti scrivo una sola riga in presenza di Mario che ti saluta e mi conduce seco. Ho avuto una cordialissima risposta in nome di miei elettori; ma molto graziosamente mi invitano a entrare in Parlamento. Vorrei più volantini a Castagnola. E con questo in fretta ti lascio Sempre tuo Carlo 16 aprile 67 Anna cara Un momento fa venne qui Garibaldi a vedermi. E’ arrivato ieri sera, alloggia da Crispi; e dimani vogliono ch’io vada a pranzar seco a Bellosguardo in casa di Mario. E’ florido e fresco. Lo condussi alla sua carrozza ad una saletta di lettura; e subito entrò per amore o per forza una mezza dozzina di inglesi maschi e femmine e una di queste piangeva di consolazione. Spero per la fine della settimana d’essere a casa! La figlia maggiore di Crosbie, l’altro dì si è maritata, e partì per l’Inghilterra col suo sposo ch’è un bel giovine molto raccolto e serio. Ieri sono stato da loro; e la Miss Anna colla sua istitutrice ha sonato per due ore l’Africana di Mayerbeer. Preparati dunque a ricevermi e a farmi festa; sono molto contento di ritornare. Marchi mi sarà compagno di viaggio. ma dovrò fermarmi qualche ora in Milano. Intanto, mia cara Anna, addio Tuo Carlo Archivio Cattaneo, Civico Museo del Risorgimento, Milano [N. d. C.] . 37 E come ribadisce Edmondo De Amicis in “Un Salotto Fiorentino del Secolo scorso”, riferendosi al Salotto dei Peruzzi a Firenze, “Al modo come v'erano ricevuti non si sarebbe distinto il patrizio illustre dal borghese oscuro, il ministro dal capo sezione, il generale famoso dal modesto professore di ginnasio. La società che vi si raccoglieva era delle più varie che si possan dare fra le pareti d'una casa privata [...] A vecchi amici della famiglia, di nomi ignoti, si mescolavano personaggi più eminenti del partito moderato; ad allegri signori che bazzicavano tutti i salotti della capitale,vecchi uomini di scienza e di governo, ritirati dal mondo [...] a giovani esordienti nelle arti e nelle lettere, magnati dell'arte e della letteratura, che non avevan più alcun gradino da salire sulla scala della celebrità e degli onori [...] vi passavano uomini cospicui di tutte le città italiane e di tutti i paesi d'Europa” L’Italia prima ancora di nascere esisteva già nel gruppo di intellettuali, infatti ai fini della costituzione di un’identità nazionale e civile fu molto importate lo scambio di notizie che gli stessi frequentatori dei salotti portavano con loro da una città ad un'altra. I salotti erano presenti in molte città come Torino, Milano, Firenze, Napoli, Genova, Padova. In Toscana un momento importante di sviluppo dei salotti ebbe inizio dai primi dell'Ottocento, sullo stimolo degli ideali risorgimentali, con un'impronta di moderatismo cattolico di cui Pier Capponi fu forse l’esponente più di rilievo e sull'esempio di fenomeni d’importazione, come il famoso gabinetto fondato a Firenze dal ginevrino Vieusseux nei primi dell'ottocento, che aprì Firenze all'influsso della migliore intellighenzia europea dell'epoca, soprattutto anglosassone. Nuovo slancio all'attività culturale dei salotti letterari fiorentini fu impresso ovviamente dall'unità d'Italia e dall’assurgere di Firenze a capitale provvisoria del Regno Unito. In quel periodo la cultura si esprimeva ai massimi livelli nell'Istituto di Studi Superiori fondato da Cosimo Ridolfi nel 1869. Fra gli anni 1860 e 1870, soprattutto negli anni in cui Firenze fu capitale provvisoria dell'appena formato Regno d'Italia, il salotto fiorentino dei Peruzzi ebbe la massima notorietà. La sua attività era incentrata soprattutto sulla figura di Emilia Peruzzi, mentre il marito, Ubaldino, era soprattutto occupato nelle sue attività politiche ed amministrative. Era un salotto politico-letterario, infatti veniva considerato come la “succursale” del parlamento, frequentato da esponenti del partito moderato e da letterati e artisti in genere già affermati. La signora organizzava i pomeriggi e le serate cercando di mettere a proprio agio sia le personalità del modo politico e artistico che le facevano visita, sia le persone meno in vista che frequentavano il salotto, come giovani artisti o politici oppure persone che tempo addietro avevano ricoperto anche cariche importanti ma che erano ormai a riposo. Fra i nomi più noti, passarono per il salotto Peruzzi, situato in un palazzo di via Borgo dei Greci, De Amicis stesso che ne scrisse un libro di memorie ricco di aneddoti e ritratti dei frequentatori, Prezzolini, Cherubini e noti esponenti della vita politica di area moderata dell'epoca. Per citarne alcuni, ricordati da De Amicis nel suo libro, il deputato Ruggiero Bonghi di orientamento liberale cattolico neoguelfo, oltre che giornalista famoso dell'epoca, il senatore Giambattista Giorgini, uomo politico frequentatore molto assiduo del salotto, di orientamento filoSavoia, grande estimatore del Manzoni e dei Promessi sposi, poi Silvio Spaventa, altro noto frequentatore e personaggio politico, appartenente alla destra storica di matrice cattolica, filosofo e conversatore molto apprezzato ed ammirato per il trascorsi patriottici, per continuare con il senatore Lampertico, Fogazzaro e Pasquale Villari. Come abbiamo detto il salotto di Emilia Peruzzi veniva considerato la “succursale” del parlamento perché là si prolungavano le discussioni sugli argomenti affrontati nelle aule di Palazzo Vecchio. Dopo il 1871, data del trasferimento della capitale del Regno a Roma, il salotto perse una buona parte dei suoi frequentatori di maggior spicco. Edmondo de Amicis scrisse: “I salotti sono officine dove si raffinano gl’ingegni mediocri, ma non s’innalzano né si fortificano che assai raramente gl’ingegni grandi”. Infatti i salotti erano luoghi d’ incontro, discussione e confronto di idee ma soprattutto la “vetrina” che avevano a disposizione le personalità di allora. 38 Art. 5 Cost. La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento. “Il federalismo è Cattaneo. S’identifica con lui e con lui attende ostinatamente la sua ora”. 66 Norberto Bobbio Niccolò Petri Il cammino verso il federalismo non è ancora arrivato al traguardo; quello verso un federalismo civile , a salvaguardia della libertà67, non è che ai primi passi nella coscienza degli uomini politici e in quella della Nazione. Quanto tempo si sarebbe guadagnato se la voce di Carlo Cattaneo fosse stata ascoltata? IL FEDERALISMO E’ CATTANEO S’identifica con lui e con lui attende ostinatamente la sua ora. Il 20 marzo1865 venne promulgata la legge comunale e provinciale del nuovo regno d'Italia. In quattro lettere del 1864 (7, 22, 29 giugno e 8 luglio) Carlo Cattaneo esprime la sua contrarietà a questa legge, proponendo il federalismo, che non fu preso in considerazione e che anzi fu definito dal Ministro Rattazzi una minaccia al regno d'Italia. Nel 1946 la Costituzione della Repubblica italiana, all'art. 5, inserisce il riconoscimento delle autonomie e il decentramento amministrativo tra i principi fondamentali; ci sono voluti più di ottant’anni rispetto a quel che si sarebbe potuto fare fin da subito con l’unità; nel 2001, dopo altri 55 anni, è stata introdotta la modifica in senso federalista del titolo V della Costituzione.68 Le autonomie locali e il decentramento amministrativo hanno in Italia radici storiche molto profonde. La proposta di Carlo Cattaneo sul federalismo si ispira al modello che era stato introdotto dalla riforma di Pompeo Neri nell'ordinamento comunale della Lombardia di Maria Teresa d'Austria. Pompeo Neri era stato professore di diritto pubblico a Pisa e aveva lasciato l’insegnamento per ricoprire cariche pubbliche nell’amministrazione in Toscana e poi a Milano. Qui divenne presidente dell’ufficio di censimento, cioè del catasto generale sul quale doveva essere fondata la riforma del sistema tributario lombardo. All'atto di promulgazione della legge, nel 1755, i magistrati affermarono di mettere in rigorosa osservanza gli ordini antichi dello Stato di Milano; Pompeo Neri aveva aggiunto ad essi “quanto di meglio potevano suggerire gli ordini pure antichi, e ancor quasi inviolati, dei popoli toscani.”.69 Fu una legge straniera ad introdurre per la prima volta in Italia un accentramento che era estraneo alla tradizione italiana: ciò avvenne durante il periodo napoleonico, sotto il governo del viceré Eugenio di Beauharnais (18 maggio 1803), quando furono arrecate a noi come prezioso dono (così, 66 Norberto Bobbio, introduzione a Carlo Cattaneo e Norberto Bobbio, Stati Uniti d’Italia, Donzelli, 2010 pag. 49 “La libertà è una pianta di molte radici”. Carlo Cattaneo, L’ordinamento del regno, in Carlo Cattaneo e Norberto Bobbio, Stati Uniti d’Italia, Donzelli, 2010 pag. 49 68 l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3. 69 Carlo Cattaneo, Sulla legge comunale e provinciale, in Carlo Cattaneo e Norberto Bobbio, Stati Uniti d’Italia, Donzelli, 2010 pag. 103 67 39 con ironia, Cattaneo) le leggi francesi sui comuni. Con queste leggi “il comune è l’ultima appendice e l’infimo strascico della prefettura e della viceprefettura. Il comune non è più il comune. Tutto il sistema è una finzione”. “L’unico diritto del nuovo comune italiano è il diritto d’obedienza”.70 Con queste leggi sui comuni, parve ai Francesi di introdurre in Italia una grande modernizzazione. In realtà le leggi relative all’amministrazione comunale non contenevano che un barlume di novità rispetto a quanto era già stato fatto, molti anni prima, da Pompeo Neri. In effetti esse prevedevano semplicemente che i comuni, le province e il regno si amministrassero con tre ordini di consigli elettivi. A fare la proposta in Francia era stato Turgot71, e la sua era sembrata ai francesi un’illuminazione. Turgot giustamente attribuiva la miseria del regno di Francia “al volersi amministrata ogni cosa per mandato regio”. “Turgot non credeva né al beneplacito regio, né alla burocrazia. Ma la Francia gemeva ancora sotto il patto di Carlo Magno, sotto la feudalità combinata dello Stato e della Chiesa; chi non era gentiluomo o prelato, era rustico, roturier, vilain”. Ma Turgot seguiva la dottrina fisiocratica, che considerava fonte della ricchezza non il lavoro, il capitale, il pensiero, ma unicamente la terra. “Pertanto egli, fervido promotore di libertà eziandio non ammise nel comune alcuna rappresentanza del commercio e dell’industria; e anche per la terra ammise bensì tutti i proprietari, ma diede loro un numero di voti commisurato all’ampiezza dei poderi. Era la voce della terra, non quella del comune”. Nemmeno la rivoluzione francese aveva saputo uscire “dalla tradizione dei secoli e dalla fede nell’onnipotenza dei governanti”: “ai mandatari del re successero i mandatari della nazione. Il furor della disciplina fece obliare la libertà. Il popolo ebbe la terra. Ma non ebbe il comune”.72 Con le leggi francesi anche in Italia il concetto di comune viene capovolto e negato. “Tutti i comuni hanno un sindaco creato dal prefetto o un podestà creato dal re”. Gli stessi consigli comunali, quando gli abitanti sono più di tremila, sono creati dal re e quando hanno meno di tremila abitanti dal prefetto; “i comuni possono essere aggregati e disgregati a voglia del ministro; il prefetto può far murare le porte delle città per minorar le spese di custodia; a sì luminoso scopo, la finanza anticipa i denari; e le città glieli rimborsano (decr. 23 giugno 1804). Per altro simile lampo di scienza, i comuni vicini alle mura vengono spietatamente incorporati alle città, con dissesto delle famiglie e dispergimento di migliaia di abitanti. Le municipalità dipendono dal prefetto o dal viceprefetto; eseguiscono gli ordini di questi, e in caso d’inobedienza, possono esser sospese o fatte supplire.” Con il ritorno degli austriaci a Milano questa legge fu abolita e venne ristabilito il vecchio ordinamento: “nel 1814 i podestà e i consigli nominati dal re non mossero un dito a salvare il regno. Alcuni di essi accolsero gli Austriaci, facendo suonar le campane a festa. Tale è la solidità delle istituzioni burocratiche. Chi semina la servilità, raccoglie il tradimento”.73 Della libera istituzione del comune “Congresso comune per le cose comuni; è ogni fratello padrone in casa sua. Quando ogni fratello ha casa sua, le cognate non fanno liti”. Una delle critiche principali di Cattaneo al progetto di legge comunale e provinciale del nuovo regno d’Italia riguarda la soppressione dei piccoli comuni. Con la legge del 1865, dopo l’unità d’Italia, di nuovo un regresso verso l’accentramento: come al tempo dei francesi, il sindaco viene nominato dal prefetto o dal Re, mentre il ministro ha la facoltà di 70 Ibidem, pag. 102 Turgot, pubblicò, nel 1775, il suo Mémoire au roi sur les municipalités, sur la Hierarchie qu’on pourrait établir entre elles et sur les services que le gouvernement en pourrait tirer. 72 Carlo Cattaneo, Sulla legge comunale e provinciale, in Carlo Cattaneo e Norberto Bobbio, Stati Uniti d’Italia, Donzelli, 2010 pag. 106 73 ibidem pag. 107 71 40 decidere se unire o dividere un comune. I legislatori del regno consideravano i piccoli comuni come numeri da unire. In Lombardia un comune è piccolissimo: ha una media di 358 abitanti e la superficie è di 8 km quadrati; in Sicilia molto più grande: 6681 abitanti per 73 km quadrati; in Toscana abbiamo 90 abitanti per km quadrato. Le cariche politiche non avevano ben capito la differenza geografica e sociale tra nord e sud. La legge sull’ordinamento comunale del Piemonte, la legge Pinelli, che il governo piemontese nel 1859 aveva esteso alla Lombardia, non conteneva queste disposizioni. Cattaneo si rivolge con queste parole ai legislatori “Io prego adunque che non si aggiunga a questa legge anche quel male che fortunatamente non ha.” Ma la sua opinione non venne ascoltata: la legge del 1865 riconosce infatti al governo la facoltà di decretare l’unione di più comuni confinanti quando abbiano una popolazione inferiore a 1500 abitanti. La critica di Cattaneo sembra semplice: “Congresso comune per le cose comuni; è ogni fratello padrone in casa sua. Quando ogni fratello ha casa sua, le cognate non fanno liti”. Queste le osservazioni di Cattaneo: - se un comune ha già strade e acque, non vorrà contribuire col suo denaro alle opere dalle quali non avrebbe giovamento suo proprio, - non è vero che con le incorporazioni le istituzioni dei comuni più colti e ricchi si propagheranno agli altri, perché “nei corpi deliberanti le maggioranze sono anzitutto sollecite di se stesse”, - le unioni mal assortite portano impotenza e discordia: in questi casi, meglio seguire l’insegnamento biblico, il consiglio di Abramo a Lot: “se tu andrai a sinistra, io terrò la destra, se tu leggerai la destra, io mi volgerò a sinistra”.74 Cattaneo vede questa come un’oppressione: egli ritiene che un comune debba unirsi a un altro solo per volontà propria e che debba essere lasciata ai comuni stessi la possibilità di progettare la fusione. Cattaneo riconosce nei legislatori lo strano istinto di “legare le mani alla nazione”. Se proprio lo devono fare, continua, non diano un limite di abitanti, ma un limite alla superficie, perché i servizi essenziali come scuole, ospedali ecc. non siano troppo lontani da chi li paga e deve usufruirne. Cattaneo si riferisce, ancora più precisamente, non tanto alla distanza lineare, quanto alla distanza praticale, calcolata non in miglia, ma in ore. “Dico che se una famiglia vien costretta a pagare una scuola troppo lontana, alla quale non può mandare i suoi figli, essa è frodata”. “Quando una famiglia è costretta a pagare per un servizio di cui non può servirsi, è frodata. Ma se questo servizio è la scuola, è frodata tutta la nazione perché i suoi figli crescono nell’ignoranza.”75 Infine, ai comuni deve essere data la possibilità di formarsi dove potranno e dove vorranno. Il diritto naturale dei comuni “I legislatori che parlano sempre di voler fare l’Italia non sanno imparare dagli uccelli, che preparano il nido ai futuri.” “Nell’Alta Italia la suddivisione dei comuni è un fatto naturale e spontaneo”: il passaggio dal mondo pastorale al mondo delle piantagioni perenni si accompagna alla costante suddivisione delle comunanze primitive fino alla proprietà privata: “abbiamo memorie certe che ampie valli e pianure, intieri distretti, erano un solo popolo, il quale possedeva in comune pascoli e selve”.76 I capi delle tribù abitavano fin d’allora in seno a queste vaste comunanze, nell’aperta campagna. La campagna venne prima del villaggio e il villaggio venne prima della città. Secondo Strabone, Milano era un pago, luogo di comizio o di mercato, ricovero fortificato per i disastri di guerra. Dove era consentita la semina dei campi, accadeva che subito dopo il raccolto, non appena compiute le messi, “la trasa dei bestiami le invadeva per diritti da tempi immemorabili”. 74 ibidem, pag. 112 ibidem, pag. 116 76 “ D’età in età le centine, le degagne, le faggie, le squadre divennero pievi e cure, le quali si suddivisero come sogliono fare le famiglie”. Ibidem, pag. 113 75 41 Il possesso privato cominciò qua e là con la legge romana e più il tempo passava, più questo diritto si affermava sempre con decisione. L’agricoltura mutò da nomade a stanziale per una necessità di custodia del terreno coltivato. Il filo giuridico che portò dalla pastorizia nomade all’agricoltura stanziale fu la costante suddivisione delle comunanze primitive: “di età in età si spartiscono le reliquie del patrimonio antico”. Nella rimanente Italia, invece, la città venne prima del villaggio o addirittura, paradossalmente, prima della campagna. La leggenda che rappresenta la nascita delle città è quella di Alba e di Roma. “Genti venute dal mare o da colonie venute già dal mare, si fanno un nido sulla cresta d’un monte; lo cerchiano d’un muro; poi si mirano intorno e scendono a conquistare le donne e la terra. Si dividono i campi sotto gli occhi di coloro che hanno spogliato delle donne e della terra. Ma non osano abitare al cospetto di coloro che hanno spogliato, non osano dormire lì. I nuovi signori della terra tornano la notte a chiudersi in città, per tornare il mattino al solitario campo”77. A differenza che nell’alta Italia, qui “le popolazioni non sono scarse, ma sono addensate in brevi spazii”. La distanza tra la casa e il campo, però, rende dispendiosa e difficile la custodia, consuma inutilmente gli animali, rende impossibile la stabulazione. Ora, se i possessori di queste varie terre spogliate si accordassero a trasferirvi le abitazioni dei loro coloni, questi tornerebbero ad accasarsi finalmente in mezzo ai loro campi:“come già nelle primavere sacre dei loro antichi”. Come scrive ancora Cattaneo, “i nostri prefetti e generali rimasero tanto stupiti di vedere all’alba gli agricoltori uscire a cavallo dalle città di Sicilia per recarsi a lavorare nei campi e tornare la sera”. La terra è coltivata, ma è deserta. I coltivatori dovrebbero invece disporre “di tutte quelle convenienze che la vita vicinale richiede: un campo ove seppellire i loro morti, un magistrato, una scuola ove i loro figlioli imparassero l’alfabeto senza dover fare ogni dì molte miglia di andata e ritorno; un ponte, al più prossimo guado del torrente, un magistrato di loro elezione, che vigilasse a questa ed altre cose per bene di tutti”. 78 Ai comuni deve essere data la possibilità di formarsi dove potranno e dove vorranno, e si deve far presto, si raccomanda Cattaneo, perché troppo strano è il fatto che dopo tremila anni di civiltà questa terra d’Italia debba giacere ancora qua e là largamente inabitata, ispida, infesta di febbri e di ladroni. L’antica legge: la legge di Pompeo Neri La legge di Neri del 1755 stabilisce che delle cose comuni decida un “convocato” di tutti i possessori di beni, cioè un’assemblea generale, cui avevano diritto di partecipare e votare gli abitanti del comune iscritti alle liste del censo. Questa assemblea eleggeva una deputazione di tre rappresentanti dei proprietari, un rappresentante dei mercanti e un deputato eletto da quanti pagavano una tassa personale, cioè da lavoratori, operai ed agricoltori nulla tenenti. Questa deputazione di cinque rappresentati è al vertice del comune e sceglie il sindaco. Il sindaco è quella persona che gli abitanti del comune troveranno più idonea e più capace della pubblica fiducia. Quando il sindaco interviene alle riunioni delle deputazioni non può votare. Il funzionario che rappresenta lo Stato nel comune è il cancelliere. Il cancelliere deve intervenire a tutte le adunanze dei singoli comuni del suo distretto, ma soltanto come “ricordatore” delle leggi, nonché custode dell’archivio, e notaro “da rogarsi di tutti gli atti”. 77 78 Carlo Cattaneo e Norberto Bobbio, Stati Uniti d’Italia, Donzelli, 2010 pag. 113 Carlo Cattaneo e Norberto Bobbio, Stati Uniti d’Italia, Donzelli, 2010 pag. 115 42 Secondo questa legge i nullatenenti dovevano pagare il testatico, un’imposta personale: una parte di esso apparteneva al fisco, un’altra al comune. La parte che spettava al comune si pagava solo quando le altre imposte non fossero state sufficienti a compiere tutte le spese deliberate e approvate. Essi eleggevano a suffragio universale il loro deputato, col compito si difendere il loro diritto a pagare solo in quel caso e di vigilare perché ciò che pagavano i nullatenenti non fosse speso senza che vi fosse reale bisogno di spenderlo. “Il comune non poteva far uso di alcuna parte del testatico se non quando le altre fonti non bastassero alle spese; ultimo di tutti a pagare era chiamato il povero”.79 Le spese necessarie alla sussistenza della popolazione, come medico, chirurgo, ospedale, fontane, cisterne e altro, si facessero secondo la consuetudine, e non si distogliessero fondi in altri usi meno necessari agli abitanti. Della libertà e parità dei membri del comune Nell’antica legge del 1755 i nullatenenti erano tutti uguali in tutti i comuni ed eleggevano il loro deputato a suffragio universale. Con la legge elettorale piemontese del 1859 il diritto di voto è invece variabile. Questa legge permette infatti di esercitare il diritto di voto solo ai cittadini con età superiore a 21 anni che pagano l’imposta diretta, come se le altre non fossero imposte. Secondo Cattaneo la legge non era giusta, perché il diritto di voto smetteva di essere un diritto e diventava un privilegio. L’imposta funzionava a seconda degli abitanti (esempio: 3000 cittadini: 5 franchi; se nella città avevamo 3001 abitanti, la tassa aumentava a dieci e così via). Aggregando i comuni, questo penalizzava nettamente gli operai e le persone più povere. “Il diritto di voto di intere classi, la loro capacità, l’intelligenza, la probità, l’onore si suppongono variare collo stato d’anime, col numero dei legittimi e con quello dei bastardi; variano di anno in anno, di città in città, vengono a dipendere da un’anima, da un soldo.” Quando la ricchezza pubblica sale e cresce il numero degli abitanti, il numero dei cittadini diminuisce. Il diritto di voto varia in senso opposto a quello della ricchezza nazionale, e quanto più sarà grande il comune, tanto maggiore sarà il numero di chi sarà considerato indegno di votare. 79 Carlo Cattaneo e Norberto Bobbio, Stati Uniti d’Italia, Donzelli, 2010 pag. 122 43 Art. 9 Cost. primo comma scientifica e tecnica. La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca “La nazione delle intelligenze abita tutti i climi, e parla tutte le lingue” Fatima Zarha Ennassiri L'economia politica è una disciplina molto recente: Adam Smith pubblicò La ricchezza delle nazioni nel 1776; in Italia però Antonio Genovesi aveva avuto la prima cattedra di economia pubblica all'università di Napoli nel 1754 (si chiamava “commercio e meccanica”) e Cesare Beccaria nelle scuole Palatine di Milano nel 1768 (era la cattedra di scienze camerali). Nel 1861 Cattaneo, preoccupato poiché vede nello stato unitario indifferenza e ostilità di fronte al pensiero e alle scienze, pubblica Del pensiero come principio d'economia pubblica, uno scritto teorico che percorre la strada tracciata dagli illuministi italiani del Settecento; il maestro di Cattaneo è Giandomenico Romagnosi, i modelli sono Cesare Beccaria, Pompeo Neri e Melchiorre Gioia. Questa via italiana all’economia è percorsa senza boria, ma con la consapevolezza di un periodo d’oro per la storia del pensiero italiano. Sulle tracce degli stessi maestri Cattaneo delinea in quegli anni la sua proposta di riforma dell'insegnamento, la riforma penale e la critica alla proposta di legge comunale e provinciale. In particolare Melchiorre Gioia, che aveva pubblicato Il nuovo prospetto delle scienze economiche nel 1815, aveva scritto: “ In ogni prodotto si riconoscono due azioni: l'azione mentale e l'idea direttrice, l'azione corporale e i moti di esecuzione”. In uno scritto del 1857 (Dell'agricoltura inglese paragonata alla nostra), Cattaneo aveva scritto: ”nei trattati di economia gli atti di intelligenza ormai si dovrebbero considerare come fonti di valore in sé, quanto il lavoro e il capitale”. Lo scritto di Cattaneo rinnova gli studi economici sulla ricchezza delle nazioni, che consideravano soltanto tre fonti: natura, lavoro, capitale e i prezzi di questi fattori, cioè i loro redditi, la rendita dei terreni, il salario del lavoro e l'interesse (o il profitto) del capitale. Cattaneo si meraviglia che Genovesi ed Adam Smith, che pure erano professori di filosofia, “trascorressero con la mente sopra l'economia publica, senza intravedervi il costante dominio di quelle facultà mentali ch'erano il primo campo dei loro studj”. “Genovesi, egli è oramai più d'un secolo (1757), non riconobbe nell'intelligenza un'efficacia direttamente produttiva; ascrisse promiscuamente fra i produttori indiretti i soldati e i dotti: “i quali, benchè non siano producitori di nessuna rendita immediata, sono necessarissimi a difendere quelli che lavorano, o a governarli, ad istruirli, a sollevarli; ond'è ch'essi giovano ad aumentare le rendite della nazione”. - E pertanto egli pensava che convenisse limitare il numero loro, proponendo, - “come principio generale e fondamentale che le classe degli uomini producitori di rendita sia la più numerosa ch'è possibile, - e quelle classi che non rendono immediatamente siano il meno possibile. - Imperocchè è manifesto che le ricchezze d'una nazione siano sempre in ragione delle fatiche”.80 Vent'anni più tardi (1776), Adam Smith fu più categorico: affermò che “le classi 80 Carlo Cattaneo, Del pensiero come principio d’economia, in Storia universale e ideologia delle genti, Scritti 1852 1864, pag. 303 44 dotte non producono valore alcuno, e che l'opera loro svanisce nell'atto stesso in cui appare”.81 Per i socialisti francesi il capitale non può provenire dal risparmio ma proviene dalla disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, “la proprietà è il furto”,“la propriètè c'est le vol” e la distribuzione deve avvenire secondo il principio ”à chacun selon ses oeuvres”. Cattaneo coglie la conseguenza logica di questo principio : quando la distribuzione sarà fatta secondo questo principio, ci sarà un capitale che non è frutto di rapina ma di lavoro. L’economia pubblica di una nazione non si spiega né con Montesquieu né con Adamo Smith; non si spiega né colla natura , né col lavoro; ma coll’intelligenza, che afferra i fatti della natura, che presiede al lavoro, al consumo, al cumulo; che li fa essere in uno o in altro modo; che li fa essere o non essere. Se la distribuzione avviene secondo il criterio della partecipazione alla produzione, allora si premia l'intelligenza, ma l'intelligenza applicata al lavoro. C'è però una intelligenza antecedente, che precede, che comincia l'opera, che è prima del capitale e del lavoro. L'intelligenza è all'origine di ogni processo economico e di ogni risorsa produttiva. Quella che risulta è una critica alla teoria classica del valore-lavoro che passa attraverso argomentazioni suggestive. E’ l’intelligenza a dare a una cosa la qualità di bene economico : “quando le cose giacciono ancora non curate e ignote in seno alla natura, è l’intelligenza che comincia l’opera, e imprime in esse per la prima volta il carattere della ricchezza”. Gli inglesi e i fiamminghi non conoscevano il valore delle loro miniere di carbone, e “calpestarono noncuranti le stratificazioni di carbon fossile accumulate sotto i loro piedi”. Intanto, secondo la testimonianza di Marco Polo, i Cinesi lo usavano da secoli: “Per tutta la provincia del Cataio è una specie di pietre nere che si cavano dalle montagne come vene metalliche, che ardono come legna; queste mantengono il foco meglio della legna; e se mettete la sera al foco, e fate che ben si apprenda, lo manterranno tutta la notte; e ne troverete la mattina; in tutto il Cataio non s'arde che queste pietre (Millione C.XXI); “I Peruviani ignoravano l'uso del ferro, che i nostri libri sacri fanno più antico di Noè” (Gen. IV. 22), ma gli spagnoli a loro volta non conoscevano il guano , “del quale i nostri navigatori s'avvidero solamente ai giorni nostri, tre secoli dopo che avevano preso vano possesso delle isole che ne sono ricoperte”; l’uomo selvaggio, “quale per forza d’inesplicabili destini si mostra ancora in questo secolo sulle aurifere arene dietro la cieca vicenda delle piogge e della siccità, senz'arco, senza veste, senza tetto, pago di rannicchiarsi qua e là sotto una rupe o in un tronco” non è povero e nudo perché un nemico gli contenda l’oro della sua terra, ma perché non lo conosce;“ i preziosi legnami che l'ebanista e il tintore cercano nelle selve del Brasile, sono inutili come le onde del mare; non prendono valore se non presso nazioni che siano passate per lunga serie d'atti d'intelligenza”.82 L’idea inventrice si diffonde. I pastori Il primo motivo alla trasformazione progressiva d’una società. ossia d’una tradizione, è il fortuito contatto d’un’altra tradizione, e d’un’altra società E’ un’idea inventrice a creare “la capanna, il foco, l'arco, il laccio, la rete”. Essi sono doni dell'intelligenza. E’ vero che apprestarli e adoperarli richiede inoltre una fatica, e questa è da rinnovarsi in perpetuo; ma l'idea inventrice, concepita da un uomo, può valere per tutti e per sempre. L’esempio suo la svela anche al suo nemico.” L’invenzione si diffonde: “di tribù in tribù il beneficio si propaga per le foreste inospite a conforto di tutto il genere umano.” I pastori hanno una grande importanza nella diffusione delle idee. “In 81 82 ibidem, pag. 303 Ibidem, pag. 308 45 compagnia degli animali e per mezzo loro, potendo gli uomini facilmente trasferirsi di terra in terra, poterono vedere le scoperte fatte presso altri popoli, e seco propagarle in più lontane regioni”. La nuova ricchezza porta riposo “Chiusi i poveri casolari, il pastore discende per le valli coll’armento; gli uomini appiedi; le donne sui cavalli, cogli infanti nelle ceste come le tribù dell’oriente. A brevi giornate di cammino la carovana si arresta dove il contadino del piano l’aspetta; le vacche alpine stanziano qualche giorno a brucare gli esausti prati; poi, inseguite dalle brine, passano a più bassi campi, fino ai prati perenni”. 83 Per i pastori la ricchezza si raddoppia in ragione inversa delle fatiche: l’uomo ebbe sotto mano un alimento certo, “non fu costretto a precorrer con la caccia il ritorno della fame quotidiana; poté tranquillo aspettar nella sua tenda il dimani; mentre la folla degli animali rendeva ubertosa la terra circostante; e dai semi, dal caso adunati e sparsi sul suolo, spuntava senz’arte un primo rudimento d’agricoltura”. La possibilità di riposare viene dall'intelligenza; “non era esatto dunque il detto di Genovesi che le ricchezze d'una nazione siano sempre in ragione della somma delle fatiche”. L'intelligenza aumenta la produzione e diminuisce la fatica; la ricchezza non è in proporzione alle fatiche e le fatiche possono essere inversamente proporzionali alla ricchezza. “Chiuso il circolo delle idee resta chiuso il circolo della ricchezza” Se un atto d'intelligenza precede le forze produttive84, ogni qualvolta un circolo di idee comunque largo pur si chiude si genera una pausa dello spirito e, “poiché apporta un assopimento dell'intelletto, è già per ciò solo un regresso, un decadimento. Nessuna idea va smarrita, ma cessa l'opera mentale e si rilasciano nell'inerzia tutte le facoltà”85. La decadenza dell'impero romano sotto i colpi delle milizie barbare avvenne prima di tutto “col graduale oscuramento degli ingegni”; questa è anche la ragione dell’assopimento di India e Cina. E’ la teoria del declino. 83 Carlo Cattaneo, Notizie naturali e civili su la Lombardia, Biblioteca degli esuli italiani, Milano, Edizioni Risorgimento, 1925 84 ibidem, pag. 310 85 ibidem, pag. 318 46 Art. 11 Cost. L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. “Fosse anche un’illusione, dobbiamo salutare una voce che dopo tanti secoli fa suonare su quella terra desolata i nomi di giustizia, di ragione, di diritto. Noi desideriamo che l’Africa si levi dal suo sepolcro. Lo desideriamo per la causa della giustizia e per la causa dell’Italia”.86 “La libertà di tutti i nostri vicini è una condizione della nostra”.87 Carlo Cattaneo Nejoua Elyoussefi Nel gennaio 1862 Carlo Cattaneo pubblicò sul Politecnico “Il Regno di Tunisi e l’Italia”, nell’occasione di una importante costituzione che era stata solennemente promulgata a Tunisi nei primi mesi del 1861. In questo scritto Cattaneo prevede le mire dei francesi sulla Tunisia e la sua previsione divenne realtà nel 1881. La Tunisia ha una superficie che è la metà di quella dell’Italia, ma ha una posizione strategica importante: ” la sua natura quasi di grande baluardo e di generale vedetta del Mediterraneo, d’onde in retta linea si previene tanto alla Francia quanto alla Siria, tanto a Gibilterra quanto all’Egitto, è tale che su quelle rive poterono radicarsi e velocemente crescere potenze marittime di primo ordine, e che ogni potenza già grande potrebbe farsene scala a un predominio irresistibile”. I Francesi vorrebbero aggiungere il Regno di Tunisi a Nizza, Corsica, Sardegna e Algeria, “circonvallare in guerra e in pace” i mari d’Italia “e trasmutarli in tristi lagune”; i pensatori francesi, ”quei medesimi pensatori che colà volevano porre in luogo del vetusto diritto delle genti una più sensata e generosa legge d’eguaglianza e fraternità umana, nondimeno additavano già Tunisi alla concupiscenza della gran nazione”,88 volevano conquistare la Tunisia considerando gli indigeni inferiori dal punto di vista sociale e culturale, con la scusa di portarli a un livello di evoluzione superiore. Erano molti gli europei che avevano questa stessa idea, ma per Cattaneo i supremi interessi di Tunisi sono anche i nostri, “Tunisi non è né una via militare, né un ostacolo.” “La libertà dei nostri vicini è una condizione della nostra.89 86 Carlo Cattaneo, Il regno di Tunisi e l’Italia, in Scritti politici, IV, pag. 263 ibidem, pag. 236 88 Carlo Cattaneo, Il regno di Tunisi e l’Italia, in Scritti politici, IV, pag. 236. La frase che suscita il sospetto di Cattaneo è qui citata per intero:” nous devons avoir l’oeil ouvert sur les régences de Tunis et de Tripoli. Par suite de leur état subalterne, ces deux pays sont une voie de communication entre la France et l’Egypte plutot qu’un obstacle. Les destinées de la France africaine sont magnifiques”. (1842, Encicl. Nouv. Tunis) 89 ibidem, pag. 236. Nel giugno 1854, in uno degli articoli sulla libertà elvetica e i suoi nemici, “Pel tiro cantonale di Mendrisio” (Scritti politici, III, Firenze, 1965, pag. 11), Cattaneo trova parole profetiche; se vogliamo, possiamo leggerle pensando all’intervento delle Nazioni Unite in difesa della libertà dei popoli dell’Africa del Nord, oppure possiamo leggerle pensando alla guerra di liberazione dal nazismo. “No, non siamo soli. Il mare, il gran mare, l’Oceano Atlantico ha due rive. Su questa riva siamo pochi uomini liberi; ma ve n’ha milioni e milioni sull’altra riva, e ogni anno vi aggiunge altri milioni. Ah! se sorgesse per noi un giorno tremendo, un giorno di vita o di morte, un appello ai nostri fratelli di libertà scorrerebbe rapido come il fulmine sul fondo dell’Oceano fino in America. Rapido come il fulmine scorrerebbe tutta l’America sino all’opposto mare. Prima che il sole tramontasse per noi, un grido di guerra e di libertà scorrerebbe per tutta quella vasta terra, centinaia di navi, migliaia di cannoni sarebbero in moto per atterrire e disunire i nostri nemici”. [N.d.C] 87 47 . Il Regno di Tunisi fin dal 1554, al tempo della conquista del Sultano Solimano, aveva fatto parte dell’impero Ottomano; i reggenti dell’Africa settentrionale erano stati i condottieri delle milizie ottomane e nelle milizie ottomane “sotto il nome di rinegati, si arrolavano i più sfrenati venturieri d’Europa”. Poi, ”quando l’autorità dei sultani volse al tramonto”, essi divennero dei corsari.“Molti vivono che ben ricorderanno con noi come le nostre marine, anche nei più intimi recessi della Liguria, stessero in continuo terrore dei corsari, i quali osarono occupare l’isola Capraja. Ancora stanno sui nostri promontori le torri, d’onde le ansie genti vigilavano giorno e notte ogni vela al vento”.90 Quando la pirateria venne sconfitta, e fu “ tolta quella fonte d’ingordi riscatti e d’inumano fasto”, la milizia straniera cadde in dispregio, fu lasciata a custodire qualche cadente castello e nel Regno di Tunisi venne imitato il modello francese, cioè quello della leva obbligatoria per i figli del popolo. Il popolo era povero, viveva di agricoltura e allevamento; quanti più figli aveva una famiglia tanto era meglio, perché così aveva più braccia per lavorare il terreno. Inoltre, per mantenere questo nuovo esercito, aumentarono le tasse. “La vita conventuale della caserma ripugnava troppo alle tribù campestri, piuttosto tributarie che suddite. E tanto più facilmente si sottraevano alla leva forzata, quant’erano più internate nei monti o più vicine alla frontiera a al deserto. Pertanto sugli stabili agricultori e sugli operai s’aggravò il duplice peso dell’esercito stanziale e delle maggiori imposte ch’esso rendeva necessarie. Il nuovo armamento diveniva una calamità; il fisco manometteva e disanimava ogni avviamento di lavoro e di traffico.” 91 Le tasse sul terreno venivano contate in base al numero delle palme e degli olivi. Le famiglie, per sottrarsi a questi obblighi, andavano a vivere fuori dal regno come nomadi: “ Come sotto li ultimi Cesari, il colono in Africa riduceva a nudo pascolo il suo campo, perché l’esattore commisurava la tassa al numero degli olivi e delle palme. Prima i coscritti, e poi le intere famiglie, lasciavano derelitte le ubertose terre e raggiungevano le orde vaganti. Pur troppo la vita nomade è spesso l’ultima forma di una civiltà in disperazione e l’ultimo asilo d’un popolo che si spegne”. 92 Ma nell’organizzazione dell’esercito c’era un principio di progresso:“Ma v’è implicito nella nuova milizia un principio vitale. S’anco non fosse una scienza, essa confina d’ogni parte con la scienza”. tutti i figli del popolo, anche se erano poveri, avevano un minimo di cultura, tutti sapevano leggere o recitare il Corano : ˝già il musulmano, anche fra i deserti, non è mai così brutalmente inculto come il servo della gleba cristiana. Il teologo non gli contrasta l’alfabeto; non gli nasconde il libro della legge.” Ora i potenti, volendo che i figli imparassero a fare gli ufficiali, li mandarono a studiare in Europa. I giovani ufficiali tornarono dall’Europa, “credenti nella scienza, e ciò che più importa, nella ragione”. Nel Regno vennero fatte delle riforme prima che si facessero in Francia! “Quale rapida inversione di sorti! In quel momento stesso in cui i figli dei crociati tentavano d’insinuar di nuovo nelle colonie francesi, sotto il nome di libero lavoro, la servitù dei negri, i figli dei corsari precedevano la Francia nell’abolire, prima la tratta dei negri poi qualunque altro genere di schiavitù”. I Francesi, anziché salutare con favore le riforme, ne parlarono con dispetto: “il piccolo sovrano barbaresco” venne definito ironicamente più francese del console di Francia.93 Un cittadino inglese di nome Wood fu il primo a consigliare al reggente di effettuare una riforma costituzionale e, dopo una lunga meditazione , il sovrano la mise in atto nel Patto fondamentale. Il Patto fondamentale, “rivestito delle consuete forme della teologia musulmana, ma spirante pura e semplice filosofia” prevedeva la libertà e l’uguaglianza di tutti: “intera sicurezza vien solennemente garantita a tutti i nostri sudditi, a tutti li abitanti dei nostri Stati, qualunque sia la loro religione, nazione e discendenza … Non vi sarà eccezione, se non nei casi legali; e il giudizio appartiene ai tribunali. I nostri sudditi sottostaranno tutti proporzionalmente, e qualunque sia la loro condizione, 90 Carlo Cattaneo, Il regno di Tunisi e l’Italia, in Scritti politici, IV, pag. 237 ibidem, pag. 238 92 ibidem, pag. 238 93 Pelissier, Description de la règence de Tunis, in Cattaneo, op. cit., pag. 239 91 48 all’imposta attuale o che potrà stabilirsi poi. I musulmani e li altri abitanti saranno eguali al cospetto della legge, perché questo diritto appartiene per natura all’uomo”. Qui vediamo i diritti dell’uomo riconosciuti per la prima volta in terra d’Africa, quella terra che ospitò la prima cellula miliardi di anni fa. Al Patto fondamentale erano aggiunti quattro capitoli a garanzia delle libertà, con i quali si stabiliva che “i sudditi non musulmani non saranno costretti di cambiar religione né impediti; le loro adunanze religiose non saranno mai turbate; ogni reato dovrà constare per sentenza pronunciata a maggioranza di voci, dopo esaminate le prove e udite le difese”.94 I tredici capitoli della legge organica stabilivano tra l’altro che ogni nuovo principe dovesse proferire ad alta voce il giuramento “di non far cosa contraria al Patto fondamentale e alle leggi che ne derivano e di difendere l’integrità del territorio” e solo dopo aver fatto questo i suoi sudditi gli avrebbero reso omaggio e sarebbero stati eseguiti i suoi ordini. Cattaneo considera la clausola del giuramento come un principio “anteriore e soprastante ad ogni immunità e ad ogni costituzione: anzi, ad ogni Stato. Perocché uno Stato è una gente e una terra”.95 A garantire il Patto fondamentale c’era il Supremo consiglio, che era composto da sessanta membri: il capo dello Stato che violerà volontariamente le leggi politiche del regno, sarà decaduto da’ suoi diritti. Purtroppo - commenta Cattaneo - “in queste nuove leggi non si vedono corpi elettivi d’origine popolare e sopratutto non v’è segno di diritto municipale, unico possibile elemento di perpetuità. Ma noi non crediamo tanto alla perpetuità delle istituzioni, sia in oriente, sia in occidente, quanto alla potenza irresistibile delle idee che le hanno dettate”.96 La Tunisia non riuscì a conservare né l’integrità del territorio, né la libertà. 94 Carlo Cattaneo, Il regno di Tunisi e l’Italia, in Scritti politici, IV, pag. 243 ibidem, pag. 246 96 ibidem, pag. 245 95 49 Art. 21 Cost. primo comma Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. “Noi siamo nati col destino indosso di questa perenne ansietà; in essa abbiamo logorato e funestato la vita” 97 Carlo Cattaneo Marina Vasyutenko Grandi uomini, grandi bersagli In tutte le epoche ci sono stati uomini che hanno cercato di influenzare le opinioni del loro tempo, spiegare questioni oppure più semplicemente esprimere i loro pensieri, ma la loro mentalità si è continuamente scontrata con uomini ciechi, o forse troppo spaventati dalla realtà per aprire la mente e accettare ciò che li circondava. Dante e Galileo, Rousseau e Beccaria, Dostojieski, Collodi, Brecht. Ognuno di loro in modo proprio ha lasciato un segno, qualcosa su cui riflettere; nonostante la loro diversità erano tutti accomunati da una cosa: la paura, la paura della pena di morte, della tortura, della persecuzione. Hanno passato la vita terrorizzati dal domani, perché avevano espresso i loro pensieri, fatto importanti scoperte. Hanno vissuto in periodi difficili, ma hanno comunque avuto il coraggio di esprimersi, di scrivere, di pubblicare e, anche se hanno rischiato molto, alla fine hanno ottenuto la fama. Oggi vengono ricordati come uomini importanti che hanno cambiato il mondo. Dante fu privato di tutti i suoi beni e condannato a morte. Dopo la condanna di Giordano Bruno, Galileo preferì abiurare. Rousseau, i cui libri furono vietati, requisiti e bruciati a Parigi, a Ginevra, a Berna, a L’Aia, si ammalò di deliri di persecuzione. Cesare Beccaria stampò la sua opera fuori delle sua patria, e non osò apporvi il suo nome; sappiamo da Cattaneo che Beccaria dormiva in un letto sospeso al soffitto della camera98 e sappiamo che influenzò con le sue manie la figlia Giulia, madre di Alessandro Manzoni99. Per Dostojieski fu simulata l’esecuzione della condanna a morte. Collodi a poco più di trent’anni sembrava colto da una mania di persecuzione: “teneva sempre il suo revolver di ordinanza a portata di mano. Così armato faceva il giro della casa prima di andare a coricarsi e scrutava in ogni possibile nascondiglio quasi temesse di essere aggredito improvvisamente”100. Bertold Brecht già a diciassette anni rischiò di essere espulso dalla scuola per un compito in classe: il titolo del tema era “Dulce et decorum est pro patria mori”; era il 1915101 e sicuramente aveva più ragione dei suoi insegnanti. Comprese molto presto che per non rinunciare 97 Carlo Cattaneo, Della pena di morte nella futura legislazione italiana, in Storia universale e ideologia delle genti, Scritti 1852 - 1864, Torino, 1972, pag. 201 98 Carlo Cattaneo, Storia. Istruzione publica, in Scritti politici, III, Firenze, 1965, pag. 66 99 Giulia scrive a Pietro Verri il 14 marzo 1791 (Alessandro Manzoni ha sei anni): “assolutamente non mi è possibile vivere in una famiglia ostinata tutta contro di me. Mio marito animato da un santo zelo, vuol a tutti i costi procacciarmi il Paradiso, a forza di patimenti qui in terra; Monsignore [il cognato] sta nel suo Casino raffinando le sue idee e imponendone la pratica al Fratello, il quale ritorna a casa, scorre tutte le stanze e credo non ometta osservare didietro ai quadri. L’ex Monaca [ la cognata] si prende ad ogni momento la pena di calare pian pianino le scale interne per sentire cosa si dice, e va poi a rifferire tutto al degno Prelato, che poveretto è travagliato d’una natta su di un occhio, assai visibile.”, in Alessandro Manzoni, I romanzi, vol.II, Cronologia (cur. Salvatore Silvano Nigra) Arnoldo Mondadori Editore, 2002, pag. LVIII 100 Carlo Collodi, Opere, Milano 1995, Cronologia (cur. D. Marescalchi), pag. XC. 101 Bertold Brecht, Teatro, I, Torino, 1970; Cronologia della vita e delle opere, a cura di Emilio Castellani, pag. XXXVII. 50 alla verità bisognava riuscire a dirla usando tecniche particolari, e scrisse un trattato teorico su questo argomento: “Cinque difficoltà per scrivere la verità”102. Carlo Cattaneo era nato a Milano il 15 luglio 1801; si iscrisse a giurisprudenza a Pavia, ma non ebbe la possibilità di frequentare e scelse l’insegnamento privato di Giandomenico Romagnosi. Questo lo portò, a soli vent’anni, dritto nelle mani di Bolza, il capo della polizia austriaca,103 che lo sottopose a interrogatorio poiché aveva bisogno di un testimone per accusare Romagnosi.104 L’accusa a Romagnosi era di non aver denunciato dei carbonari. Carlo fu abile a non fare cenno agli argomenti trattati con il maestro e Romagnosi dopo sei mesi venne rilasciato. “Interdizioni Israelitiche” è stato scritto alla fine del 1835; il manoscritto fu mandato dalla censura ai governi di Milano e poi di Vienna, poi ancora al giudizio della “commissione aulica”. Il libro uscì finalmente nel 1837. Cattaneo commenta: “nessuno tien conto di tali contrarietà e umiliazioni serbate agli scrittori che hanno devota la penna alla causa del vero e del giusto”.105 Negli anni antecedenti al 1848, ancora di più per l’Austria “divenne necessario avvilire la stampa, interdire le discussioni politiche e amministrative, angustiare l’insegnamento”.106 La censura 102 ibidem, pag. XX Il “sedicente” conte Carlo Bolza (1783 - 1874), secondo la nota di pag. 36 di Delia Castelnuovo Frigessi in Carlo Cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848, Torino, 1972. 104 L’interrogatorio è riportato in Carlo Cattaneo, Scritti letterari, II, Firenze, 1981, pagine 3 - 6. Milano, li 12 luglio 1821. Nell’I. R Direzione Generale della Polizia, ed avanti il sottoscritto Attuaro chiamato ad esame comparve il signor Carlo Cattaneo, il quale dopo d’essere stato ammonito alla verità a sensi di legge venne interrogato sulle generali. [ ] Int. Se egli sia in qualche modo informato che il prof. Romagnosi abbia fatto qualche lavoro scientifico a sostegno del Regime Costituzionale Politico. R. so niente. Int. A riflettere seriamente su di una tale circostanza, trattandosi di un fatto tanto notorio del quale si può ben difficilmente supporre la perfetta inscienza in lui esaminato. R. So di sapere come tutti sanno che egli è tenuto per autore di un libro stampato, non so dove, sopra un argomento di questo genere, alcuni anni fa. Int. Egli ha mai letto quest’opera di Romagnosi? R. No. Int. S’egli non seppe diversamente che per voce pubblica che il Romagnosi fosse l’autore di una tal opera. R. io non ho mai parlato con lui su d’un tal argomento, e ciò che ho deposto lo intesi puramente dalla voce pubblica. Int. S’egli sappia che il Romagnosi abbia compiutamente terminato quel suo lavoro, o come diversamente. R. So nemmeno che quest’opera fosse da lui stampata imperfetta. Int. Se Romagnosi avesse a lui letto, o dato a leggere qualche squarcio, e caso su quale argomento. R. Io non ho veduto né questo libro né il manoscritto presso Romagnosi. Non so poi se nel corso delle lezioni a noi dettate non avesse fatto entrare qualche pensiero da lui espresso anche nell’opera suddetta. Int. Se il Romagnosi avesse mai tenuti ragionamenti di argomenti politici a lui esaminato; od a qualche suo collega, specialmente sul diritto dei popoli ad una costituzione. R. Non ho mai conversato con lui su argomenti che non fossero strettamente uniti alla materia delle sue lezioni. Int. Se in queste sarebbe mai occorso al Romagnosi di parlare di questa materia nei sensi su esposti sul diritto cioè dei popoli ad una costituzione? R. Nelle sue istituzioni il Romagnosi non mostrava contrarietà alle opinioni adottate dai libri di testo. Int. Egli non ha evasa così compiutamente la propostagli interrogazione. Deve dichiarare francamente se sia a di lui scienza che il Romagnosi, o conversando in ora privata con alcun suo scolaro, o quando dava ai medesimi lezioni di legge, abbia tenuto ragionamenti di argomenti politici, e specialmente sul diritto dei popoli ad una costituzione. R. Sul diritto dei popoli ad una costituzione no. Riguardo agli altri argomenti egli si tratteneva sugli argomenti politici in ciò soltanto che doveva necessariamente dirsi per rischiarare le materie trattate nei libri di testo, e ciò egli faceva con tutto il riserbo e la prudenza. Int. S’egli sappia somministrare qualche notizia sulla stampa dell’opera precitata del Romagnosi, particolarmente per conoscere se dessa sia stata stampata col di lui assenso o no. R. io non ebbi con Romagnosi bastante famigliarità che m’incoraggiasse a fargli alcuna domanda confidenziale su di un argomento così delicato. Dagli altri intesi nulla. Int. Se in occasione degli ultimi avvenimenti politici del Piemonte il Romagnosi abbia tenuta parola su di essi a propri scolari fra’ quali si comprende egli esaminato. R. Nell’occasione che alcuni studenti dell’Università di Pavia si dicevano rifuggiti in Piemonte in conseguenza della rivoluzione ivi scoppiata, egli ci esortò gravemente a non frammischiarci in turbolenze compromettendo il credito della sua scuola . Int. Se egli sia sciente che l’opera a stampa del Romagnosi sulla costituzione abbia circolato specialmente negli Stati di S.M. l’Imperatore d’Austria. R. io non ne ho veduto copia alcuna, né alcuno de’ miei amici ne possiede. Compiutosi così il presente Protocollo d’esame venne riletto all’Esaminato che lo confermò, e sottoscrisse col precetto del silenzio, avendogli ingiunto di portare entro domani mattina ogni qualunque scritto che egli possiede di lezioni del Romagnosi. Firme: BOLZA, Attuaro. Carlo Cattaneo. 105 Carlo Cattaneo, Scritti politici, IV, Firenze, 1965, pag. 33 106 Carlo Cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848. Antecedenti fino al 1847. Torino, 1972, pag. 23 103 51 arrivò a chiedere che si mettessero per iscritto i discorsi che si intendevano fare in occasione degli incontri pubblici; e anche i funzionari austriaci in qualche caso se ne vergognavano. “Quando Cobden passò per Milano nella primavera del 1847, lo si accolse a convito, come si era fatto in tutte le grandi città del continente. La polizia, avendo immaginato che io avessi a presiedere quella adunanza, mi aveva chiamato due volte, per la tema che ella aveva dei discorsi che vi si sarebbero potuti tenere; il secretario Lindenau intendeva che i discorsi si mettessero in iscritto e si rassegnassero alla censura. Avendogli io risposto molto risentitamente, quel magistrato con mio stupore ad un tratto mutò modi e parole.”107 Nei primi mesi del 1848 Cattaneo sfuggì per un soffio alla deportazione, e questo per aver scritto la relazione per la riforma della scuola.108 Carlo era terrorizzato dall’idea del giudizio statario e “degli altri supremi rigori”. Chiunque di noi tenne obliato o nascosto un cencio tricolore, un frammento di pistola, un vecchio foglio di ciance politiche, chiunque in momenti d’allarme ridisse una novella udita, egli, alla lettera di leggi che non sono abrogate, né si tosto il saranno, ha già meritato la morte 109. Nonostante questo non rinunciò mai a dire chiare le sue opinioni, e si fece molti nemici. Definì Cavour “quell’astuto malveggente al cui genio le città d’Italia vanno erigendo are votive”; gli rimproverava una politica d’ostentazione e scrisse di lui che “provocava il nemico senza armare il popolo”. Cavour si prese una miserabile rivincita: gli tolse l’incarico di segretario dell’Istituto Lombardo e i diritti di membro pensionato110. Era uno dei pochi incarichi che a Cattaneo interessavano. Nel 1861 e nel 1865 rifiutò la candidatura per l’elezione a deputato; nel 1867 l’accettò, ma non prese parte ai lavori parlamentari per non prestare giuramento. 107 Carlo Cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848. Antecedenti fino al 1847. Torino, 1972, pag. 30. Cobden era un economista inglese che sosteneva le teorie del libero scambio e la libertà di commercio dei grani. 108 Cattaneo aveva proposto che il collegio dei sessanta nobili a Vienna, che costava “quanto ambo le Università di Padova e Pavia, fosse restituito in paese e trasformato in numerosa scuola politecnica e militare”. “Nello stesso dì che la polizia mi seppe relatore in quell’argomento, aveva dimandato licenza a Vienna di deportarmi, in uno con Rosales, Soncino e Battaglia. Ebbi poi un dispaccio, trovato presso la polizia, nel quale il viceré Raineri, approvando la deportazione per gli altri, dichiarava per me non ancora venuto il tempo (noch nicht)”. Carlo Cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848 Torino, 1972, pag. 42. 109 ibidem, pag. 199 110 Introduzione di Norberto Bobbio a Carlo Cattaneo e Norberto Bobbio, Stati Uniti d’Italia, Donzelli, 2010, pag. 14 52 Art. 27 Cost. La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte.111 Dobbiamo noi raggiungere i Toscani o devono i Toscani retrocedere fino a noi? Vogliamo dunque, a nome dell’Italia Una, ricondurre in Toscana il carnefice? Vogliamo dunque noi imbarbarire la madre Toscana, la quale dopoché sotto l’immane regno longobardo tornammo idioti e quasi muti ci diede questa favella che ci ha fatti una nazione? Dacché la Toscana dare addietro non deve e non può, avanti dunque tutta l’Italia!112 Carlo Cattaneo Marika Rapicano Nel 1860 lo Statuto albertino e le leggi del Piemonte stanno per estendersi a tutta l’Italia. Cattaneo teme che con lo stato centralizzato una legislazione uniforme sia estesa a tutto il Paese e con essa anche la pena di morte e scrive “Della pena di morte nella futura legislazione italiana”. “In questo solenne intervallo dell’istoria d’Italia,in cui la nazione cerca forza e onore nell’unità delle armi e nell’armonia delle leggi, noi siamo ad un bivio indeclinabile. Da un lato ci sta la via che lo scrittore dei Delitti e delle Pene aperse, sono ormai cento anni, e che la Toscana ha gloriosamente seguito, ponendosi all’avanguardia del genere umano. Dall’altro lato sta la insanguinata via del palco, l’odioso ludibrio della scala e della corda, l’empia machina a cui Radetzky legò il suo nome.”113 L’abolizione della pena di morte divenne legge in Toscana con la riforma penale del 30 novembre 1786, voluta da Leopoldo I, ma l’applicazione della pena di morte di fatto era cessata ventuno anni prima, nel 1765, quando Leopoldo I divenne Granduca. Lo possiamo dedurre dalle parole che reca nell’intestazione la legge stessa: “Fin dal nostro avvenimento ... con istruzioni e ordini ai nostri tribunali e con particolari editti ... vennero abolite la pena di morte, la tortura e le pene immoderate e non proporzionate.”114 Il 1765 è l’anno seguente alla pubblicazione del libro di Cesare Beccaria. La pena di morte fu ripristinata dallo stesso Leopoldo I, con la legge del 30 giugno 1790, in seguito ai fatti della rivoluzione francese, contro chi osasse infiammare il popolo e lo portasse a compiere pericolose azioni, in nome della libertà: quindi per i reati politici. E per il reato politico si resuscita una vaga e fastosa intitolazione: reato di lesa maestà. Lo stesso Cesare Beccaria, o per prudenza di magistrato,o per timore di suddito, o perché il tempo è necessario allo svolgere tutte le deduzioni di un pensiero, aveva lasciato una pagina in cui la pena di morte era giustificata. Aveva lasciato alla morte il reato politico.115 Nel capitolo XXVIII del trattato “Dei Delitti e delle pene”, prevedeva infatti la pena di morte quando un cittadino colpevole di un delitto politico “anche privo di libertà abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella 111 Comma modificato dall’art. 1, l. cost. 2 ottobre 2007, n. 1 Carlo Cattaneo, Della pena di morte nella futura legislazione italiana, Carlo Cattaneo, Storia universale e ideologia delle genti, Scritti 1852 - 1864, pag. 194 113 ibidem, pag. 194 114 ibidem, pag. 190 115 ibidem, pag. 192 112 53 forma di governo stabilita; quando la nazione ricupera o perde la sua libertà; o nel tempo dell’anarchia quando i disordini stessi tengono luogo di legge”.116 Il principe s’avvide che quando rimanesse abolita la morte pei delitti privati , non si poteva più colpire l’avversario politico senza ferire la coscienza del popolo.117 Con la legge di Ferdinando III del 30 agosto 1795 ai reati politici furono aggiunti i reati che tendessero ad alterare la religione e ad essi furono accoppiati i delitti privati: omicidio, infanticidio e colpevole aborto. Il legislatore toscano, al pari degli altri legislatori moderni, non volle che la morte inflitta ad un avversario politico sembrasse, com’era veramente, una guerra e una vendetta e per ciò volle dissimularla e avvolgerla nel fascio delle infamie volgari. Era l’artificio antico del crocifiggere tra due ladroni.118 Anche stavolta la pena di morte non fu applicata, almeno finché la Toscana conservò un governo proprio. Quando invece, dal maggio del 1808, la Toscana passò sotto l’impero francese di Napoleone, tre quigliottine fecero a gara.119 A seguito della Restaurazione, la legge 22 giugno 1816 comprende un numero sempre maggiore di delitti per i quali è prevista la pena di morte, e, tra gli altri, certi casi d’aggressione a mano armata anche se “nessuno sia rimasto offeso”. Anche stavolta però la pena non si applicò. Nel 1847 un professore di diritto penale toscano, riferendosi al fatto che dal 20 luglio 1830 la pena di morte fosse rimasta inapplicata, scrisse : “Quando si volesse decapitare il colpevole alla presenza del pubblico, recenti fatti dimostrano che non sarebbe agevole trovare artigiani che prestassero l’opera loro per innalzare il patibolo.”120 In conclusione, la riforma della legislazione criminale che fu fatta in Toscana nel 1786 aveva abolito per sempre la pena di morte contro qualunque reo;121ma la Toscana non seppe conservare la sua legge di fronte a quei disordini che costituirono la rivoluzione francese e che furono portatori per noi dei principi di libertà e di uguaglianza. Lo Stato nazionale unitario non abbracciò nessuna delle idee di Carlo Cattaneo: la legislazione del Piemonte, e con essa la pena di morte, fu estesa a tutta l’Italia. Perfino la Costituzione della Repubblica non realizzò l’abolizione totale della pena di morte e l’art. 27 diceva all’ultimo comma: non è ammessa la pena di morte “se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”. Queste parole sono state soppresse soltanto nell’ottobre del 2007. 116 Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, in Carlo Cattaneo, Della pena di morte nella futura legislazione italiana, pag. 192 117 ibidem, pag. 199 118 ibidem, pag. 192 119 ibidem, pag. 194, è riportata la nota di Cattaneo: Giovanni Carmignani, Una lezione academica ecc. Pisa, 1836 120 ibidem, pag. 194, è riportata la nota di Cattaneo: Mori, Sulla scala penale del diritto toscano, Livorno , Nanni 1847, pag. 23 121 Nuova legislazione criminale da osservarsi in tutto il granducato di Toscana in Carlo Cattaneo, Della pena di morte nella futura legislazione italiana, vol. 127, pag. 190 54 Art. 33 Cost. L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali. E’ prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale. Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato. Lisa Zara Le professioni collegate alla scuola e all’università “L’estremo grado di avvilimento a cui possa calare una nazione è la servitù dell’insegnamento”. Carlo Cattaneo I maestri privati Il maestro privato è mal pagato e, per guadagnare qualcosa in più, è costretto a fare lezione in più famiglie, visto che per legge non può far lezione a casa sua, ma deve recarsi a casa degli studenti; e non può fare lezione insieme a più studenti di diverse famiglie, ma solo ai membri di una stessa. Considerato che per avere un salario sufficiente ad una vita dignitosa deve lavorare presso diversi studenti, di fatto l’insegnamento per ciascuno di loro è solo di poche ore; i ragazzi, non controllati dai loro precettori, sono spesso completamente liberi di non fare niente. I ragazzi seguiti da un precettore privato studiano quindi meno ore di quelli che studiano alla scuola pubblica. Secondo Cattaneo non è consigliabile l’insegnamento privato nei licei, perché non fa crescere il ragazzo e non lo fa confrontare con la società; l’insegnamento di alcune scienze non è totale, perché viene a mancare il confronto con altri docenti. I maestri privati devono presentare ogni mese gli studenti da loro preparati nel liceo pubblico: secondo Cattaneo questo non è corretto e crea una disparità rispetto agli studenti dei licei statali. Il fatto poi che la patente di precettore privato periodicamente debba essere rinnovata, fa di lui un precario che deve sempre confrontarsi con le famiglie degli allievi che segue: ogni piccolo, grande incidente può stroncare la sua carriera, che dipende in buona parte dal favore che riesce ad acquistare nelle comunità in cui insegna. Questo rischia di fare cadere l’educazione degli studenti privati in mano ad individui che, più che curare l’insegnamento, curano la loro visibilità sociale. I collegi Le famiglie mandano i figli in collegio quando non possono o non vogliono seguirli o quando vivono in luoghi dove non ci sono scuole; oppure, nelle città, perché abitano in case piccole o perché temono che i ragazzi siano tentati dalle abitudini del personale di servizio e preferiscono farli crescere in ambienti con ragazzi di pari livello sociale. Non tutti i collegi sono uguali. Alcuni hanno tradizioni antiche e vengono scelti per la loro fama di buone scuole; altri, che dipendono per il loro sostentamento dalle rette pagate dai genitori, per attirare gli studenti tengono una scarsa disciplina e richiedono poco studio. Per ovviare a questi inconvenienti sarebbe opportuno rendere più sicura la condizione degli istituti privati. Secondo Cattaneo non conviene ampliare i collegi più grandi, che non hanno dimensioni e carattere familiari, ai quali i ragazzi devono invece abituarsi. 55 Nei convitti, che sono collegi e seminari, s’instaura spesso una corruzione segreta.122 Secondo Cattaneo sarebbe da imitare l’esperienza delle pensioni domestiche attuata in Svizzera, in Germania e nella Scozia: queste pensioni coniugano i vantaggi dell’educazione collegiale con quelli dell’educazione domestica, allevando i giovani in un ambiente ricco di valori e comunque aperto all’influenza della società esterna. Gli insegnanti della scuola pubblica Per sviluppare al meglio l’insegnamento pubblico Cattaneo propone una grande riforma delle scuole di perfezionamento per gli insegnanti. Chi vuole insegnare deve prima provare di sapere; e il suo sapere non deve consistere solo di nozioni specifiche, ma di una preparazione a trecentosessanta gradi. Secondo Cattaneo devono essere istituite delle cattedre preparatorie e chi insegna deve avere un grado di preparazione superiore rispetto alla scuola stessa in cui insegna. Il maestro elementare, almeno nelle città, deve aver fatto studi nei ginnasi letterari o commerciali. I professori dei ginnasi devono aver fatto almeno il liceo, i professori dei licei almeno una facoltà universitaria e così via. Per avere una propria dignità la figura dell’insegnante deve avere una preparazione specifica rispetto all’età dei suoi studenti. Insegnare è un’arte specifica, così come esistono un’arte di scrivere ed una di parlare, e l’arte dell’insegnamento è tanto più necessaria quanto più gli studenti sono giovani. Mentre all’adulto si deve spiegare in modo chiaro una serie di conoscenze, ai ragazzi bisogna fornire anche gli strumenti per crescere dal punto di vista sociale e morale. E la cattedra di pedagogia dovrebbe unirsi alla facoltà “professoria”: poiché per conseguire un’abilitazione all’insegnamento non basta superare un esame orale ma occorrono delle prove pratiche di insegnamento. Per gli aspiranti all’insegnamento elementare o ginnasiale sarebbe auspicabile prevedere un tirocinio di 10 o più lezioni nelle scuole. A) L’abilitazione. Per dare una dignità all’insegnamento, la patente rilasciata agli studenti che superano gli studi previsti dovrebbe avere una validità indeterminata e non sottoposta a continui rinnovi, così da convincere i professori migliori ad investire nella loro professione, non sottoponendoli al giudizio spesso arbitrario delle famiglie, degli studenti o di colleghi, ma solo alla competente autorità governativa o giudiziaria. Questo eviterebbe che a rimanere nel campo dell’insegnamento fosse solo chi non ha altre prospettive di lavoro. B) Le borse di scambio Per completare la formazione degli studenti Cattaneo auspica l’introduzione di istituti che permettano ai ragazzi di studiare all’estero, così da toccare con mano la realtà delle nazioni più progredite. In particolare è auspicabile perfezionare lo studio delle lingue straniere; altrettanto auspicabili sono lo scambio con giovani studenti stranieri e l’inserimento in alcune realtà industriali e commerciali estere. C) Concorsi. Soprattutto per alcune discipline, accanto agli studi sono importanti l’esperienza e le capacità personali, meriti che in un concorso scritto non si riescono a valutare. D) I libri di testo sono importanti nella formazione degli studenti, ma non possono sostituirsi all’insegnamento. Spesso il testo lega anche il professore, frenandolo dall’istituire agganci con esperienze più recenti o costituendo un alibi per non metterci del proprio. Secondo Cattaneo per tenere una certa uniformità di testo basterebbe dettare un programma, le linee guida della materia per quell’anno di studi. 122 “Io mi fo avanti e vi dico di paragonar pure cogli Stati più potenti e gloriosi, il nostro piccolo e modesto Ticino; pensate che qui l’ordina domestico è consegnato da più anni alla legge del matrimonio civile; che qui ogni curato è un semplice funzionario del popolo, secondo i meriti eletto o secondo i meriti congedato con libero voto di suoi parrocchiani; che qui la immunità e licenza ecclesiastica è disciplinata dal governo e il prete cittadino è difeso anche contro le prepotenze del vescovo; che qui l’insegnamento è affidato a mani secolari e libere, scevre d’ipocrisia, pure di quelle nefande libidini che fermentano nelle luride caverne dei seminari e dei conventi e che di tempo in tempo si vedono portate alla luce dei tribunali in Francia e nel Belgio, e dappertutto dove l’immoralità dei celibatori forzati non fu dissipata dalla ala purificatrice dell’angelo della libertà.” Carlo Cattaneo, Ai carabinieri ticinesi, in Scritti politici, III, Firenze, 1965, pag. 17 [N.d.C.] 56 E) Le lezioni. Il professore dovrebbe sì prepararsi le lezioni, ma anche presentarle agli studenti con parole sue, senza leggere un manoscritto. Gli argomenti non dovrebbero essere dettati agli studenti, trasformando la scuola in un’officina di amanuensi. Inoltre, ogni anno i professori dovrebbero attualizzare le loro lezioni e non riproporre quelle preparate negli anni precedenti. Bisogna riconoscere che un ostacolo a questo rinnovarsi dell’insegnamento sono le ore che i professori devono dedicare ad interrogazione ed esami. F) Gli esami. Cattaneo propone di abolire gli esami semestrali previsti per le scuole elementari e ginnasiali, che non servono a mettere in luce la preparazione degli studenti. Più utile sarebbe un questionario quotidiano, formato da dettati, traduzioni, esercizi di matematica scritti. In questo modo il controllo della produzione dello studente sarebbe quotidiano e l’insegnante avrebbe tutti gli elementi per valutarne il profitto. Sono invece necessari gli esami per quelli studi e professioni che richiedono la pubblica fiducia e non devono essere ottenuti con l’inganno; in quel caso anzi le commissioni giudicatrici non devono essere composte soltanto da professori, ma anche da rappresentanti della società, perché è interesse e diritto della società assicurarsi che le persone a cui essa deve concedere la sua fiducia ne siano degne. Gli assistenti “L’istituzione degli Assistenti, [...] potrebbe acquistare importanza e dignità qualora le sedie scientifiche fossero occupate da uomini sommi, e si adottasse un uso che vediamo partorire ottimi effetti in Francia”. “I più valenti figli dell’università, venuti da tutta Italia agli studi speciali, quelli in cui si palesa precoce la passione del sapere, devono circondar le catedre come assistenti; raccogliere le antiche dottrine e le nuove come ripetitori; far le prime prove come supplenti. Quando un veterano si raccoglie ne’ suoi studi, essi gli succedono. Essi apportano all’insegnamento la vivacità degli anni, il diletto della novità, le simpatie dei giovani. Afferrano la scienza all’ultimo suo punto d’arrivo; non portano sul cancello vetusti zibaldoni, ove dorme da trent’anni la scienza della passata generazione; o perché il professore favorito dal potere non ha mente o non ha cuore; o perché vive assorto in un’idea, la quale traccerà un solco indelebile nell’ istoria della scienza, ma deve rimanere disciolta e fusa, priva di nome, nelle generalità dell’insegnamento elementare.”123 I professori universitari. Nel gennaio 1862, in una lettera al senatore Matteucci sul riordinamento degli studi scientifici in Italia, Cattaneo chiede per certi professori una licenza d’ozio scientifico. Dopo aver lungamente ragionato della “tradizione scolastica, che deve consegnare alle novelle generazioni il patrimonio del sapere qual è”, Cattaneo aggiunge: “è proprio della scienza esperimentale, è proprio dell’osservazione dei fatti, la quale comprende anche lo studio dei fenomeni mentali e morali, il condurre quasi infallibilmente alla scoperta. Quando un professore entrò con felice ardimento in una di queste novelle vie, non son più le sue lezioni che importano, sono i suoi secreti studii, sono le imminenti sue scoperte. Non importa più qual sia la consegna che la disciplina universitaria gli ha dato; non importa più qual sia la scienza antica che lo addusse all’atrio della scienza nuova. Adamo Smith era professore di filosofia; Genovesi, suo precursore, insegnava retorica in un seminario. Non importa con qual titolo uomini siffatti possano avere in un’università o altrove un tetto onorevole, una licenza d’ozio scientifico”. “Gli scienziati di maggior dottrina, molto più s’ebbero già lungo esercizio d’insegnamento, quando sono uomini di genio, sogliono trovare cammin facendo, e nel correre e ricorrere le generalità della 123 Carlo Cattaneo, Lettera al senatore Matteucci (gennaio 1862) “Sul riordinamento degli studi scientifici in Italia”, in Scritti politici, vol. III, Firenze, 1965, pag. 126 57 scienza tradizionale, un punto oscuro che arresta la loro mente, che sveglia l’attenzione e suscita il dubbio dove prima appariva una superficiale evidenza, come crosta di ghiaccio sovr’acqua profonda. Ecco cominciare per loro in quell’istante una seconda vita. Dalla dottrina, dalla tradizione, essi trapassano all’induzione, all’ipotesi, alla scoperta, all’evoluzione di quelle idee alle quali si fecero, coi lunghi studi e col possesso delle cose note, lentamente maturi. Essi ne annunciano al pubblico le primizie, essi dimandano di potervi dedicare il loro tempo ormai sacro, la loro vita che oramai sarà breve al volo che li attende. Essi per alti diritti devono esser fatti esenti dalla quotidiana fatica, dalla snervante assiduità. Daranno conto di sé in corsi eminenti, nei quali esporranno brevemente ogni anno la serie dei loro studi. S’inviteranno ad assistervi i colleghi, e più, i professori delle scienze affini nelle altre università. [...]124 124 Carlo Cattaneo, Lettera al senatore Matteucci (gennaio 1862) “Sul riordinamento degli studi scientifici in Italia”, in Scritti politici, vol. III, Firenze, 1965, pag. 125 58 Art. 34 Cost. La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso. Samantha Merico “Ma il giovine non può imparar fondatamente molte cose, se non l’una dopo l’altra.” Carlo Cattaneo LA SCUOLA Nei primi mesi del 1848 Carlo Cattaneo lavora, su incarico dell’Istituto Lombardo di Scienze, Lettere e Arti, a un piano di riforma dell’ordinamento scolastico richiesto dal vice governatore O’Donnell. Appena conosciuta la notizia che l’Istituto gli aveva affidato l’incarico di relatore della riforma dell’insegnamento pubblico, la polizia chiese a Vienna l’ordine di deportare Cattaneo a Lubiana. Fortunatamente il vicerè Raineri ordinò di soprassedere e le adunanze poterono continuare125. Dopo la scuola elementare e le scuole tecniche, la prima parte della relazione è dedicata alla riforma dei ginnasi, cioè ai sei anni successivi alla scuola elementare, che corrispondono alla nostra scuola media e al primo biennio della scuola superiore; seguono le proposte per i licei (i successivi tre anni), per l’università e il perfezionamento, che corrisponde al nostro dottorato. La relazione è molto attenta alla spesa pubblica ed esprime una visione democratica ma severa dell’insegnamento gratuito. Dovrebbe essere impartito solo nel Ginnasio commerciale mentre nel Ginnasio latino dovrebbe essere una distinzione e quasi un premio, dacché apre al giovane a spese altrui l’ingresso nelle più alte carriere. Per i ricchi dovrebbe essere a pagamento, ma il ricco che non mostrasse ingegno e buon volere dovrebbe essere indirizzato per la via dell’insegnamento privato. Ginnasi “Intorno all’orario delle lezioni pare che l’eccessiva lunghezza delle sedute, non lodevole nelle scuole superiori, sia gravemente dannosa nelle inferiori, e perché il tedio inflitto a quell’età genera avversione spesso insanabile, e perché la protratta immobilità nuoce allo sviluppo del corpo.”126 Tra i più gravi difetti dell’ordinamento in vigore (1820) possiamo trovare la molteplicità di materie accessorie “che preoccupa troppa parte del tempo e della memoria, sicché non concede libero sviluppo alle più generose facoltà dell’ingegno” e il chiaro insuccesso dell’insegnamento dell’algebra, della geografia, della storia, dell’italiano. • Aritmetica: al Ginnasio solo qualche lieve esercizio, applicato “alle cose domestiche o a quesiti di Geografia e Cronologia, tantochè solamente non si perdesse la memoria delle quattro operazioni decimali e della regola del tre”. • Algebra: l’insuccesso nello studio dell’algebra è dovuto alla dispersione di cinquanta lezioni in due anni che potrebbero essere suddivise in meno di due mesi di studio quotidiano. 125 Sull’ulteriore sviluppo del pubblico insegnamento in Lombardia, in Carlo Cattaneo, L’insurrection de Milan e gli altri scritti dal 1848 al 1852, Arnoldo Mondadori editore, 1967; introduzione di Luigi Ambrosoli, pagine XXIV-XXV 126 ibidem, pag. 48 59 • Geografia: prima di tutti i libri dovrebbero essere di mole minore e di maggior significato; studiando le circostanze dominanti e distintive dei paesi e delle nazioni e tralasciando i soliti inventari topografici della Geografia locale, per i quali bastano i dizionari. • Storia: lo studio della storia nei Ginnasi dovrebbe limitarsi alla parte antica; necessaria allo sviluppo dell’intelligenza dei classici; riservando il Medioevo e il Moderno ai licei; poiché far tutto ad un tratto è come far nulla. L’alunno dovrebbe disporre oltre che delle carte geografiche anche di una tavola cronologica per apprendere fin dall’inizio a ordinare ciò che studia nello spazio e nel tempo. • Italiano: Lo stile L’esercizio dello scrivere, invece di tendere per principi e per precetti all’amplificazione oratoria e alla esagerazione poetica, dovrebbe incentrarsi principalmente intorno ad argomenti descrittivi e narrativi. Se venisse fatto bene potrebbe accompagnare e svolgere lo studio della Geografia e della Storia. Leggere qualche eccellente testo di lingua italiana è importante affinché il giovane si abitui subito a sentire l’eleganza e la proprietà dei modi, e impari ad evitare il gallicismo, il germanismo, e la vernacola trivialità. A differenza della grammatica, nei Ginnasi poco affollati lo stile può essere insegnato contemporaneamente agli allievi di due anni perché la differenza degli esercizi da un anno all’altro è poca. Il risparmio di personale si può usare per l’insegnamento del Commercio e dell’Agricoltura. Latino e greco. Il bello scrivere latino si dovrebbe richiedere solo a chi aspira a diventare professore, perché le cose che si insegnano si devono sapere bene. Lo studio del greco è in orario aggiuntivo, gli ultimi due anni del Ginnasio, riservato a coloro che aspirano alla lode libera. • Religione: lo studio della religione scontenta gli animi più devoti; a loro sembra che venga fatto alla spicciolata e in forma troppo letteraria e quasi profana. Dovrebbe essere impartito in forma più solenne ed ecclesiastica, nella cappella del Ginnasio, a tutte le classi riunite simultaneamente una volta alla settimana, con una lieve retribuzione. Se ne dovrebbero far carico le parrocchie e gli insegnanti potrebbero a poco a poco e, salvi i loro diritti, applicarsi ad altre parti Anche nei licei dovrebbe essere fatta l’istruzione religiosa un’ora la settimana per tutti gli allievi riuniti, ma con altezza scientifica, con rendiconto scritto e con esame orale alla fine dell’anno. Se tutti gli allievi dei tre anni sono riuniti, per non fargli sentire più volte la stessa lezione, il programma dovrebbe essere ripartito su tre anni Libri di testo: il Ginnasio dura sei anni. Nei libri di testi l’allievo spende circa cento lire. Con questa spesa potrebbe comprare molte opere capitali intere (se non in quanto può offendere il costume) in quaranta o cinquanta volumi. I difetti delle antologie sono che offrono frammenti di ogni autore, di ogni tempo e di ogni merito ma niente di grande e intero. Le antologie finiscono disperse, sdegnate, rovinate, man mano che si sale di classe in classe. Se i ragazzi possedessero un Omero, un Virgilio, un Dante gli rimarrebbero compagni della vita. “Posto il gran numero degli allievi ginnasiali, si disperde senza frutto in sei anni un valsente poco minore di un milione, che basterebbe ad estendere e ad alimentare in tutto il paese l’assidua lettura dei più preziosi lavori dell’ingegno.” 60 Ogni istituto dovrebbe avere una collezione completa degli scrittori delle tre lingue e delle principali opere di erudizione che i professori potrebbero usare liberamente, a spese delle case editrici.”Vi si potrebbe assai facilmente sopperire col lucro che la vendita dei libri scolastici apporta all’officina che ne ha l’incarico”. “Ai professori dovrebbero diminuirsi le occupazioni che li distolgono dallo studio. Non si può paragonarli agli altri impiegati, né dire che possono in lezioni ed esami spendere sei ed anche otto ore ogni giorno come si fa negli altri Uffici. Se con continuo studio non s’accompagna il progresso della scienza, l’insegnamento diviene d’anno in anno sempre più vieto e debole.”127 Ammissione all’insegnamento gratuito e condizione degli insegnanti: L’ammissione ai Ginnasi (le scuole latine) dovrebbe essere più regolata; togliendo dalle scuole pubbliche e gratuite gli studenti più mediocri, rimandando i poveri alle scuole pubbliche commerciali e i ricchi alle scuole private. Indirizzato ai soli studenti più valenti, l’insegnamento diventerebbe più decoroso; il professore non perderebbe tempo con gli studenti svogliati e questo gioverebbe all’istruzione dei buoni allievi. “Il Professore non logorerebbe la miglior parte del tempo e della fatica e l’allievo non verrebbe aggiogato ad ingegni tardigradi e zoppicanti. Tutta questa antica istituzione delle scuole latine muterebbe natura, e diverrebbe ciò che la ragione da lungo tempo l’accusa di non essere.” L’insegnamento diventerebbe più facile, più decoroso, più alto e più fecondo. Pensioni: “A rendere desiderabile una carriera e frequentata dai migliori, conferiscono assai le aspettative ch’ella offre alla tarda età. Ma dove la pensione è considerata un servigio di quarant’anni, cominciato perlopiù in età non troppo giovanile, l’uomo comincia il suo riposo sull’orlo del sepolcro. Se la decrepitezza lo raggiunge sulla sedia scolastica, l’insegnamento è snervato e tradita la gioventù. L’infelice vecchio bene spesso se ne avvede ma non può discendere dalla cattedra senza cadere nella povertà”. “Le scienze per continuo progresso, le lettere per le variazioni del gusto e pel calore che richiedono nell’esposizione, si lasciano indietro dopo quindici o vent’anni anche l’uomo dotato di forza e volontà straordinaria. E’ a desiderarsi che l’insegnamento nella sostanza e nella forma si trovi sempre nella più stretta armonia collo stato delle dottrine e col tempo, e che pertanto un Professore non duri nella cattedra quando ha cessato d’esser utile”.128 Anzianità: “Se si uniformassero tutti gli stabilimenti ai ginnasj, rimarrebbe abolito nelle Università e ne’ Licei quel diritto d’anzianità che riserva l’aumento dello stipendio ad un solo [o a due] dei professori; e ciò pel solo fatto della morte di chi sia più anziano di lui, e senza alcuna proporzione ai servigi resi. Epperò in chi aspetta si fomenta un interesse poco fraterno al più sollecito congedo di chi fa aspettare. E nelle nuove elezioni dei colleghi si ha interesse che non entri in lizza un uomo benemerito e provetto, ma ben piuttosto un giovine sprovveduto di servigi e di diritti. E’ desiderabile adunque d’un’anzianità riservata ad un solo, un aumento regolare, proporzionato alle fatiche [o allo zelo] e comune a tutti.”129 127 ibidem, pag. 47 ibidem, pag. 51 129 ibidem, pag. 52 128 61 I Licei La funzione dei licei è aprire la via a professioni molto diverse;dovrebbero dunque comprendere le condizioni preparatorie alla carriera speciale, ma tali che ogni giovane colto si vergogni di ignorarle anche in un'altra carriera. Tutto ciò che oltrepassa questo limite deve essere riservato all’Università. Il problema prioritario è determinare i confini dell’insegnamento: il corso di Istituzioni civili insieme al corso di Scienze naturali darebbe un’idea generale della natura e della società. Le discipline scientifiche da insegnare nei tre anni sono matematica elementare (più geometria che algebra) nel primo anno, meccanica e fisica sperimentale nel secondo, con nozioni di chimica e meteorologia, scienze naturali nel terzo. Le discipline filosofiche o scienze morali sono Ideologia e Logica nel primo anno, Morale nel secondo e Istituzioni civili (diritto pubblico e privato, statistica ed economia sociale) nel terzo. Per far sì che gli allievi continuino gli esercizi di stile e non si arrugginiscano nello scrivere, lo studio dei fatti dovrebbe essere continuato in una classe di Storia universale e Letteratura, la quale nel primo anno riprenderebbe con più alti modi la Storia civile e letteraria dell’Evo antico; nel secondo dell’Evo medio e nel terzo del moderno. Dovrebbe essere fatto una volta per settimana per un paio d’ore in ogni classe, in un giorno in cui non c’è la lezione di Filosofia. Orario: Non è consigliabile fare più di due materie nello stesso giorno perché le menti non devono stare impegnate in più di due materie diverse. Svolgimento delle lezioni. La prima metà della seduta dovrebbe occuparsi nella pubblica lettura dei lavori fatti dagli allievi, i quali dovrebbero nel corso della settimana avere scritto in modo libero, proprio e individualmente variato le cose esposte dal Professore nella seduta antecedente. Una riforma capitale di tutto l’insegnamento scientifico deve essere considerata la sostituzione dell’esercizio continuo della penna al passivo esercizio della memoria. Supplenti. “Non occorre stipendiare supplenti. In caso di momentanea infermità d’uno degli insegnanti, l’altro, valendosi dell’opera dei migliori alunni, può prender cura di tutti e in caso di più lungo impedimento, potrebbe delegarsi un giovane aspirante, che si terrebbe pronto a tal uopo, mediante sicura aspettativa e lieve sussidio”. Le scuole di formazione professionale “Ora mi conviene far breve cenno d’altra istituzione nostra che possiamo dire d’unico esempio in Italia. Aveva detto il savio greco che li adolescenti sarebbero ad ammaestrare in quelle cose che sono serbati a fare nella matura età. A ciò appunto valse nel trascorso biennio la scuola dei tessitori della seta; nella quale s’insegnò per la prima volta quest’arte a coloro ai quali ella debb’essere l’unico presidio della vita. Si videro alcuni il cui destino non si sarebbe nemmeno elevato fino al telajo, ma sarebbesi confinato per tutta la vita al puerile ufficio di caricare le spole, giungere in questi due anni al chiaro intendimento di tutto questo magisterio. Quando li onorevoli Fabricatori, che il nostro Consiglio invitò ad esaminare i nostri allievi, sporsero loro uno od altro lembo dei più artificiosi tessuti serici, essi senza smarrirsi seppero immantinente descrivere in carta tutto l’ordine col quale le diverse fila erano trecciate a formare le parti liscie e le operate, le opache e le lustre, le vellutate o le cangianti, le trasparenti o le aspre d’aurei fiorami; le diverse foggie dei punti e dei nodi; li atteggiamenti dei licci e dei pedali; i pesi e le qualità delle sete prefisse all’ordito o alla tessitura o al vello; il compito delle quantità da commettersi alle diverse tinture. Né furono rattenuti solo nell’imitazione delle opere altrui; ma venivano entro per l’anno eccitati a divisare di propria mente combinazioni di colori e di rilievi in vari tessuti di più consueta occorrenza, conducendo le invenzioni loro fino a indicare la più opportuna appostatura del telajo, e determinare in numeri i pesi e le misure di tutto l’ordinamento”.130 130 Allocuzione alla distribuzione di premi della Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri (27 maggio 1847), in Carlo Cattaneo, Scritti politici, III, Firenze, 1965, pagine 348 – 349 62 Art. 37 Cost. secondo e terzo comma. La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione. “Il nostro secolo porta a insegna sua la nuova e fausta dottrina del progresso, del progresso continuo e illimitato. Ma pur v’è nel mondo delle nazioni un parziale e temporaneo regresso, che per lo meno tarda loro la via; e alcune pur troppo ne travolge, illuse o costrette, a contrario viaggio”.131 Al tempo della grande emigrazione ci vendevamo i figli piccoli, oggi regaliamo i figli grandi, meglio se laureati o perfezionati nelle grandi università. Destiniamo a loro i nostri risparmi o le nostre pensioni, affinché senza salario, senza ferie, senza ammalarsi e senza avere a loro volta i figli, prestino lavoro gratuito allo Stato, alle Regioni, agli altri enti pubblici e ai privati, che così possano recuperare quanto di troppo avessero eventualmente pagato ai loro padri. Cristina Mircea - E come fai? Parti solo o in compagnia? - Solo? Saremo più di cento ragazzi. - E il viaggio lo fate a piedi? - A mezzanotte passerà di qui il carro che ci deve prendere e condurre fin dentro ai confini di quel fortunatissimo paese dialogo tra Pinocchio e Lucignolo Quando gli albanesi eravamo noi ci vendevamo pure i bambini Il precoce avviamento al lavoro dei minori nel passato era considerato una piaga sociale giustificata dalle ragioni della sopravvivenza, dall’inadeguatezza del reddito familiare e dalla necessità di fronteggiare i bisogni primari ed è spiegata con la terribile miseria del proletariato agricolo. Una circolare del 14 aprile 1834 cercava di imporre qualche regola “onde reprimere il barbaro uso antico de' montagnari, precipuamente del Valtarese, del Bardigiano e del Compianese, di noleggiare i propri figli maschi ad altri loro compaesani, i quali seco loro li traggono come famigli in lontane regioni (più spesso in Francia ed in Inghilterra o per farsi servire, o ciò che più spesso avviene, per farli andare accattando per conto loro)”. L’esperienza ha dimostrato che moltissimi di quei fanciulli noleggiati non sono poi più ritornati alla loro patria perchè barbaramente abbandonati da' loro conduttori”. Le condizioni lavorative dei minori erano disperate, soprattutto nel sud Italia dove la maggior parte dei bambini, come avvenne in Sicilia, veniva adoperata nelle miniere e nelle zolfare. 131 Carlo Cattaneo, Prefazione alle memorie d’Economia Publica, Scritti politici, vol. IV, Firenze, 1965,pag. 32 63 “Piccola filatrice davanti alla macchina” “Immigrati Italiani” fine ‘800. Nel 1876, i politici Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, realizzarono un libro-inchiesta noto con il nome “Inchiesta in Sicilia” per porre l’attenzione del governo sulla realtà meridionale, dal problema del brigantaggio fino allo sfruttamento dei giovani siciliani nelle miniere di zolfo. Le più famose miniere siciliane erano quelle nei pressi di Agrigento e Caltanissetta e il lavoro dei minori era quello di trasportare lo zolfo appena estratto e successivamente di lavorarlo. I carusi erano assunti fin dall’età di 8 anni, tramite il cosiddetto “soccorso morto”, attraverso cui le loro famiglie ottenevano un prestito, ma restavano in condizioni di schiavitù per un tempo indeterminato perché spesso i genitori non erano in grado di restituirlo. I bambini lavoravano per circa 8-10 ore al giorno entrando e uscendo dagli stretti cunicoli delle miniere, portando pesanti ceste piene di zolfo su gradini ripidi e irregolari, passando dal buio e dalle alte temperature delle miniere, alla luce e al freddo dell’esterno, con gravi danni alla vista, alla corporatura e all’apparato respiratorio, per via dei gas liberati all’interno delle miniere stesse. I carusi erano costretti a compiere un determinato numero di viaggi al giorno, addirittura fino a 29 viaggi con carichi superiori ai 25 kg, per evitare le punizioni corporali che gli zolfari infliggevano loro ripetutamente, anche per motivi futili. La paga era molto misera e le famiglie stesse si opponevano a diminuzioni delle ore di lavoro che avrebbero portato a una riduzione dei loro guadagni. Molti bambini, vivendo lontano dai luoghi di lavoro, tornavano a casa solo la domenica. Il dolore fisico ma soprattutto quello mentale, segnò profondamente i migliaia di bambini che dovettero subire questo incubo: molti morirono nelle miniere, altri si ammalarono gravemente e pochi fortunati riuscirono ad abbandonare quella vita, senza mai poter rimuovere la sofferenza e gli abusi subiti, e magari, una volta cresciuti, vedere i loro stessi figli vivere la stessa terribile esperienza. Nonostante l’inchiesta Franchetti - Sonnino, non c’erano leggi che proteggessero in modo particolare il lavoro dei bambini, esistevano però le norme generali del codice civile e di quello penale, ma il potere giudiziario, che avrebbe potuto applicarle, sembrava cieco, la polizia non interveniva . "Non sono centinaia, ma sono migliaia, diecine di migliaia i casi in cui il potere giudiziario dovrebbe intervenire, interdire a degli indegni l'esercizio della patria potestà, assumere o delegare la tutela dei minorenni vilmente sfruttati o corrotti". "Ai padri che vendono i figli agli spazzacamini od alle vetrerie francesi, od ai suonatorí di organetto in America, alle madri che trafficano la verginità delle loro figlie per giocarne il ricavo al lotto, ha pensato mai a precludere la via il potere giudiziario, valendosi dei poteri conferiti dal Codice civile e penale? Non sanno di questi casi, quasi ad ogni cantonata, gli agenti di pubblica sicurezza, gli stessi giudici ? 64 Lo sfruttamento del lavoro minorile seguì le vie dell’emigrazione contadina che dal 1870 avvenne, almeno fino al 1901, senza alcuna protezione da parte dello Stato e si diffuse da un capo all'altro del pianeta. Gian Antonio Stella ne L'orda. Quando gli albanesi eravamo noi ci racconta l’emigrazione di massa di quei tempi, in cui migliaia di famiglie vendettero i loro figli ai “novelli negrieri” che, a loro volta, li affittavano ai vetrai francesi, all'edilizia svizzera, o ancora li impiegavano come suonatori d’organetto a Londra, come spazzacamini in Olanda, come strilloni in Argentina. A San Paolo del Brasile, dove la popolazione operaia era quasi totalmente italiana, i bambini impiegati nell’industria tessile erano il 38% degli occupati e alcuni stabilimenti avevano macchinari di dimensioni ridotte. Gli spazzacamini d’Europa erano bambini italiani. Così racconta un sopravvissuto: “Per palesare che ero spazzacamino mi era stato proibito di lavarmi. Dopo qualche tempo acquistai una certa abilità nello scalare canne fumarie ma le ginocchia e i gomiti sanguinavano senza che qualcuno provvedesse al minimo medicamento. I vestiti sporchi di fuliggine si appiccicavano alla pelle ed ogni movimento mi provocava forti dolori fino a farmi zoppicare”. A Londra c’era chi invocava la deportazione per i suonatori d’organetto, che riempivano le strade e assordavano i passanti ed erano bambini italiani. I bambini italiani venivano venduti ai circhi girovaghi e diventavano schiavi come le scimmie e i cammelli. C’è un capitolo di Pinocchio che descrive la partenza dei bambini verso il paese dei balocchi: Pinocchio e Lucignolo diventeranno gli asinelli di un circo. Furono migliaia e migliaia i piccoli dai 6 ai 15 anni venduti alle vetrerie francesi e americane. Due o tre anni e poi, se non morivano prima, i bambini delle vetrerie venivano rispediti alla famiglia ormai minati dalla tubercolosi. Scrisse indignato il futuro capo dello Stato Luigi Einaudi, autore di una inchiesta: “I garzoni non hanno camicia. O ne hanno una sola pei giorni festivi; dormono tutti nudi a tre, quattro, fin cinque per letto, o su pagliericci immondi buttati per terra, o su casse rovesciate. Di solito lungo la settimana non hanno che pane e cattiva minestra, per la quale le mogli degli incettatori, peggiori ancora dei loro mariti, utilizzano ogni rifiuto del mercato.” Gian Antonio Stella ci riferisce che Il Grand Tour dell'aristocrazia e della ricca borghesia del Nord, facendo tappa in Italia, non si proponeva soltanto un'immersione tra le bellezze artistiche e del paesaggio, ma costituiva una sorta di iniziazione al sesso, e che insomma l'Italia di ieri assomigliava un po' alla Thailandia di oggi. Schiavi con scimmie e cammelli Nella foto, tratta dal libro "Maggiolungo" di Marco Porcella (ed. Sagep), il "mini-circo" di un "orsante". Questi girovaghi, che partivano soprattutto dall'Appennino parmense, facevano un larghissimo uso dei bambini per intenerire il pubblico e raccogliere denaro. 65 “Noi desideriamo perciò cresciuta d’un altro mese la vacanza [almeno per le scuole superiori]; e riservato a particolare inchiesta il modo di renderla fruttuosa al giovane che ha ingegno e buon volere; giacché questi regolamenti sono fatti per chi studia”.132 Carlo Cattaneo Samantha Merico Vacanze! Carlo Cattaneo scrive un elogio delle vacanze italiane e della bellezza della vita campestre. Ancora oggi le istituzioni sostengono che in Italia si facciano troppe vacanze, senza pensare però che ragazzi e adulti hanno diritto al riposo, al relax, alla libertà di fare nuove esperienze, nuove conoscenze, di fare ciò che non possono per il resto dell’anno. “ per le vacanze […] uomini gravi e dediti interamente allo studio reputano troppo angusto il limite di giorni 56, sotto questo cielo italico, in certe parti soprattutto dell’umida pianura, e colle tempre d’ingegni che qui sono, sì presti all’intendere, e impazienti di quelle osservanze di cui non sia manifesta la ragione. Ai primi calori dell’estate l’apprendimento delle nuove cose ha sempre fine; pare che la mente stanca si ricusi; e il tempo è più perduto nella scuola che non tra le domestiche pareti. I buoni continuano gli studj da sé: i cattivi che spesero senza frutto la miglior parte dell’anno, non si mutano quando la fatica diviene ancora più ingrata. La natura del paese rende anche frequenti e maligne le malattie. Che se, come alcuni proposero, si riserbasse la calda estate al riposo e si riaprissero le scuole anzi tempo, come in alcuni paesi ove coll’ottobre ha principio l’inverno, si contrarierebbero le consuetudini più dolci delle famiglie turbando gli ozj autunnali. Il giovine reduce alla famiglia in quella giocondità si ritempra ai domestici affetti; e rompe senza fatica le dannose pratiche che per avventura contrasse lungi dalla casa paterna. Né il tempo della vacanza è perduto, quando può educare l’animo all’amore dell’agricoltura e delle cose naturali, argomento infinito alle scienze e alle lettere, e conforto in età più matura a chi può dalla sua condizione essere costretto a vivere nella solitudine campestre. Un ottimo ordinamento degli studj dovrebbe comprendere anche alcune norme per indurre la gioventù a profittare delle corse autunnali per addestrarsi all’osservazione scientifica; il che se si facesse, non sarebbero così rari tra noi i botanici, i geologi, gli agronomi, né così negletto lo studio della terra natale. Noi desideriamo perciò cresciuta d’un altro mese la vacanza [almeno per le scuole superiori]; e riservato a particolare inchiesta il modo di renderla fruttuosa al giovane che ha ingegno e buon volere; giacché questi regolamenti sono fatti per chi studia”.133 132 Sull’ulteriore sviluppo del pubblico insegnamento in Lombardia, in Carlo Cattaneo, L’insurrection de Milan e gli altri scritti dal 1848 al 1852, Arnoldo Mondadori editore, 1967; pag. 48 133 ibidem, pagine 48 - 49 66