6. Iniziazione, circoncisione, infibulazione

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6. Iniziazione, circoncisione, infibulazione
De Marco P., Apparizioni quotidiane. Il nostro conflitto con i segni degli altri
pp. 252, € 14,00, ISBN 88-89264-56-X
Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2005
6. Iniziazione, circoncisione, infibulazione1
Il Comitato Etico Locale dell’ASL 10 di Firenze, il 5 dicembre scorso, ha risposto
positivamente, dopo l’audizione del dott. Ornar Abdulkadir Hussein e della dott.ssa Lucrezia
Catania del Centro per la Cura delle complicanze e Prevenzione delle MGF (in italiano,
Mutazioni genitali femminili; sigla internazionale FGM), al quesito: “Si può proporre un rito
alternativo eticamente e legalmente accettabile in una strategia di lotta efficace contro le
MGF?”. La polemica bipartisan in corso mi provoca a rendere esplicite alcune delle
motivazioni per cui mi sono associato al parere dei colleghi, che aveva potuto riferirsi
anzitutto ad una relazione (dott.ssa Catania) assai corretta anche dal punto di vista storicoetno-religioso, e al parere favorevole dell’amico prof. Emilio Santoro, specialista sociogiuridico di devianza (Santoro ha difeso la sua e la nostra scelta sull’Unità e sul Manifesto-,
per parte mia ho trovato ospitalità sul Foglio).
Osservazioni sullo sfondo di cultura delle ‘mutilazioni’.
1. Non è inutile una minima ricognizione del fenomeno. Quello che viene stilizzato come
FGM (Female Genital Mutilation) si presenta secondo l’Organizzazione Mondiale della
Sanità in quattro forme principali: escissione del prepuzio (o cappuccio) della clitoride, con o
senza escissione parziale o totale dello stesso; escissione della clitoride con escissione
parziale o totale dei labia minora; escissione di parte dei genitali esterni ecc. e infibulazione
vera e propria, come sappiamo; si aggiunge come quarta una morfologia varia (meno
codificata e stabile). Ci troviamo comunque, come si può apprendere anche da una buona
Enciclopedia, dinanzi a “interventi culturali sugli individui, volti a modellarne il corpo, a
imprimere su di esso dei segni visibili che ne indichino l’appartenenza, ovvero l’identità
dell’individuo col proprio gruppo, secondo criteri morali ed estetici stabiliti socialmente”
(Ernesta Cerulli, in NOVA-l’Enciclopedia UTET, 2002, a.v. Deformazioni).
Non deve trarre in inganno l’esistenza di razionalizzazioni ‘utilitaristiche’ (penso alla
letteratura medica sui vantaggi funzionali e/o igienici della circoncisione ebraica e islamica).
Si tratta di un complesso istituto sociale.
Per limitarci al quadro africano il fenomeno è diffuso, com’è noto, in un’area culturale
molto estesa, che comprende - usando una terminologia classica - la grande area culturale
“sudanese”, dalla Costa atlantica all’altipiano etiopico, per includere il complesso camitosemitico del Grande Corno d’Africa e delle culture nilotiche (in senso ampio) ora comprese
entro i confini del Sudan e dell’Egitto. Secondo caute ipotesi (divulgate da siti attivi contro la
FGM; attingo alle elaborazioni dell’AFROL, www.afrol.com) la pratica attuale - nel variare
delle tre forme principali - raggiungerebbero oltre il novanta per cento delle donne nella
pressoché totalità dell’Egitto e del Sudan e delle zone costiere del Mar Rosso e Corno
d’Africa, senza discontinuità. Avrebbe dimensioni più attenuate (sempre sopra il 90%)
nell’altipiano etiopico e nettamente inferiori nelle aree marginali meridionali, quali il Kenya e
la Tanzania orientale. Appare subito ragionevole pensare ad una correlazione stretta del rito
con la penetrazione e stabilizzazione antica, e relativi contatti e irradiamenti, dell’Islam in
questi tenitori.
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Pubblicato sul Foglio, 27 gennaio 2004, e da Sandro Magister sul sito www.chiesa.espressonline.it il 27
gennaio 2004 con il titolo Iniziazione, circoncisione, infibulazione. Appunti.
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Verso occidente il fenomeno attraversa, con una intensità che raramente è inferiore al 50%
della popolazione femminile, la gran parte dei territori dell’attuale Repubblica centroafricana,
il Ciad meridionale, il Camerun settentrionale e occidentale, la Nigeria e le regioni interne dei
paesi del Golfo di Guinea, per giungere alle piccole nazioni costiere, dalla Liberia verso Nord
alla Mauritania. In quest’area, classicamente denominata come “sudanese occidentale” la
FGM toccherebbe percentuali elevate tra la Sierra Leone e la Guinea e verso l’interno,
nell’area dell’Alto Niger (il Mali e Niger occidentale). Queste aree culturali, ben note agli
etnologi, corrispondono approssimativamente ad antichi prestigiosi centri e sistemi politici
(regni) preislamici e islamici (Timbuktu) o islamizzati.
Nell’insieme il fenomeno si radica, dunque, nella grande area intermedia tra i deserti del
nord e la foresta equatoriale, integrata (sull’asse nordorientale) da quella del miracolo
civilizzazionale del Nilo; quest’ultima, secondo alcuni studiosi, ci offrirebbe le attestazioni
più antiche di pratiche escissorie.
Ovunque, in questo plesso, culture etnologiche ‘evolute’ precedono di molto la
penetrazione islamica. La clitoridectomia, ad esempio, ha grande diffusione ed è pienamente
comprensibile entro i sistemi religiosi preislamici e prescindendo dall’islamizzazione, come
mostra la letteratura etnografica e etno-storico-religiosa. Vi è un legame troppo stretto tra aree
islamizzate e consistenza attuale delle pratiche escissorie in genere per non pensare ad un loro
‘riconoscimento’ (e al conseguente effetto di stabilizzazione, magari anche di moderazione,
nell’ethos delle popolazioni) peculiarmente esercitato dall’Islam. Ma l’effetto di sostrato resta
evidente, poiché l’Islam non ha adottato altrove in Africa (ad es. nel Maghreb) questa
“estensione femminile” di pratiche per più aspetti corrispondenti alla circoncisione maschile.
2. Giova anche sottolineare alcuni dati di discontinuità nella distribuzione della FGM nella
continuità territoriale subsahariana e del Grande corno d’Africa. Iniziando dal polo nordorientale (sempre su informazioni AFROL, gennaio 2004): nell’area Egitto-Eritrea-Etiopia,
abbiamo il complesso clitoridectomia, escissione (dei labia minora), infibulazione, per quote
della popolazione dal 95% al 70% (alcune regioni dell’Etiopia); Gibuti 98%; nel Sudan (90%)
mancherebbe l’infibulazione. La penetrazione a sud, nell’area equatoriale, scende alle
percentuali del 50% del Kenya (con infibulazione più rara), e al 18% della Tanzania (ove
manca la clitoridectomia), alla episodicità ugandese. Se procediamo verso occidente, abbiamo
stime del 45-50% per la Repubblica centroafricana (assente l’infibulazione), del 60% per il
Ciad (assente la clitoridectomia), una presenza solo locale nel Camerun (interno, Monti del
Camerun), e nuovamente oltre il 60% (60-90%) in Nigeria (con infibulazione rada), solo
fenomeni locali nel Niger, valori molto insicuri nel Benin (5-50%), bassi in Togo e Ghana
(escissione). Come già detto i valori percentuali tornano alti nell’area del Niger2 e delle
culture influenzate da quella: Costa d’Avorio oltre il 60% (solo escissione); Liberia 50% (solo
escissione), Sierra Leone 90% (solo escissione), Guinea fino al 90% (il complesso
clitoridectomia, escissione, infibulazione), Gambia (60-90%, assente la clitoridectomia); dati
confermati verso l’interno: Mali 90% (clitoridectomia, escissione, infibulazione). Risalendo la
Costa atlantica, invece, i dati sembrano indicare un fenomeno ridotto: 20% Senegal, 25%
Mauritania (assente la infibulazione).
L’infibulazione è dunque un rito intensamente praticato, ma concentrato in aree
definite e come polari rispetto al plesso culturale ‘“sudanese” (un tempo visto come unitario);
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È un esempio interessante, tra i molti, quello attestato presso i Sara (cui dedicò un celebre lavoro il Jaulin). In
questa popolazione dell’alto e medio Sciari (Shari), nell’attuale Niger sudorientale, all’assenza della circoncisione
corrisponde 1’infibulazione con clitoridectomia (e periodo di separazione), in corrispondenza con l’età dello
sviluppo. Il contesto Sara (e dello Sciari) è caratterizzato dalla celebre pratica delle deformazioni delle labbra con
dischi o piattelli.
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da sottolineare che queste sub-aree polari sembrano corrispondere a culture ‘evolute’, ovvero
di particolare complessità rispetto a quelle ove il fenomeno è meno accentuato. Si dovrebbe
verificare, persino (senza nascondere la componente per noi provocatoria di questa ipotesi), se
il fenomeno delle FGM appartenga a culture dove la cura dei figli è accentuata; questo sembra
valere, ad esempio, per la famiglia somala. In effetti, anticipando sulle osservazioni che
seguono, va detto che gli istituti di intervento sul corpo (e particolarmente sui genitali) sono
destinati a ‘marcare’ ovvero a ‘generare’, secondo un’architettura duale di genere, l’identitàappartenenza dell’individuo, comunque a ‘confermare’ quella individualità entro il gruppo e
verso l’Esterno, naturale e sociale.
3. Credo si debba sostenere fermamente, contro la lettura stigmatizzante-discriminatoria
del quadro escissorio femminile che il complesso delle FGM appartiene - secondo le
prospettive conoscitivamente più adeguate - al processo pressoché universale per cui si
associano mutilazioni (e mutilazioni sessuali) peculiarmente a riti di passaggio; e i riti di
passaggio sono riti di inclusione e di “umanizzazione”.
Concorda con questo l’età in cui la cultura interviene con le pratiche escissorie, che in
prevalenza va dai primi giorni a varie soglie d’età prepuberali, a seconda delle diverse
concezioni dell’includere e dell’essere-parte. Non ci si può sottrarre alla simmetria con la
circoncisione (maschile). In alcune culture le due mutilazioni sono compresenti e cosignificanti. Frequente la sottolineatura (ad es. nella Dieterlen, celebre studiosa delle culture
Bambara, alto Niger) della simmetria delle due circoncisioni: il maschio perde i propri
elementi femminili (prepuzio), la femmina quelli maschili (clitoride, piccole labbra), là dove
tali elementi sono significativamente ‘dati’: nei genitali e nella loro morfologia. Si pensa che
le mutilazioni iniziatorie maschili abbiamo fatto da modello a quelle femminili (per la donna
prevalendo spesso, nella individuazione culturale della ‘soglia’, il menarca).
Queste dimensioni non possono essere separate (anzitutto nelle culture di interesse
etnologico) dalla dimensione etno-religiosa, che si sostanzia di ogni rituale e materia e pratica
‘simbolizzatrice’, ovvero di ogni azione di (ri)generazione di condizioni radicali (integrità di
appartenenza e ruolo, efficienza/fortuna, fertilità). In questa accezione di religione, dominante
nelle scienze umane, non vi è spazio per la separatezza tra interno ed esterno, sapere ed
efficacia, singolarità e totalità. Alle origini la stessa crudele “chiusura” della vulva è forse la
sanzione di uno status della donna completo e protetto (come si può ricavare da dati di altre
culture) dalla penetrazione rischiosa, sessuale e più che sessuale, dall’Esterno, dall’Oltre. È
dunque visione più che ‘prudenziale’; è, almeno originariamente o costitutivamente,
dimensione mitico-cosmologica.
Indubbiamente un quadro così profilato complica la nostra prospettiva ‘politica’, poiché
non favorisce la scappatoia (per la sensibilità diffusa e per quella specificamente religiosa
occidentale) di trattare la materia FGM come un istituto ‘semplicemente’ consuetudinario che
deve, quindi può, essere rimosso senza troppe attenzioni (anzi, con una buona coscienza
civilizzatrice - aggiornata sui diritti della donna -, trattandosi di una “barbarie”). Purtroppo
per noi, nelle società ad alta integrazione il “religioso” è inseparabile dagli istituti, dalle
pratiche e persino dalle tecniche. E non ha gran rilevanza, in questa sede, per la qualificazione
“religiosa”, che ad esempio un teologo islamico neghi il fondamento coranico delle FGM
(come nel caso, talora citato, della fatwa dell’imam Mohammed Sayed Tantawi).
Dimensioni ideologiche della querelle.
4. Un primo momento della discussione riguarda l’incongruità delle reazioni di ordine
ideologico (etico-politico e/o femministico) all’ipotesi di “riduzione del danno” avanzata dal
dott. Abdulkadir. Abbiamo visto che le categorie di barbarie e 1’imputazione femministica
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alla pratica FGM d’essere espressione stigmatizzante di dominio del maschile sul femminile,
applicate per di più all’intero quadro iniziatorio cui appartiene anche 1’infibulazione, sono
criticamente impraticabili. Esse rivelano però una diffusa difficoltà a restare su livelli dialogici o, anche, oggettivamente metaculturali, non appena l’Altro ci ponga un problema di
‘‘inaccettabilità’“ (e non lo sapevamo? )3.
Che avviene? Domina in noi il primato, tutto moderno, del travaglio psichico/morale
dell’individuo sul travaglio culturale di un gruppo. La stessa (per ipotesi) operazione di
modifica dell’aspetto ‘naturale’ (e oltre, dall’aspetto alla struttura biologica) di un corpo è
legittima se liberamente, cioè individualisticamente, scelta; non è legittima, anzi va avversata,
se appare culturalmente fondata e (di conseguenza) obbligata. La contraddittorietà dei nostri
atteggiamenti e giudizi riguarda sia il dogma dell’integrità-intangibilità del corpo che è in
tutta evidenza neutralizzato da quello dell’arbitrio proprietario (il corpo è mio); sia quello
dell’Alterità, che viene celebrata (fino ad essere la “Verità del Sé”) finché l’altro non si
mostri veramente Altro, Estraneo e Difforme/deforme (per me); allora relazionalità, “agire
comunicativo”, accoglienza etico-politico-religiosa si dissolvono a vantaggio di un
pedagogismo pronto a ricorrere alla forza della Legge (di cui sono un difensore convinto, ma
non come strumento dell’Illuminismo).
È in gioco, insomma, su questo terreno, e risulta più forte di ogni timore di contraddizione,
il sofisma della “libertà di scelta” di un tratto di cultura come condizione della sua validità.
Contro ogni evidenza e contro molto della ricerca del Novecento. Non si sceglie la propria
personalità culturale; si sceglie sempre solo entro un orizzonte di plausibilità e di senso
acquisiti, sia pure con atti di “costruzione” per sé innovativi. La stessa istanza della scelta
individuale inerisce, ovviamente, ad un sistema di cultura. Insomma: la chance di visione
metaculturale che possediamo, dovrebbe farci intendere anti-relativisticamente il radicamento
non arbitrario dei nostri assoluti, che si pone a fianco o a fronte della non arbitrarietà
dell’assoluto altrui.
Da ciò la mia tesi generale. Dialetticità o antinomicità della storia vanno affrontate
‘affermando’ la consistenza assiologica delle alterità culturali, la necessità di una relazione
dia-logica con tali alterità-estraneità, la decisione di recepire (con opportune figure giuridiche
e reciproche guarentigie) negli ordinamenti dell’Occidente gli istituti culturali-religiosi
altri/estranei. Tutto questo è, se vi si riflette, contemporaneamente ‘affermazione’ di ciò che
l’Occidente ha di universale. E sono anche le indicazioni che volenti o nolenti ci da il
processo detto di globalizzazione che da tempo sottopone gli istituti liberal-democratici alla
pressione di soggetti e gruppi, anche interni all’Occidente, che nel quadro dei “diritti
individuali” non trovano Riconoscimento.
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Bisogna dire che un supplemento di intransigenza è offerto, in questa congiuntura, dal femminismo ‘civile’, che
opera appunto nel de-culturalizzare il fenomeno escissione/infibulazione e nell’isolarlo come esclusiva fattispecie
misogina. Così l’intelligencija altrimenti disposta a depenalizzare anche le droghe pesanti, a proteggere e
sindacalizzare la prostituzione e a teorizzare la liberalizzazione dell’aborto, delle sperimentazioni sugli embrioni e
di molte altre pratiche in nome della “riduzione del danno”, è indotta a negare qui legittimità persino ad un
innocuo (medicalmente) rito sostitutivo. Come si è spesso obiettato, sono le stesse subculture critiche che
proteggono e giustificano le molte forme di intervento sul corpo, dal piercing al tatuaggio (che sono certamente
mode esotizzanti o primitivizzanti) alla chirurgia plastica pesante, e che forse (date queste premesse) non si
opporrebbero ad interventi di modificazione dei genitali, maschili e femminili, se divenisse di moda, imposto dal
‘libero gioco dei sessi, anzi dei generi. È stato osservato l’aspetto fortemente manipolatorio sul corpo che
accompagna i fenomeni di transessualismo. Aggiungo, a conferma della deriva individualistica anche in queste
materie: il suicidio stesso, grado estremo di vulnus all’integrità corporea, diviene legittimo o “comprensibile”
purché (ovvero in quanto) deliberazione di un singolo, mentre appare “barbarie” un suicidio collettivo.
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