1.1 Origine e diffusione del latino 1.2 Dal latino alle lingue europee

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1.1 Origine e diffusione del latino 1.2 Dal latino alle lingue europee
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1.1 Origine e diffusione del latino
Anticamente sul suolo italico venivano parlati numerosi dialetti, differenziati secondo la diversa
origine delle varie popolazioni che, in ondate successive, si erano stanziate nella penisola: Reti, Liguri,
Piceni, Sicani ecc. Fra questi dialetti era destinato a particolare fortuna il latino, ossia la lingua parlata
da un popolo indoeuropeo che si era stanziato nel Lazio intorno al IX-VII secolo a.C.: i Latini.
Dopo la fondazione di Roma, tradizionalmente datata nel 753 a.C., la lingua dei Latini ebbe una
rapida diffusione attraverso le guerre di espansione: il dominio di Roma si estese dapprima sulle
regioni circostanti, poi sull’Italia peninsulare e insulare, quindi sull’intero bacino del Mediterraneo,
per allargarsi al di là delle Alpi in vasti territori della Francia, della penisola iberica, della Germania,
in Britannia, nei paesi lungo il corso inferiore del Danubio e in buona parte dell’Asia. L’impero di
Roma si poteva davvero definire, per la sua estensione, un impero universale.
Fatta eccezione per le aree orientali, rimaste soggette all’influenza della civiltà greca, Roma portò
dovunque, insieme alla sua struttura politico-amministrativa, la propria cultura e la propria lingua.
Il latino, favorito dall’unità politica ed economica dell’impero romano, si radicò profondamente nelle
aree assoggettate a Roma, soppiantando le lingue locali. La lingua di Roma si affermò non solo per la
necessità dei popoli vinti di apprendere la lingua dei vincitori, ma anche per le maggiori possibilità
offerte dal latino rispetto alle altre lingue per quanto riguarda la comunicazione quotidiana, le attività
del pensiero e la produzione letteraria in genere.
Il latino divenne così la lingua di maggior prestigio nel mondo occidentale e tale rimase per lungo
tempo, anche dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, avvenuta nel 476 d.C.
1.2 Dal latino alle lingue europee
Dal latino sono derivate le lingue neolatine o romanze. La parola “romanza” deriva dall’espressione
romànice loqui, «parlare in lingua romana», contrapposta a barbàrice loqui, «parlare in lingua barbarica».
Per capire come ciò sia avvenuto, bisogna tener presente la differenza fra la lingua scritta e la lingua
parlata. Accanto alla lingua scritta, più ricca, raffinata e complessa, il sermo doctus («la lingua colta»),
vi era il linguaggio parlato, usato nella vita di tutti i giorni, il sermo vulgaris («la lingua volgare»,
cioè «del popolo», da vulgus, «il popolo»). Mentre il sermo doctus nel volgere di alcuni secoli si fissò in
forme e strutture definite, invece il sermo vulgaris si andò via via modificando, riflettendo le differenze
regionali esistenti tra i popoli romanizzati. Mentre cioè il latino delle persone colte, insegnato nelle
scuole e usato nei documenti ufficiali e nella produzione letteraria in genere, era uguale a Roma
e nelle località periferiche dell’impero, come nella Dacia (oggi Romania), nella Britannia o nelle
regioni dell’odierno Portogallo, invece il sermo vulgaris andò assumendo caratteristiche regionali che
si tradussero in differenze sempre più marcate fra le varie aree geografiche, a seconda delle vicende
storiche e culturali di ogni regione: grado di colonizzazione, presenza di eserciti e di funzionari
romani, intensità di rapporti con la capitale ecc. Il latino aveva soppiantato gli idiomi locali, ma non
aveva cancellato abitudini di pronuncia, residui dialettali e così via.
Quanto si osserva oggi con l’inglese, che presenta sensibili differenze se ad esempio si sente parlare
a Londra, in Scozia o nel Texas, e per il tedesco, che registra pronunce diverse a Berlino, a Monaco,
a Berna o ad Amburgo, così si verificava per il latino pronunciato dal popolo, che non poteva essere
identico a Roma, in un villaggio della Gallia o lungo il corso del Danubio.
Tuttavia, finché l’Impero Romano fu saldo e continuarono le comunicazioni tra il centro e la periferia,
non ci furono importanti differenze linguistiche. Quando però l’Impero Romano d’Occidente
cadde e si affermò la tendenza separatista che poneva le basi per la nascita delle future nazioni,
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alla frantumazione politica seguì una sempre più marcata differenziazione linguistica, accelerata
dall’influsso dei popoli invasori. Perciò mentre il latino della cultura rimaneva pressoché invariato,
il latino volgare, seguendo uno sviluppo differenziato nelle diverse aree geografiche, nel corso del
Medio Evo dava origine a numerose parlate che si allontanavano sempre più dal modello originale.
Col tempo, nella miriade di volgari regionali ci fu il predominio o la maggior fortuna di alcuni rispetto
ad altri, che diedero vita alle lingue romanze: si formarono così l’italiano, lo spagnolo, il catalano,
il portoghese, il francese, il provenzale, il sardo, il romeno e il ladino (parlato da alcune comunità
del Friuli, dell’Alto Adige e del cantone svizzero dei Grigioni). L’influsso del latino però andò al di là
delle lingue romanze, creando il sostrato anche di altre lingue europee, come l’inglese e il tedesco.
Si osservi, ad esempio, come si sono trasformati alcuni termini di uso comune.
LATINO
familia
pater
mater
focus
ITALIANO
famiglia
padre
madre
fuoco
SPAGNOLO
familia
padre
madre
fuego
CATALANO
familia
pare
mare
foc
PORTOGHESE
familia
padre
madre
fogo
FRANCESE
famille
père
mère
feu
PROVENZALE
familha
paire
maire
fuech, fioc
LADINO
familia
père
óma
fü
ROMENO
familie
părinte
mamă
foc
INGLESE
family
father
mother
fire, focus
TEDESCO
Familie
Vater (pron.
Fater)
Mutter
Feuer, Fokus
In pratica, mentre a scuola, nei documenti ufficiali e nella produzione letteraria si usava sempre il
latino “dotto”, nella vita quotidiana invece si usava una lingua più rispondente alla realtà culturale
delle varie regioni, e che si allontanava sempre più da quella del mondo della cultura ufficiale.
Il processo di differenziazione del sermo vulgaris rispetto al sermo doctus non fu uniforme nelle
varie regioni. In Italia, ad esempio, questo processo avvenne più lentamente, sia per la maggiore
vicinanza a Roma, sia per l’influsso della Chiesa, che aveva adottato il latino come lingua ufficiale
per il culto. La trasformazione fu una cosa graduale maturata nel corso di secoli, per cui non si può
indicare nemmeno una data esatta per definire il momento in cui un idioma non era più “latino” ma
era diventato una nuova lingua; ci sono però delle testimonianze indirette, come il Concilio di Tours
dell’813, in Francia, che esortava il clero a predicare in volgare, e non in latino, onde poter risultare
comprensibile al popolo.
Per parecchio tempo i letterati continuarono a scrivere in latino, anche perché le nuove lingue non
avevano ancora acquistato una dignità letteraria; questa cominciò ad arrivare verso il XII secolo,
quando le nuove lingue volgari furono usate al posto del latino per comporre liriche d’amore, novelle,
romanzi, poemi cavallereschi. Da quel momento, molti scrittori usarono due lingue, a seconda
dell’argomento e del pubblico a cui indirizzavano le loro opere; anche Dante, Petrarca e Boccaccio
componevano opere in latino, destinate a un pubblico colto, e opere in volgare, destinate a un pubblico
più vasto.
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1.3 Dal latino all’italiano
L’italiano è la lingua neolatina che si è conservata più vicina all’originaria forma latina: infatti per
oltre il 90% le parole italiane sono derivate dal latino, attraverso un processo di trasformazione che il
latino volgare ha subìto nell’ambito della penisola.
Numerosissime parole italiane sono rimaste tali quali erano in latino: generosa, acerba, aurea, severa,
placida, rosa, stella, gloria, regina, patria, mare, aquila, pirata, vivere, cantare, amare, conservare,
regnare ecc.
Molte altre parole hanno subito soltanto leggere modificazioni, così da risultare facilmente
comprensibili: famiglia < familia, figlia < filia, acqua < aqua, erba < herba, colomba < columba, uomo <
homo, virtù < virtus, selva < silva, scrivere < scribere, leggere < legere ecc.
Le parole sono passate dal latino all’italiano per lo più dal latino popolare, trasmesse, per così dire, di
bocca in bocca. Ad esempio, frater e soror hanno dato origine a “frate” e “suora”, mentre i sostantivi
italiani corrispondenti “fratello” e “sorella” derivano dal vezzeggiativo popolare di quelle voci, cioè
da fratercu§lus, che significava «fratellino», e da sororcu§la, «sorellina»; analogamente, “agnello” viene
da agnellus, diminutivo di agnus.
Spesso dallo stesso termine abbiamo derivazioni diverse, popolari e dotte. Ad esempio, mentre
il popolo ha derivato «cavallo» dal latino popolare caballus, i dotti dal latino classico equus hanno
derivato “equitazione”, “equestre”.
Data la somiglianza tra le due lingue, spesso è facile comprendere per intuito il senso di semplici testi
latini dalla sola lettura, anche senza conoscenze grammaticali specifiche.
Roma in Italia est.
Roma è in Italia.
Italia in Europa est.
L’Italia è in Europa.
Amici, visitate Siciliam!
Amici, visitate la Sicilia!
Vivo in Europa, non in Africa. Vivo in Europa, non in Africa.
Dormi tranquilla et placida.
Dormi tranquilla e placida.
Dormite tranquilli et placidi.
Dormite tranquilli e placidi.
Tra gli esempi di lingua intermedia nel passaggio dal latino all’italiano citiamo il celebre «Indovinello
veronese», scritto in margine a un codice che risale agli inizi del IX secolo, conservato nella Biblioteca
Capitolare di Verona:
Se pareba boves, alba pratalia araba / albo versorio teneba, negro semen seminaba.
La traduzione (e interpretazione) più semplice è la seguente: «Si spingeva innanzi i buoi, arava
bianchi prati, teneva un bianco aratro, seminava un nero seme». Il soggetto, e quindi l’oggetto
da indovinare, è lo scrittore che, reggendo con le dita la penna d’oca, traccia segni d’inchiostro
sulla candida pergamena: i buoi sono quindi le dita, i prati sono i fogli, l’aratro è la penna, il seme
l’inchiostro.
In questo breve testo si rilevano parole ancora latine (boves, semen), delle concordanze (alba pratalia), il
suffisso -b- proprio dell’imperfetto (pareba, araba, teneba, seminaba); però mancano già le desinenze nei
verbi (pareba-t, araba-t ecc.), e inoltre si notano:
- il nuovo termine di origine settentrionale versorio, al posto dei classici aratrum o vomer;
- la desinenza -o in luogo di -um in albo e versorio;
- negro per nigrum.
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RICORDA
Generalmente si dice che le parole latine sarebbero passate in italiano dalla forma dell’accusativo,
con la caduta della m finale che, come attesta Quintiliano, già in epoca classica tendeva a non essere
pronunciata: etiamsi scribĭtur, parum exprimĭtur («anche se si scrive, viene pronunciata debolmente»).
1.4 Mutamenti nel passaggio dal latino all’italiano
Presentiamo un po’ più approfonditamente i principali mutamenti intervenuti nel passaggio dal
latino all’italiano, per quanto riguarda la fonetica, la morfologia, la sintassi e il lessico.
Fonetica. Per quanto riguarda la fonetica, in linea generale si osserva la caduta della sillaba iniziale
della parola (fenomeno detto afèresi): historia > storia, o finale (fenomeno detto apócope): virtutem >
virtù; spesso si ha pure il trasferimento dell’accento: intĕgrum > intéro; divĭdo > divìdo; ridēre > rìdere;
sepăro > sepàro; sapĕre > sapére; filiŏlus > figliòlo.
Per quanto riguarda le singole lettere dell’alfabeto, si osservano principalmente i seguenti
cambiamenti.
Vocali
– mutamento di ĕ in “ie”, di ŏ in “uo”, di ĭ in “e”: pĕdes > piedi; tĕnes > tieni; fŏcus > fuoco; nŏvus >
nuovo; hŏmo > uomo; fĭdes > fede; pĭper > pepe; pĭrum > pera;
– tendenza alla sincope della vocale interna àtona (cioè non accentata): specŭlum > speclum > specchio;
domĭna > domna > donna; calĭdus > caldus > caldo; dextĕra > dextra > destra; virĭdis > verde; talvolta si
sono avuti due esiti, uno dotto e uno popolare: come solĭdus, da cui derivano “solido” in geometria, e
“soldo” nel linguaggio popolare;
– quano ai dittonghi: au può diventare o (aurum > oro; cauda > coda; paucus > poco; raucus > roco; ma
anche a: Augustus > agosto); ae può diventare e (aedificium > edificio; Caesar > Cesare; maestus > mesto;
ma anche u: aequalis > uguale); oe può diventare e (poena > pena; coetus > ceto; ma anche i: coemeterium
> cimitero).
– tendenza di u pretonica (cioè collocata subito prima della sillaba accentata) a scomparire: Februarius
> Febrarius > febbraio.
Consonanti
– risoluzione della i consonantica (j) in “g”: iurare > giurare; iuventus > gioventù; iam > già;
– tendenza di b intervocalica a diventare “v”: caballus > cavallo; amabam > amavo; fabula > favola;
– trasformazione di ti + vocale in “zi” o “z” + vocale (fenomeno della palatizzazione): gratia > grazia;
otium > ozio; sapientia > sapienza; prudentia > prudenza;
– caduta delle consonanti finali m, n, t: Scipionem > Scipione; numen > nume; amat > ama;
– assimilazione dei gruppi bt, ct e pt in “tt”: obtinere > ottenere; octo > otto; optimus > ottimo;
– assimilazione di mn in “nn”: omnipotens > onnipotente; autumnus > autunno;
– assimilazione di ps e x in “ss”: scripsi > scrissi; axis > asse;
– dissimilazione di n e r in sillabe vicine: Bononia > Bologna; arborem > albero;
– mutazione di t in “d”, di c in “g”, di qu in “gu” (fenomeno detto lenizione): patella > padella; lacus >
lago; aequalis > uguale;
– geminazione, o raddoppiamento di consonanti: legere > leggere; imagines > immagini; providentia >
provvidenza;
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– mutamento del gruppo ns interno in “s”: sponsus > sposo; mensem > mese;
– frequente mutamento di consonante + l in consonante + “i”: clamare > chiamare (ma anche clamor
> clamore); florere > fiorire (ma anche flora, floreale, floricoltura); glacies > ghiaccio; glans > ghianda;
placere > piacere; plaga > piaga; pluvia > pioggia (ma anche placido, pluviale);
– li + vocale e ni + vocale possono diventare “gl” e “gn”: consilium > consiglio; filius > figlio; familia >
famiglia; scrinium > scrigno.
Morfologia. Per quanto riguarda la morfologia, si rilevano le seguenti trasformazioni:
– graduale scomparsa del neutro e confusione di generi: caelum > caelus; vela (neutro plurale) > la
vela;
– scomparsa delle desinenze dei casi, con conseguente utilizzazione delle preposizioni: dicere Marco >
dicere ad Marcum > dire a Marco;
– assorbimento della IV e V declinazione nella II e nella I: senatus, -us > senatus, -i; pigrities > pigritia >
pigrizia;
– formazione del comparativo e del superlativo con forme analitiche: dulcior > plus dulcis > più dolce;
dulcissimus > multum dulcis > molto dolce;
– trasformazione del pronome dimostrativo ille nell’articolo determinativo “il”;
– fusione di pronomi tra loro o di pronomi con avverbi o di preposizioni o di avverbi tra loro: eccum
istum > cuistum > questo; ne ipse unus > n ips unus nessuno; ab ante > avanti; de post > dopo; de ubi >
dove;
– sostituzione della forma passiva perifrastica a quella sintetica: amabor > sarò amato;
– confusione delle classi di coniugazione: fulgēre > rifùlgere; cadĕre > cadére; capĕre > capire;
– formazione del futuro e del condizionale da perifrasi col verbo habere: timere habeo > timere aeo >
temere aggio > temere ho > temerò; timere habui > timere hebui > temere ebbi > temerei;
– istituzione dei tempi passati attivi con l’ausiliare “avere”: amavi > habeo amatum > ho amato.
Sintassi. Per quanto riguarda la sintassi, si può osservare:
– prevalenza della paratassi sulla sintassi nella lingua parlata;
– sostituzione, in alcuni casi, del congiuntivo con l’indicativo: cum esset (causale) > cum erat; ut sit
(consecutivo) > ut est;
– sostituzione dell’oggettiva implicita con una forma esplicita: scio te esse sincerum > scio quod es
sincerus.
Lessico. Per quanto riguarda il lessico, si possono fare le seguenti osservazioni:
– prevalenza di forme appartenenti a determinate categorie sociali: portare, dello stile dimesso, invece
di ferre; grandis invece di magnus; manducare invece di edere;
– sostituzione di verbi di forma intensiva a verbi di forma semplice: cantare invece di canĕre; adiutare
invece di iuvare;
– preferenza per le voci di forma piena, intese come più espressive di altre deboli: sapĕre per scire;
vadĕre per ire; auricula per auris; avicellus per avis; cultellus per culter; agnellus per agnus;
– progressivo prevalere del concreto sull’astratto, del rustico sull’urbano, segnalato dal mutamento di
significato: “scempio” da exemplum: propriamente, «strage tale da servire come esempio»; “macina”,
cioè mola del mugnaio, al posto del generico machina; “covare”, proprio della gallina, al posto del
generico cubare, «giacere»; “pollo”, specifico, da pullus, «piccolo» di animale in genere; “pagare” da
pacare, dalla radice di pax, cioè «pacificare», più concretamente «tranquillizzare il creditore» pagando
il debito; “lagnarsi”, cioè laniare se;
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– uso di termini gergali al posto di quelli della lingua colta: invece di caput, “testa”: da testa,
propriamente «mattone», «coccio», «vaso di terracotta»: quindi in origine con senso spregiativo, come
poi “zucca”, “zuccone”; invece di os, “bocca”: da bucca, propriamente «gota», «guancia» che si gonfia
per mangiare o suonare;
– ricerca del termine più vigoroso, ottenuto con l’accostamento di sinonimi o l’aggiunta di pleonasmi:
“ambedue”, da ambo duo, invece del semplice ambo.
1.5 Il latino lingua della cultura universale
L’affermazione delle lingue romanze non segnò la scomparsa della lingua latina: infatti il latino
rimaneva la lingua della religione, del diritto, della scienza e del sapere intellettuale in genere. Con
l’avvento dell’Umanesimo, a partire dalla seconda metà del secolo XIV, si ebbe anzi un grande
risveglio culturale in favore del latino: gli umanisti, infatti, proponevano di tornare all’uso del latino
classico come lingua parlata. La proposta risultò anacronistica e non destinata ad aver successo, in
quanto presentava una lingua “restaurata” sul modello di Cicerone e Quintiliano, e non una lingua
“viva”, in grado di evolversi, al passo con i tempi e con la realtà.
Il latino rimase la lingua della cultura, dei tribunali, delle Università, della Chiesa e della
produzione letteraria in ogni campo dello scibile. Gli atti notarili cominciarono ad essere redatti
in volgare fin dal XIII secolo, ma il latino fu abolito ufficialmente come lingua dei tribunali solo nel
1731. Nel 1754 Antonio Genovesi, professore di Commercio ed Economia Civile presso l’Università
di Napoli, destò scalpore tenendo le lezioni per la prima volta in italiano, anziché in latino; da allora
in pochi decenni tutti i professori seguirono l’esempio del Genovesi.
Il latino era pure la lingua ufficiale della Chiesa cattolica, e tale rimase fino al Concilio Ecumenico
Vaticano II (1962-1965), in cui venne usato come lingua comune durante i lavori e nella raccolta degli
Atti e dei documenti. Scomparso poi anche dalla liturgia, il latino è rimasto comunque un mezzo di
comunicazione universale, in grado di superare i limiti delle lingue regionali: comprensibile agli
studiosi di qualsiasi latitudine, atto ad esprimere con una chiarezza e una precisione non riscontrabili
in altre lingue i concetti e le sfumature del pensiero più sottili e le argomentazioni più sofisticate.
Scrissero trattati di filosofia in latino il francese Descartes, che latinizzò anche il nome in Cartesio
(1596-1650), l’olandese Spinoza (1632-1677), il tedesco Leibniz (1642-1716), l’italiano Vico (1668-1744),
il prussiano Kant (1724-1804); ma usarono il latino anche scienziati, come il polacco Copernico (14731543), l’italiano Galilei (1564-1642) e l’inglese Newton (1642-1727); in latino scrisse pure la sua famosa
classificazione degli animali e delle piante lo svedese Linneo (1707-1778), e i fondamenti del calcolo
combinatorio il grande matematico tedesco Gauss (1777-1855).
Da un’osservazione anche superficiale della nostra lingua, inoltre, ci accorgiamo quanto il
latino sia tuttora “vitale”: non solo per quanto riguarda il lessico e le strutture grammaticali, ma
soprattutto per i concetti, i principi e i valori che ci ha trasmesso insieme con il suo poderoso
bagaglio culturale.
1.6 Forma e diàtesi del verbo
La tendenza a semplificare le cose porta a far usare indifferentemente i termini “forma” e “diàtesi”;
in realtà, però, i termini non andrebbero confusi. La “forma”, infatti, si riferisce a un fatto
esclusivamente morfosintattico, cioè alle terminazioni, che indicano l’azione come compiuta o subìta;
la “diàtesi”, invece, investe il valore logico-semantico della voce verbale, in quanto si riferisce al tipo
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di partecipazione del soggetto al processo verbale: il termine, derivato dal greco attraverso il tardo
latino diàthesis, significa appunto «disposizione», «modo di essere».
In pratica, non sempre la forma coincide con la diàtesi: ad esempio, verbi come fio («essere fatto»),
veneo («essere venduto»), vapulo («essere percosso»), pereo («andare in rovina») presentano una forma
attiva, ma una diàtesi sostanzialmente passiva; altri verbi, invece, presentano una forma passiva, ma
una diàtesi media, oltre che passiva: ad esempio, moveor può significare «vengo mosso», ma anche «mi
muovo»; lavor può significare «vengo lavato», ma anche «mi lavo». Si parlerà dunque propriamente
di forma attiva e passiva con riferimento alla terminazione di una voce verbale, e di diàtesi attiva,
media e passiva con riferimento al significato. Concludendo:
– la diàtesi attiva indica un’azione (laudo, moneo, audio) o uno stato (sedeo) attuati dal soggetto;
– la diàtesi passiva indica un’azione subìta dal soggetto (laudor, moneor, audior); possono avere questa
diàtesi soltanto i verbi transitivi di forma attiva;
– la diàtesi media esprime un’azione compiuta e subìta dal soggetto, o compiuta dal soggetto su se
stesso, o a cui il soggetto è particolarmente interessato (cingor, «mi cingo»; feror, «mi lancio»).
Il vocabolario segnala questi significati nel modo seguente:
sotto la voce cingo:... (passivo con valore rifl.) cingi, cingersi, armarsi;
sotto la voce lavo:... (passivo e rifl.) lavari e se lavare, lavarsi, bagnarsi;
sotto la voce moveo:... (pass. e rifl.) moveri e se movere, muoversi.
Un discorso a parte va fatto per i verbi deponenti, che tradizionalmente si suol definire verbi di forma
passiva ma significato attivo.
1.7 Il verbo riflessivo
Il verbo riflessivo può essere: proprio, improprio e reciproco:
– è riflessivo proprio, quando la particella pronominale funge da compl. oggetto. Es.: Pueri se lavant.
«I fanciulli si lavano»;
– è riflessivo improprio, quando la particella pronominale funge da compl. indiretto. Es.: Pueri manus
sibi lavant. «I fanciulli si lavano le mani»;
– è riflessivo reciproco, quando indica un’azione vicendevole fra più soggetti. Es.: Concurrunt equites
inter se. (Caes.) «I cavalieri si scontrano tra loro».
La grammatica italiana propone un quarto gruppo, dei riflessivi intransitivi (o intransitivi
pronominali), cioè di verbi come “accorgersi”, “pentirsi”, “vergognarsi” ecc., che sono intransitivi e si
coniugano sempre in unione con la particella pronominale.
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