un h¥r©j©t - Mevakshe Derekh

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AHARE’ MOT
e
QEDOSHIM
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“Dopo la morte dei due figli di Aronne”. Due figli Aronne ha perduto (Nadav e Avihu) nel
tragico evento della fiammata quando si celebrò l’iniziazione sacerdotale sua e dei figli
(capitolo 10 del Levitico). Due gliene restano, Elazar e Itamar, con i quali egli riprende le
piene funzioni sacerdotali, da seguire in tempi e modi prescritti.
RITUALE DI YOM HA KIPPURIM
Aronne non potrà entrare, a suo piacimento, in ogni tempo, nella parte più interna del
santuario, al di là della tenda, il Santissimo, dove era l’Arca, sopra il cui coperchio, avvolto
nella nube si manifesta il Signore. Lo farà nel giorno dell’Espiazione, Yom ha Kippurim, il 10
del settimo mese, Tishrì. Farà prima il lavaggio completo del corpo ed indosserà vesti di lino,
la tunica, i calzoni, il turbante. Nessun altro poteva entrare nel luogo santissimo da quando il
sacerdote entrava a quando ne usciva. Il sacerdote doveva prendere un maschio aduklto
bovino per sacrificio di hattat ed un montone per olocausto.
prendeva
Dalla comunità di Israele
due capri per sacrificio di hattat ed un montone per sacrificio di olocausto.
Presentava per espiazione personale e familiare il toro di hattat e i due capri per sacrificio
collettivo davanti alla tenda della radunanza, tirando le sorti per uno da sacrificare al Signore
e per un altro da mandare ad Azazel nel deserto. Vi sono diverse fonti e teorie sul significato
se un luogo desolato ed impervio, oppure un capo di angeli ribelli, oppure un demone,
comunque una figura del male. Dei demoni, o satiri, seirim (non escludo una parentela
etimologica con i satiuroi della mitologia greca), si parla poi, al versetto 7 del capitolo 17,
sempre in questa parashah, proibendo di compiere sacrifici ad essi dedicati ed attestando
dunque che c’era chi lo faceva. Doveva tirare le sorti sui due capri, scrivendo la destinazione
dell’uno al Signore e dell’altro ad Azazel, ma non nel senso che venisse ad esso sacrificato
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bensì
ad esso mandato (mishtalleah),
in quanto carico dei peccati ad un
correlativo
referente di male. L’allontanamento del capro, carico dei peccati, era fatto davanti al Signore,
per espiazione e in scelta del bene. I due capri dovevano essere eguali per aspetto, statura,
pregio, costo e dovevano essere comprati insieme.
Compirà il primo sacrificio, del toro, per espiazione sua, personale e familiare, scannandolo
e poi spruzzando del sangue con il dito indice sulla tenda in direzione di oriente e sette volte
davanti alla tenda. Doveva anche prendere per l’incensiere del fuoco dal fuoco che ardeva su
un altare (si discute se fosse l’altare dei profumi all’interno della tenda oppure quello dei
sacrifici, sito all’esterno della tenda)
e spargere
dei profumi su questo fuoco preso
nell’incensiere. Il sacerdote passava quindi al rito per l’espiazione collettiva del popolo,
scannando il capro destinato a sacrificio di hattat per il Signore e ripetendo la spruzzatura
del sangue come aveva fatto in precedenza col sangue del montone in espiazione sua personale
e familiare. Presentava allora il capro vivo, ponendogli le mani sulla testa e confessando i
peccati del popolo, distinti con tre termini, avonot peshaim hattaot, di affine significato, i
primi due congiunti a mo’ di endiadi rafforzativa e il terzo dipendente da loro dopo la
particella avverbiale le che ha un valore di relazione causale o finale:
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o¨,t«Y©j kfk o¤vhg§aP kF ,¤t±u ktrah h¯bC ,«b«ug kF ,¤t uhkg v¨S³u§,¦v±u
Vesamakh Aharon et shté iadav al rosh hassair hahai
Veitavadah alav et kol avonot bné Israel vetkol pishehem lekol hattotam
il rav Menahem Emanuele Artom, nell’edizione ufficiale dei rabbini italiani (Giuntina),
traduce così, assimilandoli in triade di concetti analoghi ma con sottese sfumature diverse:
<<Aronne imporrà le sue due mani sulla testa del capro vivo ed intanto confesserà tutti i
trascorsi, i peccati e le colpe dei figli di Israele>>.
Noto peraltro la somiglianza, indice di un nesso ariosemitico, di peshà con il francese péché
(peccato, peccatum).
Vi è una analogia simmetrica con il rito, che abbiamo visto nella parashah Mezorah (cap. 14 di
Levitico) dei due uccelli, uno sacrificato e l’altro fatto liberamente volare, con la differenza
che l’uccello liberato, grazie alla fortuna delle ali, vola lontano dalla vista, mentre il capro,
portatore di una grande peccaminosità collettiva, ha peggiore sorte. Veniva condotto, da un
uomo appositamente incaricato (ish ittì), in un sito lontano e ve lo abbandonava.
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Originariamente l’incaricato poteva essere un ebreo non levita e non cohen, ma la Mishnah
afferma che poi i sommi sacerdoti stabilirono che non dovesse essere un semplice ebreo, non
levita. Il capro prendeva a vagare, difficilmente trovava da sfamarsi e soprattutto dissetarsi,
ma non è detto che morisse. Più tardi, invece, quando la popolazione sedentaria di Erez Israel
aumentò e i luoghi abitati erano fitti e spesso vicini l’uno all’altro, per timore che il capro
entrasse in luogo abitato e lo contaminasse, l’incaricato lo conduceva su una ripida altura nel
deserto e lo spingeva nella voragine, in modo che si sfracellasse.
Complementare al sacrificio vicario, per interposte vittime, dei due capri, era e rimane il
sacrificio personale
del digiuno con collettiva confessione dei peccati e con individuale
esortazione a riparare le colpe e le offese commesse durante l’anno.
A prescindere dal sacrificio solenne del Kippur, tutti i sacrifici, anche offerti da privati,
dovevano essere compiuti dai sacerdoti presso il santuario, centro religioso del popolo, cui
successe il Tempio in Gerusalemme, dopo la conquista davidica della città, prima sede dei
gebusei..
Il capitolo 18 del Levitico si apre con il monito di non imitare i costumi peccaminosi
dell’Egitto, da dove si era partiti, e della terra di Canaan, dove si sarebbe entrati. Si indicano
molti peccati e relativi divieti di indole sessuale, specificando le relazioni di consanguineità o
di parentela che sono proibite. Al versetto 19 sono proibiti i rapporti sessuali con donne nel
periodo delle mestruazioni. Al versetto 22 il rapporto omosessuale maschile. Al versetto 23 il
rapporto con animali.
Atto delittuoso per eccellenza di popolazioni canaanee, che da libri biblici sappiamo imitato
dagli ebrei, era l’offerta di figli alla divinità ammonita Molekh o Molokh, ma si deve dire che
in tempi storici il passaggio per il fuoco non consisteva nel rogo ma in un atto simbolico, per
quanto impressionante e rischioso, di passare tra due fuochi o in un cerchio di fuoco.
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Si deve, viceversa, anche dire che l’uso del fuoco, facendo ingoiare piombo fuso, era una pena
atroce di esecuzione, alternativa alla lapidazione, in campo ebraico, ma vi fu un’evoluzione
verso il contenimento delle sentenze capitali.
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La haftarah è dal libro del profeta Ezechiele, capitolo 22, che rimprovera il popolo per molte
colpe, tra le quali ricorrono le azioni vietate nella parashah. Per le gravi e numerose colpe il
profeta annuncia la punitiva dispersione tra i popoli, che indurrà a pentirsi e a redimersi.
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Nella parashah Qedoshim (santi, siate o sarete santi) Dio proclama la propria santità e la esige
dai figli di Israele in coerenza con il Patto. Si spiega la qedushah come distinzione da livelli
correnti di esistenza, per elevazione di spirito, di pensieri, di comportamenti. Per prima cosa,
vien raccomandato di temere i genitori, la madre e il padre e osservare i sabati. Non rivolgersi
agli idoli. Offrire spontaneamente il sacrificio di shelamim (una tipologia volontaria che
dimostra una soddisfazione per come si sta, per ciò che si è acquisito, per qualcosa che si
abbia ritrovato, a partire dal proprio benessere) e mangiarne la carne entro lo stesso giorno o
il giorno seguente, non più tardi. Presumibilmente influiva sul motivo del divieto il fatto che la
carne andava a male, marciva e poteva nuocere. Si vietava di cibarsi di carni di animali morti
per cause naturali o sbranati o comunque uccisi non ritualmente. Non si doveva mietere tutto
il podere, ma lasciare gli angoli e non raccogliere le spighe che cadano durante la mietitura.
Lo stesso si doveva fare nella raccolta dell’uva, non racimolare tutta la vigna e non
raccogliere i chicchi caduti. Il motivo era di lasciare una quantitativo di spighe e di chicchi ai
poveri e agli stranieri o agli animali.
Non rubare, non mentire, non negare la verità. Non
vendicarsi e non portar rancore verso i connazionali ed amare il prossimo come se stesso, o
secondo altra traduzione, desiderare per il prossimo, ciò che si desidera per se stesso, si
discute se per prossimo si intendesse solo il connazionale, con il quale naturalmente si ha una
maggiore affinità e solidarietà, ma poco più in là si estendono criteri di benevolenza e di
giustizia agli stranieri nel ricordo di essere stati anche gli ebrei stranieri in terra di Egitto, ed
anche verso lo straniero si parla di amore o di desiderio anche per lo straniero di ciò che si
desidera per se stessi.
Non opprimere il prossimo, non rapire persone, non trattenere al
termine della giornata il compenso dovuto al lavoratore. Non dire male del sordo, profittando
della sua sordità e non mettere un inciampo davanti al cieco. Astenersi dalla maldicenza. Non
assistere inerte al pericolo (letteralmente nel testo al sangue, quindi un rischio mortale o
comunque grave) del tuo compagno. <<Non odiare il tuo fratello in cuor tuo, ammonisci il tuo
prossimo e non esser causa del suo peccato e delle conseguenze che ne pagherà>>: sapere cioè
ben consigliare e se serve rimproverare perché il prossimo non segua una via sbagliata. Ciò ci
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fa ricordare il momento in cui, dopo l’episodio del vitello d’oro Mosè chiede al fratello Aronne
cosa gli abia fatto di male il popolo perché lui non lo abbia ammonito e salvato a tempo dal
passo falso, invece di assecondarlo nella fabbricazione della falsa divinità. Giudicare con
equità, senza riguardi ai potenti ma nemmeno con favore pregiudiziale verso i miseri (questo è
un monito per i giudici o per chi si trovi a dover giudicare). Non tagliare le estremità della
capigliatura e non radere gli angoli della barba (ma la tradizione consente di farlo con forbici,
con rasoi elettrici o mezzi chimici, e tuttavia i molto osservanti lasciano crescere, come è noto,
le peot, riccioli agli angoli, al confine tra i capelli e la barba). Non farsi incisioni né tatuaggi.
Non solo non mangiare il sangue, ma neppure sul sangue, cioè sul posto dove si era versato o
riposto il sangue. Non cercare di indovinare il futuro e non fare atti di magia. Non indossare
tessuti misti di specie diverse e non accoppiare quadrupedi di specie diverse. Pesare con
bilance eque, non imbrogliando sul peso. Ho scelto una parte dei tanti precetti e divieti nel
vasto complesso della parashah, dove si alternano mizvot di ordine chiaramente morale ed
altre di indole rituale o sacrale, tutte comunque intese a contrassegno della santità, cui è
chiamato il popolo. Non si tratta necessariamente di un livello eccezionale, eroico di santità,
ma di direttive e costumi che devono entrare diffusamente nella condotta delle persone e della
società. Seguono le norme sui rapporti sessuali proibiti, ripetendo divieti già stabiliti nella
parashah Tazria, aggiungendone altri, e comminando le pene che potevano essere di morte o
di karet o ancora si pronosticava che i rei per punizione del loro atto non potessero avere figli.
Il karet era un interdetto (non so con quale effettiva portata di emarginazione) dal consorzio
sociale della nazione, giudicando il reo passibile di una punizione divina, che poteva essere la
morte prematura, pronosticata nelle fonti esegetiche
a un’età
di cinquanta anni,
emblematica per il suo sopraggiungere quando la giovinezza è trascorsa e la vecchiaia è
ancora distante. In una visione delle umane vicende, basata sull’imperscrutabile volere di
Dio, si poteva esser portati a cercare il motivo recondito, e quindi per divino giudizio, delle
morti in anticipo sul limite mediamente naturale della vita umana. Si è pensato che la riserva
al Signore di punire il reo non lo esonerasse necessariamente da una sanzione umana, come la
fustigazione, ma si è anche ritenuto che il sincero pentimento in tempo debito conseguisse il
perdono divino e risparmiasse il Karet.
Per l’adulterio con una donna sposata la pena era di morte per entrambi. Una indulgenza,
con pena di fustigazione, invece della morte, o con accordo del perdono dopo un sacrificio di
asham (colpa), era riservata al caso dell’unione sessuale con una schiava, che il padrone
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considerasse come moglie ma che egli non avesse emancipata dalla schiavitù o che non fosse
stata riscattata dalla schiavitù ad opera di suoi parenti, perfezionando così il rapporto
coniugale. La donna, trovandosi in una condizione ambigua di neherefet (dalla radice haraf
che può significare un senso di offesa e di vergogna in cui era posta), era giustificata, perché
poteva ritenersi non effettivamente sposata, e l’uomo, presentando
un sacrificio di
riparazione dalla colpa, poteva ottenere insieme con lei il perdono.
Proibita e punita con la morte era l’unione di un uomo con la moglie del figlio. Lo stesso
valeva per l’ unione tra due maschi, con morte per entrambi; egualmente l’unione con una
donna e nel tempo stesso con la madre di lei. Così pure l’ unione di un uomo o di una donna
con una bestia (si doveva anche uccidere la bestia). Per l’
unione di un uomo con la
sorellastra, vigeva la pena del karet, e per altre trasgressioni di indole sessuale la sanzione,
invero vaga, era di portare le conseguenze del peccato o di non avere figli.
Ricorre, per
monito, l’affermazione “Io sono il Signore”, il Signore legislatore, garante e custode di
rettitudine, moralità, di santità diffusa nel corpo sociale, nell’ente collettivo di un popolo
scelto e consacrato:
“Mi sarete santi, perché santo sono Io, il Signore e vi ho distinti dagli
altri popoli affinché apparteniate a me”.
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Heiitem li qedoshim ki qadosh anì Adonai
Vaavdil etkhem min haammim liiot li
Il popolo ebraico è distinto dagli altri per una condotta dipendente dal patto, dallo speciale
vincolo con Dio, e a ricordare la mancanza di una prerogativa naturale di stirpe, nella
haftarah di rito tedesco, tratta dal profeta Amos, si raffigura lo stesso esodo dall’Egitto come
un avvenimento analogo a quelli di altri popoli di cui Dio ha preso cura attraverso vicende
storiche e spostamenti nello spazio. “Non siete forse per me, figli di Israele come i figli degli
etiopi? Detto del Signore. Non è forse vero che ho fatto uscire i figli di Israele dall’Egitto e i
filistei da Caftor e gli aramei da Kir?”
Shabat Shalom, Bruno Di Porto