codice della strada
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Newsletter 41 a cura di ALESSANDRO CASALE comandante di polizia locale docente in diritto della circolazione stradale giornalista pubblicista collaboratore di riviste di settore direttore di www.infocds.it CODICE DELLA STRADA VIOLAZIONI IN ZTL: APPLICABILE UNA SOLA SANZIONE Ordinanza n. 14/2007 Corte Costituzionale Ritenuto che nel corso di un giudizio di opposizione a due verbali di accertamento di infrazioni all’art. 7, comma 14, del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), per circolazione in zona a traffico limitato, promosso da Nonnis Marzano, il Giudice di pace di Milano, con ordinanza 10 maggio 2006, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 198, comma 2, dello stesso decreto legislativo, per violazione del principio di ragionevolezza; che l’accertamento delle due infrazioni, secondo il giudice rimettente, era avvenuto in Milano, Corso Garibaldi, alla stessa data (29 febbraio 2004), a distanza di 31 secondi; che, dovendosi comminare al trasgressore, in base all’art. 198, comma 2, del codice della strada, una sanzione per ogni violazione accertata, in deroga al principio di cui al comma 1, secondo il quale, per più violazioni della stessa disposizione, la sanzione è unica e può essere aumentata fino al triplo, ritiene il rimettente di sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma indicata, nella parte in cui non consente al giudice di applicare, comunque, per più violazioni di una stessa disposizione, la sanzione prevista dalla legge, sia pure aumentata fino al triplo; che la disposizione censurata contrasterebbe con il principio costituzionale di ragionevolezza, mancando la proporzionalità tra le sanzioni da applicare e la gravità delle violazioni commesse, conseguendone un trattamento ingiusto e irrazionale; che, quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che, nella vigenza della norma impugnata, il ricorso in opposizione ai verbali di accertamento dovrebbe essere rigettato, e che le sanzioni irrogabili, dello stesso o di diverso importo, sarebbero comprese tra euro 68,25 ed euro 275,10, laddove, se la norma venisse dichiarata illegittima, la sanzione da irrogare sarebbe unica, e aumentata fino al triplo; Considerato che il Giudice di pace di Milano dubita della legittimità costituzionale dell’art. 198, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui, per le infrazioni commesse nelle zone a traffico limitato, non consente al giudice, in caso di più violazioni della stessa disposizione, di irrogare una sola sanzione sia pure aumentata fino al triplo, per violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione; che il giudice rimettente, in una fattispecie in cui le violazioni sono state accertate, sulla stessa strada, a distanza di 31 secondi l’una dall’altra, non ha in alcun modo motivato sull’applicabilità o meno del principio contenuto nell’art. 8-bis, comma 4, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), secondo cui «Le violazioni amministrative successive alla prima non sono valutate, ai fini della reiterazione, quando sono commesse in tempi ravvicinati e riconducibili ad una programmazione unitaria»; che proprio la contiguità temporale tra i due accertamenti e il fatto che siano stati compiuti lungo la stessa via, evidenziano che il giudice a quo è partito da un erroneo presupposto interpretativo, affermando la necessità dell’applicazione, nella fattispecie in esame, di due distinte sanzioni, senza esporre le ragioni per le quali non si ritiene potersi configurare non solo un’unica condotta, ma anche un’unica violazione, con il conseguente superamento del dubbio di costituzionalità sollevato, dal momento che non ad ogni accertamento deve necessariamente corrispondere una contravvenzione, trattandosi di condotte (la circolazione in zona vietata) di durata; che tale vizio dell’ordinanza determina, sulla base della costante giurisprudenza di questa Corte, la manifesta infondatezza della questione. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motivi la corte costituzionale dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 198, comma 2, del decreto legislati- 1 vo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice di pace di Milano, con l’ordinanza in epigrafe. IL COMMENTO L'accesso in Ztl senza autorizzazione dà luogo a una sola sanzione, anche se il veicolo viene rilevato da più postazioni. È quanto ha affermato la Corte Costituzionale nella ordinanza 14/2007 relativa a un procedimento dinnanzi al Gdp per una serie di verbali contestati a un automobilista che era transitato su una strada interna a Ztl ed era stato rilevato dalle telecamere in più punti. Secondo la Corte “che proprio la contiguità temporale tra i due accertamenti e il fatto che siano stati compiuti lungo la stessa via, evidenziano che il giudice a quo è partito da un erroneo presupposto interpretativo, affermando la necessità dell'applicazione, nella fattispecie in esame, di due distinte sanzioni, senza esporre le ragioni per le quali non si ritiene potersi configurare non solo un'unica condotta, ma anche un'unica violazione, con il conseguente superamento del dubbio di costituzionalità sollevato, dal momento che non a ogni accertamento deve necessariamente corrispondere una contravvenzione, trattandosi di condotte (la circolazione in zona vietata) di durata”. PUBBLICITÀ: NECESSITA AUTORIZZAZIONE ANCHE SE PAGATA TASSA Corte di Cassazione Civile sezione II, 13 giugno 2007, n. 13842 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso depositato il 15 aprile 2003, l’a. b. di b. roberto e c. s.n.c., proponeva opposizione avverso il verbale n. 2151 del 20 dicembre 2002 e la successiva diffida di rimozione dell’impianto, con cui l’azienda nazionale autonoma delle strade-compartimento regionale della viabilità per il Friuli e Venezia Giulia le aveva contestato la violazione dell’art. 23 c.d.s., commi 4 e 11, in relazione agli adempimenti previsti dal successivo comma 13 bis, per avere abusivamente collocato in vista della strada statale 54 un impianto pubblicitario, costituito da un autocarro, che, lasciato in sosta su area privata, per più giorni, esponeva un ciclomotore sul tetto, nonché sui lati e sul retro cartelli pubblicitari, con scritte “omissis… revisione veicoli... officina autorizzata...”. Il Giudice di pace, invero, ha sufficientemente argomentato sul punto, rilevando che “da quanto esposto appaiono evidenti gli elementi di responsabilità in capo alla opponente...” con riguardo all’illecito accertato, di cui all’art. 23 c.d.s., comma 4, a significazione - appunto - che il dedotto pa- gamento della tassa di circolazione dell’autocarro della tassa di pubblicità non avevano rilievo, necessitando allo scopo l’autorizzazione dell’ente proprietario della strada. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. provvedimento non è impugnabile mediante la opposizione ai sensi dell’art. 22 della legge n. 689 del 1981. EBBREZZA: SI’ ALLA CONFISCA EX ART. 213 Corte costituzionale, sentenza n. 345 del 19/10/2007 RUOLI: NO AL VERBALE OGGETTO DI RICORSO Corte di Cassazione sentenza 25 agosto 2005 E’ illegittima – e va, pertanto, annullata – la cartella esattoriale emessa per riscossione di sanzione amministrativa relativa a violazione al codice della strada, che si fondi su un verbale di accertamento impugnato davanti al Prefetto, poiché, una volta opposto – anche se con esito negativo – in sede amministrativa, esso deve ritenersi privo dell’efficacia di titolo esecutivo, risultando necessaria la successiva emanazione della correlata ordinanza-ingiunzione, la quale soltanto, se non annullata a seguito di ricorso giurisdizionale o revocata dalla stessa autorità amministrativa, può legittimamente la conseguente notificazione della cartella esattoriale nei confronti del trasgressore (nella specie, la S.C., accogliendo il ricorso formulato dall’interessato e cassando la sentenza con contestuale decisione nel merito, ha rilevato che, essendo stato il verbale notificato a suo tempo al destinatario che, però, lo aveva impugnato con esito negativo davanti al Pretore, la successiva cartella esattoriale fondata su tale verbale privo del valore di titolo esecutivo era da annullare). COMUNICAZIONE MANCATA SOTTOPOSIZIONE A REVISIONE IDONEITÀ ALLA GUIDA: NO OPPOSIZIONE AL GDP Il provvedimento con il quale il Ministero dei trasporti – Motorizzazione civile – comunica agli organi di polizia che il titolare della patente di guida, nei cui confronti, ai sensi dell’art. 128, primo comma, del codice della strada, era stata disposta la revisione della idoneità alla guida, non vi si sia sottoposto, non ha contenuto sanzionatorio o comunque dispositivo, bensì è una mera notizia di un fatto, che si inserisce nella procedura amministrativa instauratasi con l’ordine di revisione della patente, procedura nella quale si configurano solo posizioni di interesse legittimo, tutelabili innanzi al giudice amministrativo. Pertanto, detto I Giudici di pace di Aosta (r.o. n. 152 del 2006), Urbino (r.o. n. 320 del 2006), Trento (r.o. n. 687 del 2006), Padova (r.o. n. 697 del 2006) e Belluno (r.o. n. 270 del 2007) hanno sollevato questione di legittimità costituzionale – in riferimento all’art. 3 della Costituzione – dell’art. 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall’art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decretolegge 30 giugno 2005, n. 115, recante “Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione”, nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui dispone la confisca di ciclomotori o di motoveicoli nei casi in cui siano stati adoperati per commettere un reato. In particolare, il Giudice di pace di Aosta premette di dover giudicare, in sede civile, ai sensi dell’art. 22-bis della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), di un provvedimento di sequestro adottato dall’autorità amministrativa a seguito della contestazione dell’infrazione prevista e punita dall’art. 186, comma 2, del codice della strada. Evidenzia, pertanto, che in forza di quanto previsto dal citato art. 213, comma 2-sexies, è sempre disposta la confisca in tutti i casi in cui il ciclomotore o il motoveicolo siano stati adoperati per commettere una delle violazioni amministrative di cui agli articoli 169, commi 2 e 7, 170 e 171 o per commettere un reato. Tale disposizione, tuttavia, darebbe luogo ad una “evidente disparità di trattamento nei confronti dei cittadini che commettono lo stesso reato”, e che quindi “si trovano in una situazione identica”, atteso che la guida in stato di ebbrezza comporta la sanzione accessoria della confisca del mezzo solo per i motociclisti, mentre per gli automobilisti determina quella, meno afflittiva, della sospensione della patente. Né, d’altra parte, conclude il rimettente, si comprende quali possano essere i «ragionevoli motivi» idonei a giustificare tale trattamento differenziato. Considerato in diritto I rimettenti – investiti dell’opposizione proposta avverso provvedimenti di sequestro dei suddetti veicoli, tutti adottati, 2 in vista della successiva confisca, in relazione alla contestata violazione dell’art. 186 del codice della strada – lamentano l’assoggettamento di motoveicoli e ciclomotori, in forza del censurato art. 213, comma 2-sexies, del codice, ad un trattamento irragionevolmente più grave di quello previsto per gli altri veicoli, per i quali la confisca non è invece stabilita. Deve ritenersi, infatti, non irragionevole la scelta del legislatore di prevedere una più intensa risposta punitiva, allorché un reato sia commesso mediante l’uso di ciclomotori o motoveicoli, con riferimento all’adozione di una sanzione accessoria, qual è la confisca, idonea a scongiurare la reiterata utilizzazione illecita del mezzo, specie quando (come avviene proprio nel caso contemplato dall’art. 186 del codice della strada, cui si riferiscono le fattispecie oggetto dei giudizi a quibus) sussiste un rapporto di necessaria strumentalità tra l’impiego del veicolo e la consumazione del reato. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 ottobre 2007. IL COMMENTO La questione di costituzionalità era stata sollevata in relazione alla possibilità di disporre la confisca di ciclomotori o di motoveicoli nei casi in cui siano stati adoperati per commettere un reato. La disposizione è stata però ritenuta immune dal denunciato vizio di costituzionalità dalla Corte, che ha considerato non irragionevole la scelta del legislatore di prevedere una più intensa risposta punitiva, allorché un reato sia commesso mediante l'uso di ciclomotori o motoveicoli, con riferimento all'adozione di una sanzione accessoria, qual è la confisca, idonea a scongiurare la reiterata utilizzazione illecita del mezzo, specie quando sussiste un rapporto di necessaria strumentalità tra l'impiego del veicolo e laconsumazione del reato. FIRMA: NO AUTOGRAFA SE VERBALE MECCANIZZATO Corte di Cassazione, Seconda Sezione Civile, Sentenza 22 ottobre 2007, n. 22088 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con distinti ricorsi Sebastiano F. proponeva al Tribunale di Milano opposizione avverso cartelle esattoriali relative ad infrazioni del codice della strada. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo il ricorrente, deducendo difetto assoluto di motivazione nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 385, commi 3 e 4, 383, comma 4, reg. esec. c.d.s. nonché 200, commi 2 e 3, c.d.s., censura la sentenza impugnata innanzitutto, perché la stessa non si era pronunciata in ordine alla dedotta nullità dei verbali di accertamento delle violazioni notificati in copia priva della sottoscrizione autografa del verbalizzante. Quindi, dopo avere compiuto un’interpretazione sistematica della richiamata normativa, alla luce anche delle norme di cui agli artt. 2699 e 2700 c.c., 137 c.p.c., 14, comma quarto, della l. n. 689 del 1981, deduce l’inesistenza o la nullità radicale della contestazione non immediata notificata mediante spedizione di copie informi di verbali di accertamento attraverso moduli prestampati, privi della firma autografa dell’organo accertatore o di equivalente certificato di conformità al verbale originale da parte dell’organo competente, avendo piuttosto il legislatore del codice della strada previsto, a garanzia del cittadino e della legittimità del procedimento, la firma autografa anche sul modulo prestampato da notificare. Pertanto, essendo le notifiche in oggetto irrimediabilmente viziate, le sanzioni irrogate non erano esigibili. I motivi, essendo strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente. In primo luogo, come si è già rilevato, il giudice, nell’escludere la rilevanza dell’eccezione di incostituzionalità sollevata dall’opponente, ha esaminato la questione relativa alla nullità dei verbali di accertamento, ritenendo implicitamente validi i verbali nonostante la mancanza di sottoscrizione autografa a stregua delle particolari disposizioni dettate dal codice della strada. Al riguardo va respinta la richiesta di trasmissione degli atti al Primo Presidente, tenuto conto che l’indirizzo giurisprudenziale richiamato dal ricorrente deve ritenersi ormai abbandonato dalla Suprema Corte. In particolare, secondo l’orientamento anche di recente ribadito e condiviso dal Collegio, in tema di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada, e per il caso di contestazione non immediata della infrazione, l’art. 385 del D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495 - regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada - prevede al terzo comma che, in tale caso, il verbale redatto dall’organo accertatore rimane agli atti dell’ufficio o comando, mentre ai soggetti ai quali devono essere notificati gli estremi viene inviato uno degli originali o copia autenticata a cura del responsabile dello stesso ufficio o comando, e che, allorquando il verbale sia stato redatto con sistema meccanizzato o di elaborazione dati, esso viene notificato con il modulo prestampato recante la intestazione dell’ufficio o comando predetti; pertanto, il modulo prestampato notificato al trasgressore, pur recando unicamente l’intestazione dell’ufficio o comando cui appartiene il verbalizzante, è parificato per legge in tutto e per tutto al secondo originale o alla copia autenticata del verbale ed è, al pari di questi, assistito da fede privilegiata, con la conseguenza che le sue risultanze possono essere contestate solo mediante la proposizione della querela di falso (Cass. 20117/2006; 1226/05 ed altre). D’altra parte, i dati estrinsecati nello stesso contesto del documento consentono di accertare, “aliunde”, la sicura attribuibilità dell’atto a chi deve esserne l’autore secondo le norme positive. In realtà, la funzione del verbale notificato al contravventore ha la funzione di portare a conoscenza del medesimo gli estremi della violazione: la validità della contestazione, quale che sia la forma usata, è condizionata unicamente dalla sua idoneità a garantire l’esercizio di detto diritto, al quale è preordinata, e solo la accertata inidoneità può essere causa di nullità del verbale e della successiva ordinanza-ingiunzione (Cass. 21007/2004). Il ricorso va, pertanto, rigettato. Le spese processuali della presente fase vanno poste a carico del soccombente. P.Q.M. Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento in favore del resistente delle spese relative alla presente fase che liquida in euro 750,00 di cui euro 100,00 per esborsi ed euro 650,00 per onorari di avvocato oltre spese generali ed accessori di legge. IL COMMENTO Il verbale redatto con sistema meccanizzato non necessita della firma autografa dell'agente. Lo ribadisce, per l'ennesima volta, la Cassazione con la sentenza 22088/2007 relativa ad una cartella esattoriale impugnata perché il verbale non recava la firma dell'accertatore. Secondo la Corte “il modulo prestampato notificato al trasgressore, pur recando unicamente l'intestazione dell'ufficio o comando cui appartiene il verbalizzante, è parificato per legge in tutto e per tutto al secondo originale o alla copia autenticata del verbale ed è, al pari di questi, assistito da fede privilegiata, con la conseguenza che le sue risultanze possono essere contestate solo mediante la proposizione della querela di falso”. POLIZIA GIUDIZIARIA PECULATO D’USO: NON REATO SE USO EPISODICO Cassazione - Sentenza del 1° febbraio 2005 SENTENZA SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1.- Antonino Txxx. propone ricorso contro la sentenza 25 giugno 2004 con la quale la Corte d’appello di Messina ha confermato la decisione del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, che lo dichiarò responsabi- 3 le del delitto di peculato d’uso per avere, quale addetto alla vigilanza presso il comune di Malfa, utilizzato l’auto di servizio per il trasporto privato per i suoi conoscenti. La fattispecie di “peculato d’uso”, nella sua autonomia rispetto a quella di peculato di cui al comma primo dello stesso art. 314 c.p.p., si realizza quando “il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa...” e, poi, “... questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita”. Dunque, l’elemento materiale, che distingue tale minore ipotesi rispetto a quella più grave, è l’uso “momentaneo” della cosa e la sua “immediata restituzione” dopo l’uso. In proposito, questa Corte ha ritenuto che nell’ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 314 c.p., “uso momentaneo” non significa istantaneo, ma temporaneo, ossia protratto per un tempo limitato così da comportare una sottrazione della cosa alla sua destinazione istituzionale tale da non compromettere seriamente la funzionalità della pubblica amministrazione (Sez. 6^, 10 marzo 1997, Federighi, rv. 207594). Temporaneità che, pur se non estranea ad una condotta meramente episodica e occasionale, deve caratterizzarsi per consistenza e durata tale da realizzare una “ appropriazione” e da compromettere, in ogni caso, la destinazione istituzionale della cosa ed arrecare pregiudizio, anche se modesto, alla funzionalità della pubblica amministrazione. La ratio della configurazione del delitto di peculato d’uso, come questa Corte ha avuto occasione di affermare, va individuata nella voluntas legis di sottrarre all’area del peculato comune l’”appropriazione” di “cose di specie”, e non anche quelle fungibili, per un periodo limitato di tempo, cui fa seguito la loro immediata restituzione con ripristino completo della situazione ex ante. In particolare, si è affermato che, a seguito della legge n. 86 del 1990 l’elemento oggettivo del reato di peculato è, in ogni caso, costituito esclusivamente dall’appropriazione, la quale si realizza con una condotta del tutto incompatibile con il titolo per cui si possiede, da cui deriva una estromissione totale del bene dal patrimonio dell’avente diritto con il conseguente incameramento dello stesso da parte dell’agente. Sul piano dell’elemento soggettivo si realizza il mutamento dell’atteggiamento psichico dell’agente nel senso che alla rappresentazione di essere possessore della cosa per conto di altri succede quella di possedere per conto proprio. Elementi, questi ultimi, che debbono sussistere anche nell’ipotesi del peculato d’uso pur se, in tale ipotesi, l’appropriazione è finalizzata ad un uso esclusiva- mente momentaneo della cosa (Sez. 6^, 12 dicembre 2000, Genchi ed altri, rv. 219086). Quando si sia in presenza di una distrazione a profitto proprio la quale si concretizzi semplicemente in un indebito uso del bene che non comporti la perdita dello stesso e la conseguente lesione patrimoniale a danno dell’avente diritto (Sez. 6^, 12 dicembre 2000, Genchi cit.), sempre che ricorrano gli elementi richiesti dalla fattispecie penale, potrebbe configurarsi il delitto di abuso d’ufficio. In altri termini, il peculato d’uso è una fattispecie penale che, sebbene configuri una ipotesi autonoma del reato, sanziona il “colpevole” di “peculato” con una pena minore se egli si sia “appropriato” della cosa “altrui” per farne un uso “momentaneo” e poi l’abbia restituita immediatamente, arrecando in ogni caso un danno patrimoniale apprezzabile ed un altrettanto “apprezzabile”pregiudizio, pur minimo, alla funzionalità della pubblica amministrazione. Se, da un lato, non sia in presenza di una oggettiva “appropriazione” della “cosa altrui” e, dall’altro, il segmento della condotta abusiva non abbia leso la funzionalità della pubblica amministrazione e non abbia arrecato un danno patrimoniale “apprezzabile”, il fatto, solo moralmente riprovevole, non configura un illecito penale e sarà suscettibile solo di sanzioni disciplinari. Nella fattispecie concreta, il mero avvistamento da parte dei Carabinieri dell’auto di servizio condotta da Txxx. con a bordo suoi conoscenti è prova soltanto di un sospetto uso improprio del mezzo, che non consente di apprezzarne, oltre che le ragioni, la sua effettiva durata e consistenza. Alla stregua delle risultanze probatorie descritte, dunque, il fatto accertato non è riconducibile al delitto di peculato d’uso per insussistenza degli elementi richiesti dalla fattispecie incriminatrice. Ne è tale da configurare gli elementi del delitto di abuso d’ufficio per la insussistenza, tra l’altro, della offensività che deve caratterizzare l’evento - ingiusto vantaggio patrimoniale o danno - richiesto per integrare la fattispecie in parola. Evento che, nelle sue due espressioni di un ingiusto vantaggio patrimoniale o un danno ingiusto, non può che essere anch’esso “apprezzabile e significativo” sotto il profilo del vantaggio economico e della condizione di sfavore. La vicenda, come ricostruita dai giudici di merito, rende evidente la insussistenza dell’elemento materiale richiesto per la configurazione del reato contestato e comporta, pertanto, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non sussiste. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste. Così deciso in Roma, il 1 febbraio 2005. Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2005. IL COMMENTO Anche l'uso momentaneo della cosa pubblica da parte del dipendente non costituisce reato se questi non se ne appropria. Il caso oggetto della sentenza della Cassazione riguardava l'utilizzo di un'auto pubblica, in modo episodico, da parte del dipendente che trasportava un familiare. Giustamente la Cassazione ha ritenuto che un tale evento non configura neanche l'uso momentaneo ai fini della sussistenza del reato di peculato d'uso, poiché è necessario da un lato un'oggettiva appropriazione della “cosa altrui” e, dall'altro, che il segmento della condotta abusiva abbia leso la funzionalità della pubblica amministrazione e abbia arrecato un danno patrimoniale “apprezzabile”. Altrimenti il fatto, solo moralmente riprovevole, non configura un illecito penale e sarà suscettibile solo di sanzioni disciplinari. non può essere consentito al pubblico ufficiale e in esso deve essere individuato il consapevole travalicamento dei limiti e delle modalità entro cui le funzioni pubbliche devono essere esercitate, con l’effetto che la reazione immediata del privato a tale atteggiamento rende inapplicabile la norma incriminatrice di cui all’art. 337 c.p. e ciò ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. 288/1944. Il T. si allontanò con l’autovettura per sottrarsi alla presa del vigile. P.M.Q. Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla resistenza a pubblico ufficiale, perché il fatto non costituisce reato, e rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Torino per la determinazione della pena in ordine al residuo reato. Rigetta nel resto il ricorso RESISTENZA: NO PUNIBILITA’ SE AGENTE PREPOTENTE INVASIONE EDIFICI: NO REATO SE STATO DI NECESSITA’ Corte di Cassazione Sezione VI penale Sentenza 27 ottobre 2006, n. 36009 Cassazione penale, Sezione II, sentenza n. 35580 del 26/09/2007 FATTO E DIRITTO A T.M. si addebitano i seguenti reati: a) reato previsto e punito dall’art. 337 c.p., perché usava violenza, consistita nel chiudere la portiere del lato guida della propria autovettura e nel ripartire improvvisamente con la stessa, sì da trascinare per alcuni metri e da fare cadere rovinosamente a terra il comandante dei Vigili Urbani Z.R., che aveva appoggiato il suo braccio destro sulla spalla del T., e ciò al fine di opporsi al pubblico ufficiale, che lo aveva invitato a seguirlo negli uffici per la identificazione; b) reato previsto e punito dagli artt. 582, 61, n. 10, 583, comma 1, n. 1, c.p., perché mediante la condotta di cui al capo che precede, cagionava allo Z. lesioni personali guaribili in giorni 45 in Candello il 10 marzo 1999. Il ricorso è in parte fondato. Quanto al contestato reato di resistenza a pubblico ufficiale osserva la Corte che la condotta posta in essere dal T. non fu finalizzata a impedire o a ostacolare l’attività funzionale del pubblico ufficiale, ma rappresentò, secondo la ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito, una reazione al comportamento non ortodosso e sconveniente del medesimo pubblico ufficiale, che, con arroganza e fare autoritario, lo aveva afferrato per un braccio e pretendeva di condurlo con la forza presso gli uffici della polizia municipale, per identificarlo compiutamente e contestargli formalmente la violazione al codice della strada (divieto di sosta), già accertata in precedenza da altro vigile urbano. L’atteggiamento sconveniente e prepotente Non è reato occupare una casa se ci si trova in stato di necessità, perché avere un’abitazione rientra tra i diritti primari delle persone. E’ quanto ha stabilito la II Sezione della Cassazione accogliendo il ricorso presentato da una donna che era stata condannata per aver occupato abusivamente un appartamento dell’Iacp mentre versava in condizioni di grave indigenza. Ma attenzione, la Cassazione non ha affatto autorizzato condotte antigiuridiche, essendosi limitata ad escludere l’applicazione di sanzioni penali per chi ha compiuto l’occupazione abusiva versando in stato di necessità, ma lasciando aperta la strada dell’uso della forza pubblica per lo sgombero dell’appartamento occupato. La Corte d’appello l’aveva condannato la ricorrente al pagamento di una multa di 600 euro per occupazione abusiva, ma la decisione della Cassazione ha ribaltato il verdetto. Sottolinea il Supremo Collegio che ai fini della sussistenza dell’esimente dello stato di necessità previsto dall’art. 54 del codice penale, rientrano nel concetto di danno grave alla persone — si legge nella sentenza — non solo la lesione della vita o dell’integrità fisica, ma anche quelle situazioni che attentano alla sfera dei diritti fondamentali della persona, secondo la previsione contenuta nell’art. 2 della Costituzione; e pertanto rientrano in tale previsione anche quelle situazioni che minacciano solo indirettamente l’integrità fisica del soggetto in quanto si riferiscono alla sfera dei beni primari collegati alla personalità, fra i quali deve essere ricompreso il diritto al- 4 l’abitazione in quanto l’esigenza di un alloggio rientra fra i bisogni primari della persona. Tale interpretazione estensiva del concetto di danno grave alla persona fa sì peraltro, siccome evidenziato dalla sentenza Cassazione Sez. II n. 24290 del 19/03/2003, che più attenta e penetrante deve essere l’indagine giudiziaria diretta a circoscrivere la sfera di azione dell’esimente ai soli casi in cui sono indiscutibili gli elementi costitutivi della stessa – necessità ed inevitabilità – non potendo i diritti di terzi essere compressi se non in condizioni eccezionali, chiaramente comprovate. Nel caso di specie la Corte territoriale ha totalmente omesso qualunque indagine sia al fine di rilevare le effettive condizioni dell’imputata, l’esigenza di tutela del figlio minore, la minaccia dell’integrità fisica degli stessi, sia al fine di verificare la sussistenza sotto il profilo obiettivo dei requisiti della necessità ed inevitabilità che, unitamente agli altri elementi richiesti dall’art. 54 c.p., consentono di ritenere la sussistenza dell’esimente in parola. Sulla base di tali argomentazioni, la Cassazione ha annullato la sentenza di appello rimettendo la causa ad un’altra sezione della Corte territoriale affinché svolga una corretta valutazione sulla sussistenza dell’invocato stato di necessità. MOLESTIE: DUE SQUILLI NON È REATO Corte di Cassazione, 40748/2007 sentenza L’abitudine di molestare attraverso l’uso del telefono è finita al vaglio della Cassazione che ha ora stilato una sorta di “vademecum” per mettere in guardia contro comportamenti che possono costituire reato ed evitare, al contempo, che si consideri molesto ciò che invece rientra nella normalità. Secondo la Corte (Sentenza 40748/2007) due squilli in un giorno non costituiscono reato di molestia giacché per potersi configurare questo tipo di reato (previsto dall’art. 660 c.p.) è necessario ravvisare nella condotta un carattere di “petulanza”. Anche una telefonata dunque può avere rilevanza penale ma a tal fine è necessario che si traduca in un “atteggiamento di insistenza eccessiva e perciò di fastidiosa, di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nell’altrui sfera”. E’ stato così respinto il ricorso di un Avvocato che aveva richiesto la condanna per molestie di una persona che lo aveva disturbato due volte a studio per chiedere informazioni. “Deve escludersi - spiega la Corte - che l’effettuazione di due soli contatti telefonici possa costituire espressione di petulanza”. EDILIZIA RISTRUTTURAZIONE Tar Veneto, sez. II - sentenza 31 ottobre 2007 n. 3493 Venendo ora al merito, come noto, ai sensi dell’art. 3 comma 1 lett. d), t.u. 6 giugno 2001 n. 380, come modificato dal d.lgs. 27 dicembre 2002 n. 301, il concetto di ristrutturazione edilizia, come qualificato dall’art. 31 comma 1 lett. d), l. 5 agosto 1978 n. 457, comprende anche la demolizione seguita dalla fedele ricostruzione del manufatto, con l’unica condizione che la riedificazione assicuri la piena conformità di sagome, volume tra il vecchio e il nuovo manufatto, con la conseguente possibilità di pervenire, in tal modo, ad un organismo edilizio (Consiglio di Stato, sez. IV, 11 aprile 2007, n. 1669). Più precisamente, posto che il concetto di ristrutturazione edilizia è stato dalla giurisprudenza esteso agli interventi di demolizione integrale con successiva ricostruzione di un fabbricato nuovo, che deve riprodurre fedelmente quello demolito, la fedeltà della ricostruzione va ricondotta alla nozione di recupero, nel senso che il fabbricato nuovo, pur potendo costituire un organismo edilizio anche in tutto diverso, deve essere comunque materialmente riferibile a quello preesistente, in quanto non si può pretendere dagli interventi di demolizione totale e successiva ricostruzione una fedeltà alla vecchia struttura maggiore di quella esigibile nei casi in cui tale struttura sia in parte conservata, fermo restando che tra il fabbricato vecchio ed il nuovo deve intercorrere un nesso di continuità materiale e che le eventuali diversità non possono riguardare il sedime e i volumi (T.A.R. Piemonte Torino, sez. I, 18 ottobre 2004, n. 2504). Inoltre, tra il rilascio dell’originario titolo, il crollo e la presentazione del nuovo progetto non si deve verificare alcuna soluzione di continuità (Consiglio Stato, sez. V, 1 dicembre 1999, n. 2021). Orbene, nel caso in esame è proprio tale continuità temporale e funzionale a risultare carente, posto che parte ricorrente dimostra che il ripristino di due corpi di fabbrica demoliti riguarda due strutture non più esistenti da decenni, in quanto presenti unicamente ab antiquo ma assenti nei catasti del 1838, del 1846 e del 1929. Va infine aggiunto che una nuova edificazione non appare consentita tanto più che non vengono rispettate le distanze dal confine. Per quanto detto il ricorso va accolto e va annullato il permesso di costruire n. 2005/428974/PG rilasciato dal Comune di Venezia alla S.r.l. Euro Centro Servizi Immobiliari in data 24.7.2007 laddove 5 non necessita annullare l’art. 64.6, lett. c) (“ripristino tipologico”) delle N.T.S.A. del P.R.G. di Venezia approvato con la deliberazione D.R. Veneto n. 3905 del 3.12.2004, impugnato solo in via subordinata e tuzioristica. Ritenuto di poter compensare integralmente tra le parti le spese e gli onorari del giudizio. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, seconda sezione, definitivamente pronunciando sul ricorso in premessa, respinta ogni contraria istanza ed eccezione, lo accoglie come da motivazione e, per l’effetto, annulla il permesso di costruire n. 2005/428974/PG rilasciato dal Comune di Venezia alla S.r.l. Euro Centro Servizi Immobiliari in data 24.7.2007. Compensa integralmente tra le parti le spese e gli onorari del giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa. Così deciso in Venezia, nella Camera di Consiglio del 30 ottobre 2007. IL COMMENTO In materia di ristrutturazione edilizia, ai sensi dell'art. 31 comma 1 lett. d), L. 5 agosto 1978, n. 457 e dell'art. 3, comma 1, lett. d), del T.U. 6 giugno 2001 n. 380, come modificato dal D.Lgs. 27 dicembre 2002 n. 301, oltre al principio secondo il quale l'intervento di demolizione integrale, con successiva ricostruzione di un fabbricato nuovo, deve riprodurre "fedelmente" quello demolito, vige l'altro principio secondo cui, tra il rilascio dell'originario titolo, il crollo e la presentazione del nuovo progetto, non si deve verificare alcuna soluzione di continuità temporale e funzionale; è pertanto illegittima una concessione edilizia rilasciata per la ristrutturazione edilizia di un immobile, per difetto del requisito della suddetta continuità temporale e funzionale, nel caso in cui il ripristino dei corpi di fabbrica demoliti riguardi strutture non più esistenti da decenni, in quanto presenti unicamente ab antiquo. PUBBLICA SICUREZZA STRANIERI: NO ESPULSIONE PARENTI DI ITALIANI Corte costituzionale - ordinanza 31 ottobre 2007, n. 361 - Ritenuto che, con ordinanza del 30 maggio 2006, emessa nel corso di un giudizio di opposizione avverso il decreto di espulsione nei confronti di O.K., il Giudice di pace di Siracusa ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 19, comma 2, lettera c), e 29, comma 1, lettera b-bis), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), per violazione degli artt. 2, 3, 10, 29 e 30 della Costituzione; - Considerato che, il Giudice di pace di Siracusa dubita della legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), «nella parte in cui dispone il divieto di espulsione esclusivamente in favore degli stranieri conviventi con parenti entro il quarto grado o con il coniuge “di nazionalità italiana”, escludendo analogo divieto in favore degli stranieri conviventi con parenti entro il quarto grado o con il coniuge già residenti in Italia e regolarmente muniti di permesso di soggiorno» per violazione degli artt. 2, 3, 10, 29 e 30 della Costituzione; - che, in particolare, la Corte ha affermato che, secondo giurisprudenza costante, «il legislatore può legittimamente porre dei limiti all’accesso degli stranieri nel territorio nazionale effettuando “un corretto bilanciamento dei valori in gioco”, esistendo in materia un’ampia discrezionalità legislativa, limitata soltanto dal vincolo che le scelte non risultino manifestamente irragionevoli (sentenza n. 353 del 1997)»; - che, quanto alla questione relativa all’art. 29, comma 1, lett. b-bis), del d.lgs. n. 286 del 1998, il rimettente, essendo chiamato a giudicare sulla legittimità del decreto di espulsione impugnato, non deve fare applicazione della norma che disciplina il ricongiungimento familiare: - che, pertanto, in difetto del requisito della rilevanza, la stessa va dichiarata manifestamente inammissibile. LA CORTE COSTITUZIONALE - dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma 1, lettera b-bis), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 ottobre 2007. IL COMMENTO E' manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale - sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 29, e 30 della Costituzione - dell'art. 19, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nella parte in cui dispone il divieto di espulsione esclusivamente in favore degli stranieri conviventi con parenti entro il quarto grado o con il coniuge "di nazionalità italiana", escludendo analogo divieto in favore degli stranieri conviventi con parenti entro il quarto grado o con il coniuge già residenti in Italia e regolarmente muniti di permesso di soggiorno. GUARDIE GIURATE: NO SANZIONI PENALI AL DATORE PER TURNI DI SERVIZIO PESANTI Suprema Corte di Cassazione, Sezione Prima Penale, sentenza n.21337/2005 SENTENZA P. E., tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Catania in data 17/11/2004 che lo aveva condannato alla pena di 200,00 euro di ammenda per la contravvenzione di cui agli artt. 9 e 17 T.U.L.P.S., ascrittogli perché, nella qualità di titolare dell’Istituto di Vigilanza Virus, consentiva alle guardie giurate di svolgere servizio di vigilanza presso la Manifattura Tabacchi con turni di servizio di circa 17 ore in violazione del disposto del regolamento di servizio emesso dal Questore di Catania. In Catania ac.to il 30/11/2001. Deduce il ricorrente l’inesistenza di elementi di responsabilità a carico dell’imputato, sanzionabile anche soltanto a titolo di colpa, e, comunque, l’intervenuta depenalizzazione dell’addebito contestato. Il ricorso è fondato. Ai sensi dell’art. 17 bis, comma 2, T.U.L.P.S., aggiunto dall’art. 3, d.lgs. 13/7/1994 n. 480, la violazione di cui all’art. 9 dello stesso testo unico è punibile con una semplice sanzione amministrativa e, dunque, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, con trasmissione degli atti al Prefetto di Catania per quanto di competenza. PQM Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Dispone la trasmissione degli atti al Prefetto di Catania per quanto di competenza. Roma, 12 apr. 2005. Depositata in Cancelleria il 7 giugno 2005. PERSONALE SEZIONI PG: NO ALL’INDENNITA’ GIUDIZIARIA Consiglio di Stato sentenza n. 44/2005 FATTO Gli odierni appellanti, appartenenti al Corpo di Polizia municipale del comune di Milano, prestano servizio presso le Sezioni di Polizia giudiziaria della locale Procura. Gli stessi hanno pertanto richiesto al Mini- 6 stero di Grazia e Giustizia la corresponsione dell’indennità giudiziaria prevista dalla legge n. 221 del 1988. A fronte del diniego opposto dall’Amministrazione gli interessati hanno adito il TAR Milano il quale, con la sentenza in epigrafe indicata, ha respinto il gravame. La sentenza è impugnata dagli appellanti che ne chiedono l’integrale riforma, insistendo per l’accoglimento della pretesa patrimoniale azionata in prime cure. Si sono ostituite le Amministrazioni evocate, insistendo per il rigetto del gravame. All’Udienza del 18 novembre il ricorso è stato trattenuto in decisione. DIRITTO L’appello non è fondato. Con l’unico ed articolato motivo di appello i vigili urbani appellanti deducono che l’attività da essi prestata presso le Sezioni di Polizia giudiziaria – concretandosi nello svolgimento di funzioni ( anche amministrative ) di supporto al buon andamento degli uffici giudiziari dai quali le Sezioni dipendono – costituisce titolo per la corresponsione dell’indennità giudiziaria, come del resto chiarito da recente giurisprudenza della Sezione. L’appello non è fondato, e la pretesa sostanziale degli appellanti non può quindi trovare accoglimento per un duplice ordine di ragioni. Al riguardo osserva il Collegio che l’indennità reclamata dagli interessati è disciplinata dall’art. 2 della legge 22.6.1988 n. 221 (che ha assorbito - quale beneficio economico e per espresso disposto dello stesso art. 2 - il compenso incentivante già percepito dai dipendenti del Ministero di grazia e giustizia), in base al quale essa spetta « al personale... delle cancellerie e segreterie giudiziarie ». Tale compenso ha sempre poggiato la sua giustificazione, quale che sia la denominazione di volta in volta ricevuta nelle norme succedutesi nel tempo (a partire dalla legge n. 312 del 1980), sulle funzioni svolte e sui compiti di collaborazione con il personale di magistratura, in univoca relazione con i servizi prestati dal personale amministrativo delle Segreterie e delle cancellerie giudiziarie, attesa la grave situazione, a livello di produttività e di efficienza, in cui versavano tali uffici. In questa ottica, il beneficio non può spettare al personale addetto alle Sezioni di Polizia giudiziaria, che svolge sì le sue funzioni alle dipendenze della autorità giudiziaria (artt. 56 comma 1 e 59 comma 3 del nuovo Codice di procedura penale), ma di certo non svolge compiti e mansioni di natura burocratico-amministrativa in collaborazione con i magistrati. Invero gli appartenenti alle Sezioni di po- lizia giudiziaria espletano indubbiamente compiti delicati (che, secondo la elencazione del Cod. proc. pen., riguardano la notizia dei reati, la ricerca dei loro autori, l’assicurazione delle fonti di prova e del materiale comunque utile, il compimento degli atti ed indagini ulteriori, ecc.), ma nessuna di tali funzioni è logicamente è funzionalmente riconducibile all’espletamento di quelle attività, che il Legislatore, introducendo il beneficio economico in controversia ha inteso incentivare; tali attività sono quelle del personale di cancelleria e di segreteria, le cui attribuzioni (come risultanti dalla normativa contrattuale attraverso i profili professionali) sono di carattere esclusivamente amministrativo e dunque non confondibili con quelle della Polizia giudiziaria. Ne consegue che nel caso in esame manca il presupposto oggettivo ( svolgimento di funzioni amministrativo/burocratiche di supporto all’ attività degli uffici giudiziari) cui la legge ricollega la corresponsione dell’indennità. PQM Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, definitivamente pronunciando, respinge l’appello. Così deciso in Roma il 18 novembre 2004 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale. IL COMMENTO Agli agenti di polizia municipale che prestano servizio presso le sezioni di polizia giudiziaria non spetta la speciale indennità giudiziaria riconosciuta invece ai dipendenti del Ministero della giustizia. Il caso, oggetto della sentenza del Consiglio di Stato 44/2005, riguardava due vigili del Comune di Milano che avevano presentato richiesta per vedersi riconosciuta tale indennità. Secondo il giudice amministrativo “il beneficio non può spettare al personale addetto alle Sezioni di Polizia giudiziaria, che svolge sì le sue funzioni alle dipendenze della autorità giudiziaria (artt. 56 comma 1 e 59 comma 3 del nuovo Codice di procedura penale), ma di certo non svolge compiti e mansioni di natura burocratico-amministrativa in collaborazione con i magistrati”. MALATTIA: SE ASSENTE AL CONTROLLO DECURTAZIONE STIPENDIO Consiglio di stato, sez. VI - sentenza 14 settembre 2005, n. 4727 FATTO E DIRITTO Il primo giudice ha accolto il ricorso proposto dalla signora (omissis) (omissis) (omissis) avverso il decreto del provveditore agli studi di Milano 3 settembre 1997, n. 2606, con cui alla stessa, docente di scuola media, era stata effettuata la trattenuta stipendiale di una giornata. La suddetta era risultata assente al controllo domiciliare avvenuto, durante la fascia di reperibilità, il 5 aprile 1997. Nel decreto, tuttavia, non veniva menzionata la giustificazione addotta dalla Signora (omissis), che aveva dimostrato di essersi dovuta recare dal dentista. Il ricorso in appello principale è infondato. L’art. 5, comma 14, del d.l. n. 463/1983, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 638/1983, prescrive che, “qualora il lavoratore, pubblico o privato, risulti assente alla visita di controllo senza giustificato motivo, decade dal diritto a qualsiasi trattamento economico per l’intero periodo sino a dieci giorni e nella misura della metà per l’ulteriore periodo, esclusi quelli di ricovero ospedaliero o già accertati da precedente visita di controllo”. Ai sensi, poi, dell’art. 23, comma 15, del C.C.N.L. della scuola 4 agosto 1995, “qualora il dipendente debba allontanarsi, durante le fasce di reperibilità, dall’indirizzo comunicato, per visite mediche, prestazioni o accertamenti specialistici o per altri giustificati motivi, che devono essere, a richiesta, documentati, è tenuto a darne preventiva comunicazione all’amministrazione...”. La sezione ritiene che la richiamata normativa richieda solo la giustificazione dell’allontanamento, la relativa documentazione e la sua comunicazione. Nella specie, la giustificazione era documentata dal certificato del dentista in data 5 aprile 1997, tra l’altro nemmeno menzionato nel decreto impugnato; e la comunicazione vi era stata, come affermato anche dal primo giudice e non contestato dall’appellante principale. Il ricorso in appello, pertanto, deve essere respinto, con il conseguentemente assorbimento del ricorso in appello incidentale, dato il suo carattere subordinato. Le spese e gli onorari del presente grado di giudizio, liquidati come da dispositivo, seguono la soccombenza. Per questi motivi il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione sesta, respinge il ricorso in appello principale. Condanna l’appellante principale al pagamento, in favore dell’appellata, delle spese e degli onorari del presente grado di giudizio, che si liquidano in complessivi euro duemila/00. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma il 7 giugno 2005 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione sesta, in camera di consiglio, con l’intervento dei signori. 7 ORDINAMENTO LOCALE E AMMINISTRATIVO ORDINANZA CONTINGIBILE: SI’ ALLA PARTECIPAZIONE Tar liguria, sez. I - sentenza 31 ottobre 2007, n. 1901 DIRITTO L’impugnazione ha per oggetto l’ordinanza del 24 dicembre 1999, mediante la quale il Sindaco di Bordighera ha ingiunto alla ricorrente Radio Babboleo S.r.l., titolare della omonima emittente radiofonica, di ridurre la misura dei valori di campo elettromagnetico generati dall’impianto di trasmissione ubicato alla via Corombeire; il provvedimento è, per inciso, indirizzato anche ai titolari degli altri impianti di trasmissione radio presenti nella medesima area (via degli Inglesi – via Corombeire – Piana Moreno – Colla Piana Bassini), e trae la propria motivazione dal superamento – accertato a seguito delle misurazioni effettuate dall’A.R.P.A.L. su richiesta dello stesso Comune di Bordighera – dei limiti di radiofrequenza compatibili con la salute umana, ed in particolare dei valori massimi di esposizione della popolazione e delle misure di cautela stabiliti dal D.M. 10 settembre 1998, n. 381. Con il primo motivo di gravame, la ricorrente lamenta, da un lato, di non aver ricevuto alcuna comunicazione di avvio del procedimento volto alla verifica dei livelli di campo elettromagnetico dell’area, e, dall’altro, rileva che l’amministrazione procedente non avrebbe provveduto a mettere a disposizione degli interessati le relazioni tecniche dell’A.R.P.A.L. poste a fondamento dell’atto impugnato, nel che si concreterebbe la duplice violazione degli artt. 3 co. 3 e 7 della legge n. 241/90. Il ricorso è fondato in ordine alle censure dedotte con il primo, il quarto ed il sesto motivo. Com’è noto, la legge n. 241/90 sancisce a livello del diritto positivo l’istituto della partecipazione al procedimento amministrativo, manifestazione di quel più generale principio del “giusto procedimento” – la cui effettiva portata è stata al contempo esaltata e ridimensionata dalla legge n. 15/05 – in forza del quale l’azione della P.A. si svolge nel contraddittorio dei suoi destinatari, ed il procedimento costituisce il luogo virtuale di composizione preventiva dei conflitti fra soggetti pubblici e privati portatori di interessi contrapposti. La partecipazione degli interessati al procedimento si attiva in prima battuta attraverso la obbligatoria comunicazione di avvio disciplinata dagli artt. 7 e 8 della legge n. 241 cit., comunicazio- ne che, per espressa previsione normativa, può peraltro venire omessa ove sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, fermo restando che, in termini generali, l’amministrazione è sempre tenuta a rendere conto della sussistenza di tali ragioni di urgenza qualificata. I principi appena enunciati si attagliano alle peculiarità del caso in esame. Secondo un indirizzo già espresso dal questo tribunale, l’esigenza di garantire la partecipazione degli interessati non viene meno neppure laddove la P.A. agisca mediante ordinanze contingibili ed urgenti, occorrendo che anche in tale evenienza il provvedimento contenga la puntuale esplicazione dei motivi ostativi alla comunicazione di avvio (cfr. da ultimo T.A.R. Liguria, sez. I, 14 giugno 2007, n. 1119). Tuttavia, anche a voler seguire il diverso orientamento secondo cui le ordinanze contingibili e urgenti sono in linea di massima sottratte all’obbligo della preventiva comunicazione, soprattutto se adottate a tutela della salute pubblica (fra le altre cfr., proprio nella materia di emissioni elettromagnetiche, Cons. Stato, sez. V, 29 settembre 2000, n. 4906), nella specie non può prescindersi dal concreto atteggiarsi della procedura seguita dal Comune di Bordighera ed, in particolare, dalla circostanza che il provvedimento impugnato risulta emesso non nell’immediatezza di uno stato di pericolo, bensì a distanza di oltre un anno dai primi accertamenti tecnici eseguiti dall’A.R.P.A.L. per iniziativa e su sollecito della stesso Comune: tale circostanza smentisce, in primo luogo, il presupposto stesso del potere di ordinanza sindacale, apprestato dall’ordinamento per affrontare situazioni straordinarie, caratterizzate dall’urgenza di intervenire e perciò non risolvibili secondo il normale ordine delle competenze e dei poteri; e, soprattutto, evidenzia come il preventivo avvertimento ai titolari degli impianti di trasmissione non fosse affatto incompatibile con un “iter” procedimentale che, in concreIL COMMENTO E' illegittima un'ordinanza contingibile ed urgente adottata dal Sindaco ex art. 38, c. 2 della legge n. 142 del 1990 (v. ora artt. 50 e 54 comma 2 D.Lgs. n. 267 del 2000), con cui è stata disposta, a fini di tutela della salute pubblica, l'immediata riduzione di emissioni elettromagnetiche prodotte da un impianto di trasmissione radiofonica, che non sia stata preceduta dalla comunicazione, nei confronti dell'interessato, di avvio del relativo procedimento amministrativo, ex artt. 7 e segg. L. n. 241 del 1990; infatti, l'esigenza di garantire la partecipazione degli interessati non viene meno neppure laddove la P.A. agisca mediante ordinanze contingibili e urgenti, occorrendo che, anche in tale evenienza, il provvedimento contenga la puntuale esplicazione dei motivi ostativi alla comunicazione di avvio. to, si è protratto per più di un anno al dichiarato scopo di controllare le variazioni nel tempo dei valori di campo elettrico, e si è concluso solo nel momento in cui l’amministrazione ha ritenuto di poter definire “cronico” il superamento dei limiti imposti dal D.M. 381/98. P.Q.M. Accoglie il ricorso, per l’effetto annullando il provvedimento impugnato. CIRCOLARI: NON SONO VINCOLANTI Corte di cassazione, sez. Unite civili - sentenza 2 novembre 2007, n. 23031 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO La controversia origina dalla impugnazione, proposta innanzi al TAR Catania dalle odierne parti controricorrenti in proprio e quali associati al centro Studi Notariato di Catania, avverso la Circolare del 31 maggio 2005 prot. n. 2005/3.0/25079 emessa dall’Agenzia delle Entrate, Direzione Regionale per la Sicilia, avente ad oggetto «Legge Regionale 26 marzo 2002, n. 2 recante “Disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2002”. Art. 60 (Agevolazioni fiscali). Attività di recupero d’imposta. Direttiva agli Uffici», nonché degli atti richiamati nella circolare medesima, emessi dalla Direzione centrale normativa e contenzioso della stessa Agenzia, da ultimo ribaditi con nota del 23 marzo 2005, n. 53667, tutti riguardanti l’interpretazione della legge regionale siciliana indicata nell’oggetto. II TAR Catania, con sentenza n. 1075/05 del 7 giugno 2005, depositata il 28 giugno 2005, ritenuto ammissibile il ricorso e sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo (il cui difetto era stato eccepito dalla costituita Agenzia delle Entrate), accoglieva il ricorso stesso e annullava gli atti impugnati, ritenendo che la norma agevolativa disponesse il beneficio a favore di chiunque ponesse in essere uno degli atti elencati nell’art. 1, comma 1, L. n. 604/1954, senza che occorresse far riferimento al fine perseguito dagli atti elencati e cioè alla ricomposizione della piccola proprietà contadina. MOTIVAZIONE Passando all’esame della questione di giurisdizione, occorre precisare che oggetto di impugnazione nel giudizio amministrativo è costituito da una circolare interpretativa dell’Agenzia delle Entrate - Direzione Regionale della Sicilia, con la quale l’amministrazione, con contestuale invio di una direttiva agli uffici gerarchicamente subordinati, aveva interpretato la legge regionale siciliana n. 2 del 26 marzo 2002, individuando quali fossero, a suo parere, le condizioni 8 che dovevano sussiste per la concessione delle agevolazioni dalla stessa legge previste. Per la sua natura e per il suo contenuto (di mera interpretazione di una norma di legge), non potendo esserle riconosciuta alcuna efficacia normativa esterna, la circolare non può essere annoverata fra gli atti generali di imposizione, impugnabili innanzi al giudice amministrativo, in via di azione, o disapplicabili dal giudice tributario od ordinario, in via incidentale. Il che rileva, in primo luogo, sul piano generale, perché le circolari, come è stato affermato dalla dottrina prevalente, non possono né contenere disposizioni derogative di norme di legge, né essere considerate alla stregua di norme regolamentari vere e proprie, che, come tali vincolano tutti i soggetti dell’ordinamento, essendo dotate di efficacia esclusivamente interna nell’ambito dell’amministrazione all’interno della quale sono emesse; e, in secondo luogo, con particolare riferimento all’ordinamento tributario, il quale come è noto, è soggetto alla riserva di legge. D’altra parte, per quanto concerne la dottrina specialistica, coloro che non concordano con una simile generale impostazione, pervengono, in definitiva, alla medesima conclusione, perché sostengono che l’irrilevanza normativa delle circolari dal punto di vista del sistema tributario significa che le stesse sono inidonee, in quanto contenenti norme interne, ad operare all’esterno dell’ordinamento minore cui appartengono. Secondo i fautori di tale tesi dottrinaria, infatti, questa semplice premessa avrebbe il pregio di ridurre al rango di pseudo-problema la questione della non impugnabilità in via autonoma delle circolari: proprio perché rilevanti all’interno di un ordinamento parziale (o sezionale), esse non possono essere prese in considerazione dall’ordinamento generale, cui, invece, appartiene - per definizione - il potere giurisdizionale. Anche la giurisprudenza ha da tempo espresso analoga opinione sulla inefficacia normativa esterna delle circolari. A quest’ultime, infatti, è stata attribuita la natura di atti meramente interni della pubblica amministrazione, i quali, contenendo istruzioni, ordini di servizio, direttive impartite dalle autorità amministrative centrali o gerarchicamente superiori agli enti o organi periferici o subordinati, esauriscono la loro portata ed efficacia giuridica nei rapporti tra i suddetti organismi ed i loro funzionari. Le circolari amministrative, quindi, non possono spiegare alcun effetto giuridico nei confronti di soggetti estranei all’amministrazione, né acquistare efficacia vincolante per quest’ultima, essendo destinate esclusivamente ad esercitare una funzio- ne direttiva nei confronti degli uffici dipendenti, senza poter incidere sul rapporto tributario, tenuto anche conto che la materia tributaria è regolata soltanto dalla legge, con esclusione di qualunque potere o facoltà discrezionale dell’amministrazione finanziaria (in questa prospettiva cfr. Cass., Sez. I, 25 marzo 1983, n. 2092 e 17 novembre 1995, n. 11931; Cass. Sez. V, 10 novembre 2000, n. 14619 e del 14 luglio 2003 n. 11011). Questi risultati interpretativi vanno condivisi alla stregua delle seguenti considerazioni. 1) La circolare emanata nella materia tributaria non vincola il contribuente, che resta pienamente libero di non adottare un comportamento ad essa uniforme, in piena coerenza con la regola che in un sistema tributario basato essenzialmente sull’autotassazione, la soluzione delle questioni interpretative è affidata (almeno in una prima fase, quella, appunto, della determinazione dell’imposta da corrispondere) direttamente al contribuente. 2) La circolare nemmeno vincola, a ben vedere, gli uffici gerarchicamente sottordinati, ai quali non è vietato di disattenderla (evenienza, questa, che, peraltro, è raro che si verifichi nella pratica), senza che per questo il provvedimento concreto adottato dall’ufficio (atto impositivo, diniego di rimborso, ecc.) possa essere ritenuto illegittimo “per violazione della circolare”: infatti, se la (interpretazione contenuta nella) circolare è errata, l’atto emanato sarà legittimo perché conforme alla legge, se, invece, la (interpretazione contenuta nella) circolare è corretta, l’atto emanato sarà illegittimo per violazione di legge. 3) La circolare non vincola addirittura la stessa autorità che l’ha emanata, la quale resta libera di modificare, correggere e anche completamente disattendere l’interpretazione adottata. Ciò è tanto vero che si è posto il problema della eventuale tutela del contribuente di fronte al mutamento di indirizzo (interpretativo) adottato dall’amministrazione e si è escluso che tale tutela sia possibile anche sotto il profilo dell’affidamento, stante la evidente collisione che si determinerebbe con il principio - coniugato secondo un diverso lessico, ma riferito ad un unico concetto - di inderogabilità delle norme tributarie, di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, di vincolatezza della funzione di imposizione, di irrinunciabilità del diritto di imposta. Non si può, al riguardo, non concordare con quella autorevole dottrina che sostiene che, ammettere che l’amministrazione, quando esprime opinioni interpretative (ancorché prive di fondamento nella legge), crea vincoli per sé e i giudici tributari, equivale a riconoscere all’amministrazione stessa un potere normati- vo che, a tacer d’altro, è in palese conflitto con il principio costituzionale della riserva relativa di legge codificato dall’art. 23 della Costituzione. Tutt’al più, come è stato pure affermato, potrebbe ammettersi che il mutamento da parte dell’amministrazione di un precedente indirizzo (interpretativo) sul quale il contribuente possa aver fatto affidamento, eventualmente rilevi (o possa esse valutato) ai fini della applicazione delle sanzioni. 4) La circolare non vincola, infine, come già si è detto, il giudice tributario (e, a maggior ragione, la Corte di Cassazione) dato che per l’annullamento di un atto impositivo emesso sulla base di una interpretazione data daU’amministrazione e ritenuta non conforme alla legge, non dovrà essere disapplicata la circolare, in quanto l’ordinamento affida esclusivamente al giudice il compito di interpretare la norma (del resto, al giudice tributario è attribuita, nella materia tributaria, la giurisdizione esclusiva). In tal caso non può non concordarsi con una autorevole dottrina secondo la quale, ammettere l’impugnabilità della circolare interpretativa innanzi al giudice amministrativo - con la possibilità per quest’ultimo di annullarla, peraltro con effetto erga omnes - significherebbe precludere a tutti gli uffici dell’amministrazione finanziaria di accogliere quella interpretazione, con il risultato - contrario ai principi costituzionali - di elevare il giudice amministrativo al rango di interprete autentico della norma tributaria. In realtà, la circolare interpretativa esprime, come è stato efficacemente detto, una “dottrina dell’amministrazione”, vale a dire l’opinione di una parte (anche se “forte”) del rapporto tributario, che, peraltro, può essere discussa e disattesa dal giudice tributario. E, qualora il giudizio di quest’ultimo corrisponda al parere espresso dall’amministrazione, caso sarà pur sempre l’interpretazione del giudice che avrà esclusivo valore ed efficacia. L’irrilevanza, nel senso fin qui spiegato, della circolare interpretativa in materia tributaria è stata, indirettamente, confermata da una recente sentenza della Corte costituzionale - la n. 191 del 14 giugno 2007 - a proposito di un atto che sembrerebbe avere rispetto alla circolare, un “valore più cogente”, dato il suo carattere “intersoggettivo”, e cioè la risposta dell’Agenzia delle Entrate ad una istanza di interpello ex art. 11 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (ed. “Statuto del contribuente”). P.Q.M. LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Dichiara il difetto assoluto di giurisdizione. Cassa senza rinvio la sentenza impugnata. Compensa le spese. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 9 ottobre 2007. 9 IL COMMENTO Una circolare, anche qualora contenga una direttiva agli uffici gerarchicamente subordinati perché vi si uniformino, esprime esclusivamente un parere dell'Amministrazione che, in quanto atto meramente interno, non ha alcuna efficacia vincolante esterna. La circolare non vincola addirittura la stessa autorità che l'ha emanata, la quale resta libera di modificare, correggere e anche completamente disattendere l'interpretazione adottata. Le circolari amministrative, quindi, non possono spiegare alcun effetto giuridico nei confronti di soggetti estranei all'amministrazione, né acquistare efficacia vincolante per quest'ultima, essendo destinate esclusivamente ad esercitare una funzione direttiva nei confronti degli uffici dipendenti. PERSONALE APPALTO: NO AFFIDAMENTO SE CONDANNA LEGGE 626 Tar Lombardia - Milano, sez. I - sentenza 24 ottobre 2007, n. 6162 FATTO 1. Con provvedimento del Commissario per l’emergenza del traffico e della mobilità nella città di Milano n. 594 in data 8 maggio 2006 è stato approvato il progetto definitivo per gli interventi di manutenzione straordinaria delle carreggiate stradali in conglomerato bituminoso, da realizzare con affidamento a terzi mediante appalto aperto con pubblico incanto al criterio del prezzo più basso e suddivisione in quattro lotti, per la spesa complessiva di euro 6.000.000,00. L’impresa ricorrente ha partecipato all’incanto è stata esclusa poiché il suo amministratore delegato e direttore tecnico ha subito una condanna ex art. 590, terzo comma, C.P. sulla base di un decreto non opposto, e tale condanna è stata considerata rilevante per l’affidabilità morale e professionale. DIRITTO 2. La questione di diritto che deve essere scrutinata concerne la legittimità dell’esclusione dell’impresa ricorrente da alcune gare di appalto indette dal Comune di Milano, motivata con la condanna del suo amministratore delegato e direttore tecnico per lesioni personali con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. 3.1 Il primo motivo deve essere respinto poiché il legislatore del Codice dei contratti pubblici non ha inteso circoscrivere la facoltà di esclusione in capo alle stazioni appaltanti a determinate tipologie di reato qualificate dal soggetto passivo. Tale conclusione è giustificata in primo luogo dal fatto che una simile restrizione non si evince dalla normativa comunitaria, di cui alla direttiva 2004/18/CE, par. 2, lett. c); inol- tre va considerato che una specifica categoria di “reati in danno dello Stato” o “in danno della Comunità” non esiste nel diritto penale. Se fosse assunta l’interpretazione prospettata dalla ricorrente la norma diverrebbe di difficile applicazione ed il suo ambito di applicazione assumerebbe confini evanescenti. Si deve invece ritenere, come correttamente dedotto nelle difese dell’Amministrazione intimata, che il legislatore abbia inteso, con tale espressione, allargare l’area dei reati che possono essere presi in esame ai fini dell’esclusione dalle gare per pubblici appalti, consentendo alle stazioni appaltanti di valutare non solo quelli compiuti nello Stato italiano, ma anche quelli commessi sul territorio di tutta la Comunità Europea. L’espressione “Stato” contenuta nell’inciso normativo di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), del d.lgs. 163/06 deve quindi essere interpretata come “statocomunità” o meglio come Stato membro della Comunità Europea poiché le stazioni appaltanti, per valutare la moralità professionale dell’operatore economico interessato all’aggiudicazione dell’appalto, devono prendere in considerazione i reati compiuti all’interno di tutti gli Stati membri. Tale interpretazione appare conforme alla logica di allargamento dei mercati in vista dell’unificazione delle economie europee poiché in tale contesto il corretto funzionamento del settore degli appalti pubblici necessita che la moralità professionale degli operatori economici venga valutata tenendo conto dei reati compiuti in qualsiasi Stato membro dell’Unione. 3.2 Il secondo motivo deve a sua volta essere respinto. Il Collegio ben conosce il principio in base al quale, ai fini dell’esclusione di un’impresa dalla gara per un pubblico appalto, non è sufficiente il mero richiamo al reato compiuto, ma occorre una valutazione discrezionale della stazione appaltante in merito alla sua qualità ed alla reale incidenza sull’esecuzione del contratto da aggiudicare. Nei provvedimenti impugnati tale valutazione è presente poiché nell’ambito dello scrutinio di un reato che, va ricordato, assume una incidenza diretta sull’esecuzione del contratto in questione, trattandosi di un incidente in cantiere avvenuto per violazione di norme destinate a prevenire gli infortuni sul lavoro, la stazione appaltante ha considerato che quello compiuto fosse “grave” poiché gravi sono state le lesioni che ne sono conseguite, consistenti nell’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per oltre quaranta giorni, con una valutazione immune da palesi difetti logici. 3.3 La reiezione dei primi due motivi porta conseguentemente a valutare legittima l’annotazione dell’esclusione sul casellario infor- matico compiuta dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. 4. In conclusione, i ricorsi in esame devono essere respinti. La novità delle questioni affrontate giustifica l'integrale compensazione delle spese processuali tra le parti. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Sez. I, riuniti i ricorsi in epigrafe li respinge. IL COMMENTO E' legittimo il provvedimento di esclusione di un'impresa da una gara di appalto motivato facendo riferimento al fatto che l'amministratore delegato e direttore tecnico dell'impresa stessa ha subito una condanna ex art. 590, terzo comma, c.p. per violazione delle norme destinate a prevenire gli infortuni sul lavoro e tale condanna sia stata considerata rilevante per l'affidabilità morale e professionale dell'impresa, trattandosi di un incidente in cantiere avvenuto per violazione di norme destinate a prevenire gli infortuni sul lavoro. 10