Visti dagli altri
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Visti dagli altri Le donne nigeriane schiave in Italia James Politi e Maggie Fick, Financial Times, Regno Unito. Foto di Charlie Bibby L’ appartamento, in un edificio di cemento grigio ai margini di una cittadina italiana di collina, è volutamente anonimo e arredato con mobili dell’Ikea ricevuti in regalo. Dora è appollaiata su una poltrona e ha la voce rotta dall’emozione mentre racconta come è arrivata in questa casa rifugio per chi ha subìto violenze. A gennaio del 2015, in Nigeria, ha fatto un giuramento dopo il quale è stata fatta entrare illegalmente in Europa come una schiava costretta a prostituirsi. “Pensavo che quando sarei arrivata qui mi avrebbero cercato un lavoro, non sapevo che si trattasse di prostituzione”, racconta. Dora ha 19 anni e aveva sperato di fuggire alla povertà della periferia di Benin City, la città in cui è nata. Si è indebitata per 30mila euro, in cambio del trasferimento in Italia e di un lavoro, con quella che si sarebbe poi rivelata un’organizzazione criminale. L’accordo – incoraggiato dalla sua famiglia – è stato stipulato durante una cerimonia religiosa traumatizzante. Un sacerdote juju l’ha costretta a bere una bevanda alcolica corretta con noce di cola, l’ha spogliata quasi completamente e poi le ha dato della biancheria intima, dicendole di obbedire a tutti gli ordini che avrebbe ricevuto. “Mi ha detto che se non avessi saldato il debito la maledizione mi avrebbe ucciso”, racconta la ragazza. Minuta, occhi scuri, Dora – un nome di fantasia per motivi di sicurezza – indossa un giubbotto di pelle chiara, jeans e sandali. Nel corso dell’intervista si mordicchia le unghie e giocherella con le sue lunghe trecce, forse un segno dell’ansia che ancora si porta dentro. Quella cerimonia juju era solo l’inizio 30 Internazionale 1136 | 15 gennaio 2016 di un viaggio di più di 3.700 chilometri durato cinque mesi, durante il quale ha attraversato l’Africa a bordo di pulmini, motociclette e jeep, fino alla Libia. Dora è una degli oltre 160mila migranti che nei primi undici mesi del 2015 hanno compiuto la pericolosa traversata in barca fino alla Sicilia. Tra loro c’erano molte ragazze destinate alla prostituzione. Sono passati ormai trent’anni da quando le prime prostitute nigeriane sono apparse di notte sulle strade italiane. Nel 2015 però il mercato del sesso tra Italia e Nigeria ha vissuto un nuovo boom. Su oltre un milione di migranti arrivato nel 2015 in Europa dopo aver attraversato il Mediterraneo, un quinto è approdato in Italia. Tra questi, c’erano circa cinquemila donne nigeriane, il quadruplo rispetto all’anno scorso. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) afferma che più della metà sono state portate qui per fare le prostitute. “In passato non abbiamo mai avuto cifre simili”, afferma Simona Moscarelli, avvocata dell’Oim. “La Libia è diventata uno snodo logistico e la condizione di schiavitù a cui sono costretti i migranti è andata peggiorando”. Le più vulnerabili Secondo gli operatori umanitari, anche il profilo delle immigrate nigeriane sta cambiando: sono molto giovani – spesso hanno un’età inferiore a quella in cui di solito si hanno rapporti sessuali consensuali – e sono reclutate negli ambienti rurali, più poveri e meno istruiti della società. “Queste vittime adolescenti sono facilmente manipolabili e sono attratte da cose superficiali”, afferma Moscarelli. In passato i trafficanti procuravano alle donne nigeriane documenti falsi e le facevano arrivare in Europa in maniera meno rischiosa: in aereo, da Lagos fino a Roma o a Londra. Secondo gli esperti del traffico di esseri umani, su entrambi i versanti i funzionari dell’immigrazione chiudevano un occhio. Ma la guerra civile e il caos che si è FINANCIAL TIMES Tra il 2014 e il 2015 il numero di ragazze arrivate in Italia dalla Nigeria è quadruplicato. Quasi tutte sono minacciate e costrette a prostituirsi creato in Libia hanno aperto un nuovo tragitto via terra e via mare molto più economico: non servono i passaporti falsi perché in molte frontiere i controlli non sono rigidi, e non c’è bisogno di acquistare i biglietti aerei. Ma è un tragitto estremamente pericoloso. Molte donne sono morte e molte altre hanno rischiato di morire. Dora è una di quelle che ha seguito que- Dora, 19 anni, ha dato 30mila euro ai trafficanti per arrivare da Benin City. Ora vive in Italia in una casa rifugio per vittime di abusi sto nuovo tragitto. Durante il viaggio ha rischiato di morire di fame nel deserto e le hanno rubato tutti i soldi. “Più di una volta hanno cercato di violentarci”, racconta. A Tripoli, la capitale libica distrutta dalla guerra, ha abitato da un nigeriano che spesso si ubriacava e diventava violento. Una sera l’ha presa a calci nello stomaco e l’ha spinta per terra. “Mi ha picchiata con una cintura, come una capra”, racconta. “Diceva che non ci stavamo comportando come si deve, e che non dovevamo pensare di poterci comportare così con i nostri clienti in Italia”. Dora ricorda di aver chiesto: “Come sarebbe a dire clienti?”, e di essersi sentita rispondere: “Non sapete che una volta in Italia farete le prostitute?”. Qualche settimana più tardi è partita via mare da una spiaggia della città costiera di Sabratah verso le coste europee, su un gommone sovraffollato che ha rischiato di capovolgersi. “Quando ho visto il gommone mi sono messa a tremare e ho pregato”. Le nigeriane entrate illegalmente in Europa per contribuire al mercato del sesso non sono come i profughi scappati dai campi di battaglia di Siria, Afghanistan e Iraq. E non sono in fuga da regimi repressivi come quello eritreo. Anche se non scappano da una guerra o da una dittatura, fuggono da qualcos’altro: l’impossibilità di avere un futuro nel luogo dove sono nate, dove solo un’élite ha beneficiato della ricchezza proveniente dalle esportazioni petrolifere. Secondo Myria Vassiliadou, coordinatrice antitratta dell’Unione europea, le nigeriane in Italia sono tra le vittime “più vulnerabili” di questa moderna forma di schiavitù. Vassiliadou teme che le loro sofferenze “diventino invisibili” nell’attuale dibattito sulla migrazione e nell’afflusso di tutti quelli che arrivano in Europa in questo momento. E aggiunge: “La natura del reato spinge queste persone a rimanere nascoste”. Il traffico di esseri umani è in crescita in molti paesi, e aumenta di pari passo con la modernizzazione delle reti criminali e la loro capacità di adattarsi a un contesto in cui masse di persone vulnerabili sono in movimento. Secondo le Nazioni Unite, lo sfruttamento dei migranti – che sia per lavoro forzato, adozione o commercio degli organi – avviene in tutti i continenti e utilizza più di cinquecento percorsi. L’Organizzazione internazionale del lavoro ritiene che in tutto il mondo ci siano 21 milioni di vittime del lavoro forzato, e tra queste 4,5 milioni sono sottoposte allo sfruttamento sessuale. Come dimostra la storia di Dora, nei paesi ricchi e industrializzati, compresi quelli dell’Unione europea, c’è un mercato che sfrutta queste vittime. In Italia, il problema è particolarmente grave: è il paese dove ci sono più casi di sfruttamento tra i 28 dell’Unione, a causa della combinazione tra posizione geografica nel Mediterraneo meridionale, potere della criminalità organizzata locale nelle regioni povere, in cui lo stato è debole, e forte domanda di servizi sessuali. Saldare il debito La città di Cuneo, in Piemonte, è nota per le sue vallate lussureggianti, i tartufi bianchi e i vini rossi corposi. Niente di tutto questo, però, ha mai sfiorato Rose, una prostituta nigeriana di 22 anni che in una rigida mattina di un lunedì di metà novembre aspettava i clienti in una stazione di servizio. È arrivata in Italia nel 2013 e non vuole dire quanti soldi deve ancora ai trafficanti, né per quanto tempo ancora dovrà fare la prostituta. Secondo un rapporto di Save the children pubblicato ad agosto, una prostituta nigeriana ci mette fra i tre e i sette anni a saldare i suoi debiti, spesso lavorando ogni notte, e a volte anche di giorno. “Inoltre è costretta a pagarsi le bollette di casa e perfino ‘l’affitto’ del pezzo di marciapiede che usa”, dichiara Save the children. Le lavoratrici del sesso ricevono 20 euro per ogni prestazione e spesso sono picchiate dalle loro sfruttatrici se al ritorno non portano abbastanza soldi. Se restano incinte, spesso sono costrette ad abortire in condizioni rischiose. “Credo di essere nata nel posto sbagliato”, dice Rose parlando della Nigeria. “Forse Dio mi aiuterà presto”. Una notte un gruppo di volontari cattolici dell’Associazione papa Giovanni XXIII offre a lei e alle altre prostitute della zona tè freddo e cornetti. Cercano di convincere Rose a scappare dai trafficanti e andare in una delle loro case rifugio. Rose, che ha un figlio di sette anni in Nigeria, rifiuta. “Cambiare è pericoloso”, dice. “Devo pagare i miei debiti e prendermi cura di me stessa e della mia famiglia”. L’associazione ha ottenuto alcuni successi. All’inizio dell’anno i volontari sono riusciti a intercettare Mary, una ragazza di tredici anni arrivata in Italia ad agosto del 2015. Era stata venduta ai trafficanti da suo fratello, che l’aveva sottoposta a un tipico Internazionale 1136 | 15 gennaio 2016 31 Visti dagli altri rituale juju durante il quale avevano versato il suo sangue e le avevano strappato alcuni peli pubici. Durante il viaggio è stata stuprata e costretta a prostituirsi per due mesi in Libia prima di fare un viaggio di sette giorni nel Mediterraneo, diretta in Italia. Mary è crollata alle tre del mattino davanti alla stazione ferroviaria di Cuneo, alla sua seconda notte di lavoro. È stata soccorsa e portata in ospedale. Katiuscia Vitaggio, che da anni aiuta le vittime nigeriane in Italia, l’ha vista lì. “Le condizioni in cui l’ho trovata erano orribili. Erano le nove del mattino e faceva un caldo soffocante. Questa ragazzina era su una barella nell’angolo di una stanza buia, nascosta sotto una pesante coperta di lana”, racconta. Oggi Mary è in un luogo sicuro in attesa di essere affidata a una famiglia adottiva. Quando l’ho incontrata nell’ufficio della casa famiglia, teneva la testa bassa ed evitava il contatto visivo. Più tardi a cena ha sorriso, ma ha risposto con poche parole a qualche domanda: per esempio se suo padre sapeva cosa la attendeva qui. Ha detto “no” e poi ha chiesto il permesso di lasciare la stanza. “La sua è una tragedia. Come può una madre abbandonare sua figlia e come può un fratello vendere la sorella di dodici anni?”, osserva Vitaggio. Dora, Rose e Mary non vengono da un posto qualsiasi, ma da Benin City, a circa seimila chilometri di distanza da Roma. La città della Nigeria meridionale è diventata poco alla volta uno dei principali snodi del traffico di esseri umani nel continente africano. A Benin City, un milione di abitanti, quasi tutti conoscono qualcuno che è andato in Europa “in cerca di opportunità lavorative”, un’espressione che spesso allude a un futuro pericoloso nella prostituzione. A quanto si dice, il ruolo sproporzionato che la città ha nell’industria illegale del sesso in Europa affonda le sue radici nella coltivazione di pomodori. Negli anni ottanta gli uomini di Benin City che lavoravano nelle aziende agricole italiane scoprirono che potevano “arrotondare lo stipendio” quando si resero conto che ad alcuni abitanti del posto piacevano le donne nigeriane, che a volte accompagnavano i lavoratori. “Gli uomini tornavano dall’Italia e prendevano una fidanzata, delle amiche o perfino le sorelle per portarle qui”, racconta suor Bibiana Emenaha, 57 anni. “Era un modo efficace per guadagnare soldi. Penso che sia questo il motivo per cui il fenomeno è dila- 32 Internazionale 1136 | 15 gennaio 2016 gato”. Spesso era richiesta la complicità dei familiari. “Una madre vende la figlia, e altri componenti della famiglia vendono le sorelle o le cugine perché non ci vedono niente di male. Per loro è un modo di aiutarle a raggiungere l’Italia. È così che la prostituzione è arrivata qui”. La suora è stata mandata a Benin City all’inizio del 2015 dal suo ordine cattolico, le Figlie della carità di san Vincenzo de’ Paoli. Ha il compito di gestire una casa rifugio per le donne vittime di tratta che sono tornate in Nigeria e stanno cominciando un percorso di transizione che le riporti a qualcosa di simile alle loro vite passate. “È una rete molto forte e prima di poter reagire e combatterla devi riuscire a mettere in campo un’altra rete, ancora più forte”, spiega suor Bibiana. “Gli esseri umani non dovrebbero trarre profitto dalle prestazioni sessuali, perché siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio, perciò la nostra dignità conta molto di più”. Tenuto conto delle condizioni di vita a Benin City, è facile convincere le ragazze e le donne che ci abitano a mettere a repentaglio la propria dignità. I bambini vanno a scuola e saltellano su strade piene di solchi lasciati dalla pioggia dopo una giornata in una classe sovraffollata. Una volta cresciuti, la maggior parte di loro si fermerà davanti allo stesso ostacolo: la famiglia non può Da sapere Le tappe del viaggio di Dora permettersi di pagare le rette scolastiche per arrivare fino al diploma. Gli adolescenti sono spesso costretti a lavorare con i genitori fuori città nei campi di patate dolci. I più fortunati trovano qualche lavoro part time nel negozio di abiti o nel bar di un parente. La vita nel mondo ricco Se c’è una cosa che hanno di solito i ragazzi e le ragazze di Benin City è il tempo. Tempo per starsene seduti su una sedia di plastica davanti al salone da parrucchiera di un’amica o per bighellonare nell’atrio di un centro commerciale. Ma anche per guardare video musicali che mostrano uno scintillante mondo occidentale lontano dal loro e desiderare una vita lì. Con la tv satellitare e gli smartphone è facile formarsi l’immagine di una vita affascinante in Europa, racconta Roland Nwoha, che gestisce Idia Renaissance, un ente benefico locale a sostegno delle vittime della tratta. “Lì vedono dei cambiamenti che qui non avvengono”. Benin City sarà anche uno snodo importante della tratta di donne tra Europa e Africa, ma i problemi che ci sono qui sono diffusi in tutta la Nigeria. Il paese è pieno di risorse e viene spesso definito ricco di potenzialità, che non sono sfruttate per varie ragioni, compresa la corruzione. È un umido pomeriggio di novembre e nel pieno di un ingorgo suor Bibiana inveisce contro il governo per le pessime condizioni dei servizi di base nella città. Un disprezzo particolare è però indirizzato ai trafficanti. “Traggono profitto dall’ignoranza e dalla povertà della gente”, dice. Irene, che oggi è tornata a Benin City, era una delle donne portate in Italia in aereo quando il traffico cominciò a svilupparsi, più di dieci anni fa. Figlia di agricoltori, all’epoca appena ventenne, fu avvicinata da un amico di famiglia che raccontava di avere una sorella “laggiù” e di poterle organizzare il viaggio per un costo non precisato. Irene aveva da tempo lasciato la scuola e non aveva prospettive lavorative. Immaginava di poter aiutare la famiglia andando a lavorare all’estero. L’amico le disse: “Quella è la terra dell’uomo bianco, è meglio della Nigeria”, ricorda lei. Dopo un lungo volo e pochi mesi, Irene lavorava nelle strade di Brescia. La “sorella” del trafficante in realtà era una tenutaria che sfruttava Irene e altre quattro donne tenute in ostaggio in un appartamento. Dal giorno del suo arrivo e ogni notte dell’anno FINANCIAL TIMES Grace, 22 anni, ha fatto la prostituta a Napoli e ora è ritornata in Nigeria. Vuole aiutare le altre ragazze a evitare di finire sulla strada successivo Irene è stata costretta “ad andare sulla strada principale”, un’espressione nigeriana che indica la prostituzione. “Gli uomini sono davvero stupidi”, dice Irene nel rifugio gestito da suor Bibiana. “Hanno una donna adorabile a casa e vengono comunque per strada a cercare una ragazza. Sono pazzi. Alcuni hanno una fidanzata. Un disastro. Gli piace tradire”. Irene dava ogni giorno i soldi alla sua sfruttatrice e poteva tenere solo piccole somme per acquisti che dovevano essere approvati, come creme per la pelle o pro- dotti per i capelli. Non le è mai stato detto quanti soldi avrebbe dovuto pagare in tutto per saldare il suo debito e non riusciva a mandare soldi a casa. “Sei solo una schiava, non puoi muoverti, non puoi nemmeno fare una telefonata”, racconta lei. La sfruttatrice, che viveva con il marito italiano e il loro figlio in un appartamento vicino, passava spesso in auto di notte per controllare che le ragazze fossero sulla strada a lavorare. Irene è scappata durante una retata della polizia nell’appartamento in cui viveva. Si era fatta molto male alla schiena ed è stata portata alla Caritas, dove ha trascorso qualche mese di convalescenza. È tornata a Benin City solo dieci anni dopo, e nel frattempo ha avuto quattro figli con un nigeriano che non riusciva a mantenerla con i pochi soldi che guadagnava lavorando nei campi. Oggi Irene ha 36 anni, e comincia a piangere quando parla del padre dei suoi figli che l’ha abbandonata: “Quando sporchi tutto quanto, non vali più niente, sei persa. Quando trovi un uomo serio e lui vede il modo in cui il tuo corpo è stato sporcato, è doloroso”. In teoria non dovrebbe essere difficile per una schiava sessuale nigeriana sfuggire ai trafficanti una volta arrivata in Europa. Da quando arrivano al primo porto italiano fino ai lunghi giorni e alle lunghe notti sulla strada, spesso sono avvicinate da operatori umanitari che cercano di convincerle a scappare, e da poliziotti che controllano i loro documenti. In alcuni casi sono i clienti pentiti che provano ad aiutarle a scappare. Eppure è rarissimo che una donna nigeriana denunci i trafficanti, anche per questo è così difficile rompere questa rete. I giuramenti juju come quelli fatti da Dora e Mary, esercitano un’enorme pressione psicologica su queste donne. “Hanno un grande potere su di loro e per un europeo non è facile dire ‘non ci devi credere’”, afferma Elisa Massariolo, una consulente del comune di Venezia che lavora con le vittime della tratta. La presenza e l’attenzione della sfruttatrice, una figura chiave nella rete criminale del traffico, è un ulteriore ostacolo. È lei a raccogliere i soldi e a controllare le azioni quotidiane delle vittime. “Le terrorizza e le minaccia”, spiega un operatore di Save the children che ha a che fare ogni giorno con prostitute nigeriane a Roma. Più in generale, le vittime sono in balia delle gang nigeriane, diventate negli anni sempre più spietate e sofisticate. Alcuni pubblici ministeri italiani hanno fatto risalire le loro radici ai gruppi criminali provenienti dalle confraternite delle università nigeriane, in conflitto tra loro dagli anni settanta. Un rapporto del 2014 dell’Ufficio Internazionale 1136 | 15 gennaio 2016 33 Visti dagli altri delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc) svela come due di questi gruppi – Eiye e Aye – siano attivi in Italia almeno dal 2008 e li descrive come molto organizzati e coinvolti nel traffico di prostitute e di droga. Gli arresti In Italia i trafficanti ricevono anche sostegno sul posto. Secondo Maria Grazia Giammarinaro, una giudice siciliana a Roma con l’incarico di relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla tratta degli esseri umani, per svilupparsi così tanto la criminalità nigeriana ha dovuto necessariamente godere di “un certo livello di consenso” da parte del crimine organizzato in Italia. “Si è creata una sorta di divisione del lavoro. Le nostre mafie tradizionali non hanno una grande vocazione nello sfruttamento della prostituzione. Cosa nostra non l’ha mai fatto perché va contro i suoi codici tradizionali, che puntano a tenere insieme le famiglie. Questo non significa che non possa ricavare dei soldi consentendo ad altri di farlo”. Da alcuni segnali sembrerebbe che l’Italia stia cominciando ad affrontare il problema. Tra ottobre e novembre del 2015 la polizia italiana ha arrestato almeno otto nigeriani in due retate a Milano e Bari, tra cui una presunta sfruttatrice. Sono stati accusati di traffico di esseri umani, favoreggiamento della prostituzione e dell’immigrazione clandestina. A metà novembre poi, le autorità di Barcellona hanno arrestato 21 nigeriani – comprese sei donne – per sfruttamento sessuale. Secondo l’Oim, questo dimostra che il traffico si sta diffondendo oltre l’Italia, soprattutto in Francia, Germania, Spagna e Austria. Secondo la National crime agency, nel Regno Unito, tra le vittime della tratta di donne il gruppo delle nigeriane è il più numeroso dopo quello delle albanesi. Da quando in Nigeria nel 2003 è stata istituita l’agenzia per combattere il traffico di esseri umani sono stati arrestati più di cento trafficanti. Secondo le vittime, però, l’agenzia non arresta i responsabili del traffico in Nigeria: i sacerdoti juju. Per le nigeriane che riescono a scappare dalla prostituzione, il recupero può essere molto difficile. La legge italiana offre protezione immediata – e un permesso di soggiorno – alle vittime di traffico che denuncino i componenti dell’organizzazione. Vengono portate in case rifugio dove per un periodo di tempo non hanno il permesso di 34 Internazionale 1136 | 15 gennaio 2016 Dora trascorre le sue giornate cercando il coraggio di uscire, ma teme che la gang nigeriana che l’ha portata qui torni a darle la caccia vuole impedire che altre giovani donne di Benin City subiscano lo stesso destino. “Gli dico che laggiù non c’è alcuna possibilità. Ma loro vogliono andare a vedere di persona”, racconta. È preoccupata soprattutto per le ragazze che scelgono di fare il viaggio attraverso la Libia. “C’è un modo per fermarle?”, si chiede ad alta voce. “Rischiano la vita per niente”. Grace ha lasciato l’Italia sette mesi fa. “Ora almeno sono me stessa. Quando vivevo lì, non lo ero. Non mi sentivo bene a fare una cosa che non mi piaceva, a vedermi imposto uno stile di vita che non era il mio. Lì vivevo la vita di un’altra, non la mia”. Imparare l’italiano usare i social network o il telefono, tranne che per contattare i familiari. L’obiettivo è che nel giro di due anni imparino l’italiano, si integrino nella società e trovino un lavoro. Massariolo racconta di alcune donne che parlavano inglese e hanno trovato lavoro negli alberghi, ma sempre più spesso le vittime nigeriane sono analfabete e questo rende molto difficile l’integrazione, soprattutto se alla mancata istruzione si aggiunge la xenofobia. “Non posso fare a meno di notare come in Italia l’atteggiamento nei confronti degli stranieri non sia molto positivo, anche quando hanno ottime competenze”, osserva. “Non le assumono nei ristoranti neanche se restano confinate in cucina. Non le vogliono, ed è davvero dura”. Di fronte a queste difficoltà, alcune di loro si arrendono e tornano a lavorare per strada, in balia dei trafficanti. Altre tornano in Nigeria, se possono farlo senza correre rischi. Secondo l’Oim, nel 2015 circa 240 donne sono tornate in Nigeria aderendo al programma di ritorno e reinserimento volontario assistito. Grace, 22 anni, che ha fatto per tre settimane la prostituta a Napoli, è tra quelle che sono tornate. Oggi vive con la sua famiglia, e fa lo stesso lavoro che faceva prima di andare in Europa. Vuole avviare una sartoria tutta sua per potersi mantenere, e alla fine, spera, sposarsi e “sistemarsi”. Indossa un giubbotto di jeans slavato senza maniche pieno di strass, e ci racconta a bassa voce dei suoi giorni sulla strada, quando ogni notte andava a letto con un numero variabile tra i due e i dieci clienti. Una volta si è perfino vista puntare contro una pistola da un uomo che l’ha costretta a uscire dall’auto dopo aver fatto sesso senza pagarla. Oggi Dora, dal canto suo, ha cominciato a pensare alla fuga nel momento stesso in cui ha capito di essere destinata alla prostituzione. La sua determinazione si è fatta ancora più forte quando ha raccontato a un ragazzo che aveva conosciuto a Sabratah che la sua protettrice non era riuscita a mandarle i soldi per comprarsi da mangiare. “Mi ha detto che se fosse stato al mio posto sarebbe scappato, perché la tenutaria si stava comportando già malissimo con me”, racconta. Quel ragazzo le ha spiegato anche che il suo debito di 30mila euro con i trafficanti era l’equivalente di sei milioni di naira nigeriani – almeno il doppio rispetto a quello che aveva immaginato. “Pensavo fosse un milione o due, e lui mi dice: ‘Sai quanto dovrai pagare? Sei milioni’. L’ho guardato a bocca aperta, così”, dice, fingendo di trasalire. La fortuna ha risparmiato a Dora il destino riservato a molte migliaia di vittime del traffico una volta arrivate in Sicilia. È svenuta al porto ed è stata ricoverata per undici giorni in ospedale, dove le sono state fatte delle flebo. Quando è stata dimessa il gruppo di nigeriani con cui aveva viaggiato era già partito e lei ha potuto raccontare la sua storia alla polizia e ai funzionari dell’Oim. “Non dimenticherò mai i suoi occhi”, dice uno di loro, “era evidente che stava implorando di essere aiutata”. Dora trascorre le sue giornate cercando il coraggio di uscire ed esplorare il suo nuovo quartiere, nonostante il timore che la gang nigeriana che l’ha portata qui illegalmente torni a darle la caccia. Sta cominciando a imparare l’italiano e sogna di diventare un’attrice. Per il momento è felice di essere libera. “Il mio dio”, dice, “è più grande del juju”. X gim