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RASSEGNA STAMPA
venerdì 30 ottobre 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
DIRITTI CIVILI E LAICITA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
CULTURA E SPETTACOLO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Huffington Post del 29/10/15
Francesca Chiavacci
Presidente nazionale Arci
I farisei, la principessa e il drago
Nel film "Comizi d'amore" che Pier Paolo Pasolini girò nel 1963, interrogando gli italiani sul
loro rapporto con il sesso e la trasgressione possibile, Alberto Moravia dice:
"Le cose che si conoscono non scandalizzano, gli uomini di profondo spirito religioso
non si scandalizzano mai. Insomma, non credo che Cristo si scandalizzasse mai, anzi non
si è mai scandalizzato. Si scandalizzavano i farisei."
Ecco, in questi nostri tempi registriamo purtroppo un nuovo frenetico attivismo di un pezzo
della società italiana contrario a una decisa lotta alle discriminazioni e più in generale
schierato combattivamente, come dimostra l'opposizione ad una legge sulle unioni civili,
contro il riconoscimento dei diritti. Qualche mese fa il Sindaco di Venezia ha "messo
all'indice", bandendoli dalle scuole, 49 libri in cui comparivano coppie dello stesso sesso.
Ieri due fatti. Il Consiglio regionale della Liguria che vota due mozioni contro la cosiddetta
teoria gender e la notizia di due genitori che a Massa Carrara hanno deciso di mandare la
propria figlia in una scuola paritaria dopo aver appreso che nell'asilo frequentato dalla
propria bambina si svolgevano letture contro gli stereotipi di genere: la storia di una
principessa che si salva da sola dal drago malvagio perché non ha bisogno di un principe
che la aiuti e quella di un bambino a cui i genitori danno solo giochi "da maschi" mentre lui
vorrebbe giocare con le bambole. La ministra Giannini è intervenuta per ribadire che nella
scuola italiana non si diffondono testi che si fondano sulla teoria del gender. Il
comportamento di questi genitori di Massa Carrara sembra proprio il risultato della
frenesia di questo attivismo che genera strumentalmente confusione e mistificazione. I
testi incriminati non sono assolutamente espressione di quella presunta teoria
continuamente brandita come arma spuntata da gruppi e sigle, magari di destra, che non
vogliono arrendersi ai cambiamenti del nostro Paese. Si tratta invece di fiabe sulla
cittadinanza di genere per insegnare ai bambini a rispettare e non discriminare gli
orientamenti sessuali delle persone.
Questi desideri censori di fiabe e questo attivismo dai tratti fortemente oscurantisti sono
pericolosi e vanno contrastati, a cominciare dall'affermazione della verità dimostrando che
non c'è nulla di cui aver paura e per cui mentire. Ma soprattutto, quando si prendono di
mira i libri e la lettura si corre sempre una grande pericolo, e quando a questo si aggiunge
la menzogna il rischio è ancora più grosso.
Nelle prossime settimane ci impegneremo a diffondere e a organizzare letture pubbliche di
questi testi in tante città d'Italia per difendere i valori della laicità e della libertà.
http://www.huffingtonpost.it/francesca-chiavacci/i-farisei-la-principessa-e-ildrago_b_8419950.html?utm_hp_ref=italy
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Da Ansa del 29/10/15
Ansa, CRONACA, UNIONI CIVILI:
ARCI,RIAFFERMARE VALORI LAICITÀ E
LIBERTÀ.
(Non è stato possibile recuperare il testo dell’agenzia)
Da Job News.it del 29/10/15
Unioni civili. Guerra nel governo: Orlando per
il ddl Cirinnà e le adozioni, Alfano
oscurantista lo blocca. L’Arci contro la
diffusa cultura della discriminazione propone
letture pubbliche
Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, in un’interista concessa al quotidiano
Repubblica aveva in qualche modo anticipato la sua posizione favorevole non solo al
decreto Cirinnà e alla sua approvazione celere, ma anche alla cosiddetta stepchild
adoption, l’adozione dei figli del partner in una coppia omosessuale. “Al più presto la legge
sulle unioni civili, e personalmente sono favorevole alle adozioni”, aveva tuonato il ministro
Orlando. Ed aggiunge: “Ci si accapiglia sui massimi sistemi, si provano a fare anche
campagne di propaganda, ma si tralascia di dire che l’Italia ha un obbligo giuridico a
intervenire su questo tema sulla base di una sentenza della Corte di Strasburgo del 21
luglio 2015″. E sulle adozioni, conclude che trova “paradossale l’idea che dopo la morte
del genitore naturale quel bambino torni a una comunità piuttosto che vivere con la
persona con cui è cresciuto”. Una posizione di buon senso, quella espressa dal ministro
della Giustizia Andrea Orlando.
La replica oscurantista del ministro Alfano. Ricorda il Fanfani del referendum contro il
divorzio
A distanza di poche ore, ecco che dalla tribuna della Fondazione De Gasperi (ma perché
l’ha scelta per sostenere proclami ideologici? Il buon Alcide, che mai ha piegato le ragioni
dello Stato agli interessi del Vaticano, siamo certi, si è rivoltato nella sua tomba), il ministro
dell’Interno, Angelino Alfano, è entrato a gamba tesa contro il ministro Orlando: “Siamo
conservatori nei valori e innovatori nei programmi. Non è uno slogan ma l’indice di un
radicamento forte nei valori culturali del nostro Paese, nella convinzione che il suo futuro
debba partire da essi per avere successo. Non ci rassegniamo all’idea che parlare di
famiglia e di valori venga considerato vintage”. Ora, cosa significa questo se non
l’affermazione di un cedimento dello Stato, incarnato dal ministro dell’Interno, al dettato
oscurantista e anticostituzionale di certe ideologie ipocrite e antimoderne? Alfano è più
vicino al Fanfani che propose il referendum contro il divorzio (ricordate lo slogan centrato
sul valore della famiglia?) piuttosto che al suo dovere di garantire la laicità dello stato e i
diritti inalienabili di cittadinanza. Possibile che per far piacere a certi segmenti conservatori
del Vaticano, un ministro debba svendere la Costituzione e non osservare la sentenza di
una Corte europea dei diritti? Siamo sbalorditi dal silenzio assordante del premier, sempre
così presente quando si tratta di affermare il suo enorme e straripante ego, ma altrove
quando però si tratta di affrontare i diritti delle persone e l’osservanza del dettato
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costituzionale. L’ineffabile ministro Alfano ha poi aggiunto, pensate un po’, che “la famiglia
va difesa e protetta”. È la stessa tesi di certi vescovi: con le unioni civili si mette a rischio la
famiglia. Perché? Nessuno lo ha chiesto, al ministro, il quale anzi ha voluto ricordare che
“la famiglia è quella composta da un uomo e da una donna”. Un governo che come
ministro dell’Interno ha un signore, ex berlusconiano e un passato nella destra
democristiana di Agrigento, che fa queste affermazioni è o no un problema per il Partito
democratico? Dove sono i solerti parlamentari renziani, sempre pronti a emettere
sentenze via comunicati stampa contro la sinistra? Perché, naturalmente, Alfano si è
anche permesso di dire che “sul tema delle adozioni sono totalmente in disaccordo con il
ministro Orlando”. E infine, ecco l’Alfano psicologo dell’età evolutiva: “ogni bambino deve
avere una mamma ed un papà e con i bambini non si scherza. Altra cosa sono i diritti
patrimoniali”. Incredibile. Non aggiungiamo altro.
L’amarezza dell’Arci, che denuncia l’attivismo della cultura oltranzista, e propone letture
pubbliche per diffondere laicità e libertà
Francesca Chiavacci, presidente nazionale dell’Arci scrive in una nota molto amara ma
estremamente significativa per il pericolo che coglie: “È con preoccupazione che
dobbiamo prendere atto di un nuovo, frenetico attivismo di una parte della società italiana
contraria a una decisa lotta alle discriminazioni e più in generale contraria al
riconoscimento dei diritti, come dimostra l’opposizione a una legge sulle unioni civili, la cui
discussione e approvazione in Parlamento viene rinviata di mese in mese”. L’Arci, lo
ricordiamo, è una grande associazione culturale che conta centinaia di migliaia di iscritti.
La presidente Chiavacci passa in rassegna gli episodi che secondo lei sono sintomatici di
una cultura della discriminazione che sta espandendosi ovunque in Italia: dal ritiro dei libri
nelle scuole di Venezia, al curioso voto in Consiglio regionale della Liguria contro la teoria
gender, fino alla vicenda di Massa dove due genitori hanno contestato alla scuola pubblica
della loro figlia di farle leggere fiabe contro gli stereotipi di genere. E accusa “la ministra
Giannini, intervenuta per rassicurare che nella scuola italiana non si usano testi che si
fondono sulla teoria del gender”. Si tratta, conclude con amarezza e allarme la presidente
nazionale dell’Arci di “un attivismo della parte più retriva della società e della politica, che
crea strumentalmente confusione e mistificazione, un clima oscurantista che va
contrastato, innanzitutto con l’affermazione della verità, dimostrando che non c’è nulla di
cui aver paura. Ma soprattutto, quando si prendono di mira i libri e la lettura, e a questo si
aggiunge la menzogna, il rischio – conclude – è davvero grande. Nelle prossime settimane
ci impegneremo a organizzare letture pubbliche di questi testi in tante città d’Italia per
difendere i valori della laicità e della libertà”.
http://www.jobsnews.it/2015/10/unioni-civili-guerra-nel-governo-orlando-per-il-ddl-cirinnae-le-adozioni-alfano-oscurantista-lo-blocca-larci-contro-la-diffusa-cultura-delladiscriminazione-propone-letture-pubbliche/
Da il Fatto (ilfattoquotidiano.it) del
Legge di Stabilità, spariti i soldi promessi al
servizio civile. Arriva fondo per disabili
indigenti, solo spiccioli alle adozioni
Il premier Matteo Renzi aveva garantito 100 milioni in più per avviare
"100mila giovani" a questa esperienza, ma lo stanziamento resta
invariato a 115,7 milioni. Novanta milioni vanno all'intervento per il
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Dopo di noi e sono previsti sgravi per le fondazioni bancarie che
alimenteranno il fondo contro la povertà educativa
C’è il fondo per il sostegno alle persone disabili senza sostegno familiare, ma manca
l’aumento delle risorse per il servizio civile che era stato espressamente promesso dal
premier Matteo Renzi solo l’11 ottobre. Per le disastrate adozioni internazionali arriva solo
una mancia e alla cooperazione internazionale allo sviluppo sono destinati 120 milioni,
meno di quanto necessario secondo le ong. In compenso sono previste facilitazioni per
favorire la donazione di alimenti freschi alle onlus e un corposo credito di imposta sui
contributi che le fondazioni destineranno al nuovo fondo per il contrasto della povertà
educativa. Infine il fondo per le non autosufficienze viene incrementato di 150 milioni di
euro, portandolo a un totale di 400. Sono questi i principali interventi previsti dalla legge di
Stabilità per il terzo settore.
Enti servizio civile contro governo: “Renzi aveva promesso 100 milioni in più” – La
Conferenza nazionale enti servizio civile (Cnesc) è sul piede di guerra perché il governo
non ha mantenuto l’ennesimo impegno di incrementare di 100 milioni lo stanziamento di
115 previsto per il 2015. Il presidente del Consiglio, dagli studi di Che tempo che fa, aveva
detto di volere “che il prossimo anno siano 100.000 i giovani impegnati in servizio civile”.
Garantendo che nella manovra i fondi sarebbero stati aumentati di conseguenza. Invece la
cifra resta immutata: 115,7 milioni l’anno per il prossimo triennio. Del tutto insufficiente,
visto che per avviare al servizio 100mila persone pagando loro la diaria di 433 euro
servono oltre 400 milioni. Per di più la Corte costituzionale ha stabilito che anche i cittadini
stranieri hanno diritto a partecipare ai bandi. La Cnesc, a cui aderiscono tra gli altri Acli,
Arci, Caritas, Focsiv e Unitalsi, fa notare che “con questi fondi partiranno appena 20mila
giovani” e chiede al governo di “correggere” la scelta, sottolineando che “anche con 216
milioni ci sarebbe una diminuzione dei posti di servizio civile nel 2016 rispetto al 2015”. Ma
secondo le ong non bastano nemmeno i fondi stanziati per la cooperazione internazionale
allo sviluppo: 120 milioni per il 2016, 240 per il 2017 e 360 per il 2018.
Arriva il fondo per il Dopo di noi. Ma la proposta di legge prevedeva più soldi – Presso il
ministero dell’Economia viene creato un fondo da 90 milioni di euro per il finanziamento di
misure per il sostegno delle persone con disabilità grave, in particolare stato di indigenza e
prive di legami familiari di primo grado. Un’iniziativa ispirata dalla proposta di legge “Dopo
di noi” della deputata Pd Ileana Argentin, che prevedeva però lo stanziamento di 300
milioni. Per “sostenere le politiche in materia di adozioni internazionali e assicurare il
funzionamento della Commissione per le adozioni internazionali“, al centro delle
polemiche perché non si riunisce dallo scorso anno, nasce un altro fondo che sarà
alimentato con 15 milioni l’anno. Soldi che però arrivano da una corrispondenze riduzione
del fondo politiche per la famiglia.
Sgravi fiscali alle fondazioni che finanziano la lotta alla povertà educativa – L’articolo che
istituisce il fondo per la lotta a povertà ed esclusione sociale prevede poi anche risorse ad
hoc contro la povertà educativa, fenomeno che comprende la dispersione scolastica, le
basse competenze in matematica e lettura e la mancata frequentazione di musei e mostre:
un problema messo in evidenza da un recente rapporto di Save the children. Ed è per
“sostenere e potenziare” questo intervento che alle fondazioni bancarie che contribuiranno
ad alimentarlo con le loro erogazioni viene concesso un “contributo” sotto forma di credito
di imposta del 75% sui versamenti. Le fondazioni, per le quali la legge di Stabilità dello
scorso anno aveva al contrario previsto aggravi di tasse sui dividendi, potranno goderne
fino al raggiungimento di un tetto di 100 milioni di euro complessivi all’anno.
Meno burocrazia per chi regala cibo alle associazioni – Sul fronte della povertà alimentare,
un comma del titolo IV della manovra modifica la disciplina sulle cessioni di cibi deperibili:
associazioni, fondazioni ed enti pubblici non saranno più tenuti a presentare la
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dichiarazione sostitutiva di atto notorio con il dettaglio di “natura, quantità e qualità dei beni
ricevuti” agli uffici dell’amministrazione finanziaria e ai comandi della Guardia di finanza.
Un intervento che dovrebbe facilitare la vita degli enti di assistenza che gestiscono mense
per gli indigenti. Questo in attesa di una legge ad hoc sulla falsariga di quella francese che
ha creato il “reato di spreco”: in Parlamento sono già state depositate alcune proposte in
materia.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/10/29/legge-di-stabilita-spariti-i-soldi-promessi-alservizio-civile-arriva-fondo-per-disabili-indigenti-solo-spiccioli-alle-adozioni/2164540/
Da BrindisiLibera.it del 29/10/15
concluso ieri sera, al quartiere Tamburi (Ta), il
passaggio, in Puglia, della Carovana
Internazionale Antimafie
Il coordinatore Alessandro Cobianchi: “La traccia sulle periferie è stata
seguita alla perfezione”.
Dal 26 al 28 ottobre, ha attraversato la Puglia la Carovana Internazionale Antimafie 2015,
il percorso a tappe promosso da Cgil, Cisl, Uil, Libera, Arci e Avviso Pubblico, che si
propone di far crescere e costruire collettivo intorno ai temi della legalità e dell’antimafia
sociale. In Puglia il viaggio dei carovanieri ha toccato tutte le Province: il furgone è partito il
26 da Monte S.Angelo (Foggia), si è poi diretto verso Trani (Bat), quartiere Carbonara
(Bari), Mesagne (Brindisi), Calimera e Nardò (Lecce) e si è concluso a Taranto nel delicato
quartiere Tamburi.
“Periferie” è il tema scelto quest’anno per la Carovana Internazionale Antimafie,
declinando questa parola in ogni sua sfaccettatura, e attraverso iniziative differenti ognuna
per ogni provincia. Iniziative capaci anche, di far emergere esperienze di buone prassi e di
reti che sono in movimento per contrastare i fenomeni mafiosi e illegali, che vedono
proprio nelle terre di confine, i luoghi dove maggiore è l’insorgenza ed il dispiegarsi di
fenomeni di marginalità, sfruttamento, abbandono, criminalità, illegalità. La carovana si
pone l’obiettivo di portare solidarietà a quanti operano in prima fila per la legalità e la
democrazia, sostenendo azioni di sviluppo sociale, e contribuendo alla promozione di
progetti concreti d’intervento e di crescita sana nei territori.
“La traccia lanciata sulle periferie è stata seguita alla perfezione in Puglia – commenta
Alessandro Cobianchi, coordinatore nazionale della Carovana e referente regionale di
Libera – Sono stati toccati i luoghi simbolo, a partire dal quartiere Carbonara a Bari. Ma
non ci siamo fermati alla simbologia, perché durante il viaggio pugliese abbiamo cercato,
qui come altrove, di gettare le basi per continuare il lavoro”. I comuni nei quali i carovanieri
si sono fermati sono stati, e lo sono tutt’oggi, luoghi importanti di crescita dell’antimafia
sociale. “Penso a Nardò per le note vicende sul caporalato, o a Mesagne per la traccia
lasciata sui beni confiscati alla criminalità – aggiunge Alessandro Cobianchi – Ma penso
anche a Monte Sant’Angelo, dove la scorsa estate è stato sciolto il consiglio comunale per
mafia, o ancora a Calimera dove il sindaco è stato minacciato. Forte il messaggio che
arriva da Trani, un comune che nella precedente amministrazione, ha visto l’arresto del
sindaco: qui, oggi, è stata lanciata la proposta di aderire ad Avviso Pubblico. E sempre a
Trani siamo stati anche in carcere, periferia delle periferie, dove è nata l’idea di colorare
con dei murales la stanza adibita ai colloqui con i bambini. Infine Taranto che ha scelto il
quartiere Tamburi il più vicino alla zona industriale, che da anni combatte per risollevarsi
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dal degrado. Un ultimo dato politico: le organizzazioni che compongono la cabina di regia
regionale hanno ben collaborato tra di loro”.
Nella tappa di Carbonara è stato organizzato un contest fotografico. Libera Puglia ha
chiesto ai ragazzi che vivono nel quartiere di riconoscere i segni della periferia e del suo
riscatto possibile. La foto in allegato è la vincitrice del contest.
http://www.brindisilibera.it/2015/10/29/concluso-ieri-sera-al-quartiere-tamburi-ta-ilpassaggio-in-puglia-della-carovana-internazionale-antimafie/
Da BariLive.it del 30/10/15
Carbonara, terra di confine
La Carovana internazionale antimafie ha fatto tappa nel quartiere barese
Dal 26 al 28 ottobre ha attraversato la Puglia all'insegna della legalità e dell’antimafia
sociale.
La Carovana internazionale antimafie ha fatto tappa anche a Bari, a Carbonara. “Periferie”
è il tema scelto quest’anno dagli organizzatori - Cgil, Cisl, Uil, Libera, Arci e Avviso
Pubblico. Una parola declinata in ogni sua sfaccettatura in terre di confine, i luoghi dove
maggiore è l’insorgenza e il dispiegarsi di fenomeni di marginalità, sfruttamento,
abbandono, criminalità, illegalità.
«La traccia lanciata sulle periferie è stata seguita alla perfezione in Puglia – commenta
Alessandro Cobianchi, coordinatore nazionale della Carovana e referente regionale di
Libera –- Sono stati toccati i luoghi simbolo, a partire dal quartiere Carbonara a Bari. Ma
non ci siamo fermati alla simbologia, perché durante il viaggio pugliese abbiamo cercato,
qui come altrove, di gettare le basi per continuare il lavoro”. I comuni nei quali i carovanieri
si sono fermati sono stati, e lo sono tutt’oggi, luoghi importanti di crescita dell’antimafia
sociale».
Nella tappa di Carbonara è stato organizzato un concorso fotografico. Libera Puglia ha
chiesto ai ragazzi del quartiere di riconoscere i segni della periferia e del suo riscatto
possibile. L'immagine pubblicata è la vincitrice.
http://www.barilive.it/news/Attualita/398045/news.aspx
Da GoNews del 29/10/15
Raccolta fondi per aiutare i saharawi, dopo la
violenta inondazione nel deserto algerino
L’associazione Arci 690 Onlus – Progetto Saharawi Cascina promuove una raccolta fondi
per aiutare le tendopoli saharawi, colpite dal 17 ottobre scorso da fortissime piogge che
hanno provocato danni spaventosi alle poche infrastrutture che garantiscono i servizi
essenziali al popolo saharawi, da decenni confinato a vivere nella zona di Tindouf, nel
deserto algerino. «Tutta la regione è stata devastata da violente piogge e forti venti -scrive
l’associazione in una nota fatta pervenire al Comune- e le quattro province di Auserd,
Smara, El Ayoune e Dajla sono in ginocchio. Cascina è gemellata dal 1986 con la
tendopoli di Um Drega, nella provincia di Dajla. Secondo fonti saharawi, sono oltre 11mila
le case e le tende inutilizzabili e circa 60.000 persone sono sfollate. Il 70% degli edifici
pubblici (ospedali, scuole, municipi, caserme) sono danneggiati. In alcune zone è morta
circa la metà degli animali da allevamento». «E’ indispensabile realizzare raccolte
straordinarie per sostenere la macchina di aiuti che si sta muovendo e che necessita di
importanti e immediati contributi per affrontare i bisogni primari e urgenti: acqua, alimenti,
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medicinali, tende». «Con la disponibilità e il sostegno dell’Amministrazione comunale e
dell’Istituto scolastico comprensivo Falcone, l’associazione allestirà dei banchetti presso le
scuole del territorio per informare i cittadini sul difficile momento che stra attraversando il
popolo saharawi e per raccogliere fondi attraverso la vendita di piante grasse. La quota
raccolta sarà poi consegnata ai coordinatori dei campi dai volontari dall’associazione, che
saranno nel deserto algerino a metà novembre prossimo». Un banchetto è già stato
allestito oggi alla scuola primaria Galilei di Cascina. Altri saranno allestiti domani, venerdì
30 ottobre, alla scuola primaria di Latignano, lunedì 2 novembre alla scuola primaria Ciari
di Cascina, mercoledì 4 novembre alla scuola d’infanzia Il girotondo a Cascina. Chi non
potesse partecipare all’iniziativa ma vuole contribuire, può farlo direttamente sul conto
dell’associazione: codice iban IT-60-RO84587095100000-0035-576, intestato a
Associazione Arci 690 Onlus – Progetto Saharawi, causale Emergenza Saharawi 2015.
Leggi questo articolo su: http://www.gonews.it/2015/10/29/raccolta-fondi-per-aiutare-isaharawi-dopo-la-violenta-inondazione-nel-deserto-algerino/
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Del 30/10/2015, pag. 40
SI FA PRESTO A DIRE ONG
MOISÉS NAÍM
NEL 1980, dopo aver visitato l’Argentina, il romanziere V. S. Naipaul scrisse: «In Argentina
molte parole hanno un significato ridotto rispetto a prima: generale, artista, giornalista,
storico, professore, università, direttore, manager, industriale, aristocratico, biblioteca,
museo, zoo; tante parole devono essere messe tra virgolette».
È una brillante metafora che trasmette con grande efficacia una realtà complessa dove
quello che appare molto spesso non è. Però le virgolette a cui si riferisce questo premio
Nobel della letteratura non sono solo un fenomeno argentino del secolo scorso.
Raffigurano alla perfezione anche il mondo del XXI secolo, pieno di «scuole» che non
educano, «ospedali» che non curano, «poliziotti» che spesso sono criminali, «imprese
private» che esistono solo grazie allo Stato o «ministeri della Difesa» che attaccano i loro
cittadini. Viviamo in un universo infestato di istituzioni che perseguono in modo più che
relativo gli scopi che giustificano la loro esistenza. E di situazioni disegnate
deliberatamente per raggirare gli ingenui.
Alcuni giorni fa, per esempio, il governo russo ha annunciato di voler inviare «volontari» a
combattere in Siria (le virgolette non sono mie, ma del titolo del New York Times). Questi
«volontari» russi in Siria sono sospettosamente simili ai «militanti nazionalisti filorussi »
che hanno invaso la Crimea e continuano a combattere contro l’Ucraina. E la verità è che
tanto i «volontari» russi in Siria quanto i «militanti» che combattono in Ucraina sono in
realtà militari russi o mercenari a libro paga di Mosca. Sembrerebbe che il Cremlino abbia
sviluppato una forte preferenza per l’uso di «organizzazioni non governative» (così, tra
virgolette) per conseguire obbiettivi militari e politici. Il Nashi, per esempio, è un
«movimento» di giovani russi che si dichiara «democratico, antifascista e contro il
capitalismo oligarchico». Va tutto fra virgolette perché in realtà questa Ong è un ente
promosso, organizzato e patrocinato dal governo russo. Che non è l’unico a usare quelle
che si è cominciato a chiamare Ongog, cioè organizzazioni non governative organizzate e
controllate dai governi. Già nel 2007 scrissi: «La Federazione degli affari femminili in
Birmania è una Ongog. E anche l’Organizzazione per i diritti umani del Sudan.
L’Associazione delle organizzazioni non a scopo di lucro e non governative del
Kirghizistan, e la Chongryon (Associazione generale dei residenti coreani in Giappone)
sono Ongog. È una tendenza mondiale, sempre più estesa: governi che finanziano e
controllano organizzazioni non governative, spesso e volentieri in modo occulto».
Anche in Paesi con governi autocratici o democrazie illiberali stanno proliferando «mezzi
di comunicazione privati e indipendenti » che in realtà non lo sono. Canali radiofonici,
televisivi, giornali e riviste creati o comprati da «investitori privati» e che nominalmente
sono indipendenti, ma editorialmente sono al soldo del governo che clandestinamente li
finanzia e li controlla.
In questi Paesi il presidente, dittatore o capo di Stato normalmente esercita un controllo
clandestino, ferreo, su «senatori», «deputati », «procuratori», «magistrati» e «tribunali
elettorali» spacciati per «arbitri imparziali», su «elezioni democratiche» che spesso e
volentieri sono truccate e fraudolente. Per questo in Russia, Iran, Venezuela o Ungheria,
per esempio, i concetti di «democrazia», «separazione di poteri» ed «elezioni» devono
essere messi fra virgolette per mettere in guardia dal fatto che non hanno lo stesso
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significato che altrove. E non è solo un problema degli Stati. Il mondo delle organizzazioni
internazionali è inondato di virgolette. Avete mai sentito parlare del Consiglio per i diritti
umani dell’Onu? La sua missione è «promuovere e proteggere i diritti umani nel mondo».
Chi ne fa parte? Fra gli altri, solo per citarne alcuni, Cuba, il Congo, la Cina, la Russia, il
Kazakistan, il Venezuela e il Vietnam. Un altro esempio istruttivo di quanto siano diventate
indispensabili le virgolette è la «Carta democratica» dell’Organizzazione degli Stati
americani (Osa). Nel 2001, con grande sfarzo ed emozione, i Paesi democratici
dell’America Latina concordarono tutti che il «rafforzamento e la difesa delle istituzioni
democratiche» era una priorità, e che se in un Paese membro si fosse prodotta una rottura
o un’alterazione delle istituzioni tale da nuocere gravemente all’ordine democratico, ciò
avrebbe rappresentato un «ostacolo insormontabile» per la permanenza di quel governo
nell’organizzazione. Non è stato così. Non solo l’Osa non si è mossa quando sono
avvenute eclatanti violazioni dell’«ordine democratico» in diversi Paesi della regione, ma
appare seriamente intenzionata ad accogliere un altro paladino della democrazia: Cuba.
Forse, però, il Paese che più ha bisogno di virgolette per poter essere interpretato è la
Cina. La Cina del sistema «comunista» che è diventato un pilastro fondamentale
dell’economia capitalista mondiale. E solo per fornire un altro esempio, la Cina che ora ci
obbliga a mettere fra virgolette il concetto di «isola». Ha preso quattro scogli in una zona
del Mar della Cina Meridionale la cui sovranità è fortemente contestata e le ha fatte
«crescere». Così, invece di essere scogli non abitati e non abitabili in mezzo all’oceano,
ora sono piccole «isole» dove Pechino ha già installato basi navali e aeree.
Il XXI secolo sarà «il secolo delle virgolette»?
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ESTERI
del 30/10/15, pag. 7
Il Premio Sakharov a Raif Badawi
Blogger sgradito ai Saud
Arabia saudita. Il riconoscimento dell'Europarlamento potrebbe salvare
il blogger saudita da altre frustate e, forse, spingere le autorità a
lasciarlo raggiungere la famiglia in Canada. Intanto si teme per la sorte
del 21enne sciita Ali Mohammed an Nimr, arrestato quando era ancora
minorenne, condannato a morte per decapitazione e crocifissione.
Michele Giorgio
Raif Badawi come Nelson Mandela e Malala Yousafzai. Il blogger saudita condannato dai
giudici del suo Paese a mille frustate, dieci anni di prigione e ad una multa di 266mila
dollari per aver offeso le monarchia Saud e le gerarchie religiose, si è visto assegnare ieri
il Premio Sakharov, il “Nobel” del Parlamento europeo creato nel 1988 per gli alfieri dei
diritti umani e della libertà di espressione. Un riconoscimento che potrebbe salvarlo da
altre frustate e, forse, spingere i sauditi a lasciarlo partire e a raggiungere la moglie e i figli
che hanno ottenuto l’asilo politico in Canada. Quella delle frustate è «la più brutale delle
condanne, una vera tortura», ha detto il presidente dell’Europarlamento Martin Schulz,
«faccio appello al re dell’Arabia Saudita affinchè conceda la grazia lo liberi
immediatamente». Schulz ha ricordato che i rapporti della Ue con i partner sono regolati
anche sul rispetto dei diritti umani. Bene per Badawi ma quanta ipocrisia nelle parole del
presidente Schulz. L’Ue che premia il blogger è quella che da decenni tace di fronte alle
sistematiche violazioni in Arabia saudita dei diritti umani e politici, ai diritti negati alle
donne, alle migliaia di prigionieri politici, alla negazione dei diritti delle minoranze religiose
ed etniche e all’assenza di democrazia e di elezioni. È la stessa Europa che reclama
democrazia e libertà in Siria e una dura punizione per il «brutale dittatore Bashar Assad»
che deve uscire di scena, con le buone o con le cattive. I Saud al contrario sono
intoccabili, perchè fedeli alleati dell’Occidente in una regione strategica e perchè
comprano, grazie ai petrodollari, assieme agli altri monarchi del Golfo, armi statunitensi ed
europee per decine di miliardi di dollari. Barack Obama qualche mese fa ha accolto con
grande calore alla Casa Bianca il re saudita Salman.
Raid Badawi rischia di tornare davanti alle centinaia di spettatori che lo scorso gennaio
accanto alla moschea Al-Jafali di Gedda hanno assistito alle prime 50 frustate della
sentenza che prevede altre 19 serie da 50. Il 30 luglio 2013 Badawi era stato condannato
a sette anni di prigione e “soltanto” a 700 frustate ma l’anno successivo la pena in appello
è stata aumentata a 1.000 colpi e dieci anni di prigione. La Corte suprema sino ad oggi ha
rinviato la seconda sessione di frustate per le pressioni dei centri internazionali per i diritti
umani e di alcuni Paesi. Ma la macchina della “giustizia” sarebbe pronta ad ordinare la
ripresa della punizione. Ensaf Haidar, la moglie del blogger, ha saputo da fonti attendibili
che a breve riprenderà il ciclo di frustate. Non ci sono per ora conferme ufficiale ma
l’allarme non è infondato. Le autorità saudite non hanno mai indicato di voler rinunciare
alla punizione di Badawi, anzi, hanno denunciato con irritazione le “ingerenze straniere”
volte, affermano, ad imporre modelli estranei alla “cultura” del regno dei Saud.
Badawi è colpevole di aver dibattuto, sul suo sito “Free Saudi Liberals”, temi politici e
religiosi. Già nel 2008 è stato condannato per apostasia e per aver denunciato che le
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università e le scuole religiose del paese sono laboratori dell’estremismo wahabita,
corrente tra le più rigide del sunnismo. Badawi non è l’unico attivista in carcere. Molti altri
sono dietro le sbarre e scontano pene persino più dure della sua. La condizione più critica
è quella del 21enne sciita Ali Mohammed an Nimr, arrestato quando era ancora
minorenne per aver partecipato a una protesta contro il regno. Lo attende una sentenza di
morte per decapitazione e crocifissione. A complicare la posizione di an Nimr, che ha
confessato le sue “colpe” sotto tortura, affermano gli attivisti dei diritti umani, è la sua
stretta parentela con lo sceicco Nimr Baqr an-Nimr, un famoso imam sciita e oppositore
della casa reale. Si teme anche per l’avvocato Waleed Abulkhair, arrestato e condannato
lo scorso anno per «incitamento dell’opinione pubblica». Abulkhair era il legale di Raif
Badawi e il suo arresto è strettamente legato al caso del blogger. Inizialmente era stato
condannato a cinque anni di reclusione, pena prima sospesa e poi, a sorpresa, inasprita
da un altro tribunale, specializzato in “terrorismo”, che a inizio 2015 lo ha condannato a 15
anni. Il pugno di ferro delle autorità saudite si è inasprito durante la “primavera araba”. Nel
regno non ci sono state rivolte ma il timore che il malcontento tra i sudditi più giovani sfoci
in azioni concrete ha spinto la monarchia a usare il bastone con i dissidenti politici e gli
attivisti delle riforme. Di fronte a tutto ciò Bruxelles finge di non vedere. Non sarà il Pre-mio
Sakha-rov asse-gnato a Raif Badawi a can-cel-lare l’ipocrisia europea.
del 30/10/15, pag. 7
“La fine dei raid è vicina”
Intanto Riyadh bombarda
Chiara Cruciati
L’incontro tra poteri globali e regionali a Vienna si apre tra le polemiche. Niente di nuovo:
al tavolo del negoziato sono seduti avversari che sulla guerra civile siriana fondano
opposte strategie di gestione del Medio Oriente. Ieri sera si è tenuta la prima sessione,
ristretta a Usa, Russia, Iran, Turchia e Arabia saudita in vista dell’inaugurazione ufficiale di
oggi.
Ma ad aprire le danze delle reciproche accuse, ieri, è stato il governo siriano che, alla
stregua delle opposizioni, in Austria non c’è: l’Arabia saudita – ha detto il ministro
dell’Informazione – non ha la qualifica per svolgere «un ruolo produttivo» perché sparge
sangue arabo in tutta la regione.
Chi si muove con i piedi di piombo sono gli Stati uniti che dicono di voler testare le reali
intenzioni di Iran e Russia in merito al futuro di Assad: «Il segretario [Kerry] ha pensato
che fosse giunto il momento di riunire tutti e determinare il loro impegno a combattere il
terrorismo e a lavorare con la comunià internazionale per convincere Assad ad
andarsene», ha detto il consigliere del Dipartimento di Stato Shannon. Una posizione
ripetura ieri anche dal ministro degli Esteri saudita al-Jubeir: l’Iran deve accettare la
rimozione del presidente.
Ma la Russia non mollerà l’osso facilmente, visti i consistenti interessi sul tavolo: l’accesso
diretto al Mar Mediterraneo, un ruolo nella gestione delle risorse energetiche, ma anche
l’ingente business della ricostruzione. Un elemento trascurato ma da tener presente nel
prevedere i possibili risultati dell’incontro di Vienna.
La scorsa settimana – ha riportato il parlamentare russo Sablin a Izvestia Daily – durante
la visita di una delegazione russa a Damasco, Mosca ha discusso della futura
ricostruzione: il presidente Assad ha assicurato all’alleato che a rimettere in piedi un paese
12
disastrato saranno compagnie russe. O che almeno queste riceveranno i migliori contratti:
«La Siria è pronta a fornire alle compagnie russe contratti dal valore di centinaia di migliaia
di dollari», ha detto Sablin citando Assad.
Conferma giunge da un altro parlamentare, Yushchenko, che alla Ria Novosti ha riportato
dell’intenzione di Damasco di affidare a compagnie petrolifere russe la gestione delle
ricchezze energetiche del paese.
La guerra è sempre stata un’affare, durante e dopo: se prima ad incassare sono le
multinazionali delle armi, dopo la strada si apre a chi ricostruisce quanto distrutto. E la
distruzione della Siria è impressionante: «La devastazione è paragonabile a quella di certe
nazioni dopo la Seconda Guerra mondiale», scrive Jihad Yazigi, direttore di Syria Report.
Tanto concreta e profonda da richiedere spese stellari: 200 miliardi di dollari.
Una pioggia di denaro che è tre volte superiore al Pil interno del paese prima della guerra
civile, necessaria a ricostruire intere città rase al suolo, a ristrutturare le bellezze
architettoniche e storiche danneggiate, a rimettere in piedi le abitazioni e le infrastrutture
base, a rilanciare un’economia industriale e commerciale che – secondo le Nazioni Unite –
ha perso 237 miliardi di dollari in quasi 5 anni e che vede il debito estero moltiplicarsi di
anno in anno. E a riportare nel paese i milioni di siriani fuggiti all’estero e la cui assenza
nel futuro della Siria potrebbe danneggiare ulteriormente la prossima ricostruzione
economica e sociale.
«Il tasso di disoccupazione è oltre il 50%, gran parte della capacità pruduttiva è stata
distrutta, comprese industrie, terre, impianti elettrici, sistemi di irrigazione, il settore
turistico. La ripresa richiederà 40–50 anni», la funerea previsione di Yazigi. Un business
che attira la comunità internazionale, la stessa che ha infiammato il conflitto e che oggi
dice di voler trovarvi una soluzione. Anche Mosca, ovviamente, vista da molti come la
risolutrice del conflitto, ma che di interessi nel sostenere Damasco ne ha molti.
I siriani restano alla finestra, a guardare il proprio paese distrutto da interessi globali e a
breve preda di compagnie che si litigheranno la ricostruzione.
Da ricostruire però non ci sono solo palazzi e infrastrutture: c’è da restaurare rapporti
sociali fatti a pezzi dai settarismi dettati dalla guerra civile.
del 30/10/15, pag. 8
Mosca prenota la ricostruzione
Siria. I negoziati in corso a Vienna risentiranno degli interessi di Mosca
in un paese il cui livello di devastazione è paragonabile al dopoguerra
europeo. Un affare da 200 miliardi di dollari
Chiara Cruciati
L’incontro tra poteri globali e regionali a Vienna si apre tra le polemiche. Niente di nuovo:
al tavolo del negoziato sono seduti avversari che sulla guerra civile siriana fondano
opposte strategie di gestione del Medio Oriente. Ieri sera si è tenuta la prima sessione,
ristretta a Usa, Russia, Iran, Turchia e Arabia saudita in vista dell’inaugurazione ufficiale di
oggi.
Ma ad aprire le danze delle reciproche accuse, ieri, è stato il governo siriano che, alla
stregua delle opposizioni, in Austria non c’è: l’Arabia saudita – ha detto il ministro
dell’Informazione – non ha la qualifica per svolgere «un ruolo produttivo» perché sparge
sangue arabo in tutta la regione.
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Chi si muove con i piedi di piombo sono gli Stati uniti che dicono di voler testare le reali
intenzioni di Iran e Russia in merito al futuro di Assad: «Il segretario [Kerry] ha pensato
che fosse giunto il momento di riunire tutti e determinare il loro impegno a combattere il
terrorismo e a lavorare con la comunià internazionale per convincere Assad ad
andarsene», ha detto il consigliere del Dipartimento di Stato Shannon. Una posizione
ripetura ieri anche dal ministro degli Esteri saudita al-Jubeir: l’Iran deve accettare la
rimozione del presidente.
Ma la Russia non mollerà l’osso facilmente, visti i consistenti interessi sul tavolo: l’accesso
diretto al Mar Mediterraneo, un ruolo nella gestione delle risorse energetiche, ma anche
l’ingente business della ricostruzione. Un elemento trascurato ma da tener presente nel
prevedere i possibili risultati dell’incontro di Vienna.
La scorsa settimana – ha riportato il parlamentare russo Sablin a Izvestia Daily – durante
la visita di una delegazione russa a Damasco, Mosca ha discusso della futura
ricostruzione: il presidente Assad ha assicurato all’alleato che a rimettere in piedi un paese
disastrato saranno compagnie russe. O che almeno queste riceveranno i migliori contratti:
«La Siria è pronta a fornire alle compagnie russe contratti dal valore di centinaia di migliaia
di dollari», ha detto Sablin citando Assad.
Conferma giunge da un altro parlamentare, Yushchenko, che alla Ria Novosti ha riportato
dell’intenzione di Damasco di affidare a compagnie petrolifere russe la gestione delle
ricchezze energetiche del paese.
La guerra è sempre stata un’affare, durante e dopo: se prima ad incassare sono le
multinazionali delle armi, dopo la strada si apre a chi ricostruisce quanto distrutto. E la
distruzione della Siria è impressionante: «La devastazione è paragonabile a quella di certe
nazioni dopo la Seconda Guerra mondiale», scrive Jihad Yazigi, direttore di Syria Report.
Tanto concreta e profonda da richiedere spese stellari: 200 miliardi di dollari.
Una pioggia di denaro che è tre volte superiore al Pil interno del paese prima della guerra
civile, necessaria a ricostruire intere città rase al suolo, a ristrutturare le bellezze
architettoniche e storiche danneggiate, a rimettere in piedi le abitazioni e le infrastrutture
base, a rilanciare un’economia industriale e commerciale che – secondo le Nazioni Unite –
ha perso 237 miliardi di dollari in quasi 5 anni e che vede il debito estero moltiplicarsi di
anno in anno. E a riportare nel paese i milioni di siriani fuggiti all’estero e la cui assenza
nel futuro della Siria potrebbe danneggiare ulteriormente la prossima ricostruzione
economica e sociale.
«Il tasso di disoccupazione è oltre il 50%, gran parte della capacità pruduttiva è stata
distrutta, comprese industrie, terre, impianti elettrici, sistemi di irrigazione, il settore
turistico. La ripresa richiederà 40–50 anni», la funerea previsione di Yazigi. Un business
che attira la comunità internazionale, la stessa che ha infiammato il conflitto e che oggi
dice di voler trovarvi una soluzione. Anche Mosca, ovviamente, vista da molti come la
risolutrice del conflitto, ma che di interessi nel sostenere Damasco ne ha molti.
I siriani restano alla finestra, a guardare il proprio paese distrutto da interessi globali e a
breve preda di compagnie che si litigheranno la ricostruzione.
Da ricostruire però non ci sono solo palazzi e infrastrutture: c’è da restaurare rapporti
sociali fatti a pezzi dai settarismi dettati dalla guerra civile.
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Del 30/10/2015, pag. 11
Rabin Chi l’ha ucciso vent’anni fa aveva un
obiettivo: fermare il processo di pace.
Missione compiuta
Quella dell’assassinio di Rabin non è una storia nuova. È una storia che noi israeliani ci
raccontiamo da venti anni. Alcuni dettagli sono scomparsi col passar del tempo ma il
pathos si è intensificato e alla fine siamo rimasti con la seguente versione: vent’anni fa qui
regnava un re coraggioso e benvoluto, pronto a fare qualsiasi cosa per il bene del suo
popolo. Un giorno, dopo aver radunato il popolo nella piazza principale della città e aver
cantato insieme un inno alla pace, l’amato sovrano fu assassinato da uno dei suoi sudditi
che, con tre colpi di pistola, non solo uccise lui ma anche la speranza della pace. Al posto
di quel monarca ne arrivò un altro, grande nemico del precedente, che sostituì la speranza
con il sospetto e con una guerra senza fine.
Ogni anno raccontiamo a noi stessi questa storia triste e piena di autocommiserazione in
cui c’è tutto ciò che serve: un eroe, un malvagio, un crimine imperdonabile e una brutta
fine. Manca però una cosa, un personaggio chiave che è stato cancellato dalla trama
senza che quasi ce ne accorgessimo: il popolo di Israele.
Infatti, per quanto sia triste ammetterlo, Benjamin Netanyahu non ha strappato la corona a
Rabin dopo la sua morte autoproclamandosi re. Netanyahu è stato eletto dopo la morte di
Rabin nel corso di elezioni democratiche. Lo stesso popolo che ha pianto la morte
dell’amato sovrano ha scelto Netanyahu subito e senza esitazione, accantonando
completamente l’idea della pace, rieleggendolo più volte e optando per la sua linea
politica. Così, a distanza di tempo, l’assassinio di Yitzhak Rabin si è rivelato uno degli
omicidi politici più riusciti dell’era moderna che deve il suo successo non solo alla mano
ferma del killer ma anche al popolo di Israele, il quale ha aiutato l’assassino a promuovere
la sua visione ideologica.
La storia è piena di assassinii politici che hanno ottenuto l’effetto opposto di quello
auspicato dai loro esecutori. L’assassinio di Martin Luther King promosse il processo di
uguaglianza dei neri e quello di Lincoln non ripristinò la schiavitù negli Usa. Quello di
Rabin, invece, ha realizzato il progetto dell’assassino, Yigal Amir, e fermato il processo di
pace. Ma Amir non sarebbe riuscito nella missione senza l’elezione di Netanyahu da parte
di noi cittadini d’Israele. Quel Netanyahu che pochi mesi prima aveva incitato le piazze a
opporsi a Rabin e al processo di pace. Così, nella vera storia, a differenza di quella che
noi amiamo raccontarci, il popolo di Israele non è solo vittima ma anche partner del
crimine. E in questa tragedia, come in ogni tragedia, il castigo non è tardato a venire.
Vent’anni dopo l’assassinio di Rabin siamo nel pieno di una nuova ondata di terrorismo. La
prima Intifada, iniziata più di venti anni fa con lanci di sassi e accoltellamenti durante gli
accordi di Oslo, si fece via via più ingegnosa. Terroristi suicidi cominciarono a farsi saltare
in aria con cinture esplosive e infine si passò a una grandine di missili. Ora siamo al punto
di partenza, ai brutali accoltellamenti e ai lanci di pietre. Sembra che più si vada avanti, più
le cose rimangano le stesse. O forse, sarebbe giusto dire, «quasi le stesse». In questa
seconda ondata di accoltellamenti, infatti, le atrocità sono le stesse ma qualcosa per noi,
cittadini di Israele, è cambiato. E il cambiamento si è avvertito soprattutto in occasione del
linciaggio di Haftom Zarhum, un rifugiato eritreo scambiato per un terrorista avvenuto a
Be’er Sheva una settimana fa. Nonostante non avesse compiuto alcun gesto minaccioso
né avesse armi da fuoco con sé, Zarhum è stato colpito con sei proiettili e quando già
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giaceva a terra sanguinante è stato picchiato da alcuni presenti, preso a calci e colpito in
testa con una pesante panchina. Uno degli aggressori, arrestato dopo il fatto, ha detto:
«Se fosse stato un terrorista tutti mi avrebbero ringraziato». Certo non sarebbe stato
condannato dai ministri membri del governo che hanno chiesto di rendere più flessibili le
norme che regolano l’uso delle armi da fuoco. E non sarebbe stato condannato nemmeno
da uno dei leader dell’opposizione, Yair Lapid, secondo cui troppi terroristi palestinesi
vengono catturati vivi. Il tono dominante nei corridoi della Knesset durante l’attuale ondata
di terrore è chiaro: dimenticate le regole e il rispetto della legge, chiunque brandisce un
coltello, merita la morte.
L’assassinio di Rabin, vent’anni fa, ha segnato un punto di svolta. Che, contrariamente a
quanto la maggior parte di noi ama pensare, non è quello in cui abbiamo smesso di
prendere l’iniziativa e siamo diventati vittime. Quel riuscito omicidio a sfondo ideologico
non ha influito sul grado di controllo che abbiamo sulle nostre vite ma solo sul sistema di
valori in base al quale alcuni di noi scelgono di agire. Di recente, a una figura di spicco dei
coloni, Daniella Weiss, è stata fatta una domanda a proposito delle minacce di morte
ricevute dal presidente di Israele Reuven Rivlin da parte di elementi dell’estrema destra.
«Nessuno ucciderà Rivlin», ha risposto lei sprezzante, «non è abbastanza importante». E
con questa affermazione ha rivelato una dolorosa verità: in Israele, dopo l’era Rabin, un
omicidio politico viene visto non solo come un trauma nazionale ma anche come uno
strumento pragmatico, efficace e sempre presente in sottofondo, capace di ribaltare la
situazione.
E così, nel ventesimo anniversario dell’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin gli
israeliani moderati continuano a sperare in due cose: in un nuovo e coraggioso leader che
riesca a riempire il grande vuoto lasciato da Rabin e, nel caso si trovi un simile leader, che
non venga ucciso pure lui.
del 30/10/15, pag. 8
La risposta dei media turchi «contro
l’oppressione»
ISTANBUL. Coro di protesta all’oscuramento dei canali televisivi Bugün
e Kanal Türk e al blocco della diffusione dei due quotidiani dello stesso
gruppo
Fazila Mat
ISTANBUL
«Voci della democrazia unite contro l’oppressione». Così la prima pagina del quotidiano
Cumhuriyet riassumeva ieri, all’indomani del blitz della polizia alla sede del gruppo
mediatico (Koza) Ipek di Istanbul, il coro di protesta all’oscuramento dei canali televisivi
Bugün e Kanal Türk e al blocco della diffusione dei due quotidiani dello stesso gruppo,
Bugün e Millet. Un coro formato dai media turchi non pro-governativi come da numerosi
giuristi, rappresentanti politici e della società civile.
Il fatto ha unito i settori più disparati della società, dal movimento politico curdo ai
kemalisti, dal partito dei nazionalisti che hanno condannato l’operazione all’unisono.
Una situazione considerata quasi una minaccia dai media pro-governativi come Star che
parla invece di una messa in scena pianificata dall’«organizzazione terroristica di Gülen e i
loro alleati» per creare tafferugli spargendo la voce che si «stava attentando alla libertà di
stampa». Un’operazione, insomma, «per influenzare la percezione dei fatti».
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Così, ad esempio, scrive anche l’editorialista del quotidiano Hüseyin Gülerce: «A tre giorni
dalle elezioni, la decisione di assegnare dei commissari alle società in seno al gruppo
Koza Ipek, ci ha dimostrato ancora una volta il livello di polarizzazione della nostra
società», e aggiunge: «La resistenza dimostrata all’ingresso della sede dei media della
Holding e il fatto che i deputati del Chp, Mhp e Hdp [rispettivamente il partito kemalista,
nazionalista e filo-curdo ndr] che in condizioni normali non riescono a stare insieme,
abbiano unanimamente sostenuto questa resistenza, ci serva da esempio per capire chi
va a braccetto con chi».
Ma le voci hanno contestato l’operazione della polizia seguita dalla decisione di
«commissariare» 22 società del gruppo Koza Ipek, sotto indagine dallo scorso settembre,
non solo per motivi legati alla libertà di stampa.
Come Murat Yetkin che su Radikal scrive che il fatto è estremamente «preoccupante non
solo per la libertà di stampa e di espressione, ma anche per l’indipendenza della
magistratura dall’esecutivo e non ultimo per il diritto di proprietà e la libertà di
investimento».
Una questione particolarmente criticata è, ad esempio, proprio quella del
commissariamento (peraltro a figure che risultano per la maggior parte membri del partito
governativo o vicino a esso).
Il prof. Metin Feyzioglu, a capo dell’Ordine nazionale degli avvocati contesta addirittura la
stessa decisione di commissariamento «di cui», scrive, «non risulta la necessità».
«L’operazione che prevede la cessione ai commissari della direzione delle società del
gruppo infrange numerosi diritti e libertà fondamentali, tra cui il diritto di proprietà e la
libertà di stampa», afferma sempre Feyzioglu.
Ieri intanto, per la prima volta il nome e la foto dell’imam stanziato negli Stati uniti, è
apparso nella «lista rossa del terrorismo» del ministero dell’Interno. Il nome di Gülen
appare accanto a quella di diversi dirigenti del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan). Un
altro quotidiano filo-governativo, Sabah, ha fornito la notizia scrivendo: «Sabah vi rivela
l’accordo segreto tra il Pkk e il movimento di Gülen». Una nuova teoria complottistica?
del 30/10/15, pag. 16
Femminista e comunista
Nepal. Il nuovo capo dello Stato del Nepal è una donna. È comunista
(non maoista, ma ha avuto i voti anche dei maoisti), ha 54 anni, si
chiama Bidhya Devi Bhandari. Il suo curriculum sono le battaglie in
difesa delle donne in una società dominata dai maschi e dalle caste alte
che dettano ancora la legge non scritta della tradizione
Emanuele Giordana
Il nuovo capo dello Stato del Nepal è una donna. Una donna comunista. Ha 54 anni, si
chiama Bidhya Devi Bhandari e ha un curriculum di tutto rispetto dove spiccano le
battaglie in difesa delle donne in una società dominata dai maschi e dalle caste alte che
dettano ancora – anche se forse sempre meno – la legge non scritta della tradizione.
La sua elezione è una sorpresa due volte. Perché per una donna non è facile farsi strada
in Nepal e lei è la prima donna presidente del suo Paese e perché il suo sfidante, Kul
Bahadur Gurung, è comunque una figura di peso anche se ha perso: è il leader del
Congresso nepalese, il primo partito del Paese. Ma il voto del parlamento, dove il secondo
e il terzo partito sono della medesima area, le ha dato una maggioranza piena: 327 voti su
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549. Non è maoista, come forse l’immaginario collettivo la pensa alla notizia che in Nepal
ha vinto una comunista. Ma i voti dei maoisti (The Unified Communist Party of NepalMaoist, 80 seggi su 575) sono stati determinati.
Il suo partito, Communist Party of Nepal-Unified Marxist–Leninist, poteva contare solo su
175 scranni. L’alleanza ha retto mentre al partito del Congresso invece non sono bastati
gli alleati e i 196 seggi guadagnati nelle ultime elezioni (2013). La convivenza coi maoisti,
che un prezzo lo avranno pur chiesto, non rappresenta al momento un problema: Bhandari
può contare sul primo ministro Sharma Oli– l’uomo che ha il potere esecutivo in Nepal –
che è comunista come lei, ed è anzi è il capo del partito di cui lei è comunque stata
vicepresidente. La politica la conosce bene: nella base, nel partito, nel governo dove
Bhandari ha già ricoperto un incarico istituzionale. E’ stata ministro della Difesa, un ruolo
delicato in un Paese dove la guerra civile è stata una realtà per dieci anni e che si è
conclusa con un accordo politico solo nel 2006 dopo 15mila vittime e tra 100 e 150mila
sfollati interni. Da allora il Paese ha cambiato faccia.
Il cammino è stato lungo e resta ancora difficile. Questa piccola nazione himalayana,
cerniera tra India e Cina, con solo 30 milioni di abitanti sparsi su un territorio grande la
metà dell’Italia (147mila kmq) e connotato da montagne altissime e da un’enorme
disomogeneità etnico linguistica, è stata una monarchia monolitica fino al 2008. Caduta
pagando un prezzo elevato. E’ un vasto movimento popolare ad averla abbattuta ma sono
stati i maoisti a segnare il punto di svolta. Una svolta difficile che alla fine porterà, solo nel
settembre scorso, alla nuova, sofferta Costituzione.
Nuova e innovativa perché è la prima in Asia che proteggere ad esempio i diritti dei gay.
Sofferta perché la sua approvazione è stata bagnata dal sangue di 40 morti nelle
manifestazioni di piazza che hanno preceduto il voto finale a cui si è arrivati con molte
difficoltà. Non ancora finite. La Costituzione, che fa del piccolo Paese montano una
repubblica federata di sette province, lascia scontente molte minoranze in una nazione
dove si parlano oltre cento lingue diverse e dove le comunità più marginali e periferiche si
sentono sotto rappresentate. Una sfida per la nuova presidente.
Nondimeno, il Paese va avanti, in un equilibrio difficile recentemente turbato dal sisma che
ha fatto strage di uomini, animali, abitazioni, strutture e monumenti anche nella capitale
(400mila vivono ancora in rifugi inadeguati all’inverno che si sta avvicinando, secondo la
rete di Ong italiane “Agire”). Un Paese dove i nodi del sottosviluppo restano in gran parte
intatti in una zona del mondo dominata ancora dalle regole castali e da rapporti semi
feudali che regolano la vita di comunità prevalentemente agricole (75% della forza lavoro).
Un Paese in equilibrio difficile anche per la sua posizione geografica di Stato “cuscinetto”
schiacciato tra i due grandi colossi del continente, Delhi e Pechino. Che ora cullano, ora
minacciano, alla ricerca di una supremazia che per anni è stata guadagnata dall’India che
di gran parte del Nepal influenza cultura e tradizione e che preme ai suoi confini con uno
degli eserciti più potenti del mondo.
I cinesi non sono da meno: guardano con occhio traverso le comunità buddiste e tibetane
che in quel Paese trovano rifugio e provano a stuzzicare Kathmandu con la promessa
dello sviluppo. Proprio ieri il Nepal ha firmato un accordo con la Cina che di fatto mette fine
al monopolio indiano per le forniture dei prodotti petroliferi. Si tratta di un monopolio che
durava da 45 anni.
Anche questi nodi su un pettine sfilacciato toccheranno a Bidhya Devi Bhandari, una storia
di militanza politica, di battaglie in difesa delle donne e delle minoranze (che potrebbero
essere un suo punto di forza) e una storia personale gravata da un dramma che le ha tolto
il marito, Madan Bhandari, uno dei più noti leader comunisti del Paese: è vittima di un
incidente di auto nel 1993 su cui si sono accavallati molti dubbi che nessuna inchiesta è
riuscita a chiarire.
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Dall’altra parte della barricate, accanto all’appoggio indiscusso del premier, resta
comunque il potente partito del Congresso, passato indenne per tutte le stagioni (è nato
nella sua forma primigenia nel 1947 e ha vinto le prime elezioni democratiche nel 1991) e
un partito maoista con un leader carismatico, Pushpa Kamal Dahal, più comunemente
noto come il compagno Prachanda. Si dovrà tenerne conto come si dovrà tener conto
dell’applicazione della prima Costituzione repubblicana del Paese, in questi mesi alla sua
prima vera prova del fuoco.
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INTERNI
del 30/10/15, pag. 5
Renzi tentato dall’Election day a giugno 2016
Il progetto: accorpare comunali e consultazione costituzionale per farle
diventare un grande referendum su se stesso
Fabio Martini
INVIATO A L’AVANA
C’è del metodo nella «follia» di Matteo Renzi, quella che ha portato il presidente del
Consiglio a provocare dall’alto e platealmente lo sfratto di Ignazio Marino, sindaco
«colpevole» di una gestione controversa ma ancora a metà mandato. Il metodo è
soprattutto un’idea: quella di trasformare le difficili elezioni amministrative della primavera
2016 in un referendum. Pro o contro Renzi. Provando a colmare il deficit di consensi persi
in alcune città con il doppio effetto prodotto dal protagonismo del premier accoppiato - ma
non sarà facile - al referendum istituzionale. In altre parole, il progetto in cantiere è quello
di provare ad unificare in un’unica data amministrative e referendum, trasformando il 12
giugno in una «super-domenica».
Certo, non si tratta di una passeggiata, perché l’attuale tempistica legislativa prevista dal
referendum istituzionale consentirebbe di votare soltanto in autunno e dunque
bisognerebbe modificare in tempi accelerati la legge attuativa dei referendum. Ma il
progetto piace a Renzi, se ne parla sottovoce da tempo e dell’ipotesi si è accennato
persino due giorni fa, nei pourparler a margine dell’incontro tra Ignazio Marino e gli
«sherpa» del premier guidati da Matteo Orfini.
A dispetto di tutte le dietrologie Renzi già da tempo ha rinunciato a votare anticipatamente
e ha immaginato le amministrative del 2016 e il referendum come i due trampolini verso la
sfida delle Politiche, si vedrà se anticipate al 2017 e confermate per la scadenza
fisiologica del 2018. In primavera si voterà nelle cinque città politicamente più importanti
del Paese: le due capitali del Nord (Milano e Torino) la capitale del Sud (Napoli), la
capitale delle Regioni rosse (Bologna) e quasi certamente la “capitale legale” del Paese,
Roma. A dispetto di candidature forti (come quella di Fassino a Torino), soltanto a Bologna
il Pd parte decisamente con i favori dei pronostici e dunque Renzi sa di doversi spendere
in prima persona.
Ma non sarà semplice ottenere l’effetto moltiplicatore del referendum. Il complesso iter
delle leggi costituzionali, oramai giunto alla fase conclusiva, prevede i due voti finali (sì-no)
per metà gennaio al Senato e per metà aprile alla Camera. Da quel momento, poiché la
Costituzione sarà stata modificata senza l’approvazione dei due terzi, una serie di soggetti
potrà chiedere di sottoporre a referendum la modifica. Sono previsti tre mesi per
consentire la raccolta delle adesioni e qui sta il punto: con 90 giorni si va ben oltre metà
giugno. Servirebbe una modifica legislativa, piccola ma ad hoc, che consenta di avviare
l’iter in tempi brevi, non appena uno dei soggetti richiedenti abbia depositato l’istanza
referendaria. Ce la farà Renzi? «Super-domenica» o no, in ogni caso il presidente del
Consiglio sa di doverci mettere la faccia.
del 30/10/15, pag. 4
Riforme e Italicum, i piani del No
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Costituzione. Costituito il comitato. Parte l’assedio su due fronti alla
nuova legge elettorale. Il referendum sulla riforma rischia di diventare
l’appello al popolo di Renzi. Giuristi e cittadini già partono. Il ruolo delle
opposizioni
Andrea Fabozzi
ROMA
Ci sono costituzionalisti (Azzariti, Bilancia, Carlassare, De Fiores, Ferrara, Pace, Rodotà,
Rescigno, Villone, Volpi) e altre personalità (La Valle, Asor Rosa, Grandi) nel
coordinamento per la democrazia costituzionale che ieri ha annunciato la nascita del
comitato per il no al referendum confermativo. Al quale manca ancora un anno, ma gli
avversari della riforma Renzi-Boschi hanno deciso di giocare d’anticipo. C’è una ragione:
quando il disegno di legge di revisione costituzionale sarà approvato definitivamente in
seconda lettura — ormai non ci sono incertezze né sui tempi né sull’esito — Renzi sarà
lesto nell’intestarsi anche il referendum. «Decideranno i cittadini», ripete già da un po’,
prefigurando una conta non sul complesso delle modifiche costituzionali, ma sul suo
governo e su se stesso. Lo spirito del referendum costituzionale è opposto: si tratta
dell’ultima possibilità per gli elettori di bloccare una riscrittura della Costituzione che
dovrebbe essere circoscritta e puntuale (e così non è, trattandosi in questo caso della
modifica di 43 articoli della carta fondamentale). Il Coordinamento dovrà spiegarlo bene.
E non sarà facile, perché il governo potrà chiedere ai parlamentari di maggioranza di
firmare immediatamente la richiesta di referendum, mentre i cittadini avranno bisogno di
raccogliere 500mila firme (in tre mesi). A meno che, e anche così si spiega la mossa
d’anticipo del Coordinamento, un numero sufficiente di parlamentari di opposizione non
decida di firmare la richiesta in rappresentanza del comitato del no. Servono 65 firme di
senatori o 126 di deputati, alla camera i cinque stelle e il nuovo gruppo di sinistra con Sel
e gli ex Pd (che nel frattempo dovrebbe essersi formato) potrebbero farcela da soli, senza
l’ingombrante appoggio di Lega e Forza Italia. Costituirsi come comitato non è una
dettaglio: i cittadini che fanno campagna per il no sono riconosciuti (per la durata del
referendum) come un «potere dello stato», hanno diritto a un finanziamento pubblico e a
spazi televisivi regolati dall’Authority.
L’altro fronte aperto dal Coordinamento è quello della legge elettorale. L’Italicum sarà
aggredito da due lati. Nella prossima primavera partirà la raccolta di firme per due quesiti
referendari — abolizione dei capilista bloccati e del premio di maggioranza e ballottaggio.
In questo caso la consultazione popolare potrebbe tenersi solo nel 2017, probabilmente
troppo tardi. In caso di elezioni anticipate, infatti, tutti i referendum già convocati slittano di
un anno. Per un referendum abrogativo che ha ad oggetto proprio la legge elettorale il
rinvio sarebbe disastroso. Così l’avvocato Felice Besostri, che ha già segnato un punto
nella battaglia contro il Porcellum, ha studiato una serie di ricorsi contro l’Italicum; nelle
prossime due settimane saranno presentati nei tribunali delle principali città. Dal ricorso al
giudice ordinario firmato da cittadini più o meno illustri che denunciano una lesione del loro
diritto di voto libero e uguale (citando in giudizio il presidente del Consiglio) può partire
l’eccezione di incostituzionalità. In particolare sul premio di maggioranza che, nel caso di
ballottaggio, può essere assegnato senza soglia: anche il partito che al primo turno ha
ottenuto il 25% potrebbe vincere il 54% dei seggi. L’ex giudice costituzionale Paolo
Napolitano che era nel collegio che bocciò il Porcellum ha già spiegato chiaramente
(Corriere della Sera, 11 settembre) che l’Italicum presenta gli stessi profili di illegittimità. I
ricorsi però hanno bisogno di tempo: i tribunali potrebbero ritenerli non ammissibili perché
l’Italicum non è ancora applicabile (per la clausola che lo rimanda all’agosto 2016), anche
se la Cassazione nel caso del Porcellum ha stabilito che il danno per gli elettori comincia
nel momento in cui la legge elettorale viziata viene promulgata. Con il Porcellum ci sono
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voluti cinque anni dalla presentazione del primo ricorso fino alla sentenza della Consulta
— ma solo otto mesi da quando un giudice ha finalmente riconosciuto «non infondata» la
questione di incostituzionalità.
Vero è che nella riforma Renzi-Boschi, una volta approvata, dunque tra un anno nel caso
vincano i sì al referendum, c’è una porta che può condurre l’Italicum immediatamente
davanti alla Consulta. Potrebbero portarcelo, per effetto delle nuove norme, deputati o
senatori delle minoranze. Ma potrebbero farlo solo in questa legislatura ed entro dieci
giorni dall’entrata in vigore della riforma. Se davvero Renzi decidesse di fare qualche
modifica all’Italicum, per esempio riportando il premio alla coalizione invece che alla lista,
questa porta si potrebbe chiudere. Contro l’Italicum resterebbero allora in piedi le iniziative
annunciate ieri, i referendum e i ricorsi. Che rischiano però di arrivare tardi.
Del 30/10/2015, pag. 8
Ricorsi e referendum, inizia la battaglia
contro le riforme
Triplice attacco contro le riforme renziane. Primo: una raffica di ricorsi per portare l’Italicum
di fronte alla Corte costituzionale. Saranno presentati nei tribunali dei capoluoghi dei
distretti di Corte d’appello nei primi 15 giorni di novembre. Secondo: due quesiti, già
depositati in Cassazione, per abrogare la legge elettorale via referendum. Terzo: la nascita
di un “comitato per il no” che prepari la mobilitazione in vista del referendum confermativo
della riforma costituzionale.
Ad animare la battaglia contro le “deforme” (copyright dell’avvocato Felice Besostri, il
legale che ha già affossato il Porcellum) è il “Coordinamento per la democrazia
costituzionale”, un pugnace comitato di intellettuali, giuristi, esponenti della società civile e
del mondo sindacale e politico. Tra di loro, spiccano i nomi di costituzionalisti illustri, come
Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Gaetano Azzariti, Massimo Villone, Alessandro
Pace e Lorenza Carlassare.
Il percorso è segnato, ieri è stato il giorno del battesimo ufficiale, con la presentazione
nell’auletta della sala stampa di Montecitorio. Besostri ha annunciato un papello di “14
punti, lungo quasi quanto un romanzo” per motivare i ricorsi contro la legge elettorale.
Villone ha spiegato invece i due quesiti referendari contro l’Italicum, che abrogherebbero
le norme su capilista e voto bloccato e il meccanismo del premio di maggioranza,
“smontando la legge” senza lasciare un vuoto normativo. Infine, Pace ha presentato la
madre di tutte le battaglie, quella contro la riforma della Costituzone targata Renzi e
Boschi, battezzando il “Comitato per il no” pronto a organizzare la sfida referendaria che si
svolgerà nel 2016, probabilmente tra circa 10 mesi.
“Sono qui perché credo ancora nella nostra Carta – ha detto il giurista emerito – anche se
la riforma del governo viola uno dei principi fondamentali di tutto il costituzionalismo
occidentale: l’istituzione dei contropoteri”.
Cosa significa, professor Pace?
Significa che si rimuovono gli strumenti costituzionali che garantiscono le minoranze.
Attenzione: quello che viene rinnegato è un principio liberale, non un principio
progressista. Un governo, per andare avanti e funzionare correttamente, deve avere
contropoteri. Quando hanno deciso di togliere di mezzo il Senato, avrebbero dovuto
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istituire dei contropoteri interni, degli elementi di tutela delle opposizioni. Non l’hanno fatto.
Nel nuovo Parlamento, i diritti dell’opposizione saranno stabiliti da un regolamento che a
sua volta sarà approvato a maggioranza.
Il Senato però non è stato abolito.
Peggio. Uno dei maggiori elementi di irrazionalità è questa figura dei senatori part time.
Mezzi consiglieri regionali, o sindaci, e mezzi parlamentari. Dovrebbero rappresentare i
territori e alla fine invece, per paradosso, tra le loro funzioni c’è pure l’elezione di 2 giudici
costituzionali. Giustamente, la minoranza del Pd aveva sostenuto che i senatori dovessero
essere eletti, avere un’investitura popolare, come previsto dalla Costituzione stessa.
L’articolo 2 comma 2 della riforma ha disatteso questa tesi. La scelta dei senatori sindaci,
che saranno una trentina, non si conforma a nessun precedente, è manifestamente
incostituzionale. Mentre la presunta scelta dei senatori consiglieri o è conforme al risultato
delle elezioni regionali – è allora è inutile – oppure se ne distacca, e allora viola l’articolo 1
della costituzione.
Le vostre iniziative hanno l’obiettivo di cancellare insieme Italicum e ddl
costituzionale. Qual è il famigerato “combinato disposto” delle due riforme?
“Combinato disposto” ha un suono ostico. È un termine tecnico, giustiziale: significa che
una fattispecie è regolata non da una sola, ma da più norme. Proviamo a spiegarlo con un
esempio semplice. Il combinato disposto della riforma costituzionale con l’Italicum ha lo
stesso effetto di quando l’ossigeno si mischia con l’idrogeno: succede il finimondo. In
questo caso, che la democrazia soffre.
Del 30/10/2015, pag. 8
Le tre iniziative
SI CHIAMA “Coordinamento per la democrazia co s t i t u z i o n a l e ”, è stato fondato da
un’ampia rete di associazioni progressiste (tra cui Libertà e Giustizia e Articolo 21) e da
una lunga lista di intellettuali, attivisti e studiosi (come Rodotà, Zagrebelsky, Carlassare,
Pace, Villone, Gallo, Besostri, Falcone, Grandi, Falomi, Bonsanti). L’obiettivo è cancellare
le due riforme simbolo del governo Renzi: l’Italicum e il ddl costituzionale. Contro il primo
saranno presentati una raffica di ricorsi, da presentare nei tribunali dei capoluoghi dei
distretti di Corte d’appello a novembre, e sono già stati depositati due quesiti referendari.
Contro la riforma della Carta, invece, c’è da preparare la battaglia del referendum
confermativo nel 2016. Ai lavori del Coordinamento sono interessati M5S, Sel e alcuni
parlamentari fuoriusciti dal Pd e della minoranza dem.
Del 30/10/2015, pag. 2
Dimissioni ritirate Marino sfida il Pd
“Non accetterò mai la porta di servizio”
La richiesta del dibattito in aula: “Io sto cambiando Roma” Eletti dem
verso l’addio di massa per far sciogliere il Consiglio
SEBASTIANO MESSINA
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«Io non voglio uscire dalla porta di servizio, caro Orfini. Se devo farlo, voglio uscire dalla
porta principale: l’aula di Giulio Cesare ». Cosa avesse in testa, Ignazio Marino l’aveva
detto chiaramente, mercoledì notte, al commissario del Pd romano che gli aveva dato lo
sfratto dal Campidoglio. Poi, ieri pomeriggio, mentre al Nazareno si faceva l’appello dei
consiglieri comunali del Pd pronti a rinunciare al seggio, il sindaco- marziano ha fatto il
passo che ormai tutti aspettavano: dimissioni ritirate, da oggi – ma forse solo per oggi - lui
ha di nuovo i pieni poteri. In realtà, questa mossa Marino aveva in mente di farla solo
stasera. Era convinto di avere ancora 24 ore di tempo, dopo la lunga discussione con la
delegazione del Pd a casa del vicesindaco Causi. «Io capisco la tua posizione – gli aveva
detto Matteo Orfini con tutta la pacatezza di cui era capace – ma sappi che domani io
riunisco il gruppo, e che se tu fai marcia indietro, un minuto dopo 25 consiglieri presentano
le dimissioni e il Consiglio viene sciolto». Marino non si era spostato di un millimetro: «Io
chiedo un chiarimento in aula. Non è solo un mio diritto: lo dobbiamo, voi ed io, ai cittadini
romani che mi hanno eletto sindaco».
Ognuno dei due conosceva dunque le prossime mosse dell’altro, ma la lunga
chiacchierata sull’importanza delle delibere in calendario ieri sera – alcune delle quali,
come il buono casa, premevano soprattutto agli assessori del Pd - aveva lasciato al
sindaco la convinzione che durante la giornata non ci sarebbe stato nessun colpo di
scena. La svolta è arrivata nel primo pomeriggio. Marino aveva appena finito il suo pranzo
(il solito piatto di frutta mangiato in fretta nel suo ufficio) quando ha letto le notizie che
arrivavano dal Nazareno, con i numeri e i nomi dei consiglieri pronti a dimettersi. E si è
convinto che il Pd volesse giocare d’anticipo, facendo decadere il Consiglio prima ancora
che lui potesse chiederne la convocazione. Così ha deciso di fare la sua mossa. Ha
chiamato al telefono la presidente del Consiglio comunale – riunita anche lei, con gli altri,
con Orfini – e glielo ha annunciato. «Ritiro le dimissioni. Ho voluto che tu fossi la prima a
saperlo, come era giusto. Stasera ti consegnerò la lettera, con la richiesta di fare all’aula le
mie comunicazioni urgenti».
Una lettera, quella del sindaco, che rivendica i successi ottenuti ma fa anche un severo
mea culpa. «Mentre sono certo – scrive Marino - che il nostro operato abbia con fatica
raggiunto l’obiettivo di ripristinare legalità e trasparenza dell’agire amministrativo, mi è
chiaro che questo sforzo non è stato da solo sufficiente a garantire i necessari risultati di
buon governo della città». E ancora: «Non ho difficoltà ad ammettere alcuni errori», perché
«ho dato l’impressione di non voler dialogare e di non voler condividere queste scelte con
la città». Non era questo, scrive il sindaco, «il segno che volevo dare», ringraziando il Pd
per aver dato «prova di coraggio e determinazione con voti che resteranno storici per la
nostra Capitale». Per queste ragioni, conclude, «ritengo non sia giusto eludere il dibattito
pubblico, con un confronto chiaro per spiegare alla città cosa sta accadendo e come
vorremo andare avanti». Fino a ieri pomeriggio il sindaco aveva continuato a ripetere in
pubblico che lui stava ancora riflettendo sul ritiro delle dimissioni. La mattinata l’ha passata
chiamando uno per uno i suoi assessori per confermare che la giunta si sarebbe riunita, la
sera, in qualunque caso, e per concordare con ciascuno di loro le delibere da mettere ai
voti. Le porte del suo ufficio si sono aperte solo per il suo staff e poi per la più fedele dei
suoi assessori, Alessandra Cattoi, l’unica di cui si fida ciecamente. È con lei che ha
valutato, all’ora di pranzo, tutti i pro e i contro di ciascuna mossa. Poi, mentre stavano
ancora studiando la road map per fermare il conto alla rovescia, sono cominciate ad
arrivare le notizie d’agenzia sulla riunione al Nazareno, convocata da Orfini per le 14. La
conta dei dimissionari era iniziata. Due ore dopo, Marino ha preso la sua decisione, la
stessa che aveva anticipato martedì a Repubblica : la cosa più giusta, anzi inevitabile a
quel punto, era ritirare le dimissioni e chiedere un dibattito in Consiglio.
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«Se c’è un luogo sacro per la democrazia, in questa città – ha spiegato il sindaco
scendendo le scale del Palazzo Senatorio - quel luogo è l’aula di Giulio Cesare. È lì che
voglio avere una discussione aperta, franca e trasparente con la mia maggioranza. Se la
mia maggioranza lo vorrà, naturalmente ». Ma intanto, attorno al Marziano, il Pd sta
bruciando tutti i ponti. Tre assessori si sono dimessi, altri quattro stanno facendo le valigie.
E se davvero oggi Orfini riuscirà a far arrivare in Campidoglio 25 lettere di dimissioni, le
porte dell’aula di Giulio Cesare resteranno chiuse. Fino alle prossime elezioni.
Del 30/10/2015, pag. 3
Ma per il sindaco si riapre il fronte delle note
spese adesso è indagato
CARLO BONINI
Nel giorno in cui ritira le proprie dimissioni, Ignazio Marino gioca un’ultima mano da baro.
Mente, facendo annunciare dal suo legale come in via di archiviazione una vicenda
giudiziaria che tale non è (l’inchiesta per truffa sulla Onlus no profit “Imagine” di cui è
fondatore) e tace un dettaglio cruciale dell’affaire che ha segnato la sua catastrofe
personale e politica. Una notizia di cui è al corrente almeno da mercoledì, quando gli è
stato notificato un avviso di garanzia, e che ha continuato a tacere alla sua Giunta ancora
fino a ieri sera. È stato iscritto al registro degli indagati della Procura di Roma per peculato
e concorso in falso in atto pubblico nell’inchiesta sui giustificativi delle note spese saldate
con la carta di credito del Comune. La faccenda degli “scontrini”, per dirla altrimenti.
Vicenda per la quale, accompagnato dai suoi avvocati, si era spontaneamente presentato
di fronte al procuratore aggiunto Francesco Caporale e al sostituto Roberto Felici non più
tardi del 19 ottobre scorso. Quel giorno, lasciando gli uffici giudiziari dopo quattro ore, si
era incredibilmente autoassolto con argomenti “suicidi” che, infatti, sono diventati “autoincriminanti”. Uno su tutti. Aver insistito sulla circostanza della palese falsità delle sue
firme in calce ad almeno 7 giustificativi, spiegando che si trattava di una prassi
amministrativa delle sue segreterie non solo a lui nota ma da lui avallata. Detta altrimenti,
per liberarsi dell’accusa di peculato (per sostenere la quale è necessario il dolo, dunque la
consapevolezza di essersi appropriato per fini privati di un bene pubblico), Marino aveva
spiegato che le sue segreterie lavoravano a mano libera e di intuito nel compilare i
giustificativi delle sue cene saldate con carta di credito («A distanza di mesi, guardavano
quale era stato il mio ultimo impegno in agenda e si regolavano di conseguenza sul nome
dell’ospite o degli ospiti, imitando la mia firma »). Una toppa peggiore del buco. Perché, in
questo modo, il sindaco si è cucita addosso l’accusa persino peggiore di concorso in falso
materiale e ideologico, un reato per giunta procedibile di ufficio.
Una maldestra acrobazia (l’ennesima) di un uomo non più evidentemente in controllo,
prigioniero di se stesso e di una vicenda politica trasformata in questione personale. Come
del resto documenta anche la schizofrenia con cui si è impiccato al suo fardello giudiziario
dal giorno delle sue dimissioni. Quel giovedì 8 ottobre, Marino, nella sua «lettera alla
cittadinanza», spiega che la sua decisione è figlia di condizioni politiche venute meno. Che
il fantasma di un’inchiesta giudiziaria è volgarità che non lo riguarda. «Nessuno pensi o
dica che lo faccio come segnale di debolezza o addirittura di ammissione di colpa – dice per questa squallida e manipolata polemica sulle spese di rappresentanza e i relativi
scontrini». Poi, il 19 ottobre, dopo la deposizione in Procura, la piroetta. Ritenendosi
“liberato” dal fardello giudiziario si convince di poterlo trasformare nel suo Rubicone.
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Spiega dunque che potrebbe ripensarci. Prepara ad uso delle telecamere il bagno di folla
che deve mostrare quel pezzo di città che non si rassegna al commiato. E per farlo, gioca
con spregiudicatezza anche le sue ultime mosse da sindaco. Nel comunicare di aver
ritirato le dimissioni, non solo infatti tace la circostanza di essere a conoscenza della sua
iscrizione al registro degli indagati per l’affaire scontrini, ma fa comunicare dal suo legale
Enzo Musco che la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione di un’altra inchiesta che lo
riguarda. Quella sulla Onlus no profit “Imagine” di cui è fondatore. Con una chiosa:
«Adesso – dice Musco - mi auguro al più presto che sulla vicenda degli scontrini a Marino
venga inviato un avviso di garanzia, a sua tutela, affinché possa andare in archivio anche
questo procedimento penale». Ebbene, la notizia della richiesta di archiviazione è falsa
(sarà smentita dalla Procura). Mentre l’avviso di garanzia gli è già arrivato.
Del 30/10/2015, pag. 5
La linea di Renzi: andare fino in fondo
Quei dubbi sulla gestione di Orfini Il leader dem e la strategia di
allargamento al centro per le Comunali: a Roma Lorenzin in pole
ROMA «Per fortuna che mi era stato detto che al mio ritorno avrei trovato tutto a posto,
che il problema della Capitale sarebbe stato risolto»: quando arriva a Roma Matteo Renzi
preferisce buttarla sullo scherzo, con i collaboratori, ma è ovvio che il presidente del
Consiglio non è affatto contento della situazione romana.
Prima Matteo Orfini gli aveva assicurato che Ignazio Marino non avrebbe ritirato le
dimissioni (e il commissario del partito capitolino aveva confermato questa sua opinione
ancora ieri pomeriggio all’inizio della riunione dei consiglieri comunali del Pd). Dopo,
quando il sindaco aveva dimostrato quanto fossero fallaci le sue previsioni, Orfini aveva
tranquillizzato Palazzo Chigi: abbiamo lo stesso i numeri per farlo andare via. Ma a sera
quei numeri citati dal commissario del Pd romano erano ancora ballerini.«Si vada fino in
fondo con le dimissioni dei consiglieri, non voglio nemmeno contemplare l’ipotesi che
Orfini non ne trovi 25», sono le parole di Renzi ai suoi. E qualche ora più tardi, quando
ormai è notte, Renzi viene «accontentato».
Il premier ieri avrebbe voluto godersi il successo della missione in Sud America e buttarsi
poi a capofitto sulla legge di Stabilità. In parte lo ha fatto. Ma solo in parte. Perché, per
quanto abbia deciso di non farsi «invischiare» dalla «palude» romana, Renzi non ha
potuto fare a meno di seguire le vicende capitoline. Per carità, da parte sua c’è ancora il
«massimo sostegno» a Matteo Orfini, ma c’è anche tanta impazienza, per una vicenda
che si poteva risolvere prima. «Mi è stato detto — si è sfogato il premier con i collaboratori
— che bisognava continuare ad appoggiare Marino e che la sua giunta andava rafforzata
con degli innesti esterni, ma poi è andata come è andata». E ora bisogna evitare che la
situazione diventi «ingestibile». Perché non è certo il caos romano permanente ciò che
vuole il presidente del Consiglio, che ha di fronte a sé delle elezioni amministrative che
rappresenteranno, suo malgrado, un banco di prova per il suo governo.
Come se non bastasse, la minoranza del Partito democratico ha utilizzato e sta utilizzando
ancora il «caso Marino» nella sua battaglia contro il premier. «Anche su questo debbono
attaccarmi, tutto pur di mettermi in difficoltà», commenta amaro Renzi con i collaboratori.
Insomma, per il premier quella di ieri è stata una giornata difficile. Eppure Renzi sta già
pianificando la sua strategia elettorale. A Roma come a Milano. Niente accordi preventivi
con Sel, come in passato: alle amministrative, secondo le sue intenzioni, dovrebbe
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debuttare il nuovo Pd. Che a Milano dovrebbe avere il volto di Giuseppe Sala e nella
Capitale potrebbe avere quello della ministra della Sanità, la ncd Beatrice Lorenzin.
Dunque la caccia all’elettorato di centro è aperta. Le elezioni di giugno, in alcune città
italiane, potrebbero quindi servire a lanciare il Pd di rito renziano, che guarda anche a
nuove alleanze. E il referendum consultivo, che seguirà dopo qualche mese, potrebbe
servire a cementare questo nuovo schieramento: i comitati per il «sì», che saranno
numerosi e sparsi in tutta Italia e che raccoglieranno tutte le forze politiche favorevoli alla
riforma costituzionale, dovrebbero essere la fucina in cui forgiare la coalizione che
scenderà poi in campo alle elezioni politiche.
Questi sono i piani di palazzo Chigi per il futuro, ma ora c’è il presente da affrontare. E per
farlo occorre che oggi a Roma 25 consiglieri comunali si dimettano.
Del 30/10/2015, pag. 6
Ore da incubo per il Pd ira di Renzi contro
Orfini “Poteva fermarlo prima”
Riunione con i 19 consiglieri a caccia di altre 6 firme Il commissario:
basta, Roma non è proprietà di Marino
TOMMASO CIRIACO
GIOVANNA VITALE
ROMA .
La porta dello studio di Matteo Orfini non è chiusa, semmai sprangata. Dentro
boccheggiano diciannove consiglieri del Pd romano, fuori si consuma la crisi più lacerante
dell’era Renzi. «Non usciamo da questa stanza — promette il presidente del partito —
finché non mandiamo a casa Marino». E invece alle 22, dopo sette interminabili ore, la
compagnia abbandona stravolta largo del Nazareno senza lo scalpo del sindaco. Servono
25 eletti disposti a mollare il Campidoglio, sei in più dei democratici. La rincorsa diventa
disperata, i sei dell’opposizione alzano il prezzo. I dimissionari, questo è l’accordo firmato
sulla sabbia, dovrebbero presentarsi stamane al Comune per sancire l’addio. Dovrebbero,
perché a sera il commissario chiama Matteo Renzi e ammette: «Ci siamo, ma solo se
stanotte qualcuno non ci ripensa». Montagne russe, appunto. Con il Partito democratico
sull’orlo di una crisi di nervi. Il fuso orario cubano disturba il premier, ma è nulla rispetto
alla grana capitolina e alle continue telefonate di Orfini. «Devi chiudere questa storia,
adesso», è il mandato di Palazzo Chigi. Assomiglia a un ordine, in realtà, perché il
pasticcio di Roma ha scavato un solco tra i due: «Marino è un irresponsabile e sembra
aver perso la testa. Ma tu — attacca il capo del governo — dovevi chiuderla prima, te
l’avevo detto. Ora siamo nei casini».
In serata Orfini e il capogruppo Fabrizio Panecaldo in una dichiarazione congiunta
ribadiscono che il percorso «chiaro e trasparente» è tracciato: «Domani Roma volta
pagina». Si va alle dimissioni, «Roma non è proprietà privata» di Marino. «Spiace che lui
abbia vanificato uno sforzo per individuare soluzioni che avessero al centro la città e non i
destini personali». L’obiettivo minimo è buttarsi alle spalle l’incubo e nominare al più presto
(già oggi, se possibile) il commissario prefettizio che traghetti la città al voto. Circolano i
nomi di Paola Basilone, Bruno Frattasi e Riccardo Carpino, con quest’ultimo in pole.
Questo è il dopo, il problema resta il presente. Per calare il sipario il presidente del Pd le
tenta tutte. A metà pomeriggio propone la soluzione delle dimissioni di massa. «Meglio
considerare lo scenario peggiore». Nessuno, però, si aspetta che il sindaco sparigli così
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presto. E invece alle 17 un consigliere mostra sull’iPhone l’ultimora più indigesta: “Marino
ha ritirato le dimissioni”. Orfini barcolla: «E che vi devo dire...». Lascia la stanza, si attacca
al cellulare. E compone il numero del premier.
Il capo del governo vuole tenersi alla larga dal pasticcio, però. Tocca a Orfini ballare.
Rientra in stanza, azzanna alla giugulare i consiglieri in bilico. «Io posso anche saltare, ma
qui saltiamo tutti. Non sono concesse defezioni ». La questione non è tanto se dimettersi,
ma assieme a chi. «Io con Alemanno non firmo », annuncia senze mezze misure il
renziano Nanni. «Firmo anche con Belzebù, pur di mandare a casa Marino », ribatte
Corsetti. «Intanto assicuriamoci gli altri sei consiglieri», propone Orfini. Dalle 18 in poi la
caccia diventa spietata. Si scandaglia il consiglio con l’obiettivo di trovare sei firme
“potabili”: «Intesa con chiunque, purché non abbiano governato con Alemanno». Un eletto
di Centro democratico dice subito sì. Venti consiglieri, dunque. Un altro della lista Marino
pure, e sono ventuno. Cosimo Dinoi, del Misto, promette ma poi si sfila. L’alfaniano
Cantiani invece accetta: ventidue.
L’ago della bilancia diventa Alfio Marchini, assieme al suo consigliere Alessandro Onorato.
Il costruttore romano, in volo per Milano, prende tempo. Orfini lo pressa. «Forse non hai
capito, io non so se domattina avrò ancora le mie diciannove firme. Dobbiamo andare in
Comune anche stanotte». «Facciamo domattina alle sette», è la contro- proposta. Per
tagliare il traguardo servono però altri due volenterosi: si valutano i due fittiani, che mai
hanno governato con Alemanno.
La scossa del Nazareno fa traballare il partito. E chi oscilla paurosamente è proprio Orfini,
investito dall’ira di Renzi e sottoposto al fuoco della minoranza interna. Qualcuno azzarda:
è pronto alle dimissioni. Di certo è lui, secondo gli oppositori del renzismo, l’innesco per
una tempesta perfetta. «Il tema non è Matteo — sostiene Nico Stumpo, bersaniano — ma
l’assenza di un luogo in cui discutere. Marino è condannato? Possiamo almeno discutere
se è giusta la pena di morte? Facciamo tante direzioni, convochiamone un’altra? ».
L’opposizione interna fiuta l’odore del sangue. E mira a chi sta più in alto. «Tocca al
premier metterci la faccia», sibila Alfredo D’Attorre. «Nessuno vuol fare sciacallaggio —
riflette Davide Zoggia — ma il problema rischia di superare i confini della Capitale».
Le scorie di questo scontro intossicano anche gli scantinati del Campidoglio. E nessuno
risparmia colpi a nessuno: «Chi attacca Orfini strumentalizza — si infuria il “turco”
Francesco Verducci — Sono proprio quelli che hanno permesso al partito di Roma di farsi
intaccare da Mafia capitale ». Eppure gli oppositori interni scorgono il varco e sono pronti a
chiedere le dimissioni di Orfini dalla presidenza del partito. «Un momentaccio», per dirla
con Francesco Rutelli.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 30/10/2015, pag. 13
Quel filo che lega i padroni della Sicilia e i
poteri di Roma
Gli affari nell’isola e i summit del mercoledì all’hotel Bernini ecco i
protagonisti del sistema messo in crisi dalle indagini
ATTILIO BOLZONI
SONO diventati padroni di tutto. E anche di tutti. Hanno ridotto la Sicilia in una sorta di
schiavitù, signori e servi. Lo chiamano il califfato di Palermo. Eccola la classe dirigente
dell’isola che, dieci anni fa all’incirca, si è presentata all’Italia per fare una «rivoluzione ».
Affari, affari, solo affari. Sotto la maschera c’è sempre stata una Cupola che sembrava
intoccabile.
Oggi, dopo la conquista di un potere che — immutabile — è passato attraverso voti e
apparati e commerci da Totò Cuffaro a Raffaele Lombardo e da Raffaele Lombardo a
Rosario Crocetta, c’è un sistema che crolla. Si sta sgretolando sotto i colpi delle inchieste
giudiziarie (e anche giornalistiche), si è fatto poltiglia fra mazzette e scandali mentre si
allungano ombre su coperture politiche che partono dal governatore dell’isola e arrivano al
ministro dell’Interno Angelino Alfano — amico fin dagli anni ’90 del presidente della Rfi
Dario Lo Bosco appena arrestato per tangenti e grande sponsor per l’Agenzia dei beni
confiscati di Antonello Montante poi indagato per reati di mafia —, sfiorano al momento
l’alta burocrazia, conducono al cuore di un dominio che ha governato la Sicilia con la
corruzione e con la paura. Intorno ai nuovi padroni di Palermo ormai però c’è il vuoto.
Arresti, investigazioni, libri mastri delle «stecche», pentiti di Cosa Nostra. Non sono casi
isolati, episodio dopo episodio e nome dopo nome tutto torna.
Le cronache degli ultimi mesi raccontano di vergogne e ruberie e combine dove sono stati
intrappolati costruttori come Mimmo Costanzo (assessore al Bilancio della prima giunta del
sindaco di Catania Enzo Bianco e «volto nuovo» dell’imprenditoria siciliana, legatissimo al
presidente di Unioncamere Ivan Lo Bello) e commissari straordinari di camere di
commercio come Ivo Blandina, il presidente e il vice presidente dell’Ance Salvo Ferlito e
Pietro Funaro, il presidente della camera di commercio Roberto Helg (condannato ieri a 4
anni e 8 mesi), una carrellata di personaggi meno noti degli ambienti industriali e del
sottobosco politico di Palermo che stanno scivolando nelle maglie delle indagini. In Sicilia
— con la complicità di un paio fra ministri ed ex ministri, questori, prefetti, funzionari
ministeriali, ufficiali della Finanza in servizio e in congedo, colonnelli in forza ai Servizi,
capi centri Dia — hanno creato un «club» che ha deciso ogni grande scelta dal 2005 in
poi. Uno dei registi della trama politica è l’ex presidente della commissione antimafia
Beppe Lumia, che ha traghettato pezzi di Sicilia da una sponda all’altra, dal centro-destra
al centro-sinistra giocando su mafia e antimafia e puntando alla fine su due uomini,
Rosario Crocetta e Antonello Montante. Il primo è diventato ufficialmente il governatore
dell’isola, il secondo lo è stato di fatto condizionandolo in tutto per tutto l’attività di governo.
Alla luce del sole. Promiscuità fra pubblico e privato, commistioni. Che cosa è quella di Lo
Bosco all’Ast che stipula contratti — 160 mila nel 2013, 80 mila nel 2014 — con l’azienda
di ammortizzatori del delegato nazionale per la legalità di Confindustria e che a un’altra
società di Montante affitta vecchi pullman per 100 euro al mese? È il gioco delle tre carte.
Con un assessore alle Attività Produttive della Regione Linda Vancheri, da sempre agli
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ordini di Montante, che ha proposto nomine (anche quella dello stesso Lo Bosco alla
camera di commercio di Catania) e che ha preso disposizioni di governo su mandato di
imprenditori che hanno militarmente occupato ogni postazione pubblica che poteva
vomitare denaro. La Vancheri conosce molti segreti del califfato di Palermo.
Ci sono due luoghi che più di ogni altro segnano la storia di questa vicenda siciliana di
potere e mistero. Uno è l’hotel Bernini di Roma e l’altro Palazzo d’Orleans, la sede della
presidenza della Regione siciliana. Sono i due quartieri generali dove in questi ultimi anni i
nuovi padroni della Sicilia — qualche volta con loro anche un ex magistrato molto noto che
ha fatto con devozione da ufficio stampa a Montante — si incontrano (all’hotel, il mercoledì
mattina) per determinare le sorti della politica regionale e scegliere di volta in volta i loro
gregari. È una connection fra Roma e Palermo per condizionare ogni attività in società
pubbliche e private, camere di commercio, promuovere aziende da selezionare per l’Expo,
mettere le mani su porti e interporti e aeroporti, trasporti su gomma, su navi e su treni,
pilotare appalti per strade e ponti. E incarichi, investiture, premi ai fedelissimi. Poi,
all’improvviso, qualcosa si è rotto. Qualcuno ha cominciato a parlare, a denunciare. Come
il presidente di Confindustria Centro-Sicilia Marco Venturi. Come l’ex presidente dell’Irsap
Alfonso Cicero. E Palermo — non solo Palermo — trema.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 30/10/15, pag. 6
Gli immigrati ci regalano 3 miliardi
Dossier Idos. Non sono quelli della flessibilità Ue, ma la differenza tra
entrate fiscali e previdenziali assicurate dai "nuovi italiani" e le spese
sostenute per loro dal nostro Paese. Gli stranieri residenti sono ormai
oltre 5 milioni, e si avvicinano al 10% della popolazione: rimpatriata la
metà degli irregolari
Antonio Sciotto
Rappresentano quasi il 10% della popolazione italiana: gli immigrati hanno raggiunto
ormai una ragguardevole dimensione numerica nel nostro Paese: secondo il dossier Idos
2015, infatti, l’Italia è uno dei grandi paesi europei di immigrazione, con 5.014.000 stranieri
residenti alla fine del 2014 (incremento di 92 mila unità rispetto all’anno precedente),
mentre i cittadini italiani all’estero, aumentati di 150 mila unità, sono 4.637.000.
I dati emergono dal Dossier statistico Immigrazione 2015, a cura dell’Idos in
collaborazione con Confronti e Unar: il rapporto spiega che l’incidenza degli immigrati sulla
popolazione residente (8,2%) continua a essere superiore al valore medio europeo (6,2%).
Inoltre, il Dossier ha stimato in 5.421.000 persone la presenza straniera regolare
complessiva, includendovi anche i soggiornanti non comunitari in attesa di registrazione
anagrafica.
Gli stranieri residenti in Italia per oltre la metà sono cittadini di un paese europeo (oltre 2,6
milioni) e per poco meno del 30% provengono da un paese della Ue (1,5 milioni). La
collettività più numerosa è quella romena (1.131.839), seguita dai cittadini dell’Albania
(490.483), del Marocco (449.058), della Cina (265.820) e dell’Ucraina (226.060).
Ma l’arrivo degli immigrati nel nostro Paese rappresenta un costo o un beneficio?
Sicuramente il costo c’è, come è ovvio, ma poi facendo i calcoli risulta molto più alto il
beneficio: secondo una stima riportata nel Dossier, le entrate fiscali e previdenziali
ricollegabili ai lavoratori immigrati sono state nel 2013 pari a 16,6 miliardi di euro, mentre il
totale delle uscite sostenute nei loro confronti è stato di 13,5 miliardi. Il saldo quindi è
positivo di 3,1 miliardi di euro: che poi, pensandoci bene, è più o meno la cifra in maggior
«flessibilità» sul deficit che dovrebbe concederci la Ue proprio a causa della cosiddetta
«emergenza migranti». A ben vedere, quindi, 3 miliardi e rotti, grazie alla presenza degli
stranieri, in cassa li mettiamo già.
Ancora, nel 2013 il contributo al Pil nazionale assicurato dagli occupati stranieri è stato di
123.072 miliardi di euro (l’8,8% del totale). In particolare, essi versano in media 7–8
miliardi di contributi l’anno ma, non riuscendo tutti a maturare il diritto alla pensione, l’Inps
ha stimato che abbiano lasciato nelle casse previdenziali oltre 3 miliardi improduttivi di
prestazioni. Attualmente, i cittadini non comunitari beneficiari di pensioni previdenziali per
invalidità, vecchiaia e superstiti sono 35.740 (lo 0,2% di tutti i beneficiari), mentre i titolari
di pensioni assistenziali sono 51.361 (l’1,4% del totale).
A livello abitativo, la morosità incolpevole ha motivato nel 2014 il 90% delle richieste di
sfratto in Italia, coinvolgendo molte famiglie immigrate. I costi d’affitto nelle aree
metropolitane, dove gli immigrati sono più numerosi, risultano decisamente più alti: molti
capifamiglia stranieri hanno trovato un rimedio alle peggiorate condizioni di vita nel
rimandare temporaneamente la moglie e i figli nel paese di origine. D’altra parte, complici
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la crisi occupazionale e le restrizioni nella concessione dei mutui, l’affitto resta la scelta
maggioritaria per le famiglie di immigrati (62,8%), seguito dall’acquisto della casa (19,1%).
Altro dato interessante, i cittadini stranieri sembrano più “virtuosi” degli italiani, almeno dal
punto di vista penale. Secondo il Dossier Idos, infatti, nel periodo 2004–2013 le denunce
penali verso italiani sono aumentate del 28% mentre quelle a carico di stranieri sono
diminuite del 6,2%. Al 30 giugno 2015, i detenuti nelle 198 carceri italiani erano 52.754, di
cui 17.207 stranieri, cioè il 32,6% del totale, in calo del 4% rispetto a cinque anni fa. Nel
contesto di una diminuzione globale della popolazione detenuta, sottolinea il dossier, gli
straneri sono diminuiti in misura maggiore rispetto agli italiani.
Nel 2014 gli stranieri intercettati in condizione irregolare sono stati 30.906 (dati del
ministero dell’Interno) e di essi il 50,9% è stato effettivamente rimpatriato (15.726). Gli
arrivi via mare di profughi e altri migranti sono stati oltre 170 mila. Le richieste di asilo sono
state 64.625 nel 2014 e 30.535 nei primi sei mesi del 2015.
Lo studio offre anche uno spettro delle religioni: gli immigrati cristiani sono quasi 2 milioni
e 700mila e i musulmani più di 1 milione e 600mila (meno numerose le altre comunità
religiose).
L’Idos ha passato allo scanner anche il sistema di accoglienza italiano per i richiedenti e i
titolari di protezione internazionale: comprende 4 Centri di primo soccorso e accoglienza
(Cpsa); 10 di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) e di accoglienza (Cda); la rete Sprar
(Sistema di protezione per rifugiati e richiedenti asilo) e le strutture di accoglienza
temporanea (Cas). In particolare, le persone accolte dalla rete Sprar sono passate da
7.823 nel 2012 a 22.961 nel 2014, mentre a giugno 2015 la rete accoglieva solo il 25% dei
78 mila richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale, il 62% dei quali stava in
strutture di accoglienza temporanea.
Del 30/10/2015, pag. IX RM
La capitale degli immigrati “Più donne e
imprese sane”
A Roma e provincia è record di presenze In città sono 363mila,
aumentano i minori E crescono le aziende a carattere familiare
CECILIA GENTILE
OLTRE 520mila. Alla provincia di Roma spetta il primato del più alto numero di residenti
stranieri. Soltanto a Roma ne vivono 363mila, pari al 57,1%. E sempre la stessa provincia
ha il record per numero di permessi rilasciati per asilo o protezione umanitaria, 16.219,
cresciuti del 50% rispetto al 2013. La radiografia aggiornata dell’immigrazione in Italia
effettuata da Idos, in partenariato con Confronti e la collaborazione dell’Unar, ci fornisce il
quadro di un Lazio e una capitale dove la presenza massiccia degli immigrati riesce
ancora a movimentare l’economia locale, nonostante la crisi che ha investito l’Europa e
l’Italia abbia ridotto gli occupati e le rimesse nei paesi d’origine. E mentre l’edilizia e
l’industria vedono calare gli occupati stranieri del 2%, con la conseguenza dei permessi di
soggiorno non rinnovati e dell’espulsione, il settore dei servizi alla persona non conosce
crisi. Per questo le donne, richieste come badanti, colf, o per le attività di pulizia nelle
imprese e per piccoli lavori di sartoria, sono la maggioranza tra la popolazione straniera,
con una presenza pari al 52,4% del totale. «I servizi alla persona sono il grande motore
dell’immigrazione femminile — spiega Ugo Melchionda, presidente del centro studi e
ricerche Idos — anche se questi lavori risultano i più sottopagati e i più impegnativi perché
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spesso richiedono la presenza h24». Quadro confermato anche dai Paesi più
rappresentati nel Lazio e in provincia di Roma: Romania, Filippine, Bangladesh, Albania,
India, Ucraina, Polonia, Cina, Perù, Moldavia.
Di pari passo, crescono i minori, aumentati rispetto al 2013 del 3,6% e che adesso
risultano il 20% della popolazione straniera complessiva. Nel corso del 2014 i nuovi nati da
genitori stranieri sono stati 6.205, il 16,5% del totale delle nascite avvenute in provincia. È
da questi che viene un sostanziale contributo alla crescita demografica poiché il tasso di
natalità degli immigrati è superiore del 3,3% alla media della provincia. A scuola uno
studente su 10 è di origini straniere: più di 61mila ragazzi che nell’ultimo anno sono
aumentati dell’1,2%. Sul versante della produttività, le imprese straniere crescono, mentre
quelle italiane ristagnano. Nella provincia di Roma le attività familiari come negozi, internet
point e simili registrano una crescita dell’11,9% e con il ragguardevole numero di 57.050
rappresentano il 12,1% del totale delle imprese. Le rimesse nei Paesi di provenienza sono
diminuite del 7,7%, è vero, una riduzione più alta che nel resto del Paese, dove si registra
un — 3,8%. Ma con la somma complessiva di 891 milioni e 185mila euro la provincia di
Roma rimane al primo posto in Italia. «Uno strumento utilissimo per la conoscenza,
antidoto al pregiudizio», ha definito il dossier statistico Immigrazione 2015 il ministro degli
Esteri Paolo Gentiloni, invitato alla presentazione. «I pregiudizi — ha sottolineato — sono
spacciatori di odio e di paura».
del 30/10/15, pag. 6
«Uso della forza per prendere le impronte»
Leo Lancari
Ricorrere all’uso forza per identificare i migranti che rifiutano di fornire spontaneamente le
proprie generalità e di farsi prendere le impronte digitali. E’ l’ipotesi a cui starebbe
pensando il governo, almeno stando a quanto affermato ieri in commissione Migranti della
Camera dal direttore del Dipartimento immigrazione e della polizia di frontiera Giovanni
Pinto. Se confermata, la novità rappresenterebbe un deciso cambio di linea rispetto al
comportamento tenuto fino a oggi dalle forze dell’ordine anche se dovrebbe comunque
prima ottenere il via libera da parte del parlamento. Ma intanto ha lasciato senza parole i
deputati di fronte ai quali Pinto ha parlato. «Un’ipotesi, quella avanzata dal prefetto, che ci
ha lasciati stupiti e che personalmente non mi trova d’accordo», ha commentato il
presidente della Commissione Gennaro Migliore.
Quella del capo Dipartimento immigrazione e polizia di frontiera fa parte delle audizioni
indette dalla commissione parlamentare per il suo lavoro di indagine sull’accoglienza dei
migranti in Italia. «Il governo — ha spiegato Pinto — sta cercando di introdurre una norma
che consenta l’uso della forza nei confronti dei migranti che rifiutano il fotosegnalamento».
Non si tratta, ha aggiunto, «di spaccare le ossa, ma di permettere un uso della forza
commisurata alle esigenze di identificare chi arriva in Italia, come ci chiede l’Europa». Da
Frontex arriveranno dieci esperti in raccolta delle impronte per aiutare i funzionari italiani a
superare le difficoltà che incontrano: «Ci sono migranti che si mettono in posizione fetale
per evitare di essere identificati, a volte si impiegano anche 40 minuti per una
identificazione», ha proseguito Pinto.
La norma messa a punto dal Dipartimento guidato da Pinto, si trova attualmente sul tavolo
del ministro degli Interni Alfano per una sua valutazione. Prevede la possibilità di trasferire
in un Cie il migrante che rifiuta di farsi identificare, con relativa richiesta al giudice di
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autorizzare il trattenimento e — si specificherebbe — il prelievo coattivo delle impronte
digitali, nel rispetto della dignità dello straniero. Tutto da chiarire cosa si intenda per
prelievo coattivo delle impronte, se poggiare forzatamente la mano del migrante sulla
macchina che rileva le impronte (con il rischio tra l’altro di rendere non valida l’operazione)
o altro. Se comunque Alfano darà il suo via libera, spetterà poi al consiglio dei ministri
valutare la norma e, infine, al parlamento.
Se è vero che quello delle identificazioni è uno dei punti sui quali Bruxelles insiste di più
con l’Italia, accusata di non impegnarsi più di tanto nel prendere le impronte digitali dei
migranti, è pur vero che da quando in Europa si è giunti a un accordo sui ricollocamenti di
siriani ed eritrei le cose sono cambiate. Come dimostrano i numeri, che parlano di una
media di identificazioni pari al 70% dal primo gennaio al 30 settembre, improvvisamente
balzata al 95% a ottobre, dopo il consenso trovato proprio sui ricollocamenti.
Una novità infine per i richiedenti asilo che hanno ottenuto il permesso di soggiorno per
motivi umanitari o per protezione sussidiaria. Fino a ieri il rinnovo doveva essere fatto
presso la questura che aveva rilasciato il provvedimento. Su proposta ella commissione
Migranti il Viminale ha reso possibile effettuare i rinnovi presso qualunque questura.
Del 30/10/2015, pag. 19
Il reportage.
A Spielfeld sono iniziati i lavori per blindare il confine, ma mille migranti
sfondano il blocco: “Vogliamo arrivare in Germania”
In coda alla frontiera prima del muro “La
barriera austriaca non ci fermerà”
ANDREA TARQUINI
SPIELFELD (CONFINE AUSTRO-SLOVENO)
ALLA FINE hanno deciso il tutto per tutto. Quando dopo ore d’attesa sotto la pioggia
hanno saputo dell’imminente innalzamento del muro austriaco, oltre mille migranti del
campo di transito sloveno di Sentilj hanno preso bimbi e anziani e hanno sfondato le
barriere metalliche già poste da Vienna e da Lubiana. «Basta aspettare, no ai vostri muri,
marciamo verso un futuro migliore, viva la Germania, viva la Merkel», hanno gridato. E
sono riusciti a passare. La crisi dell’Europa oggi ha il suo epicentro qui, nella placida zona
collinosa tra Austria e Slovenia dove da un lato e dall’altro del confine i villaggi si
somigliano come ai tempi di Francesco Giuseppe. Qui dove feste in comune e matrimoni
misti erano tradizione, il muro annunciato apre gelide crepe di diffidenza. «Non ci fidiamo
più di quelli dell’altra parte», dicono entrambi, usando un linguaggio d’odio sconosciuto dal
1945. La linea dura austriaca iniziata l’altro ieri sera, qui ha suscitato shock: a Spielfeld e
per diversi chilometri a est e a ovest del passaggio di confine, sorgerà al una barriera per
sigillare la frontiera. Il muro di Orbán fa proseliti, qui lo vedi con i tuoi occhi. Non si sa
quanto sarà lunga né alta la barriera, ma genieri del Bundesheer, il piccolo esercito
austriaco, e i tecnici governativi sono già al lavoro per progettarla in corsa. «Dobbiamo
costruire un’Europa-fortezza», ha detto ieri la ministra dell’Interno austriaca, la
democristiana Johanna Mikl-Leitner, durante una visita al confine, per confortare e incitare
alla linea dura po-liziotti e soldati allo stremo, troppo pochi contro lo Tsunami umano.
«Non ne possiamo più, neanche il loro Muro ci fermerà», dice il 29enne afgano
Mohammed Reza Musafari, e racconta: «Siamo stati svegliati prima dell’alba dai poliziotti
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sloveni, in modo rude. “Muovetevi, adesso andate in Austria”, ci hanno detto. Abbiamo
marciato nel buio tra i campi, finché soldati e poliziotti austriaci ci hanno fermato, e per ore
siamo rimasti nella Terra di nessuno, l’Austria, via del sogno verso la Germania era solo a
300 metri ma irraggiungibile. E non potevamo più tornare indietro, gli sloveni ce lo
avevano detto. Allora alla fine abbiamo sfondato ». Sono appena arrivati qui dalla parte
austriaca, e Mohammed Reza si stringe alla giovane moglie: lei ha forti dolori al ventre,
non sanno nemmeno se sia malata o incinta perché nessun medico li soccorre. Chiedono
ad agenti e militari, «qual è la via per la Germania?» e nessuno dà loro una risposta.
Spielfeld, simbolo dell’Europa senza frontiere di Schengen che rischia di morire. «Gli
sloveni», dicono i poliziotti austriaci, «ci hanno inviato senza preavviso treni speciali con a
bordo duemila o tremila profughi, ma al massimo ne sono passati cinque- seicento». Nervi
a fior di pelle nei profughi che hanno sfondato le recinzioni, nei soldati e negli agenti. Il
benvenuto caloroso, il soccorso solidale che vedemmo in ottobre dalla parte austriaca del
confine con l’Ungheria di Orbán, è sparito. «Andatevene, giornalisti, non avete
l’autorizzazione a stare qui», intima un militare del Bundesheer a colleghi della tv
austriaca. Militari e poliziotti respingono persino i giovani volontari e i medici delle ong
accorsi per aiutare i migranti, prima che nasca il muro di Vienna. Muro troppo piccolo per
arginare la grande migrazione: da Spielfeld, in una settimana, di migranti ne sono passati
oltre 58mila e 75 autobus carichi di profughi sono attesi in Baviera provenienti dall’Austria.
«Non sappiamo gestire la crisi e adesso annunciamo il muro, intanto a Vienna abbiamo
già migliaia di migranti senza tetto, con l’inverno e le gelate in arrivo. Le stazioni della
capitale sono già piene, non c’è più posto», spiega allarmato Peter Hacker, responsabile
governativo per i migranti.
Anche i poliziotti sono allo stremo, troppo pochi davanti alla marea umana: e ora
minacciano uno sciopero. «Nelle prossime ore, con noi ancora senza muro, potrebbero
arrivarne altri 14 mila», afferma un ufficiale in tenuta da campo. Scontri, scambio d’insulti,
tensione tremenda tra migranti passati a forza, militari e agenti. Da lontano, i profughi
hanno visto la ministra ideatrice del muro, Johanna Mikl-Leitner, che da una collina
osservava la situazione. Non conoscono i volti d’Europa, hanno subito chiesto con
speranza: «Chi è, Angela Merkel?». «No, vi sbagliate, sedetevi in terra e non andate
oltre», gli hanno risposto in inglese urlando nervosissimi i militari del Bundesheer.
«Imparate ad aspettare: e a lungo. Avete tempo ».
del 30/10/15, pag. 1/15
Dal carcere al Cie, l’Italia fermi l’espulsione di
Abdel Touil
Caso Touil. Dal carcere al Cie con rischio rimpatrio, l’Italia impedisca la
riedizione del «caso Shalabayeva»
Luigi Manconi
Ai suoi legali, Silvia Fiorentino e Guido Savio, il ventiduenne marocchino Abdelmajid Touil
è apparso «in condizioni fisiche e soprattutto psichiche gravemente compromesse» e
ancora: «lo sguardo perso nel vuoto, incapace di riconoscere le persone» comprese quelle
con le quali ha avuto qualche dimestichezza in un passato assai recente. Per la verità, non
è raro che in un Centro di identificazione ed espulsione (Cie), come quello in cui ora è
trattenuto Touil, a Torino, le persone si trovino in un simile stato.
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Io, il giovane marocchino, l’ho incontrato cinque giorni fa nella sua cella, nel carcere di
Opera, nei pressi di Milano. Abdel è alto circa un metro e ottanta e di bell’aspetto. In quella
circostanza indossa una felpa scura e i pantaloni di una tuta e, ai piedi, un paio di infradito
azzurre, la calzatura più diffusa in tutte le carceri italiane. Rispetto alle foto pubblicate la
scorsa primavera, mi appare smagrito e scavato. E, soprattutto, come rannicchiato in se
stesso, le spalle strette e lo sguardo smarrito.
Ha vissuto in una condizione di autentico panico le ultime settimane, atterrito dalla
preoccupazione che la sentenza di un tribunale italiano potesse respingerlo in quella
Tunisia dove è indicato come corresponsabile di un’atroce e sanguinosa strage. Di
conseguenza, non mi è difficile immaginare, che questo giovane uomo, liberato mercoledì
mattina e, appena poche ore dopo, nuovamente rinchiuso in un luogo che può risultare
«peggio di un carcere» (secondo un’opinione diffusa), sia precipitato in un profondo stato
confusionale. Anche perché, va detto, la prospettiva temuta fino a 48 ore fa e, poi, in
apparenza sventata, ora sembra riproporsi inalterata e altrettanto minacciosa: respinto nel
proprio paese di nascita, il Marocco, diventa altamente probabile l’estradizione in Tunisia.
Oltretutto, Abdel proviene da una situazione di penuria estrema sotto il profilo sociale e
culturale, e ha vissuto, nei cinque mesi di detenzione, come precipitato in un universo
totalmente sconosciuto. Una cella di una istituzione di un paese del quale sembra ignorare
tutto: legge e consuetudini, lingua e valori. Finalmente uscitone, ora si trova in una
istituzione, se possibile, ancora più crudele, e senza nemmeno le regole, i codici e le
gerarchie che amministrano la vita carceraria assicurandole almeno un po’ di razionalità.
Ma perché mai Abdel è stato condotto qui? L’altro ieri, non solo è stata respinta la richiesta
di estradizione ma è accaduto che la procura di Milano archiviasse le indagini per
terrorismo internazionale e strage, dal momento che gli indizi a suo carico sono risultati
assai fragili e decisamente non attendibili. Ciò nonostante, Abdel è stato immediatamente
trasferito nel Cie di Torino, destinato a un immediato rimpatrio. Ma chi ci assicura che non
sarà il Marocco a consegnarlo alla poco affidabile giustizia tunisina? Insomma, quali
garanzie ci sono a tutela della sua incolumità? Dopo cinque mesi di pesante detenzione,
rivelatasi del tutto immotivata e inutilmente afflittiva, possibile che non si trovasse una
diversa soluzione? Sua madre è regolarmente residente a Gaggiano, a pochi chilometri da
Milano, da 9–10 anni e li vivono anche un fratello e una sorella. E sempre lì Abdel Touil si
era recato ad abitare, nella casa della madre, appena sbarcato in Italia; e nella vicina
Trezzano sul Naviglio aveva iniziato a frequentare con assiduità un corso per
l’apprendimento della lingua italiana.
Tutto ciò e la sentenza della Corte d’appello di Milano dovrebbero costituire una ragione
più che sufficiente per concedergli, il prima possibile, la protezione internazionale, proprio
per evitare che la sua vita sia ancora messa in pericolo. E proprio perché una misura di
protezione gli permetterebbe di portare avanti il percorso di integrazione intrapreso lo
scorso febbraio. Ma il suo piano di inserimento è stato brutalmente interrotto prima dalla
detenzione nel carcere di Opera e ora dal trattenimento nel Cie di Torino. Il rilascio di un
permesso di soggiorno sarebbe un doveroso risarcimento. Guai se l’Italia, dopo aver
inflitto a Touil un’inutile carcerazione, e dopo aver mostrato il suo volto migliore e più
garantista con la sentenza della quinta sezione penale della Corte d’appello di Milano, ne
mettesse nuovamente a repentaglio l’incolumità e il futuro. Sarebbe, come
opportunamente scrivono i suoi avvocati, una riedizione dello sciagurato «caso
Shalabayeva».
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
Del 30/10/2015, pag. 11
Unioni civili, scontro Alfano-Orlando
Il ministro Ncd: “Sono in totale disaccordo col collega sulle adozioni”. Il
Guardasigilli: “Non è una novità” Lotti: “Per approvare il testo possibili
anche maggioranza diverse”. Il renziano Maran tratterà con i centristi
GIUSEPPE ALBERTO FALCI
ROMA .
È scontro aperto tra i due ministri Andrea Orlando e Angelino Alfano. A riaprire ancora una
volta le polemiche sono le unioni civili. Dopo l’intervista rilasciata a
Repubblica dal ministro della Giustizia, in cui quest’ultimo affermava la necessità di avere
«al più presto una legge sulle unioni civili che preveda anche adozioni», Alfano ha
replicato a muso duro. «Sono totalmente in disaccordo con il ministro Orlando.Ogni
bambino deve avere una mamma ed un papà e con i bambini non si scherza». Una presa
di posizione che lascia il segno e acuisce le distanze tra i dem e i cattolici. Nelle
precedenti settimane si era già consumato uno scontro sulla cosiddetta stepchild adoption,
ovvero sulla possibilità per le coppie omosessuali di adottare il figlio del partner. E in
quell’occasione il premier Renzi convocò la delegazione di Ncd, a Palazzo Chigi, per
stemperare gli animi e per garantire la tenuta dell’esecutivo. Ieri la storia si è ripetuta. Ma
questa volta il Nazareno non intende cedere alle richieste dei centristi. D’altro canto, al
netto dei disagi dell’Ncd i numeri dovrebbero essere dalla parte di Matteo Renzi. A
testimoniarlo le parole di Luca Lotti. Il fedelissimo del premier, che solitamente centellina
le dichiarazioni, esce allo scoperto. E anticipa: «Quel che conta è fare la legge. L’abbiamo
promesso e vogliamo portare a casa anche questo risultato ». Il sottosegretario mette nero
su bianco un particolare di non poco conto. Tra le ipotesi in campo, assicura Lotti, c’è
anche quella di cercare una maggioranza alternativa. Dunque sono due gli scenari. Quello
ottimale, che eviterebbe scosse all’interno dell’esecutivo, prevederebbe il sostegno del
Ncd. «Quando il treno partirà la maggioranza dei senatori di Angelino salirà in carrozza »,
sussurrano in Transatlantico. Sul pallottoliere infatti sono venticinque i senatori centristi
che alla fine dovrebbero cedere e votare il testo. L’altro scenario prevede invece una
maggioranza variabile. Il Pd potrebbe sfruttare l’apertura del M5s che su questa tema ha
già fatto sapere di essere pronto al confronto. Però a una condizione. Che «non venga
stravolto il testo della Cirinnà », ha ripetuto a più riprese il “direttorio” pentastellato. Nel
frattempo le trattative sono già iniziate. E si registra un cambio della guardia
fondamentale. Non dovrebbe più essere Giorgio Tonini a gestire i negoziati in virtù del suo
nuovo incarico da presidente della commissione Bilancio. O comunque, spiegano, il suo
ruolo sarà inevitabilmente «ridimensionato ». Sarà una cabina di regia a tenere il pallino,
presieduta con molta probabilità da una figura moderata. L’identikit corrisponde con il
profilo del senatore dem Alessandro Maran.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 30/10/15, pag. 1/4
I falsi anticorpi di Cantone
Grandi opere. Il Commissario anticorruzione ha esaltato l’Expo, ma ha
dimenticato la mafia negli appalti
Paolo Berdini
Criminogena. Questo è il giudizio che Raffaele Cantone ha recentemente dato alla legge
«Obiettivo del 2001» con cui sono stati perpetrati gradi scempi ambientali e urbanistici.
Nonostante questo pesante giudizio quella legge è ancora in vigore: Matteo Renzi si
guarda bene dall’abrogarla. Sono state soltanto accantonate alcune opere inutili, ma le
procedure semplificate fanno ancora gola. Siamo dunque in un paese che lascia in vita
una legge criminogena e in una città che ha contribuito per numero e qualità a riempire le
patrie galere.
Appena dieci giorni fa a Milano sono stati arrestati il vicepresidente della Giunta regionale
e vari altri galantuomini. Tutto miracolosamente superato. Raffaele Cantone ha affermato
durante una cerimonia di esaltazione di Expo 2015 che Milano ha riattivato gli anticorpi
contro la corruzione. Evidentemente l’uso spregiudicato della retorica è una coperta buona
a nascondere la realtà, compresi gli arresti del maggio 2014 quando fu sgominata la
cupola che governava gli appalti Expo.
Ma è davvero così? Expo è la leva su cui risorgerà Milano e l’Italia? Per costruire la
grande fiera sono stati spesi 14 miliardi di euro, come ha dimostrato Roberto Perotti. A
questa folle cifra dobbiamo aggiungere un gigantesco sostegno pubblico: abbiamo infatti
assistito a quotidiane rubriche sulle televisioni e sui quotidiani, innegabili spinte alla visita.
Saranno raggiunti i 20 milioni di visitatori. Se dividiamo quel numero per le somme spese,
ogni visitatore ci è costato 750 euro. Una somma ragionevole o era possibile – come pure
ipotizzò qualcuno — orientare l’esposizione dedicata al cibo verso le centinaia di luoghi
straordinari d’Italia in cui avvengono le produzioni di qualità tanto decantate a parole? Si
tratta spesso di luoghi marginali, abbandonati da anni di assenza di progetti, dove i
produttori fanno fatica a mantenere le quote di mercato. Una Expo decentrata che avrebbe
fatto conoscere al mondo la straordinarietà del paesaggio italiano e rivitalizzato le aree
marginali, fornito occasioni di sviluppo ad imprese vere.
Vinse il paradigma della concentrazione sostenuto dall’agguerrita classe dirigente
milanese. Grande quartiere di esposizione, grandi forniture di cemento e asfalto (sono stati
urbanizzati 105 ettari di terreni agricoli), gradi affari. Terreni pagati a peso d’oro; alberghi
pieni, valori immobiliari in rialzo per la felicità della grande proprietà edilizia.
Milano ha dunque beneficiato dell’effetto drogato dalla spesa di 14 miliardi, ma come esso
possa rappresentare un modello per il paese è difficile da comprendere. Tra due giorni,
appena spente le luci, resteranno tutti i problemi sul tappeto. Perché in Italia non si investe
più nelle città e mancano programmi di lungo periodo. Durante i sei mesi di
manifestazione, ad esempio, si poteva almeno ragionare sul futuro delle aree Expo. Nulla.
Hanno taciuto comune e regione. Si esprimono solo i dirigenti della Confindustria
lombarda che propongono sulle pagine del Corriere della Sera la realizzazione di una città
della scienza e della ricerca — ovviamente a carico dei contribuenti — e sopratutto «tempi
brevissimi» per le decisioni.
E così torniamo al punto di partenza. Forse Raffaele Cantone voleva soltanto magnificare
il modello istituzionale del Commissario straordinario, e cioè di una figura in grado di
svolgere la regia di operazioni complesse e garantire efficienza. Siamo sempre dentro al
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cultura degli anni ’90, altro che anticorpi. La crisi dei governi delle città è sotto gli occhi di
tutti ma l’unica strada da percorrere è quella di restituire ai comuni le risorse per
governare: la strada della straordinarietà è solo una pericolosa scorciatoia. Non c’è infatti
chi non veda che in questo modo si crea una forbice micidiale: le opere ritenute importanti
verranno affidate a figure straordinarie slegate dal controllo democratico mentre
l’ordinarietà, come la mancanza di acqua nella città di Messina, sarà lasciata sulle spalle
di sindaci senza risorse e autonomia. La innegabile crisi del modello democratico non si
affronta con la cultura della straordinarietà. E’ più importante chiudere tutte le leggi di
deroga, ad iniziare dalla «criminogena» legge Obiettivo.
Del 30/10/2015, pag. 42
Dal riutilizzo dello spazio di Rho alle attrazioni per i turisti. Domani
finisce l’esposizione ma bisogna salvarne l’eredità Per lasciare Milano
al centro della scena mondiale
L’Expo dopo L’Expo
ETTORE LIVINI
«IL dopo-Expo di Milano inizia con un’impresa da brividi: cambiare tutto (ci sono da
smontare i padiglioni, bonificare un milione di metri quadri di terreno, reinventare un’area
grande come 140 campi di calcio) senza cambiare niente. Calare il sipario sulla
manifestazione, salvando però l’eredità che lascia al paese: quel cocktail di sinergie
istituzionali e tra pubblico e privato che ha trasformato il disastro annunciato da molte
Cassandre nel successo festeggiato urbi et orbi oggi.
L’asticella delle aspettative è altissima. Gli alberghi del centro pieni, le file interminabili ai
tornelli di Cascina Merlata, «l’energia ritrovata» (copyright del New York Times ) e la
nuova Darsena stracolma di gente ogni sera hanno abituato male un po’ tutti. Il presidente
della Repubblica Sergio Mattarella ha affidato a Milano e Lombardia il compito di «fare da
locomotiva a un nuovo sviluppo sostenibile per l’Italia». «Il difficile però — ammette il
Commissario Giuseppe Sala — inizia adesso».
L’ora X di questo nuovo inizio è fissata alle 17 di domani. Quando — dopo sei mesi di
passione e 21 milioni di visitatori — l’Albero della Vita spegnerà luci e giochi d’acqua,
Cardo e Decumano si svuoteranno per l’ultima volta e il sito chiuderà i battenti. Il 2
novembre riapriranno gli ingressi. Non per i turisti, ma per camion e operai incaricati di
smontare come un grande Lego l’intera struttura. Spariranno l’alveare della Gran Bretagna
e la rete elastica del Brasile. Finiranno nei container i 17mila pezzi di legno che rivestono
l’inarrivabile — salvo che per pochi eletti — stand del Giappone. E allora Milano e
Lombardia avranno davanti il compito più delicato: dimostrare come l’alchimia che ha reso
possibile il miracolo — poco più di un anno fa il sito era ancora solo una distesa di fango
— può diventare ordinaria amministrazione. Il primo banco di prova del rinascimento civico
meneghino è dietro l’angolo. E nasce, è il caso di dirlo, sulle ceneri dell’Expo. Cosa
succederà all’area dell’esposizione da dopodomani? La “fase due”, riconosce Sala è la più
complicata. Spesso in Italia, passata la festa, si gabba lo santo . E il rischio che i terreni di
Pero-Rho — orfani delle infrastrutture di Azerbajan, Iran & C. — si tra- sformino
nell’ennesima cattedrale nel deserto c’è, con buona pace degli 1,3 miliardi di soldi pubblici
investiti qui. Come fare per evitarlo? Squadra che vince, dicono le regole auree di sport e
business, non si cambia. E il tentativo della politica nazionale (nell’azionariato del sito
entrerà il Tesoro a fianco di Comune e Provincia) è lasciare in campo team e ricetta che
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hanno costruito il successo della manifestazione: un’idea di sviluppo chiara, una stanza
dei bottoni snella più un manager con poteri forti per garantire il rispetto di master plan e
tempi. Il piano decollerà nelle prossime ore con un cronoprogramma (in teoria) vincolante:
smobilitazione del sito entro il 2016, via ai lavori nel 2017 e conclusione entro il 2020. Il
progetto sarà definito a breve. I bookmaker però danno per certo che attorno all’Albero
della vita — e al parco previsto su metà dell’area — sorgerà un polo tecnologicouniversitario dove replicare le sinergie trasversali sperimentate negli ultimi mesi. L’idea è
semplice: in Lombardia si registra il 30% dei brevetti italiani, qui ha sede il 27% delle startup hi-tech. Ci sono le eccellenze del sapere come Statale e Politecnico e una rete di
imprese che genera un Pil superiore a quello dell’Austria. L’area di Rho, come propongono
atenei e Assolombarda, potrebbe diventare il baricentro di una mini-Silicon Valley tricolore.
Ospitando un campus universitario e un hub per centri di ricerca e incubatori dei privati.
«Esistono già diverse aziende interessate — conferma Fabio Benasso, ad di Accenture e
responsabile per Assolombarda di “Milano post-Expo” — e sarebbe un modo per
pianificare con intelligenza una realtà capace di competere ad armi pari a livello europeo».
Lo Stato metterebbe circa un miliardo, i privati i soldi necessari per le loro strutture.
Il sogno si potrà realizzare, sono convinti tutti, solo se i semi piantati in questi mesi
riusciranno a germogliare. Tutti plaudono oggi alla fruttuosa collaborazione
bipartisan
tra Comune e Regione. Sotto la Madonnina però nessuno ha dimenticato i tre anni di
guerra tra Letizia Moratti e Roberto Formigoni che hanno paralizzato i lavori. L’eredità
dell’Expo, dice uno studio della Sda Bocconi, può valere 6 miliardi per Milano anche dopo
la chiusura. Incassarli o meno dipende solo da una variabile: se a gestire questo capitolo
sarà la politica in versione Dr. Jekyl o quella vestita da Mister Hyde.
Si vedrà. L’altra faccia della “fase due” è quella che andrà in onda fuori dall’esposizione.
La fiera universale è stata un elettrochoc anche per il resto della città: i Navigli hanno
cambiato volto. Galleria Vittorio Emanuele (in un trasparente
do ut des
con i privati) è tornata agli antichi splendori, i musei sono pieni, il Pirellone è stato oscurato
dalle avveniristiche torri in vetrocemento di Porta Nuova in un fermento immobiliare che
non si vedeva da anni. Bici, auto e scooter in affitto (a quota 350mila abbonati) hanno tolto
25mila vetture dalle strade, riducendo ai minimi da dieci anni i giorni in cui le polveri sottili
sforano i limiti Ue. Carta buona chiama carta buona. L’orgoglio civico ha stimolato il
mecenatismo dei milanesi illustri, con la nascita della Fondazione Prada e del Silos di
Giorgio Armani. Durerà questa luna di miele? Contagerà il resto d’Italia come spera
Mattarella? Dipende in buona parte da come la città e il paese riusciranno a gestire
l’eredità di questi incredibili sei mesi di Expo.
Del 30/10/2015, pag. 49
Il messaggio.
Le esposizioni universali sono di solito vetrine Quella che chiude
domani a Milano è stata molto di più: un’occasione per riflettere.E dare
un indirizzo al nostro futuro
Petrini. Il cibo prima di tutto ma nutrire il
pianeta non resti solo uno slogan
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CARLO PETRINI
BISOGNEREBBE aspettare un po’, prima di dire cosa Expo ci ha portato e cosa invece ci
ha solo promesso. Ma la cronaca, e i commenti che l’accompagnano, non consentono
attese, quindi proviamo a narrare cosa è stato e cosa sarà questo evento straordinario.
Come è successo a Torino con le Olimpiadi invernali del 2006, così ci sarà una Milano
prima dell’Expo e una Milano del dopo Expo. Quel che un’intera collettività vive, cambia,
nel bene e nel male, le menti e le memorie, e ovviamente (forse prima) anche gli spazi
fisici in cui quella comunità si muove e si identifica.
Ma la straordinarietà di Expo 2015 riguarda anche il suo stesso essere un’Expo. Le
esposizioni universali sono vetrine, autopromozioni, autonarrazioni. Si sceglie un tema e
su quel tema si dice al mondo quanto si è avanti, moderni, sviluppati.
Questa edizione però ha avuto l’ardire di scegliere come tema il cibo, e il cibo sovverte le
categorie del mercato, del business, della modernità. Il cibo è argomento complesso, che
continuamente sguscia via dalle gabbie in cui lo si vorrebbe intrappolare come merce;
diventa ambiente, salute pubblica, paesaggio, giustizia, cultura, spiritualità, diritti. Si
oppone all’essere considerato mero argomento di autopromozione e diventa didattica,
educazione, sensibilizzazione delle coscienze.
Cosa dovrebbe dire un paese moderno per dimostrare di essere all’avanguardia sul tema
cibo? Dovrebbe parlare di tonnellaggi, esportazioni, percentuali di pil, brevetti e, se il cibo
fosse solo merce, basterebbe. Ma il cibo è cibo. Sicché un paese all’avanguardia
dovrebbe sfoggiare una popolazione senza diabete, senza affamati, senza obesi.
Dovrebbe narrare un sistema produttivo senza sprechi, un suolo fertile, acque pulite, mari
pescosi. Quali e quanti, tra i paesi dell’Expo, possono farlo?
Inoltre il cibo non è “un settore”. Se a una normale esposizione universale con un tema
dato ci vanno tutte le persone, a vario titolo interessate a quel tema, ad un’esposizione sul
cibo ci andranno, potenzialmente, tutti. Per questo l’Expo milanese non poteva non
diventare un fenomeno di massa, con qualche comprensibile sconfinamento nella fiera di
paese. Tuttavia il titolo stabiliva, sia pure all’interno di un ambito tanto vasto, confini
sufficientemente flessibili da consentire l’ingresso di molte argomentazioni. “Nutrire il
pianeta. Energia per la vita” era un indirizzo, invitava a un ragionamento sulla sostenibilità:
nutriremo il pianeta (tutto il pianeta, tutti i viventi) solo se sapremo farlo creando nel
contempo energie per la vita. Cioè non continuando a saccheggiare l’energia del pianeta
per nutrire solo una parte di esso (gli umani, e nemmeno tutti).
Era una flebile colonna sonora, quello slogan, occorreva concentrarsi un po’ per non
perderla nel frastuono generale, ma se ci si riusciva allora la visita ad Expo si costruiva
intorno a un senso: dal Padiglione Zero a quello di Slow Food, passando per l’area
Italiana, Svizzera, del Vaticano, del principato di Monaco, dell’Angola, dell’Austria, del
Brasile, di Cascina Triulza e di altri, il discorso si faceva politico, didattico, riflessivo. Un po’
tradiva lo spirito originario delle esposizioni universali, per diventare esperienza formativa.
Se invece ci si affidava al caso, o ad una lettura un po’ superficiale dell’evento, si
potevano ricevere informazioni certamente parziali e spesso contraddittorie, oppure vivere
l’Expo del cibo senza distinguerla da una edizione del Bit...
Sei mesi comunque intensi, anche fuori da Expo, sei mesi di incontri, attività e riflessioni,
progetti e pubblicazioni. Sei mesi in cui è uscita l’Enciclica Laudato Sì, che ha dato chiare
visioni su quel che — anche nel mondo dell’agricoltura e del cibo — l’accoppiata egoista di
cattiva economia e cattiva politica hanno prodotto.
Insomma, tra occasioni mancate e reinterpretazioni del mandato espositivo, siamo arrivati
in fondo e possiamo comunque dire che tutti quanti abbiamo avuto almeno un’occasione,
durante questi sei mesi e anche in quelli precedenti, per riflettere sul cibo che mangiamo,
che produciamo, che vendiamo o che qualcuno non mangia, non produce e non sa come
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comprare. L’eredità formale è una Carta di Milano che avrebbe potuto e dovuto essere più
solenne e concreta, e che invece si è purtroppo risolta in una enunciazione un po’ troppo
lieve, quasi frettolosa, alla quale molta parte della società civile non si è sentita di aderire.
L’eredità sostanziale è un passo avanti — piccolo ma imprescindibile, come tutti i passi di
un percorso coerente — sulla strada della comune presa di coscienza su un tema che
merita tutta la nostra attenzione e che certamente nei prossimi mesi e anni vedrà all’opera
quanti si sono un po’ formati grazie a questa Expo milanese. Expo chiude, ma
un’accresciuta consapevolezza e determinazione a conoscere e difendere il pianeta,
quella domani inizia.
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INFORMAZIONE
del 30/10/15, pag. 12
Grandi manovre e vecchi scenari nell’era
digitale
Televisione. Lo sbarco di Netflix in Italia coincide con la trasformazione
delle modalità di fruizione del piccolo schermo e dei suoi gestori
Stefano Crippa
La televisione generalista non è affatto morta – nonostante il vaticinio di Reed Hastings, il
ceo di Netflix – ma di certo lo scenario, rispetto ad appena poche stagioni fa, è
radicalmente cambiato. Lo testimonia anche un dato recente, nel 2015 oltre il 40% delle
fruizioni televisive nel cosiddetto daytime non passa più tramite i canali generalisti, ma
viene parcellizzato in una miriade di piccole reti. Un mutamento frutto del passaggio
dall’analogico al digitale, certo, a cui si aggiunge l’abbandono del piccolo schermo da
parte degli under 20, che si sono creati un palinsesto personalizzato su pc o tablet spesso
con «l’escamotage» del download pirata… Lo sbarco anche nel belpaese del colosso
americano tra i provider on demand, forte di 69 milioni di abbonati in tutto il mondo, si
inserisce quindi in un universo televisivo in costante movimento, come sottolineano le
grandi manovre in atto da parte di Rai e Mediaset e del terzo incomodo pay ovvero Sky.
Proprio il giorno prima della presentazione ufficiale di Netflix la Camera discuteva (e
approvava con 259 sì) la riforma della Rai. Antonello Giacomelli, sottosegretario allo
Sviluppo economico con delega alle Telecomunicazioni, l’uomo che per il governo sta
seguendo il percorso di metamorfosi della tv pubblica: dal canone in bolletta alla nuova
governance, ha di fatto ’benedetto’ gli intenti futuri di viale Mazzini, ovvero l’idea di poter
stare su diverse piattaforme. Un ipotesi già definita – dicono i bene informati — in alcuni
piani riservati del direttore generale della Rai Antonio Campo Dall’Orto dove si
descriverebbe la nuova piattaforma pronta ad intercettare gli inserzionisti pubblicitari.
Certo come ente pubblico per poter varare un’offerta di questo tipo, sarà necessario che
prima il Parlamento approvi una norma ad hoc ad per autorizzare lo svolgimento dell’intera
operazione, ma siamo alla stretta finale. Perché quel che ingolosisce la tv di stato è
proprio il mercato pubblicitario, già quantificati in circa 60 milioni di euro.
La raccolta pubblicitaria è al centro anche delle battaglie fra Sky Italia e Mediaset; è già un
anno che circola la notizia di un possibile e graduale passaggio in chiaro dell’emittente,
ora a pagamento, di Murdoch. Un esperimento iniziato con Cielo – dove sono stati riversati
alcuni contenuti pay e format di richiamo come X Factor, e proseguito nei mesi scorsi con
un canale di all news sul digitale terrestre — che mira a contendere alla tv del Biscione
spazi, audience e appunto quote pubblicitarie. Mediaset si muove con cautela e se sul
fronte pay cerca il rilancio di Premium dopo l’enorme investimento sul calcio con
l’esclusiva della Champions League, su quello relativo al digitale ha appena risolto la
grana che da otto anni la opponeva a Google-You Tube, contro cui aveva intentato nel
2008 una causa per 800 milioni per avere caricato sulla controllata Youtube «65 mila video
di produzione delle tv».
L’accordo – è siglato nella lettera di intese raggiunta — «apre nuove prospettive nei
rapporti tra i due player». Parecchi soldi in arrivo. Non sarà quindi facile per Netflix inserirsi
in un mercato così particolare come quello italiano. Certo l’offerta a prezzi popolari
potrebbe essere una spinta per raggiungere di qui a breve 150 mila abbonati, così come
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annunciato da Hastings, ma la concorrenza sullo stesso campo di Sky Go e Infinity
(Mediaset), e l’ipotesi dell’approdo italiano di altri provider come Amazon o Apple, renderà
difficile domare la concorrenza e la specificità del sistema italiano.
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
Del 30/10/15, pag. 7
«Una scuola italiana modello»
Eliana Di Caro
roma
Il superamento di steccati tra culture umanistica e scientifica, esattamente come accadeva
nel Rinascimento quando il sapere era unico, l’Italia che deve essere il punto di riferimento
culturale per l’Occidente, e una scuola che sia il presupposto irrinunciabile di questa
visione: con queste parole il ministro per l’Istruzione, Stefania Giannini, intervenuta agli
Stati Generali della Cultura, organizzati ieri a Roma dal Sole 24 Ore, ha spiegato come
interpreta il proprio ruolo al Miur, sottolineando i risultati raggiunti e i prossimi obiettivi.
«Con la legge 107 abbiamo assunto più di 8mila insegnanti preparati e specializzati in arte
e musica. Complessivamente l’anno scorso erano 29mila. Un numero significativo,
un’opportunità per la scuola italiana, nell’autonomia scolastica, che non abbiamo
volutamente tradotto in più ore di storia dell’arte o in più ore di musica: abbiamo fornito gli
strumenti, cioè le persone e la preparazione di base», ha detto Giannini. Un
provvedimento che riconosce la centralità delle arti nella storia del nostro Paese, in base
al progetto educativo riassunto dall’acronimo «Steam, come ha detto bene Gianfelice
Rocca qualche giorno fa all’Assemblea di Assolombarda, dove si aggiunge la A di Arts alle
competenze che appartengono alle scienze dure (Science, Technology, Engineering e
Math). Ma con Arts intendo quell’approccio umanistico e quell’insieme di valori che sono i
valori del pensiero critico, della logica, della filosofia che, se cementati fin dalla scuola
primaria, possono veramente diventare il modello educativo italiano».
L’oltrepassare le barriere, ha osservato il ministro, va inteso anche in una dimensione
politica dove la collaborazione interministeriale è necessaria. E su questo punto Giannini
ha rivendicato la stagione virtuosa che si sta vivendo sotto il Governo Renzi, all’insegna
del dialogo tra il suo ministero e quello della Cultura retto da Dario Franceschini. «Porto un
esempio molto concreto» dice, chiamando in causa l’esperienza inconcludente della
facoltà dei Beni culturali nata negli anni 80 con l’ambizione di sbocchi professionali
nell’ambito dell’arte e della cultura e trasformatasi in una sorta «di Lettere bis: allora è
meglio l’originale della copia. Il punto cruciale è il lavoro per quei 20mila giovani iscritti
nelle cinque sedi rimaste in Italia. Lo sbocco occupazionale è rimasto appeso. Noi
ripartiamo da lì». Una prima risposta è «lo schema dell’alternanza scuola-lavoro applicato
al mondo dei beni culturali, alla gestione e alla valorizzazione del nostro patrimonio» (un
provvedimento anticipato ieri sul Sole 24 Ore). Si tratta del progetto Pompei, destinato per
il ministro a diventare un progetto bandiera, anche per il luogo altamente simbolico che è
stato prescelto: interessa 15 scuole e mille allievi, la cui formazione in itinere sarà rivolta a
diverse competenze, dal marketing culturale all’ambiente, dal restauro alla cura del verde
fino all’informatica. E questa scelta di portare gli studenti nel cuore del patrimonio risponde
anche a un’esigenza strategica, oltre che strettamente concreta, che è quella di
«alimentare la sensibilità. Se non si crea una domanda, se non si suscita l’ansia di voler
fruire di un bene culturale, se non si riaccende la sensibilità storica, non c’è legge, non c’è
classe politica, non c’è Governo della Repubblica che possa dare al nostro Paese un
indirizzo diverso».
Proprio su queste note si era conclusa la sessione dedicata a «Libro,eBook e coding. Una
proposta per la buona scuola», con il maestro Franco Lorenzoni che ha entusiasmato la
platea raccontando della sua quotidianità con i bambini e di come l’arte - al pari della
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matematica, se ben trasmessa - sia uno stimolo potentissimo e una grande opportunità di
crescita per i piccoli allievi.
La sessione è stata introdotta dal responsabile della Domenica del Sole 24 Ore Armando
Massarenti, che ha presentato Lorenzoni e Roberto Casati, due «componenti di spicco
della fucìna di idee che vuole essere il nostro supplemento». Ha dunque sottolineato
«l’importanza di inserire nella scuola l’idea del pensiero critico, cioè della capacità di
ragionare e di analizzare le questioni, legandolo alla nozione di cittadinanza. La buona
scuola deve iniziare dalla buona logica e dall’uso consapevole delle tecnologie digitali», un
tema su cui il Domenicale si impegna da tempo.
Il professore dell’Università di Milano Bicocca Paolo Ferri si è soffermato sul Piano
nazionale Scuola digitale, il primo elaborato dal 1998, cioè dal Piano di sviluppo delle
tecnologie didattiche di Luigi Berlinguer. Secondo il provvedimento, entro il 2020 avremo
la banda larga o ultralarga e il wi-fi in tutte le scuole, passando a scuole interamente
connesse dal 9-10 per cento attuale.
Casati, infine, ha offerto una riflessione critica sull’uso delle tecnologie, cui va
necessariamente associata la lettura in classe, la via maestra per arricchire il lessico e
formare menti capaci di affrontare il futuro.
del 30/10/15, pag. 2
500 bambini e ragazzi senza scuola
L'altra faccia di Mafia Capitale 4. La riduzione del budget da 3 milioni a
1,2 mette a rischio 14 centri interculturali su 23
Roberto Ciccarelli
ROMA
«Vogliamo la scuola!» hanno urlato duecento bambini, genitori e operatori dei centri
interculturali romani che rischiano seriamente di chiudere a causa della riduzione del
budget deciso dalla giunta Marino: da 3 milioni di euro a 1,2. Ieri hanno manifestato
davanti al dipartimento delle politiche sociali dove sono stati ricevuti dall’assessore al
sociale Francesca Danese. «Roma capitale dimentica il sociale» lo striscione della
protesta che riassume, in poche lettere, l’impatto devastante sul welfare prodotto da Mafia
Capitale sull’amministrazione capitolina.
I tagli per contenere il debito della città e le nuove procedure iperlegalitarie spingeranno
alla chiusura di una delle creazioni del centro-sinistra della Capitale. Questo «terzo
ambiente», dopo la scuola e la famiglia, per bambini e ragazzi italiani e stranieri da 0 a 18
anni risale alla giunta Rutelli. Il bando tanto atteso, dopo una vacanza di cinque anni,
porterà alla chiusura di 14 centri su 23. Ne resteranno aperti solo nove in altrettanti
municipi. Senza contare che in più di un municipio, come il primo (centro storico) ce ne
sono tre che rischiano di farsi una concorrenza che nessuno vuole. Ad oggi frequentano
l’asilo nido o la scuola d’infanzia 716 bambini con meno di sei anni, 217 sono i ragazzi dai
7 ai 18 anni che trovano in questi centri l’occasione per integrarsi e socializzare in una
città deserta.
Con il nuovo bando, calcolano gli operatori, 500 tra bambini e ragazzi, non avranno più
questa possibilità e saranno inghiottiti da una metropoli cupa, depressiva, violenta.
L’assessore Danese ha sottolineato la necessità di tornare a fare i bandi dopo anni di
affidamenti diretti e si è impegnata a trovare altre risorse. In questi anni, sostiene, «è
mancato il monitoraggio e la valutazione dei centri». Per i centri l’incontro è stato invece
negativo. La loro richiesta di bloccare un «bando iniquo» è stata «definita irricevibile».
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Insieme alle famiglie, il coordinamento formato da centri come Celio Azzurro, Armadilla,
Nessun luogo è lontano o Zero in Condotta, si è impegnato a organizzare la lotta «contro
una decisione ingiusta e irresponsabile che, se attuata, manderà a casa bambini di fascia
prescolare, ragazzi e adolescenti». Il capogruppo Sel in Campidoglio Gianluca Peciola che
sollecita a proteggere questi «servizi utili per una comunità che guarda al futuro». A
sostegno dei centri hanno manifestato ieri anche il cantante Niccolè Fabi e l’attrice
Carlotta Natoli.
In una città sospesa in dinamiche politiche oscure e personalistiche, emerge un
paradosso. Tra i bambini dei centri culturali, a marzo dieci sono stati nominati dal sindaco
Ignazio Marino «ambasciatori di cittadinanza» contro il razzismo. Potrebbero essere loro i
primi esclusi dal bando della stessa giunta che li ha eletti ad esempio di democrazia. Una
situazione che Massimo Guidotti, fondatore e responsabile dello storico progetto «Celio
Azzurro», definisce «un impazzimento». «A Roma è stato imposto un iperlegalitarismo in
cui tutte le cooperative sociali sono state messe nello stesso tritacarne. Noi chiediamo la
legalità ma se questa non è accompagnata da un percorso di giustizia sociale allora tutto è
inutile».
«In 35 anni che faccio questo lavoro non ho mai visto una situazione così socialmente
barbarica e insensata — continua Guidotti. Sembra che si sia perso anche il minimo buon
senso che serve a capire che è un fatto grave che a Roma 500 famiglie non avranno dove
mandare i figli. A Roma non c’è più passione politica per la città. Si parla di tagli, di costi,
ribassi, compromessi e eliminazione dei servizi. Questo ormai è il sociale e le cooperative
muoiono nel silenzio, mentre gli operatori restano disoccupati».
Per il sociale è allarme rosso. Il coordinamento «Rigeneriamo Roma, rigeneriamo il
welfare» che riunisce associazioni del terzo settore ha denunciato le conseguenze della
delibera sul «regolamento dei contratti» proposto dall’assessore alla legalità Sabella. Il
provvedimento cambierà le regole per l’affidamento di beni e servizi con gare al massimo
ribasso. Il «Roma social Pride» sostiene che porterà nel settore «grandi holding senza
radicamento e competenze specifiche il cui merito sarà di avere vinto un sorteggio
informatizzato».
Del 30/10/2015, pag. 25
Bambina con Hiv rifiutata dalla scuola
Giannini: “In classe tra pochi giorni”
Napoli, il preside: “Siamo in esubero” Il ministro: “Falso, chi ha
sbagliato paghi”
STELLA CERVASIO
NAPOLI .
«E io?». Come si fa a spiegare a una bambina di 11 anni, malata di Aids, che a scuola non
la vogliono? Nel vedere che i suoi “fratelli” di comunità, a Teverola (Caserta), vanno a
scuola, Francesca (nome di fantasia) con lo zainetto sulle spalle sgrana gli occhioni: «E
io? — domanda ogni mattina — Non vado a scuola?».
«Siamo stati messi con le spalle al muro. Non sapevamo come dirglielo: è un mese e
mezzo che per lei la scuola è chiusa», dice Fortuna de Serpis, fondatrice con il marito
Antonio della Casa dei Felicioni, sostenuta dal movimento nazionale di Capodarco. Dal
2002 bambini e ragazzi da zero a 18 anni segnalati dai servizi sociali sono ospitati nella
villa confiscata a un boss della camorra assegnata ai “Felicioni”.
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Ieri è partita una lettera aperta dei genitori affidatari al ministro dell’Istruzione Stefania
Giannini, pubblicata su Avvenire che ha suscitato molte reazioni. Dall’appello “Via quel no”
del direttore del quotidiano dei vescovi, Marco Tarquinio, a Udc a Sel che hanno chiamato
in causa il Miur. In serata il ministro Giannini ha replicato: «Quella bambina entrerà in
classe nei prossimi giorni. Quella città della Campania darà tutte le possibilità per farla
rientrare a scuola. E se il dirigente che ha rifiutato la sua iscrizione l’ha fatto non per un
ritardo tecnico, ma per altro, allora pagherà».
«Per questa bambina — dice Fortuna de Serpis — è stato il 36esimo rifiuto in 10 anni di
vita — Sono 35 le comunità di accoglienza accreditate nel Comune di Napoli che non
l’hanno voluta ospitare. Credono che l’Hiv sia una malattia contagiosa».
“Egregia signora ministro — hanno scritto gli affidatari di Francesca — siamo vittime di
una situazione che vede coinvolta la scuola italiana non certo nel ruolo di “buona” scuola”.
La stiamo vivendo come violenza istituzionale: è chiara la discriminazione da parte della
scuola statale”. La vicenda dura da giugno, quando Francesca, alle spalle una drammatica
storia familiare, è entrata in comunità: aveva dieci anni e pesava 16 chili. Quello che si
dice un lieve ritardo cognitivo era accoppiato a una denutrizione da paura: Francesca
mentalmente ha 7 anni, fisicamente 5. «La sua famiglia — raccontano Fortuna e Antonio
— vive in condizioni di gravissima emarginazione sociale ed economica. È finita in
ospedale a dieci anni, stava morendo: aveva avuto un infarto, pesava solo 16 chili ».
Nessuno in famiglia si era accorto che non cresceva. «È rimasta ricoverata quattro mesi
— raccontano in comunità — doveva prendere 12 farmaci al giorno e nessuno l’avrebbe
seguita. Perciò è stata affidata a noi». Ma prima, la porta sbattuta in faccia da 35 comunità
di accoglienza accreditate negli elenchi del Comune di Napoli. Non servivano neppure i
certificati del primario di Malattie infettive in Pediatria del Policlinico Federico II, Alfredo
Guarino: «Affetta da un importante problema di salute non pregiudizievole per gli altri
bambini». E per legge gli affidatari non erano tenuti a informare la scuola. Fortuna e
Antonio invece sono stati chiari con il preside della vicina scuola media dove quest’anno
Francesca sarebbe dovuta approdare, dopo promozioni “pietose” della scuola elementare
che l’ha portata fino in quinta senza che sapesse nè leggere nè scrivere. Dapprima
l’iscrizione era stata possibile. Poi il 4 settembre l’altolà. «Siamo in esubero», ha motivato
il preside. Ma lo stesso Ufficio scolastico provinciale ha mostrato le tabelle: «Nessun
sovrannumero». Proposta alternativa: «Lezione a distanza, come un altro bimbo malato
che vive in barca». I “Felicioni” si sono rivolti al ministro. Stamattina la convocazione degli
ispettori ministeriali per loro e il dirigente del “no”. «Ma — replica la famiglia allargata di
Francesca — il dolore e l’offesa non si cancellano facilmente».
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CULTURA E SPETTACOLO
Del 30/10/2015, pag. 3 RM
E all’ultima giunta Giovanna Marinelli trova i
fondi per riaprire il Teatro Valle
Qualcuno nel pomeriggio aveva equivocato sulle intenzioni di Giovanna Marinelli,
assessore alla Cultura da poco più di un anno, quando era stata chiamata da Ignazio
Marino a prendere il posto di Flavia Barca. «Stasera - aveva annunciato alle agenzie nel
pomeriggio - sarò presente alla Giunta perché credo sia fondamentale chiudere delle
questioni importanti per la Città. Subito dopo rassegnerò le dimissioni». Una resistenza?
Dubbi sulla scelta di dimettersi? Niente di tutto ciò. Giovanna Marinelli doveva chiudere un
lavoro iniziato nel suo primo giorno da assessore alla cultura: la riapertura del Teatro Valle
con i necessari (e costosi) lavori di ristrutturazione. «La variazione di bilancio che abbiamo
approvato prevede uno stanziamento nel 2016 di 1.500.000 per il restauro del teatro Valle
che si aggiungono al 1.500.000 assicurati dal Ministero per i Beni culturali sempre nel
2016. Questo investimento - ripete la sua nota - consente di fare i lavori necessari per
riaprire il teatro alla fine del 2016. Una scommessa vinta». Giovanna Marinelli è stata
protagonista dello sgombero, pacifico, del teatro che era rimasto occupato per oltre tre
anni, dal giugno 2011 (amministrazione Alemanno) a tutto il primo anno della giunta
Marino. «Quando sono arrivata - ha detto ieri sera - la vicenda del teatro Valle è stata la
prima di cui mi sono occupata. Sono molto contenta di restituire a Roma un teatro così
importante, un luogo straordinario».
I 3 milioni complessivi sono la cifra minima per affrontare i delicati interventi sul più antico
teatro romano in attività, inaugurato nel gennaio 1727 per volere del proprietario, il nobile
Camillo Capranica. Dopo la conclusione dell’occupazione il Teatro Valle è stato affidato
alla gestione del Teatro di Roma, lo stabile pubblico che già opera al teatro Argentina e
all’India. Ma una attività senza i minimi livelli di sicurezza era impossibile. Alla sua ultima
giunta, Giovanna Marinelli, ha strappato il risultato che sembrava più difficile. Ai successori
il compito di dare al Teatro di Roma i fondi necessari per far tornare il Valle ai successi e
alla qualità delle sue storiche programmazioni.
Alessandro Capponi
Del 30/10/2015, pag. 19
Da Brian Eno ai Lego: a Bari non solo musica
Al Medimex 200 artisti e 150 eventi: da Gianna Nannini (che presenta il
nuovo album) ai Sud Sound System. E c’è pure la band costruita coi
mattoncini
C’è un giradischi che suona da cinque edizioni. È quello del Medimex, il salone
dell’innovazione musicale che fino a domani, a Bari, raduna artisti e operatori del settore,
per raccontare la musica in tutte le sue forme. Quella suonata, quella cantata, quella
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ballata. Ma anche quella raccontata, ad esempio da Nando Popu, leader dei Sud Sound
System, che quest’anno festeggiano i 25 anni di carriera: “La musica ha potere, anzi è
potere. È un piacere per il corpo e per la mente. Odio i reality perché non riesco a capire
come si possa fare musica in uno studio televisivo con l’ansia del televoto. Noi, quando
abbiamo iniziato, suonavamo in campagna, alle feste con gli amici. Molti ragazzi hanno
lasciato l’eroina per venire a sentirci suonare. Abbiamo creato unione e soprattutto
abbiamo rispettato la nostra identità utilizzando il dialetto. Non abbiamo mai dimenticato le
nostre radici, perché la musica è aggregazione non omologazione”.
E tra chi ha evitato per tutta la vita l’omologazione c’è Brian Eno, uno dei protagonisti del
Medimex con i suoi racconti e le sue installazioni. Una in particolare, Light Paintings
esposta al Teatro Margherita, è stata presentata in anteprima mondiale. Eno ha fatto
sognare il pubblico, parlando del suo percorso e spiegando la sua arte: “Ho lavorato con il
suono e con la luce. A 17 anni ho fatto le prime sculture di luce, ma l’obiettivo della mia
vita era questo: rimanere per sempre un bambino”.
Al salone dell’innovazione musicale, promosso da Puglia Sounds, ci sono oltre 200 ospiti
provenienti da 27 Paesi, e più di 150 eventi in tre giorni tra live, incontri, panel, workshop e
presentazioni. Oggi sul palco, ormai ambito da cantanti nazionali e internazionali, Gianna
Nannini presenterà il suo nuovo album “Hitstory”.
Artisti e non solo. Passeggiando tra gli stand capita di trovare, ad esempio, un gruppo di
ragazzi napoletani che hanno messo su un’etichetta discografica, “Full Heads”. Uno dei
dischi prodotti è quello dei Foja, che contiene anche il brano colonna sonora del prossimo
film in uscita di Alessandro Siani, autore del testo. “Tutti i venerdì pomeriggio – racconta
uno dei componenti della casa discografica – apriamo le porte dell’ufficio a chiunque
voglia proporci la sua musica. La ascoltiamo e valutiamo. Entrare in questo mondo è
difficile, ma se ci metti il cuore tutto è possibile”.
Con molta fantasia e grande perizia tecnica c’è chi, invece, ha deciso di far suonare dei
guerrieri Lego, trasformandoli nella Toa Mata Band. Due anni fa Giuseppe Acito, ha
sviluppato questa idea e oggi fa anche live di 45 minuti con i suoi “musicisti giocattoli”: “Ho
cercato di trasferire la musica elettronica a qualcosa di meccanico, come dei guerrieri fatti
di Lego, dei giocattoli che suonano. Li ho trasformati in percussionisti attraverso un
sistema elettromeccanico realizzato da me usando Arduino”.
E c’è chi si batte anche per cambiare il sistema del diritto d’autore per i musicisti. I
fondatori di Soundreef sono ragazzi italiani che a Londra hanno creato un sistema di
gestione dei diritti musicali avanzato. Oggi operano in 22 paesi nel mondo e gestiscono
tutta la musica che passa negli esercizi commerciali. Dice bene il motto del Medimex: la
musica è lavoro.
Del 30/10/2015, pag. 1-7
Inversione di tendenza
di Dario Franceschini
Sin dalla prima edizione degli Stati Generali della Cultura il Sole 24 Ore ha collegato
economia e cultura in modo profetico, favorendo con un dibattito aperto e franco quel
clima di cambiamento che ha portato ai molti passi in avanti compiuti negli ultimi tempi.
Oggi, dopo anni di tagli molto dolorosi, finalmente c’è stata un’inversione di tendenza. La
legge di stabilità di questo Governo ha previsto nei prossimi tre anni un aumento
consistente delle risorse statali per la cultura, che passano da 1,563 miliardi di euro del
2015 a 1,682 miliardi nel 2016 (+7,6%), 1,867 miliardi nel 2017 (+19,5%) e 1,872 miliardi
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nel 2018 (+19,8%). È stato aumentato del 25% l’accantonamento per la copertura del tax
credit cinema, sono stati stanziati 10 milioni per la promozione turistica, le risorse per gli
archivi e le biblioteche sono state triplicate, verranno assunti 500 professionisti dei beni
culturali grazie a una deroga al blocco del turn over. Inoltre ci si è impegnati per rompere
tre tabù: le contrapposizioni ideologiche tra cultura e turismo, tutela e e valorizzazione,
pubblico e privato. L’Artbonus ha introdotto una significativa agevolazione fiscale per chi
dona alla cultura, ora serve un balzo in avanti del mondo imprenditoriale italiano per far sì
che il mecenatismo assuma pienamente quel valore squisitamente pedagogico che lo
contraddistingue. Ciascuna delle grandi imprese italiane deve ambire a divenire main
partner di un grande museo del nostro Paese, tanto più ora che con la riforma appena
compiuta i musei non sono più semplici uffici delle soprintendenze ma saranno dotati di
uno statuto, un bilancio, un consiglio di amministrazione e saranno guidati da un direttore
con molta più autonomia. Il cambiamento è stato grande, ora sta alle imprese cambiare il
proprio approccio alla cultura.
del 30/10/15, pag. 5
Miur e Mibact motori di sviluppo
Gli Stati generali della Cultura e il Manifesto per la Cultura hanno rappresentato, a partire
dal 2012, una sfida lanciata con consapevolezza e determinazione dal Sole 24 Ore. Nel
mezzo della crisi italiana ed europea, un grande quotidiano economico, attraverso il suo
supplemento culturale, «Domenica», proponeva con grande chiarezza un’idea che ha fatto
molta strada: che il paese per ripartire avrebbe dovuto ricominciare a investire nella
cultura, trasformandola nel vero motore trainante di un’idea di sviluppo che sapesse
guardare lontano. Ne è simbolo l’omino in piedi su una pila di libri in grado di aprirsi nuovi
orizzonti scelto come icona degli Stati generali.
La 4a edizione, svoltasi ieri, ha offerto l’occasione per un bilancio che dà il senso
dell’auspicato cambiamento di mentalità in corso. Ciò riguarda in maniera più netta tre dei
principi esposti dal Manifesto. La Legge di Stabilità, in coerenza con il quinto principio del
Manifesto (incoraggiamento all’investimento privato sulla base di sgravi fiscali), stabilizza
l’Art Bonus al 65% per le erogazioni a favore della cultura e il potenziamento del tax credit
per la produzione cinematografica ed audiovisiva, che passa dai 115 milioni del 2015 ai
140 del 2016. Il secondo principio del Manifesto invitava e ragionare in termini di strategie
di lungo termine. I segnali positivi sono ora il concorso per 500 nuovi funzionari per i beni
culturali e l’incremento di 30 milioni di euro annui a favore di archivi, biblioteche e istituti
culturali del Mibact, di 15 milioni annui per istituti, associazioni e fondazioni culturali, 20
milioni annui per i musei, 100 milioni annui per la tutela del patrimonio storico-artistico, e
135 milioni complessivi per il Fondo Grandi Progetti Culturali tra il 2017 e il 2018, per
interventi strategici sul patrimonio quali quelli per il Colosseo e per l’ampliamento degli
Uffizi. Altri 28 milioni vanno a Matera Capitale Europea della Cultura 2019.
Il Manifesto auspicava un maggiore coordinamento tra i ministeri e un’azione convinta da
parte dell’intero Governo. Gli Stati generali hanno mostrato una notevole consonanza da
parte di Miur e Mibact. Basti un solo esempio: il progetto Pompei per l’alternanza scuolalavoro, su cui si è soffermata in particolare Stefania Giannini. Sempre sul versante Miur è
da ricordare l’investimento di oltre un miliardo di euro del piano per l’edilizia scolastica, che
prevede l’ammodernamento infrastrutturale del sistema educativo, cui vanno aggiunti 45
milioni per laboratori territoriali per l’occupabilità co-progettati con il sistema economico,
della formazione e della ricerca locale, 340 milioni annui complessivi per la formazione e
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l’aggiornamento dei docenti, 93 milioni annui per l’arricchimento dell’offerta formativa, tra
cui 5,5 milioni annui per la scuola inclusiva.
Lo slogan da cui il Manifesto era partito «Niente cultura, niente sviluppo» ha avuto dunque
una certa efficacia. La consapevolezza che si tratti solo dell’inizio di un lungo cammino è
un segno di grande saggezza. Ma è proprio della cultura la sua capacità di
autoalimentarsi. Se il processo verrà messo in atto con coerenza i frutti si vedranno e
saranno un toccasana per tutti i settori dell’economia. (Ar.M.)
del 30/10/15, pag. 17
I beni culturali danno fiato al Sud
Vincenzo Chierchia
Momento d’oro per il turismo culturale in Italia: nei primi otto mesi dell’anno musei e aree
archeologiche hanno registrato un incremento del 4,5% sul numero di visitatori e del
13,6% sugli incassi. Ben 28,9 milioni i turisti che da gennaio ad agosto hanno visitato gli
attrattori italiani, per introiti pari a 102,5 milioni.
Anche per questo particolarissimo segmento di mercato che vale la bellezza di 24 miliardi
il 2015 può rappresentare l’anno della svolta. Merito dell’iniezione di visibilità
internazionale e fiducia portata da Expo. Va in questo senso l’analisi del Centro Studi del
Touring Club che, da gennaio a giugno, registra una crescita della spesa di settore pari al
5,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, a fronte di una performance del
3,6% tra il 2014 e il 2013. A livello di macroaree emerge il Sud (+14,3%), trainato
sostanzialmente dalla Campania (25,5%) e dalla Sicilia (+21%). Guardando alle aree
urbane che sono destinazioni di interesse storico-artistico, occorre segnalare che i
probabili effetti di Expo hanno coinvolto, oltre a Milano, la provincia di Genova (+24,1%),
quella di Padova (+26,7%), di Venezia (+8,1%) e di Roma (+9,6%). Tra i centri più piccoli,
ottimi risultati sono quelli di Bergamo (+13,5%) e Varese (+22,4%).
La valorizzazione turistica del patrimonio artistico e culturale dello Stivale è stata ieri al
centro della Borsa mediterranea del turismo archeologico (cento espositori, 20 paesi esteri
rappresentati), kermesse di settore organizzato dalla Leader di Ugo Picarelli in corso fino
all’1 novembre a Capaccio-Paestum (Salerno). Un tema che, nel Mezzogiorno, è
inscindibile da quello della programmazione Ue. «Per le regioni del Sud sono infatti
disponibili oltre 500 milioni di euro di fondi comunitari – come ha ricordato Antonia Pasqua
Recchia, segretario generale del ministero Beni culturali e turismo (Mibact) – e le
amministrazioni devono impegnarsi a fondo per utilizzare appieno strumenti che
rappresentano una svolta importante insieme all’incremento dei fondi Mibact con la legge
di stabilità a il ritorno a un nutrito pacchetto di nuove assunzioni». Il rilancio del turismo «è
un fattore chiave di crescita economica e culturale ed è in cima all’agenda del governo –
ha aggiunto Giuliano Volpe, presidente del consiglio nazionale Beni culturali e paesaggio –
il potenziale di crescita è eccezionale occorre intervenire nella direzione giusta
valorizzando paesaggio, beni culturali ed archeologici e potenzialità locali». Il presidente
della regione Campania, Vincenzo de Luca, ha sottolineato l’importanza di interventi
coordinati sul territorio e ha affermato che l’alta velocità ferroviaria arriverà a Sapri, così
come verrà rilanciato l’aeroporto di Salerno-Pontecagnano. La Campania poi punterà sul
turismo religioso in sinergia con il Giubileo. Rilevanti poi le potenzialità della nuove
organizzazione museale con i nuovi direttori-manager in arrivo nei 20 poli nazionali.
Gabriel Zuchtriegel, neodirettore di Capaccio-Paestum, ha rilanciato sul progetto Grand
Tour per collegare i vari poli della Campania. Eva Degli Innocenti, neodirettrice del Museo
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archeologico di Taranto, ha sottolineato il ruolo decisivo dei privati e le potenzialità dell’art
bonus. Anche se, resta in questo momento da affrontare il nodo del personale delle nuove
direzioni museali nazionali autonome. Perché tanti dipendenti Mibact si orientano sulle
Soprintendenze.
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