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Preprint 1997 N°1 STORIA GRAMMATICALE DELL’AGGETTIVO DA SOTTOCLASSE DI PAROLE A PARTE DEL DISCORSO Antonietta Scarano LABLITA Laboratorio Linguistico del Dipartimento di Italianistica UNIVERSITÀ DI FIRENZE 2 Il laboratorio linguistico rende disponibili alla lettura esclusivamente i risultati delle ricerche e i corpora in esso elaborati sotto forma di preprint, reprint e pubblicazioni in proprio. Le Collezioni dei Pre-print sono disponibili all’indirizzo WEB http://www.unifi.it/unifi/dipita/ling-lab/homepage.htm [N°1 Pr 1997] For correspondence Antonietta Scarano Dipartimento di Linguistica Università degli studi di Firenze Piazza Brunelleschi, 3 50121 FIRENZE E-mail [email protected] Deve apparire in Studi di Grammatica Italiana Vol. XVIII Fino alla pubblicazione le citazioni sono consentite solo dietro esplicito consenso dell’autore, E’ vietata la vendita e la riproduzione non autorizzata, anche parziale, per qualsiasi uso. In copertina “Il cantante di Chungai”, rappresentazione della voce attraverso grafismi. Arte rupestre della Tanzania Centrale (sito Chungai 3, 8000 a.c.- 1500 d.c.). Calco pubblicato in Mary Leakey, Africa's Vanishing Art. The Rock Paintings of Tanzania, Doubleday & Company, Inc, Garden City, New York, 1983. 3 ANTONIETTA SCARANO STORIA GRAMMATICALE DELL’AGGETTIVO 1 DA SOTTOCLASSE DI PAROLE A PARTE DEL DISCORSO Il presente lavoro si inserisce in una più ampia ricerca da noi intrapresa, il cui scopo è lo studio delle caratteristiche semantiche dell’aggettivo, all’interno della “Teoria della lingua in atto” di E. Cresti. La prima fase della ricerca aveva come obiettivo il reperimento delle nozioni fondamentali fornite dalle grammatiche italiane, a proposito dell’aggettivo, dalle più antiche a quelle dei primi decenni del Novecento: l’intento, in definitiva, era quello di costituire un bagaglio di osservazioni, spunti, criteri eterogenei da cui partire per riflettere, poi, circa la natura semanticamente omogenea dell’aggettivo. In questa fase iniziale della ricerca ci siamo imbattuti, però, in un dato di fatto che non avevamo previsto2: è solo ad opera di grammatici francesi del XVIII secolo che l’aggettivo guadagna la “dignità” di classe di parole. L’aggettivo non esiste nelle grammatiche, non solo italiane ma europee in generale, come parte del discorso a sé stante, fino ai primi dell’Ottocento; esso è considerato una sottoclasse dei nomi (ed eccezionalmente dei verbi). Si tratta di un dato che, se non ci ha impedito di proseguire nel nostro lavoro, ci ha indotti però a impostarlo diversamente. Per chi intende dimostrare la particolarità semantica dell’aggettivo, non è trascurabile il fatto che, seppur non brilla per la sua assenza, l’aggettivo nelle descrizioni grammaticali dal Quattrocento all’Ottocento, a livello di determinazione teorica non esiste come distinto dal nome. Per noi che vogliamo sostenere che esso, pur essendo parte integrante del dominio semantico e sintattico del nome e del verbo, si distingue per non essere né l’uno né l’altro, il fatto che esso per secoli nelle grammatiche non sia contato come una parte a sé stante del discorso riveste un’importanza fondamentale. Ed ecco dunque ridefinito il nostro compito: non più semplicemente raccolta di dati nella storia grammaticale di una parte del discorso, l’aggettivo, ma raccolta (secondaria) di dati all’interno di uno studio (principale) dell’evoluzione dell’aggettivo da sottoclasse di parole a parte del discorso vera e propria. 1 Nel corso di questo lavoro useremo il termine “aggettivo” per riferirci agli aggettivi qualificativi, dei quali in particolare ci occupiamo. 2 Non perché non fosse stato mai segnalato negli studi di storia della grammatica (v. H.E.L., 1992, 14/I e, per l’italiano, L. Kukenheim (1932), pp. 101-103, che traccia brevemente la storia dell’aggettivo, così come noi l’abbiamo ripercorsa in questo articolo), ma perché, essendone stata sottovalutata, in qualche modo, la portata teorica, è stato considerato un dato del tutto secondario. 4 In questo lavoro ripercorreremo le tappe fondamentali della storia dell’aggettivo nella grammatica italiana, da sottoclasse di parole (XV secolo) a riconosciuta parte del discorso (XIX secolo), non trascurando di soffermarci sullo spartiacque costituito dai lavori francesi che per primi riconobbero all’aggettivo lo status di parte del discorso. Due brevissime digressioni, rispettivamente a mo’ di premessa generale e di provvisoria conclusione, apriranno e chiuderanno il nostro lavoro: a) la storia del ruolo dell’aggettivo nelle classificazioni grammaticali greche, latine e medioevali; b) la descrizione del trattamento riservato agli aggettivi in lingue non romanze, come l’inglese e il tedesco, nei secoli XVIII e XIX; in inglese, perché in qualche modo l’argomento, date le caratteristiche della lingua, in linea teorica, poteva essere stato affrontato diversamente che nelle lingue romanze; in tedesco per un motivo più teorico che pratico: nonostante il filone della grande riflessione linguistica tedesca nell’ ‘800 non avesse trascurato di affrontare il tradizionale problema della classificazione delle parti del discorso, sul finire del secolo, con l’approccio psicologico e la scuola neogrammatica, dimostrava scarso interesse per una classificazione delle parti del discorso che, fondata tradizionalmente su criteri eterogenei, finiva col presentarsi di fatto, alla fine, come problema puramente formale. In Germania, insomma, sul finire dell’Ottocento, con ripercussioni sulla successiva linguistica novecentesca, si faceva strada il tentativo di porre le basi di una definizione di aggettivo fondata sulle sue più profonde caratteristiche semantiche. 1. L’aggettivo nella tradizione grammaticale greca, latina e medioevale: verbo o nome? Nome aggettivo Fin dagli albori della riflessione linguistica operare una distinzione fra le parole che compongono una lingua parve una priorità. Nella tradizione grammaticale greca ciò che noi consideriamo aggettivi fu considerato far parte della categoria verbale3. Le prime opere che affrontano temi di riflessione sul linguaggio (il Cratilo e il Sofista di Platone, 429-347 a. C., la Poetica e il De interpretatione di Aristotele, 384-322 a. C.) includono gli attuali aggettivi nella classe del rhema, la classe delle parole che hanno funzione predicativa ed esprimono un’idea di tempo, e che corrisponde alla classe dei verbi in una moderna classificazione. Il termine onoma (dal sanscrito naman), il termine greco da cui deriva il termine nome viene usato da Platone per designare la funzione logica di soggetto; con Aristotele lo stesso termine comincia a essere usato per designare anche una classe di parole. Presso i grammatici che seguono, questa classe finisce col comprendere designazioni molto generali, oggetti e qualità. La riflessione stoica sulla lingua punta l’attenzione sui criteri morfologici per distinguere una parola dall’altra e dunque include gli aggettivi nella classe dell’onoma. Anche lo pseudo-Dionisio (100 a. C.), che presenta nella Tekné la prima classificazione completa delle parti del discorso, include l’aggettivo nella classe dell’onoma. Apollonio Discolo (II sec. d. C.), definisce il nome “sostanza e qualità”, e lo contrappone al pronome, che è solo sostanza. La nozione di “qualità” è ciò che caratterizza, perciò, secondo 3 V. Robins (1966 e 1995), Lyons (1975 e 1977). 5 Apollonio, il nome in generale: mentre il pronome non esprime che l’oggetto, il nome secondo lui ci fa pensare anche a un complesso di qualità. Quest’idea piuttosto originale del nome inteso come complesso di qualità, non viene ripresa dai grammatici immediatamente successivi, ma essa si è rivelata essere una delle idee più feconde di implicazioni per le definizioni di nome e di aggettivo in tempi piuttosto recenti. La tradizione grammaticale latina non si discosta molto da quella greca, la classificazione delle parti del discorso rimane sostanzialmente la stessa e l’aggettivo continua ad essere incluso nella classe del nome. Varrone (116-27 a. C.), che pur propone una originale classificazione quadripartita (nomi, verbi, participi, avverbi), non cambia sostanzialmente la posizione dell’aggettivo nel quadro generale: esso fa parte della classe di parole che variano secondo il caso, il nomen. Alcuni grammatici latini, secondo Quintiliano4 fecero una distinzione fra nomen (nome proprio), vocabulum (nome comune che si riferisce a cose visibili e tangibili) e appellatio, (nome comune che si riferisce a cose invisibili e non materiali, come la l’intelligenza e il vento). Quintiliano non fa cenno ad una distinzione fra nomi e aggettivi. Nelle grammatiche di Donato (IV sec. d. C.) e Prisciano (500 d. C.), che propongono otto parti del discorso (nomen, pronomen, verbum, adverbium, participium, coniunctio, praepositio, interiectio), di fatto il nomen (“substantia cum qualitate”, secondo Prisciano) comprende le parole oggi classificate come aggettivi. Prisciano fa una distinzione fra “nome comune” (appellativum) e “nome proprio” (proprium), ma non una distinzione netta fra nomi di cose e nomi di qualità, in termini di substantivum e adiectivum: épithetòn, tradotto dal termine adiectivum in Prisciano, non è che una nozione di retorica5, e substantivum non è mai usato nella grammatica per indicare una classe di parole. 6 Ricapitolando, i Latini traducono molto semplicemente onoma con il sinonimo nomen, e questo termine è usato nella stessa accezione in cui è stato usato nella grammatica greca a partire dagli Stoici: una classe di parole che ha flessione di caso. All’interno di essa, alcuni grammatici notano, altri descrivono minuziosamente, distinzioni semantiche, ma tutti concordano tacitamente sul fatto che non esiste una parte del discorso che includa parole con flessione casuale che non sia quella del nomen. Le grammatiche medioevali ripropongono lo schema classificatorio di Donato e Prisciano, articolato in otto parti. Per quanto riguarda la classe del nome, i filosofi e i grammatici medievali, pur partendo da posizioni teoriche diverse, propongono per primi una distinzione fra nomen substantivum e nomen adiectivum. Pietro Elia (XII sec.), ad esempio, approfondendo l’insegnamento priscianeo, distingue i nomi in nomi di sostanza e nomi di qualità; Guglielmo di Conches (XII sec.), che considera oscure le definizioni delle parti del discorso date da Prisciano, perché puramente descrittive e prive di spessore teorico, illustra le “causae inventionis” delle parti del discorso e per quanto riguarda il nomen di4 v. Matthews (1990), p. 225. V. Prisciano, Inst. Gramm.II (Keil, II, p. 60): “Adiectivum est, quod adicitur propriis vel appellativis et significat laudem vel vituperationem vel medium, vel accidens unicuique”. 6 In Prisciano, Inst. Gramm.XVII (Keil, III, p. 154) “susbstantivum”si dice tanto di nome quanto di verbo: non indica una sottoclasse di parole. 5 6 stingue fra nomi di sostanza (nomi concreti, propri e comuni), nomi di accidenti che nominano individui (nomi astratti) e nomi di accidenti che ineriscono a un soggetto esprimendone la qualità (gli aggettivi); il modista Tommaso di Erfurt nel XIV sec., descrivendo il nomen, distingue il nomen substantivum dal nomen adiectivum in base ai loro modi essentiales, rispettivamente di indipendenza sintattica (per se stantis) e di costruzione con un nome sostantivo (adiacentis). Secondo i modisti in generale, il nome sostantivo e il nome aggettivo non esprimono rispettivamente la sostanza e la qualità, ma sono dei possibili modi significandi la sostanza e la qualità. Le grammatiche di Perotti, Manuzio e Nebrija (fine del XV sec.) prospettano uno schema che presenta otto parti del discorso. Le due sottoclassi del nome sono distinte non ricorrendo al significato, ma prendendo in considerazione la combinazione di criteri morfologici e sintagmatici. La distinzione fra nomen substantivum e nomen adiectivum è sicuramente il primo passo verso la definitiva separazione delle due classi di parole, che avverrà però parecchi secoli dopo. Nel tempo, infatti, come abbiamo visto e vedremo, la distinzione si arricchisce e si basa su criteri via via più numerosi e sottili, dal punto di vista teorico e descrittivo, ma non si evolverà in vera e propria separazione di classi di parola prima del XVIII sec. 2. L’aggettivo nella prima grammatica dell’italiano e nelle principali grammatiche italiane del ‘500 Le grammatiche latine del XVI secolo, pur nella varietà delle partizioni proposte, mantengono sostanzialmente immutato il rapporto nome/aggettivo: il secondo è una sottoclasse del primo, e si contrappone al nome sostantivo. Linacre e Sanctius rinnovano considerevolmente lo studio delle parti del discorso, ma non distinguono i nomi dagli aggettivi. Linacre (De emendata structura Latini sermonis, 1524) fa dell’aggettivo una delle sottoclassi dell’appellativo, allorché tutti gli altri grammatici situano l’opposizione sostantivo/aggettivo immediatamente sotto il nome e indipendentemente dai suoi accidenti. Sanctius (Minerva, seu de causis linguae latinae, 1587), più che alla variazione morfologica e alla semantica, è attento alla combinazione delle classi di parole nella frase: sostiene, ad esempio che gli aggettivi non hanno genere, ma delle ‘desinenze fisse’ a seconda dei generi ed è a causa di esse che si pone la questione del genere dei sostantivi. Il passaggio dallo studio e la descrizione della lingua latina alle lingue romanze non produsse sconvolgimenti nell’assetto della classificazione grammaticale. Nel XV e XVI fecero la loro prima comparsa le grammatiche dell’italiano, dello spagnolo, del francese e infine quelle dell’inglese. Le grammatiche italiane del Rinascimento si mantennero entro i limiti dell’osservazione empirica della lingua volgare, con poca attenzione per quello che poteva essere il problema scientifico, teorico, che si celava dietro lo studio delle classi e categorie grammaticali. Un tale modo di procedere, rigorosamente descrittivo, era forse giustificato dal fatto che il fine della compilazione di siffatte grammatiche era facilitare lo studio di questa nuova lingua e il suo apprendimento sistematico7. In queste grammatiche l’esame delle parti del discorso costituiva un argomento centrale 7 E’ quanto sostiene il Trabalza (1908, p. 240). 7 della descrizione e le soluzioni proposte a riguardo furono a volte diverse, con qualche novità, che scaturiva dalla più o meno puntuale osservazione dei dati linguistici, ma non da una vera e propria riflessione teorica su di essi. E’ stato più volte fatto notare che il peso della classificazione grammaticale latina agì in maniera determinante sulle classificazioni operate dai grammatici delle lingue romanze8. Per l’italiano non avvenne diversamente: in linea di massima, le grammatiche, da quella dell’Alberti a quelle del tardo Cinquecento, mantengono la classificazione grammaticale latina, salvo aggiungere l’articolo o omettere l’interiezione. Anche per quanto riguarda l’aggettivo non si verificano grandi cambiamenti: esso è considerato nome aggettivo, una sottoclasse del nome, contrapposto al nome sostantivo. Si può cogliere solamente una specie di linea di crescita nell’emancipazione dell’aggettivo dal nome: maggiore spazio è dedicato all’analisi delle caratteristiche di questa sottoclasse, alla descrizione di nomi aggettivi che non siano qualificativi, all’individuazione, in alcuni casi, di una sorta di vera e propria “funzione aggettivale”. Non ci si deve dunque meravigliare se nella prima grammatica italiana, quella dell’Alberti, non si fa cenno ad una classe di parole che corrisponda a quella attuale degli aggettivi: né prima né dopo, per lunghissimo tempo, le grammatiche annovereranno l’aggettivo fra le parti del discorso. La Grammatichetta dell’Alberti (scritta molto probabilmente fra il 1438 e il 1441), sintetica grammatica descrittiva dell’uso del fiorentino contemporaneo, propone infatti la seguente classificazione delle parti del discorso: nomi, articoli, pronomi, verbi, avverbi, interiezioni e congiunzioni; la classe dei nomi, come si desume dagli esempi riportati e dal fatto che l’autore accenni a “ nomi singulari femminini adiettivi “, include anche gli aggettivi. Vineis (1974), tuttavia, a proposito dell’influenza esercitata dagli schemi classificatori dei grammatici latini sulla grammatica albertiana faceva notare che : “ Colpisce innanzitutto l’assenza nella “Grammatichetta” di una trattazione separata degli aggettivi in quanto parte del discorso a sé stante, categoria grammaticale suscettibile di riconoscimento proprio, e ciò si badi, nonostante che dal Trecento si abbiano testimonianze di una precisa coscienza dell’ ”aggettivo” come elemento diverso dal “sostantivo” e non specificazione di quest’ultimo. “ 9 Secondo Vineis la spiegazione di siffatta classificazione proposta dall’Alberti va ricercata nell’influenza della tradizione grammaticale classica, e in particolare la sottoclasse “nomi aggettivi” “ rinvia direttamente alla comune definizione latina di “nomen adiectivum”, uno dei tanti attributi teorizzati da Prisciano e da altri all’ interno della minuziosa suddivisione, in classi e sottoclassi, del sostantivo. “ 10 . Se è vero che lo schema classificatorio proposto dalla Grammatichetta risente 8 v. L. Kukenheim (1932), p. 103. Cfr. Vineis (1974), p. 300, che rimanda alle attestazioni trecentesche del termine “aggettivo” riportate nei dizionari storici. 10 Cfr. Vineis (1974), p. 301. Come abbiamo già detto, però i termini di “sostantivo” e “aggettivo”, pare non siano stati usati da Prisciano nella sua classificazione grammaticale in una moderna accezione. Il termine sostantivo non compare mai per designare un gruppo di parole e adiectivum è un termine squisitamente retorico che traduce letteralmente il greco épithetòn, e come tale esso può includere anche ciò che non è aggettivo: nomi propriamente detti, sintagmi preposizionali. La suddivisione cui fa cenno Vineis, quindi, non è quella all’interno della classe del sostantivo, che non esiste ancora nella grammatica di Prisciano, ma quella all’interno della classe del nome. Prisciano, però, anche all’interno della classe del nome, non propone ancora una vera e propria distinzione grammaticale fra nome sostantivo e nome aggettivo. 9 8 dell’influenza della grammatica latina, è anche vero, come dimostreremo nel seguito del nostro lavoro, riportando gli schemi classificatori grammaticali proposti dalle principali grammatiche italiane del Cinquecento, del Seicento e del Settecento, che esso non fu assolutamente un caso isolato 11. Ciò che sembrerebbe rimanere inspiegabile, attenendoci a quanto affermato da Vineis, sarebbe l’esistenza di questa classe di parole prima del Quattrocento, classe di parole di cui poi si perdono improvvisamente le tracce, poiché inglobata in quella dei nomi fino alla fine del XVIII secolo. Come giustificare, allora, le attestazioni del termine “aggettivo” prima del Quattrocento riportate nel Vocabolario degli Accademici della Crusca e nei dizionari storici di Tommaseo-Bellini e del Battaglia? 12 Se fossero interpretate come prova dell’esistenza di una classe di parole, quella dell’aggettivo, ciò significherebbe che si sarebbe verificato un singolare caso di discrepanza fra la coscienza linguistica di chi usa il termine, considerandolo l’etichetta di una vera e propria classe di parole, e le grammatiche, che, invece, non contano l’aggettivo fra le parti del discorso. Prima di giungere a una simile conclusione, tuttavia, è utile segnalare alcuni dati: a) secondo i principali dizionari storici, il termine “aggettivo” è principalmente, non è una tautologia, un aggettivo 13; b) anche nelle grammatiche si parla spesso di aggettivi piuttosto che di 11 L. Kukenheim (1932), p. 103 fa notare che tutti i grammatici italiani del Rinascimento hanno conservato l’unità della classe del nome, pur distinguendo al suo interno nomi sostantivi e nomi aggettivi, seguendo in ciò l’insegnamento di Prisciano. E’ tuttavia convinto che la definizione priscianea di nome aggettivo “démontre clairement que ce concept provient de la critique littéraire” . I punti di vista di Kukenheim e Vineis riguardo al fenomeno preso in considerazione, risultano assai diversi. Kukenheim sostiene che quella fra sostantivo e aggettivo è “ une subdivision logique, non pas une subdivision grammaticale ” e aggiunge che “heuresement, sauf quelques raires exceptions, les grammairiens du XVIe siècle n’ont pas suivi cette voie de distinctions raffinées, car désirant parvenir à la construction definitive d’une grammaire nationale, il ne se sont pas lancés dans des spéculations” . Secondo Vineis, invece, sin dal Trecento sarebbe esistita una “precisa coscienza” dell’aggettivo come parte del discorso opposta al sostantivo, trascurata, stranamente dalla grammatica dell’Alberti, per pura obbedienza allo schema di Prisciano. Noi crediamo che la distinzione fra sostantivo e aggettivo fino al ‘700 non sia poi così chiara ed esprimibile in termini di opposizione fra classi di parole, ma crediamo, altresì che la separazione dell’aggettivo dal nome, quando sarà avvenuta, non sarà semplicemente una raffinata speculazione, ma segnerà un notevole passo in avanti per la grammatica, cui avrà giovato il rodaggio di secoli fatto nel tentativo di distinguere l’aggettivo dal sostantivo all’interno della classe del nome. 12 Buti, Com. Purg. 24. 1: Qui l’adiettivo è soperchio; Buti, Com. Purg. 30.2: Ben si convien loro questo adiettivo p i e, cioè p i e t o s e ; Boccaccio, Com. Dant. 2,184: questo dubbio assai ben si dimostra soluto per l’adiettivo; Boccaccio VIII, 2-23: E assai onora qui Dante Virgilio in quanto dice a l t i s s im o, il quale adiettivo degnamente si confà a Virgilio;Boccaccio, Com. Dant. VIII, 3-79: Questo adiettivo m a t t o pose qui l’autore più in servizio della rima che per bisogno che n’avese la bestialità,.... Burchiello, Son. 2-81: fior di borrana, se vuoi dire in rima, convienti esser più grasso d’agghiettivi; S. Zenobi da Strata, 2, 49: Sempre noi pigliamo in buona parte questo nome s e n t e n z i e, se non v’è posto aggettivo che significhi il contrario; Franco Sacchetti, Nov. 11: Cominciò: e non accordando l’aggettivo col sustantivo giunse balbettando a un oscuro passo. 13 I dizionari storici, pur riportando esempi di attestazioni del termine “aggettivo” usato da solo e contrapposto a “sostantivo” anteriori alla grammatica dell’Alberti, non considerano la voce “adiettivo” o “aggettivo” unicamente come sostantivo: ciò avrebbe avvolorato la tesi dell’esistenza di fatto di una classe di parole raccolta sotto questo nome. Così, il Tommaseo- Bellini: “ AGGETTIVO: Agg. e anche sost.. Nome che dinota gli attributi essenziali e accidentali dell’oggetto. “ (p. 254) . E il Vocabolario dell’Accademia della Crusca (1863) a proposito della voce “Adiettivo” o “ Aggettivo”, riporta: Add., usato per lo più in forza di sostantivo. Termine grammaticale. Dicesi di quei nomi che nel discorso non si reggono di per sé, ma s’accompagnano col sostantivo, per qualificarlo o modificarlo. “ (p. 217). Nel Glossario del Vocabolario della Crusca è detto, a proposito delle voci AGGHIETTIVO, ADDIETTIVO, AGGETTIVO: “ Aggettivo e solo secondariamente sostantivo.” (p. 31). Il Grande Dizionario della lingua 9 nomi aggettivi, ma è logico supporre che esso stia per l’espressione “nome aggettivo”, dal momento che nelle stesse grammatiche né (nome) sostantivo, né (nome) aggettivo compaiono come distinte parti del discorso, ma sono classificati come sottoclassi di un’unica classe, che è quella del nome; c) esiste, ed è diffusamente attestato, un uso di “aggettivo” nel senso di “epiteto”, vale a dire un uso di aggettivo nel suo significato retorico di “ornamento del dire” che si aggiunge al sostantivo 14. In base a queste considerazioni è lecito supporre che là dove viene usato autonomamente, il termine “aggettivo” sia una forma brachilogica (anche perché si contrappone per lo più sostantivo ad aggettivo e non nome ad aggettivo) o stia per “epiteto”, secondo un uso retorico del termine (soprattutto, come in quasi tutti gli esempi riportati, in commenti ad opere letterarie). Le attestazioni di “aggettivo” prima del Quattrocento, dunque, ci pare non provino una “coscienza” della classe dell’aggettivo contrapposto al sostantivo: sono indizio sicuro solo di un uso contrapposto dei due termini, che avviene all’interno della stessa classe del nome, e comunque non escludono che “aggettivo” sia da intendersi nel suo significato retorico piuttosto che strettamente grammaticale. L’analisi delle grammatiche italiane del Cinquecento e, come vedremo, anche di quelle successive, conferma, poi, che l’aggettivo è considerato dai grammatici una sottoclasse del nome. La descrizione grammaticale è un sistema che prevede delle variabili (a volte gli schemi classificatori si rifanno a modelli diversi; le grammatiche sono scritte per un pubblico di utenti diverso, colto o popolare; ci si ispira al fiorentino del Trecento o alla lingua, scritta o parlata, del tempo), una costante, però, è costituita dal trattamento dell’aggettivo all’interno della classe del nome. Nessun grammatico ha affrontato, problematizzandola, la questione della sottoclassificazione del nome, e perciò, passando in rassegna le grammatiche, riporteremo gli schemi classificatori proposti e i cenni più significativi che in essi vengono fatti a proposito della diversa natura dei nomi. italiana del Battaglia, considera il termine “aggettivo” principalmente come sostantivo, salvo a riportare poi l’accezione aggettivale rimandando al Tommaseo-Rigutini, 245: “ Aggettivo è voce di per sé e sostantiva e aggettiva e tanto dicesi u n a g g e t t i v o quanto u n n o m e a g g e t t i v o.” 14 N. Liburnio, autore de “Le vulgari elegantie” (1521), dopo aver concluso il suo dialogo sulla lingua toscana e aver dato al lettore quelle che ritiene le “cognitioni pertinenti della volgar lingua”, passa a nozioni che ritiene più squisistamente retoriche ed espone “i vari et diversi ornamenti del dire”. Nel terzo libro egli scrive infatti degli “ Epitheti necessari al componitor di versi : et che cosa sia Epitheto “. (p. 51) Epiteto significa letteralmente tradotto dal greco “sopraposto” e alla maniera latina “aggettivo”. Uno dei problemi dello scrivere convenientemente, soprattutto in poesia consiste nell’aggiungere a ciascun nome il suo “convenevole epitheto” e dunque Liburnio, pur mosso da preoccupazioni grammaticali sollecitate in lui dalla lettura del Fortunio (1516), compie un lavoro prettamente retorico e compila un elenco di nomi accompagnati da epitheti, programmando così l’uso dell’aggettivo, per facilitare la “compositura” poetica. E a conferma che retorica, logica e grammatica interagiscono nella definizione dell’aggettivo nel Nuovo Dizionario della Lingua Italiana di Tommaseo-Bellini si specifica: “ Questa (=aggettivo) è la voce propria dei grammatici; Epiteto dei retori, in quanto l’aggettivo si conviene al concetto e al numero; Aggiunto potrebb’essere de’ logici, in quanto denota idea che aggiungesi alla sostanzione, e la determina nella qualità o in altro modo. Similmente Attributo, in quanto denota più espressamente l’attribuimento di una qualità a un soggetto.” (p. 254). Infine: alcune grammatiche (quelle del Giambullari, del Buonmattei e del Corticelli, ad esempio), come vedremo, includono nell’insieme dei nomi aggettivi quei nomi che possono aggiungersi ad un nome sostantivo (dal nostro punto di vista, sono apposizioni) e che noi considereremmo dei sostantivi veri e propri (maestro, messere, re, console, ecc.): ciò significa che il termine “aggettivo” ha ancora significato retorico di “termine aggiunto” e non designa una classe vera e propria di parole distinte dai sostantivi. 10 F. Fortunio (Regole grammaticali della volgar lingua 1516) ritiene che siano quattro le parti del discorso “bastevoli per la cognizione di lei ”, per la conoscenza cioè della grammatica della lingua usata da Dante, Petrarca e Boccaccio: nome (che comprende anche quelli che oggi noi distinguiamo come aggettivi) 15 , pronome, verbo, avverbio. Nove, invece, sono le parti del discorso secondo P. Bembo (Prose della volgar lingua 1525): nomi, articoli, pronomi, verbi, participi, avverbi, preposizioni, congiunzioni e interiezioni. Egli distingue all’interno della classe dei nomi, senza però soffermarsi a spiegare nel dettaglio eventuali differenze sintattiche o semantiche, i sostantivi (“nomi, i quali, col verbo posti, in pie’ soli star possono e reggonsi da sé senza altro”) dagli aggettivi (quei nomi che “con questi (=i sostantivi) si pongono, né stato hanno altramente “), segnalando di volta in volta le differenze morfologiche legate alle variazioni di genere e numero. Nove parti del discorso sono previste anche dalle grammatiche fra loro alquanto diverse di Carlino, Tizzone, Giambullari e Lapini. Secondo la Grammatica volgar dell’Ateneo (1533) di Marco Antonio Ateneo Carlino le nove parti del discorso sono: il nome, il pronome, l’articolo, la dittione (=verbo), il partecipante, l’additione (=avverbio), la preposizione, la congiuntione e l’ interposizione. I nomi sono suddivisi in “esistenti” (=sostantivi) e “adherenti” (=aggettivi). La grammatica di Gaetano Tizzone (Grammatica volgare, 1538) presenta nove parti del discorso, di cui quattro variabili e cinque invariabili: il nome, il participio, il pronome (che variano per numero e caso) e il verbo (che varia per persone, numeri e tempi), l’articolo, la preposizione, l’avverbio, l’interiezione e la congiunzione. I nomi possono essere sostantivi o aggettivi. Dichiara apertamente di rifarsi all’ammaestramento dell’inglese Linacre Pierfrancesco Giambullari nel proemio delle Regole della lingua fiorentina (1551-1552), in cui descrive la lingua fiorentina dell’uso vivo, parlato e scritto; è un’opera che risente del rinato interesse nella linguistica dell’Europa del Nord per il modello teorico della descrizione, per la speculazione razionalistica e che perciò è quasi del tutto ignorata dai contemporanei. Nove sono le parti del discorso secondo il Giambullari (nome, pronome, articolo, verbo, avverbio, participio, preposizione, inframesso (=interiezione), legatura (=congiunzione)) e di esse tratta in due libri, svolgendo l’argomento piuttosto schematicamente. A proposito del nome scrive: “Il nome senza lo aiuto di alcuna parola, significa per sé stesso corpo, o cosa propria, o comune. [...] Nome agghiettivo universalmente si chiama quello, che non può stare senza lo appoggio. Questo si aggiunge a’ nomi sustantivi, per dichiarare la qualità, o la quantità di quelli; come n e v e b i a n c a ; c e rc h i o t o n d o; t o r r e a l t a; c a m p a g n a l a r g a. Et di questo sono va16 rie spezie.” (p. 17). 15 In nota (p. 11), nell’introduzione all’edizione da lui curata, Pozzi fa notare che l’aggettivo era ancora considerato una sottoclasse del nome (nome adiettivo). 16 E’ molto interessante la pagina che il Giambullari dedica ai “nomi agghiettivi”, soprattutto quando si sofferma a considerare brevemente quelli che “tengono il luogo di mezzo tra gli agghiettivi e gli appellativi”: si tratta di nomi come re, consolo e deverbali come traditore, cacciatrice. Essi, secondo il Giambul- 11 Anche secondo Eufrosino Lapini, infine, che scrisse una grammatica della lingua fiorentina per eruditi (Institutionum Florentinae linguae libri II, 1574) le parti del discorso, tutte articolate al loro interno e suddivise in ulteriori e numerose sottoclassi, sono nove: articolo, nome, pronome o vicenome, verbo, participio, avverbio, proposizione o proponimento, intergettione o inframmesso, congiuntione o legatura. La classe del nome è divisa in due sezioni, quella del sostantivo e quella dell’adiettivo. Nella Grammatichetta di Gian Giorgio Trissino (1529), invece, sono descritte otto parti del discorso, dal momento che l’interiezione è restituita, secondo il modello delle grammatiche greche, alla classe degli avverbi: nomi (sostanze, quantità e qualità)17 , verbi, participi, pronomi, preposizioni, avverbi, congiunzioni e articoli. Anche il Trissino considera opportuno suddividere la classe del nome al suo interno: “ Il nome è la principale de le parti de la orazione, perciò che esso dinota la sentenzia, e la qualità, quantità dei corpi, e de l’altre cose, che sono; de i quali nomi quelli, che dinotano la sentenzia sono detti sustantivi, come è h o m o, a n i m a l e, p i e t r a; quelli de li accidenti Adjettivi, overo Epitheti, come è b u on o, b i a n c o, g r a n d e. “ (p. 8) Otto sono le parti del discorso anche secondo quanto esposto da G. Gabriele nelle sue Regole grammaticali pubblicate nel 1548: articolo, nome (sostantivo e aggettivo), pronome, verbo, avverbio, preposizione, congiunzione ed esclamazione. Otto, ma non le stesse di quelle elencate da G. Gabriele, sono le “parti dell’orazione” secondo Rinaldo Corso (Fondamenti del parlar thoscano, 1549): preposizione, articolo, nome, pronome, verbo, participio, avverbio e congiunzione. Due sono le parti principali che permettono di “concludere una perfetta sententia, come R i n a l d o s c r i v e ”: il nome e il verbo. Molte sono le divisioni che riguardano il nome, la prima è quella fra “nomi universali” e “nomi propri”, la seconda è la seguente: “De nomi universali alcuni per se stanno, e questi mostrano la vera essenza della cosa, la quale significar si vuole, come i l g r a n o, l a f a r i n a. Altri s’appoggiano, et da quelli, che stanno, dependono. Questi non l’essenza, ma la qualità della cosa dimostrano, come b e l l o, b i a n c a.” (p. 30) lari sono ora nomi appellativi ( Filippo re, Fabio consolo), ora nomi agghiettivi (Tarquino, re ingiustamente; Varrone, consolo a torto; Gano traditore; ecc. ). Questa osservazione rafforza in qualche modo l’idea da noi sostenuta, che spesso quando si parla di aggettivi nelle grammatiche del ‘500, si abbia un’idea retorica dell’aggettivo: esso significa genericamente “ciò che è aggiunto”, sia esso un aggettivo qualificativo vero e proprio, secondo la nostra terminologia, o un nome comune qualsiasi, che funge da apposizione. 17 Negli stessi termini, di fatto, è proposta una sottoclassificazione del nome in una grammatica meno nota del tempo, quella di Matteo conte di San Martino e di Vische, che nelle sue Osservazioni grammaticali e poetiche della lingua italiana (1555 ) dichiara di riproporre pressoché intatto lo schema adottato da N. Perotti nei suoi Rudimenta gramatices: il nome è distinto secondo la sostanza, la qualità e la quantità, e poi all’interno di queste tre classi, ancora distinto in innumerevoli altre sottoclassi (circa 50). 12 Lodovico Dolce, che nella sua grammatica, Osservazioni nella volgar lingua (1550), dichiara di voler rivolgersi ai principianti e non ai dotti e di voler trattare la grammatica volgare come gli antichi grammatici trattarono la lingua latina, sostiene che delle parti del discorso due sono principali, il nome e il verbo, le altre secondarie: pronome, participio, avverbio, preposizione, interiezione e congiunzione. I nomi si distinguono in sostantivi e aggettivi, perché: “ Nome è parola (altrimenti voce) con che noi alcuna cosa nominiamo: il quale dinota essere e qualità di persona, overo di cosa paticolare, o generale. [...] Dividesi il nome in Sostantivo e Aggettivo. Sostantivo è così detto, perché sta per sé medesimo senza appoggio d’altro nome: come S o l e, F u o c o, H u o m o, F a b i o. Le quali voci per sé stesse si dichiarano in guisa, che qual di queste si nomini, intendesi subitamente, l’uno esser Sole, l’altro essere Fuoco, l’altro Huomo, e Fabio. L’aggettivo ha sempre mistiero dell’aiuto del Sostantivo: onde è detto Aggettivo; cioè Aggiuntivo (che questo nome gli serberemo) perché a lui sempre s’aggiunge: come B e l l o, B r u t t o, D o l c e, A m a r o, conciosia cosa, che niun può comprendere, a cui l’uomo intenda d’applicar si fatte qualità, se egli non v’aggiugne, o H u o m o, o A n i m a l e, o P e n s i e r o, o D i l e t t o e così dirassi B e ll‘ H u o m o, B r u t t o A n i m a l e, D o l c e P e n s i e r o, A m a r o D i l e tt o. La qualità è adunque propria dell’Aggiuntivo, e l’ essere del Sostantivo. “ (pp. 27-29)18 Anche secondo Girolamo Ruscelli (Commentarii della lingua italiana, 1581), infine, otto sono le parti del “parlamento”: nome, verbo, participio, pronome, preposizione, avverbio, congiunzione e interiezione. Il nome significa cose animate o inanimate; le cose dell’universo sono corporee (sono quelle che corrispondono al vocabulum latino) o incorporee; le qualità, le quantità e le proprietà delle cose corporee o incorporee, a loro volta, sono incorporee: ad esse corrisponde nella lingua il nome aggettivo. Nelle Regole della toscana favella (1575 o 1576) Leonardo Salviati sostiene che dieci sono “le parti del favellare”: nome, articolo, pronome, verbo, participio, gerundio, proposizione, tramezzo (=interiezione) e legame (=congiunzione). Il nome può essere proprio o appellativo; il nome appellativo può essere sustantivo, o relativo. Come sottocategoria a sé stante sembra essere considerata quella degli “aggiuntivi”. 19 Nel secondo volume degli Avvertimenti sulla lingua sopra il De- 18 Dalla definizione del nome data dal Dolce, risulta evidente che egli ritiene fondamentale la funzione “denominativa” di esso; tanto meno si spiega allora perché il nome includa anche gli aggettivi che non designano “enti individuali”, nè materiali né immateriali. Per distinguere, infatti, il sostantivo dall’aggettivo, entrambi nomi, deve ricorrere a un criterio sintattico, quello usato da tutti gli altri grammatici: l’aggettivo non può stare da solo nella frase ma deve essere appoggiato al sostantivo. A proposito di questa definizione di nome aggettivo, poi, è forse opportuno notare che tutte le grammatiche considerano l’aggettivo come aggiunto al sostantivo e mai al verbo: non si tiene infatti conto dei casi in cui, ad esempio, esso è parte nominale o complemento predicativo del soggetto. 19 Anche in alcune opere grammaticali nelle quali non viene esplicitamente prospettato, o non viene esaminato nei dettagli, lo schema classificatorio adottato si desume, dalle osservazioni sparse, che l’aggettivo non ha autonomia di parte del discorso. L. Castelvetro (Giunta fatta al Ragionamento degli articoli Et de verbi di Messer Pietro Bembo, 1563): la classe del nome comprende sostantivi e aggiunti; il Varchi nell’Ercolano (1570) considera otto parti del discorso fra cui non compare quella dell’aggettivo ( nome, 13 camerone (1586) Salviati tratta di alcune parti del discorso: del nome e dell’accompagnanome, dell’articolo e del vicecaso. Il nome è suddiviso al suo interno, in quanto classe, secondo la sentenza e secondo la voce. In base alla sentenza, il nome è semplice o composto, primitivo o derivato; in base alla voce esso può essere sostantivo o adiettivo; il sostantivo può essere proprio o appellativo (e l’appellativo, collettivo o no); l’adiettivo può essere perfetto o imperfetto20. A proposito dell’ ”adiettivo” egli scrive: “ Tre attitudini per così dire, per compimento di sua natura disidera l’addiettivo; la prima quella per cui egli si chiama ed è tale; cioè l’aggiugnersi al sustantivo e d’appoggiarglisi, come suo accidente; la seconda di scolpirsi entro alcuna evidente qualità; l’ultima d’abbracciare indifferentemente ogni sesso, o con voci particolari e distinte per ciascheduna di loro, ovvero con una sola, la quale è comune a tutti egualmente.”. Gli aggettivi nelle grammatiche italiane del ‘500, dunque, in sintonia con il più generale lavoro grammaticale, sono “empiricamente” definiti: essi sono nomi che designano qualità, non compaiono mai da soli nella sequenza linguistica perché, per loro natura, hanno bisogno di appoggiarsi ai nomi sostantivi, con cui si accordano in genere e numero. Come sottolinea il Trabalza (1908), sarebbe tuttavia in errore chi pensasse che nel ‘500 non esistesse un qualche interesse per gli aspetti teorici dello studio grammaticale; tale interesse fu in taluni casi vivissimo (nelle poetiche, nelle rettoriche e nelle logiche e nelle nuove grammatiche della lingua latina) e anzi preannunciò la riflessione razionalista che sfocerà nella grammatica francese di PortRoyal. L’intensa fioritura lessicografica (è del 1612 la pubblicazione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, primo esempio di pubblicazione di un vocabolario moderno) fu appunto applicazione pratica di una intensa attività linguistica teorica che si registrò sin dai primi decenni del Seicento e che giunse fino alla fine del Settecento. Anche i primi lessici della lingua italiana, tuttavia, non discostandosi dalle grammatiche del tempo, riservano all’aggettivo un ruolo di sottoclasse del nome 21 . pronome, verbo e participio; preposizione, avverbio, interiezione e congiunzione); l’Acarisio (Vocabolario, Grammatica e ortografia della lingua volgare, 1543) distingue i nomi in sostantivi e adiettivi. 20 Di fatto nella classificazione del Salviati all’aggettivo perfetto corrisponde l’aggettivo qualificativo vero e proprio, che si distingue per l’avere tre gradi (positivo, comparativo, superlativo); all’aggettivo imperfetto, tutti quegli aggettivi che corrispondono in una moderna classificazione agli aggettivi indicativi ( relativo, rassomigliativo, renditivo, interrogativo, dubitativo, relativo e indefinito; partitivo, universale, particulare, distributivo, numerale, possessivo) o di relazione (materiale, locale). Significativamente in base alle funzioni semantiche dell’aggettivo, gli aggettivi che Salviati chiama “materiale” e “locale” sono considerati “imperfetti”: sono fra quelli che oggi definiamo comunemente “ aggettivi di relazione” e che alcuni autori non considerano aggettivi qualificativi. 21 Secondo Il Memoriale della lingua italiana (1617) di G. Pergamini, ad esempio, esistono i nomi, come classe grammaticale, che si possono distinguere in sostantivi e adiettivi. I nomi tuttavia possono essere nomi sostantivi e aggettivi al tempo stesso, a seconda dell’uso: alto, buio, geloso, giovane utile, sono considerati nomi che possono essere aggettivi e sostantivi e di essi vengono riportati esempi di uso come sostantivi o come aggettivi.. Ci sono poi parole che esistono di per sé come nomi aggettivi e anche come nomi sostantivi, senza che si verifichino di volta in volta fenomeni di passaggio da aggettivo a sostantivo e viceversa. Saggio, ad esempio, esiste e compare nel memoriale con due lemmi distinti, come nome adiettivo e come nome sostantivo. 14 3. L’aggettivo secondo la grammatica “razionalista” di B. Buonmattei Si deve giungere però al terzo decennio del 1600 per disporre dei primi trattati grammaticali con fondamento scientifico-speculativo. La grammatica di Benedetto Buonmattei (Della lingua toscana, 1623 I ed., I libro e 1643, II ed. I e II libro) rappresenta il primo esempio di una ponderata e approfondita “pratica” di razionalismo e dunque la prima grammatica ragionata dell’italiano22 (l’autore si dichiara “non tirato dall’autorità, ma persuaso dalla ragione”) di qualche decennio anteriore a quella francese di Port-Royal (1660). Il secondo libro del suo trattato affronta la materia classica delle grammatiche: le parti del discorso. Secondo il Buonmattei le classi di parole sono dodici: nome, segnacaso, articolo, pronome, verbo, participio, gerundio, proposizione, avverbio, congiunzione, interposto (=interiezione) e il “ripieno” (=le espressioni pleonastiche). Interessante, per come è “ragionevolmente” strutturata, la sua definizione di nome: “NOME è parola declinabile per casi, cosa senza tempo significante. Diciamo PAROLA per accennar la materia: perche il nome è fatto di materia, come tutte le altre parti dell’orazione. Aggiungiamo DECLINABILE, e così restan escluse tutte le parti indeclinabili.Con quel, che si specifica PER CASI, s’eccettua il verbo, il qual non si declina per casi. Dicendo poi SIGNIFICANTE, verghiamo ad accennar la forma: perche intanto è parola, in quanto ella significa. Ma col significar cosa senza tempo, ecco escluso il Participio, e l’Articolo: perche il Participio non significa mai senza tempo, e l’Articolo non significa cosa, ma accenna alcuna particolarità del Nome. Il Pronome poi non significa semplicemente cosa, se non quanto, accennando un nome, viene ad accennar in un certo modo la cosa, che accennerebbe quel nome. (p. 80). La classe dei nomi è sottoarticolata in “nomi sustantivi” e “nomi aggiuntivi”: “ [...] il nome è o sustantivo o aggiuntivo. Sustantivo si dice quel, che può stare nell’orazione senz’appoggiarsi a un altro; come U o m o, P r i n c i p e, F e r d in a n d o, P a d r e, ec.. Aggiuntivo è quel, che non può star nell’orazione senz’appoggiarsi a sustantivo; come G r a n d e, G i o v a n e, M a g g i o r e, F o r t e, ec. E questa è la più generale divisione, che si possa far de’ nomi: perche tutti si riducono a questi due capi.” (p. 81) La discussione sulla distinzione delle due sottoclassi del nome è basata su criteri semantico-sintattici, ma coinvolge anche l’appropriatezza dei termini utilizzati: “ NOME sustantivo è quel, che stando nell’orazione senz’appoggio d’altro nome, accenna l’essenza della cosa. Onde forse sarebbe stato meglio dirlo essenziale. [...] E’ detto sustantivo, non perche egli accenni sempre cose della sustanza: atte22 V. G. Skytte (1990 e 1996). 15 so che egli accenna molte cose accidentali, come I r a, D o l o r e, A l l e g r e z z a, G r a n d e z z a, e tutte quell’altre, che quantunque ne sieno in altra, sono con tutto ciò intere senza quello, in che sono. E in brieve, il sustantivo accenna tutti gli astratti che per questo abbiam detto, ch’e’ sarebbe stato meglio chiamarlo essenziale. Ma i grammatici lo dissero sustantivo, perche egli sta a guisa della sustanza senz’alcun appoggio, e come la sustanza riceve accidenti contrari, o diversi, potendosi dire R e G i o v a n e, e V e c c h i o; P a p a S a n o, e I n f e r m o; T o s c a n a B e l l a, e B r u t t a; F r a n c i a A l t a, e B a s s a.” (p. 81-82) “NOME aggiuntivo è quel, che significa alcuno accidente nel sustantivo, a cui s’accosta; [...] E per questo si dicono Aggiuntivi, perche e’ non sono mai se non aggiuntivi a qualche sustantivo: onde poi che quegli altri si dicono sustantivi, questi, pare che si potrebbero dire accidentali: perche nel modo, che l’accidente s’appoggia alla sustanza, l’aggiuntivo s’appoggia al sustantivo; e lo varia ben spesso, come gli accidenti variano, cioè fanno diversa la sustanza.” (p. 84) Il procedimento razionale utilizzato dal Buonmattei è ben messo in atto anche allorché spiega alcuni dettagli. Fra gli “aggiuntivi” include, proprio come in una moderna classificazione, gli aggettivi dimostrativi, interrogativi, ecc.. Un aggettivo qualificativo è un “aggiuntivo perfetto” (e “ Aggiuntivo perfetto è quel, che accenna alcun proprio accidente nel sustantivo; può ricevere il più e il meno; può servire per epiteto. “ (p. 85)). Un aggettivo non qualificativo è detto “aggiuntivo imperfetto”: “Aggiuntivo imperfetto si dice quando gli manca alcuna delle tre condizioni che lo fanno perfetto, cioè o non palesa accidente particolare nel sustantivo, o non riceve più o meno, o non si può star per epiteto. [...] In somma questi sono aggiuntivi, perche non anno forza di star da se nell’orazione; e son detti nomi perche s’accompagnano con nomi sustantivi: ma e’ non anno qualità di nomi aggiuntivi perfetti, e però son detti imperfetti, e impropri; e più tosto mezzi pronomi, che veri nomi. “ (p. 87). 23 Non si distinsero per altrettanta originalità e novità anticipatrice le grammatiche italiane pubblicate dopo quella del Buonmattei, anche se non furono del tutto prive di valore24. E ciò mentre in Francia e nel resto d’Europa nel corso del Seicento grande era l’interesse per i fatti linguistici e la riflessione linguistica e grammaticale avanzava a grandi passi: nessuna grande figura o scuola del pensie- 23 Il Buonmattei s’imbatte, naturalmente, nel problema dei nomi comuni che possono fungere da apposizione, e confondendo un po’ i termini della questione, parla di “nomi participanti”: “ [...] Sonne bene alcuni che stanno talora per Sustantivi, talora per Aggiuntivi: come M es s e r e, M a d o n n a, S a n t o, M a e s t r o, S e r e, F r e s c o, M a d a m a, e simili. “ 24 cfr. Trabalza (1908, p. 395) . Fra le altre opere grammaticali citiamo quella del Bartoli ( Il torto e il diritto del non si può, 1655), che non accenna alla distinzione fra nomi sostantivi e aggettivi, pur affrontando poi le questioni degli “Aggettivi ben framezzati dal sustantivo” e degli “Avverbi come aggettivi e aggettivi come avverbi “, e quella di Marcantonio Mambelli detto il Cinonio (Della osservazioni della lingua italiana, 1644 e 1685), secondo il quale sono sette le parti del discorso: verbo, nome, articolo, congiunzione, avverbio, preposizione e interiezione. 16 ro filosofico di questo secolo tralasciava di affrontare le questioni riguardanti le lingue e il linguaggio. 4. Dalla Grammatica di Port-Royal alla grammatica di N. Beauzée: dal nome aggettivo all’aggettivo. 4.1. La “Grammaire géneérale et raisonnée” di Port Royal (1660). I grammatici-logici della scuola di Port-Royal, il cui fine ultimo è quello di giungere a descrivere la grammatica generale, universale che è sottostante alle singole grammatiche di lingue diverse, accettano le nove classi tradizionali di parole (nome, articolo, pronome, participio, preposizione, verbo, congiunzione, interiezione), ma le ridistribuiscono semanticamente, riferendo le prime sei agli “oggetti” del nostro pensiero, e le ultime tre alla “forma o maniera” di esso. La dicotomia fondamentale nome-verbo sopravvive, ma il raggruppamento delle altre classi intorno a essa è diverso. L’aggettivo continua ad essere considerato una sottoclasse del nome, il secondo capitolo della seconda parte della Grammaire è intitolato infatti “Dei nomi, e principalmente dei sostantivi ed aggettivi”. In esso è spiegata la ragione della distinzione fra nomi sostantivi e nomi aggettivi: “ Gli oggetti dei nostri pensieri sono le cose, come l a t e r r a, i l S o l e, l’ a cq u a , i l l e g n o, ciò che solitamente diciamo s o s t a n z a; o anche il modo delle cose, come d’esser r o t o n d o, d’esser d u r o, d’esser s a p i e n t e, etc., ciò che si dice a c c i d e n t e. E tra le cose o sostanze, ed il modo delle cose o accidenti c’è la differenza che le sostanze sussistono di per sé, mentre gli accidenti non sono che in forza delle sostanze. Ciò produce la principale differenza tra le parole che significano gli oggetti dei pensieri. Infatti, quelle che significano le sostanze sono state dette n o m i s os t a n t i v i, e quelle che significano gli accidenti, indicando il soggetto al quale quegli accidenti convengono, n o m i a g g e t t i v i. Ma non si è restati lì: vediamo infatti che non ci si è attenuti tanto alla significazione, quanto al modo di significare. Infatti, dato che la sostanza è ciò che sussiste di per sé, si sono chiamati nomi sostantivi tutti quelli che sussistono di per sé nel discorso, senza aver bisogno di un nome, anche se significano accidenti. E, al contrario, si sono detti aggettivi, anche quelli che indicano sostanze, quando, per via del loro modo di significare, essi devono essere congiunti, nel discorso, ad altri nomi.” (p. 17). Nello stesso capitolo, coerentemente con gli assunti iniziali circa la natura del sostantivo e dell’aggettivo, vengono poi spiegati fenomeni di derivazione di sostantivi da aggettivi e viceversa: un nome non sussiste di per sé quando oltre a una significazione distinta, come può essere quella di “rossore”, ne ha una confusa, detta connotazione di una cosa, come “rosso”; siccome ciò che fa di un nome un nome aggettivo è la connotazione, quando essa viene tolta si ha un sostantivo (da duro, durezza, ad esempio); e viceversa quando si aggiunge una connotazione alle parole che significano sostanze, dette parole diventano nomi aggettivi (da uomo, umano). Sono , infine, da considerarsi aggettivi a tutti gli effetti anche delle pa- 17 role, per lo più quelle che indicano le professioni, comunemente considerate dei sostantivi: esse sottintendono comunque il sostantivo “uomo”. E’ evidente, dunque, che nella concezione di aggettivo nella Grammaire di Port Royal, nonostante la maggiore articolazione “razionale” del discorso, è ancora dominante, e forse portato alle estreme conseguenze, il criterio discriminante che è stato utilizzato in tutte le grammatiche che l’hanno preceduta: aggettivo è il nome che non può star da solo nella frase e si aggiunge ad un nome sostantivo. 25 Grande è stata l’influenza esercitata dalla logica di Port-Royal nella stesura di molte grammatiche: il lavoro delle scuole francesi di Port-Royal continuerà nel campo della grammatica per molto tempo, come si può vedere nelle grammaires raisonnées e nelle “grammatiche generali” del XVIII secolo. 4.2. Le grammatiche italiane della prima metà del Settecento In Italia fra la pubblicazione della Grammatica di Port Royal e la pubblicazione della prima grammatica “ragionata”, quella del Soave (1770) intercorrerà più di un secolo. Unico lavoro di rilievo e destinato ad avere un certo successo fu la grammatica del Corticelli (1745), preceduta dalla pubblicazione di grammatiche di non grande rilievo teorico o novità metodologica. 26 Fra queste citiamo, per dimostrare che nessuna novità è intervenuta a modificare nelle grammatiche la situazione dell’aggettivo, la grammatica di G. Gigli e quella di D. M. Manni. G. Gigli (Lezioni di lingua toscana, 1722): il nome, posto per dichiarato proposito dell’autore fra l’articolo e il pronome, secondo l’ordine della grammatica del Pergamini 27 (le altre parti del discorso sono il verbo, il participio, la preposizione, l’avverbio, la congiunzione e l’interiezione) è la parte principale del discorso, ed è suddivisibile in varie specie. La distinzione principale è quella fra sostantivo e “adiettivo”: “Il sustantivo detto così dalla sustanza è nome di cosa, che da sé sussiste, come U o m o, V i r t ù, &c. L’aggettivo, invece, “dinota qualità, e non sta senza compagnia di sustantivo, come S a v i o, D o t t o, &c. [...] L’adiettivo poi altro è perfetto, altro imperfetto. Il perfetto altro è positivo, altro comparativo, altro superlativo. “( p. 48). D. M. Manni (Lezioni di lingua toscana, 1737) dà per scontata la suddivisione del nome in sostantivo e aggettivo, cosicché nella terza lezione, “Del nome”, scrive, ad esempio: [...] vi ha ancor taluno che tiene che, siccome abbondiamo ne’ sustantivi, così scarsi siamo negli aggettivi... .”. Grande fortuna ebbe la grammatica di Salvadore Corticelli (Regole e Osservazioni della Lingua Toscana), pubblicata nel 1745, grammatica che trae 25 In effetti nella Grammaire (p. 18) non viene riconosciuto come veramente legittimo il fenomeno del passaggio da aggettivo a sostantivo: ciò che è aggettivo è aggettivo per sua natura e non può, conservando la stessa forma, perdere la sua connotazione; quando è usato da solo, il sostantivo cui si riferisce è necessariamente sottinteso. 26 cfr. Skytte (1990), p. 275. 27 La grammatica di G. Pergamini (Trattato della lingua, 1613) elenca le seguenti parti del discorso: articolo, nome, pronome, verbo, participio, preposizione, avverbio e congiunzione. Il nome può essere proprio o appellativo, sostantivo (quello che dimostra la sostanza della cosa, corporale, o incorporale che sia, e si sostenta da sé senza appoggio d’altro nome...”) o adjettivo (quello che “dinota qualità, e non istà senza compagnia di sostantivo, ...”). 18 spunto e fondamento, a un secolo di distanza, ripetendone anche il successo, dalla grammatica del Buonmattei. Secondo il Corticelli otto sono le parti del discorso: nome, pronome, verbo, participio, preposizione, avverbio, interiezione e congiunzione. Non esiste nella classificazione proposta dal Corticelli una classe “aggettivo” a sé stante: l’aggettivo è una sottoclasse del nome: “Nome è parola declinabile per casi, la quale significa alcuna cosa senza denotar tempo, come ‘uomo’, ‘Pietro’, ‘virtù’. [...]La prima e più solenne divisione del nome è in sustantivo, e in addiettivo. Il nome sustantivo è quello, che significa una sustanza, ovvero alcuna cosa a guisa di sustanza, che per sé medesima si sostenga: e può perciò stare nell’orazione, senz’altro nome cui s’appoggi, come: ‘Uomo’, ’Virtù, . L’addiettivo è quello che accenna modo, o qualità della cosa, e non può stare nell’orazione senza appoggiarsi a un sustantivo o espresso, o sottinteso: espresso come u o m o p r u d e n t e; sottinteso come i l p r u d e n t e , cioè l’u o m o p r u d e n t e. (pp.17-18)28 4.3. F. Girard, N. Beauzée, E. B. de Condillac: l’aggettivo diventa “parte del discorso” L’autonomia dell’aggettivo rispetto alla classe del nome sarà ormai quasi universalmente accettata dopo l’opera di Girard e Beauzée, i due grammatici francesi che l’avevano rispettivamente proposta e sostenuta verso la metà del Settecento. Condillac, attraverso la via antagonista dell’empirismo, e da filosofo più che da linguista, era giunto alla medesima conclusione. L’opera del francese F. Girard (Les vrais principes de la langue française, 1747) s’inserisce nel solco della tradizione di Port-Royal ma anche in quel filone di studi empirici che si dedicava all’esame del maggior numero di lingue straniere, per poter stabilire una tipologia delle lingue. L’abate Girard proviene dalla tradizione del fondamentalismo: a) il mondo preesiste al pensiero e al linguaggio e questo mondo esiste già sotto una forma molto specifica, prima che noi cominciamo a comprenderlo; b) il linguaggio deve esprimere il mondo attraverso il pensiero, che è esso stesso riflesso del mondo. Il mondo è articolato ed è importante riconoscere questa articolazione in unità distinte ed esprimerla . Anche il pensiero è segmentato ed esiste dunque una relazione di iconicità fra le idee e le cose, un legame fra l’elemento reale e l’elemento spirituale. La prima funzione della tipologia delle lingue è quella di assicurare la tesi della coincidenza fra i livelli della realtà, del pensiero e della parola, e di riaffer28 In realtà anche il Corticelli non ha ancora ben chiara la nozione di aggettivo qualificativo e include in questa sottocategoria anche veri e propri sostantivi che hanno nella frase funzione logica di apposizione: “Ci sono de’ nomi, i quali si adoperano ora sustantivi, ora addiettivi, e chiamansi partecipanti o di mezzo. Basteranno di ciò due esempi, di tanti, che apportar si potrebbono. F r a t e, e m a e s t r o si usano e per sustantivi, e per addiettivi. Bocc. nov. I “Fu lor dato un frate antico, di santa, e di buona vita”. Ecco f r a t e sustantivo. E g. 6. n.10 “Era questo Frate Cipolla di persona piccolo” . Eccolo addiettivo. E g. 8. n. 9 “Il Maestro lo scusava forte”. Ecco m a e s t r o sustantivo. E g. 2 n. 10 “Maestro Alberto da Bologna.” Eccolo addiettivo. “ 19 mare l’universalità del modo di concepire. La seconda è quella di specificare le differenze fra le lingue a livello della forma dell’espressione. Il secondo capitolo dell’opera di Girard è dedicato allo studio delle parti del discorso: “où les mots sont distingués par le caractère de leur service et sont reduits, selon les differences spécifiques des idées, à certaines espèces générales, qu’on nomme P a r t i e s d’ o r a i s o n, dont le nombre est fixé et la nature expliquée par des regles immuables de la logique” 29. Girard distingue dieci parti del discorso, che considera universali, eccezion fatta per l’articolo. Più precisamente egli sostiene che esistono dieci forme della modificazione delle idee e che a ciascuna forma corrisponde una parte del discorso: articolo; sostantivo (denominare una cosa con il suo nome considerandola una cosa che esiste in natura e specifica per essere il soggetto di diverse attribuzioni); pronome; aggettivo (designare le qualità di una cosa); verbo; avverbio; numeri; preposizione; congiunzione; particella. Nella tradizione grammaticale francese Girard è il primo a fare del sostantivo e dell’aggettivo due parti autonome del discorso. Egli non sottolinea esplicitamente questa innovazione.30 Sembrerebbe che Girard, basando sul valore semantico il suo schema di dieci parti del discorso, ritenga giusto distinguere queste due classi come due parti del discorso differenti, che hanno una genesi cognitiva differente; non ritiene però necessario enfatizzare questa sua decisione, riconoscendo che i grammatici prima di lui avevano già stabilito il valore semantico differente delle due classi, ancora riunite a causa di certi tratti flessionali comuni.. L’ Encyclopédie diretta da Diderot e D’Alembert, rappresenta sicuramente un momento importante nell’elaborazione linguistica settecentesca. Essa non offriva dati linguistici nuovi, ma forniva schemi teorici, indicazioni di metodo, prospettive di analisi. Le voci linguistiche furono curate da Du Marsais e da Nicolas Beauzée. Dal punto di vista teorico la riflessione linguistica contenuta nell’Encyclopédie è un tentativo di sintesi fra l’orientamento logicizzante della grammatica generale francese e quello empiristico rappresentato in Francia da Condillac. Anche se il razionalismo di Beauzée, il grammatico della cui opera ci occuperemo un po’ più nel dettaglio, per gli interessanti spunti che offre per la classificazione dell’aggettivo, viene tradizionalmente contrapposto all’empirismo di Condillac, in realtà la sua è una posizione che oscilla tra la teoria logicizzante e l’analisi empirica. Nella sua Grammaire générale (1767) sostiene gli assunti adottati dagli studiosi di Port-Royal: la grammatica ha due specie di principi, quelli di validità universale che sono tali perché sono propri del pensiero umano e quelli di validità “relativa”, tali perché sono il risultato delle convenzioni che sono il fondamento delle grammatiche delle singole lingue. Come ogni grammatica generale, anche la grammatica di Beauzée, presenta definizioni delle classi di parole formulate in termini applicabili a qualsiasi lingua, facendo ricorso a nozioni di semantica 29 Girard (1982), p. 41. Girard (1982): “Comme on ne peut parler des choses qu’en leur donnant des qualités ou en marquant leur action par les événements, il a été nécéssaire d’établir des mots pour ces deux services, que les trois premières espèces ne sauraient faire. Ceux qu’on emploi à marquer les qualités se nomment, a d j e c t i f s parce qu’ils sont ajoutés et mis aux substantifs pour qualifier les choses que ceux ci dénomment. De sorte que c’est dans un service de qualification que consiste leur essence distinctive. Ils forment la quatrième espèce: tels sont: beau, noir, doux, sage, mon votre, premier.” (pp. 47-48). 30 20 generale. Secondo Beauzée, dunque, le classi di parole, che sono otto, sono a) universali; b) necessarie; e da ciò scaturisce che c) la loro definizione deve essere indipendente dalle singole lingue. Sebbene la dottrina di Beauzée concordi nelle linee generali con quella di Port-Royal, il suo sistema grammaticale presenta rispetto a quello prospettato dagli studiosi di Port-Royal una significativa novità: distingue chiaramente l’aggettivo dalla classe del nome, non tollerando neanche la contrapposizione “sostantivo” vs. “aggettivo”. Il terzo capitolo del primo libro della grammatica generale di Beauzée è dedicato appunto allo studio dell’aggettivo. E’ la prima opera di grammatica che distingue l’aggettivo, non dal sostantivo, ma dal nome. Per ciò che riguarda le questioni terminologiche, Beauzée sostiene che se i cosiddetti nomi-sostantivi servono a dare un nome alle entità del mondo, ciò equivale a dire che essi sono ciò che è un nome, mentre gli aggettivi sono precisamente ciò che non è nome; non ha senso, perciò conclude il Beauzée, conservare nell’uso grammaticale l’etichetta “sostantivo”: nelle lingue esistono parole che sono nomi e parole che non lo sono, e fra queste ultime gli aggettivi. Sulla differenza fra nome e aggettivo Beauzée si diffonde ampiamente nel capitolo del secondo libro della sua grammatica dedicato al fenomeno dell’accordo. Il nome esprime un essere determinato e l’aggettivo, invece, che si accorda in genere, numero e caso col nome, esprime un essere indeterminato: essi costituiscono due parti del discorso completamente differenti, anche se grammatici autorevoli, come ad esempio il suo più vicino predecessore, Du Marsais, non hanno riconosciuto l’indipendenza dell’aggettivo dalla classe del nome e, nel solco della tradizione, hanno solo considerato l’opposizione sostantivo/aggettivo all’interno della categoria del nome. Anche Fromant, in netta opposizione con l’opinione dell’abate Girard, nota Beauzée, non ha riconosciuto all’aggettivo piena indipendenza fra le parti del discorso. E’ proprio il fenomeno dell’accordo nome/aggettivo, secondo Beauzée, che ha indotto in errore i grammatici che l’hanno preceduto: la totale dipendenza del genere, del numero e del caso dell’aggettivo da quelli del nome, hanno fatto pensare ad una loro sostanziale identità. In realtà, specifica Beauzée, se gli aggettivi variano al variare del nome ciò accade perché l’accordo formale è in qualche modo significativo del fatto che si applica al senso preciso del nome il senso vago dell’aggettivo; e se la variazione morfologica delle due parti del discorso è molto simile nelle sue forme, ciò avviene al fine di rendere evidenti l’accordo stesso e l’applicazione che esso designa. Ma qual è la definizione di aggettivo proposta da Beauzée? A un nome comune (appellativum) si può aggiungere una parola che designa un’idea precisa, ma generale, “accidentale” e applicabile a diverse realtà: ad esempio al nome uomo si può aggiungere l’idea di ignoranza, idea accidentale alla natura dell’uomo e applicabile anche ad altre nature, tramite la parola ignorante. E’ su questo meccanismo che è fondata la ragion d’essere delle parole che sono indicate come aggettivi (=parole che servono ad aggiungere): esse aggiungono all’idea “comune” espressa dal nome un’idea che non è sostanzialmente propria di ciò che il nome designa. Gli aggettivi sono dunque “ des mots qui expriment des etres indéterminés, en les désignant par une idée précise, mais accidentelle à la nature commune déterminément énoncée par les noms appellatifs auxquels on les 21 joint.” 31. E’ chiaro che, rappresentando i nomi propri delle nature assolutamente individuali, essi non possono essere modificati dall’aggettivo; quest’ultimo può accompagnarsi solo a nomi comuni, dei quali modifica il significato nella “comprensione” o nell’ “estensione”. Sono aggettivi “fisici” (= qualificativi) quelli che aggiungono alla comprensione del nome che modificano un’idea accessoria, secondaria, parziale, rispetto all’insieme designato dal nome. Sono “articoli” quegli aggettivi che modificano l’estensione del nome e corrispondono, in una moderna classificazione delle parti del discorso, agli articoli e agli aggettivi dimostrativi, numerali e indefiniti. Gli aggettivi (insieme ai verbi), infine, fanno parte, secondo Beauzée, delle parole “indeterminative”, vale a dire di quelle parole che non possono in nessuna occasione comportare l’idea di “quotité”, di numerabilità, idea invece che può riguardare i nomi e i pronomi, i cui referenti sono numerabili. Nella grammatica di Beauzée, dunque, sulla base di un discorso articolato e sostenuto da una serie di osservazioni e riflessioni, si sancisce la “nascita” dell’aggettivo come parte del discorso. Vale certamente la pena di riservare una piccola parentesi alla riflessione sul linguaggio svolta da E. B. de Condillac: il linguaggio è al centro della sua riflessione filosofica nel corso di tutta la sua attività e il suo empirismo trasportato anche nell’ambito dell’indagine linguistica è in un certo senso la risposta più immediata al razionalismo professato da Beauzée. Condillac adotta un punto di vista genetico tanto nella teoria del linguaggio che in quella della conoscenza. E’ per questo che la prima parte della sua Grammaire, contenuta nel Cours d’études (1769-1772) scritto per il figlio del duca di Parma, è riservata a una teoria della genesi delle lingue. Secondo tale teoria le differenti parti del discorso (“ les éléments du discours”) non sono presenti in tutte le fasi linguistiche dell’umanità. Condillac giustifica sulla base della gradualità della conoscenza la nascita delle diverse classi di parole e descrive una “storia naturale” della grammatica: i nomi furono le prime parole inventate, relativi alle idee più semplici; più tardi furono inventati gli aggettivi e gli avverbi, che indicano le qualità sensibili degli oggetti e le circostanze in cui si verificano; per ultimi “nacquero” i verbi, che servono a creare un legame fra le parole. L’universalità della grammatica generale, nella prospettiva di Condillac, è assicurata da tre dati fondamentali: 1) le tappe della genesi linguistica sono universali; 2) i fondamenti della grammatica universale risiedono in una più generale teoria dei segni; 3) la teoria delle parti del discorso è combinatoria e non classificatoria. La prospettiva semiologica induce il filosofo a ricercare i segni, ancor prima che delle classi di parole; ma la ricerca semiologica e quella grammaticale convergono dal momento che ai quattro tipi di funzione semiologica fondamentali (denominare, esprimere, indicare, pronunciare) corrispondono quattro classi di parole (il sostantivo, l’aggettivo, la preposizione e il verbo): di fatto il fondamento semiologico della teoria del linguaggio porta, quindi, a un sistema delle parti del discorso articolato in quattro classi. Nella lingua francese sono presenti dieci elementi differenti: il nome sostantivo, il nome aggettivo, il verbo, la preposizione, l’articolo, il pronome, il partici31 Beauzée (1767), I, p. 291. 22 pio, la congiunzione, l’avverbio, l’interiezione. L’individuazione di queste parti del discorso in francese (su basi combinatorie), nulla toglie al fatto che dal punto di vista di una grammatica generale quattro siano le “classi universali”: sostantivo, aggettivo, verbo e preposizione. 32 Dal punto di vista della nostra ricerca, il dato fondamentale che emerge dall’analisi della teoria linguistica di Condillac, è che l’aggettivo, che corrisponde in qualche modo alla facoltà generale dell’esprimere qualità, è una parte del discorso essenziale e universale. 5. Le grammatiche italiane del XIX secolo e dei primi decenni del XX secolo Le grammatiche italiane successive ai lavori di Girard, Beauzée e Condillac, non recepirono immediatamente il dato comune che emergeva con chiarezza dalle loro analisi degli schemi classificatori grammaticali: la designazione di una nuova parte del discorso, quella dell’aggettivo. Solo le prime grammatiche “ragionate” o di ispirazione “semiologica” della prima metà dell’Ottocento, che rompevano con la tradizione del purismo che collegava il Bembo al Puoti, registreranno questa novità. Neppure nella Grammatica ragionata della lingua italiana di padre Francesco Soave, che pure sostiene di riallacciarsi alla tradizione delle grammatiche ragionate d’Oltralpe, viene fatto cenno alla distinzione fra nome e aggettivo 33. Le parti principali del discorso sono, secondo il Soave, nome e verbo; le altre parti del discorso sono: il pronome, il participio, l’avverbio, la preposizione, la congiunzione e l’interposto. Viene riproposta la partizione classica all’interno della classe del nome: “ [...] quei segni con cui si esprimono le idee degli oggetti, come f r u t t o, a lb e r o, t e r r a, a c q u a, c i e l o, ecc. si chiamano nomi sostantivi, e quelli con cui si esprimono le idee delle qualità, come a m a r o, d o l c e, b i a n c o, n e r o, ecc. si chiamano nomi aggettivi. Conciossiacosaché adunque il parlare consista principalmente nel significare agli altri le idee che abbiamo degli oggetti, e delle loro qualità: ognun vede che i segni, che servono a esprimere queste idee, cioè i nomi sono nel discorso assolutamente necessari. (pp. 5-6). Anche il Soave, come altri grammatici prima di lui, spiega dal punto di vista etimologico i termini usati per distinguere le due sottoclassi del nome: 32 E’ interessante notare che quelle individuate da Condillac come parti del discorso essenziali e generali, saranno poi le teste di sintagma riconosciute dalla Grammatica Generativa di N. Chomsky. 33 Trabalza (1908), p.414 , dava per avvenuta, nella grammatica di F. Soave, chiarissima prova della ricezione della tradizione logico-grammaticale e dell’enciclopedismo francese di cui è massimo rappresentante Du Marsais, la scissione dell’aggettivo dalla classe del nome: l’opera “ è divisa in due libri [...] ciascuno dei quali è diviso in quattro sezioni: la prima del primo svolge la parte generale delle parti del discorso, la seconda il nome (coi suoi affini, aggettivo e pronome, e i suoi servitori, segnacasi e articoli), la prima delle parti logicamente più importanti; la terza il verbo, l’altra parte più importante del discorso (coi suoi partecipi, gerundi e aggettivi verbali); la quarta il miscuglio degli accessori logici (preposizioni, avverbi, congiunzioni, interposti) “ . In realtà, ci pare chiaro che Soave, proprio perché si rifà agli insegnamenti di Du Marsais e all’insegnamento grammaticale della scuola di Port Royal (è significativo, ad esempio, che egli sostenga, proprio come sostenuto nella grammatica di Port Royal, che ogni verbo contiene al suo interno un aggettivo) continui a considerare l’aggettivo facente parte della classe del nome. 23 “sostantivo” da “sostanza” e “aggettivo” da “aggiunto”, come aggiunte alla sostanza devono essere per forza di cose le qualità, che non sussistono di per sé. 34 Le grammatiche italiane ottocentesche sembrano aver assimilato al lezione dei grammatici francesi e adottano per lo più la distinzione di Beauzée (nome vs. aggettivo). Non può non fare eccezione, tuttavia, data la sua natura di grammatica tradizionale e normativa, la grammatica del purista Basilio Puoti (Regole elementari della lingua italiana, 1847). Secondo le Regole del Puoti le parti del discorso sono dieci (articolo, nome, pronome, verbo, participio, avverbio, preposizione, congiunzione, interposto e ripieno). Il nome “... è una parola che serve a significare le cose o le persone, le qualità o altra modificazione. Quando dinota una cosa o una persona si chiama nome SUSTANTIVO, come: g i a r d i n o, f o n t a n a, P i e t r o, T e r e s a. Quando poi dinota la qualità o altra modificazione, delle cose e delle persone, si chiama AGGETTIVO, come: b i a n c o, v e r m i g l i o, p r i m o, l o n t a n o. Il sustantivo si sostiene da sé nel discorso, né ha bisogno di altra parola, alla quale debba unirsi. Ma l’aggettivo debbe andar sempre aggiunto al suo sustantivo o espresso o sottinteso, e però nel discorso non può stare da sé. Così o d o r o s o, a m a r o, b r u n a non s’intendono se non si uniscono a qualche sustantivo, come f i o r e o d o r o s o, f r u t t o a m a r o, t e l a b r u n a. Quando poi l’aggettivo sta solo, il sustantivo allora è sottinteso. Così quando si dice per esempio i l p r u d e n t e, i l g i u s t o, e nel plurale i p o v e r i, i r i c c h i, il sustantivo allora è sottinteso, ed è u o m o o u o m i n i, cioè l’ u o m o p r u d e n t e, l’ u o m o g i u s t o, g l i u o m i n i p o v e r i, g l i u o m i n i r i c c h i. Per conoscere se un nome è aggettivo o sustantivo, i grammatici danno la seguente regola. Se al nome si può unire la parola c o s a o p e r s o n a, allora sarà aggettivo, se questa unione riesce vuota di senso, sarà sustantivo. Così b u o n o, p i a c e v o l e, g i u s t o sono aggettivi, perocché si può dire c o s a b u o n a, c o s a p i a c e v o l e, p e r s o n a g i u s t a. Per contrario m a r e è sustantivo, non potendosi dire c o s a m a r e, p e r s o n a m a r e. ” (pp. 1213) 35 La Grammatica ragionata della lingua italiana (1834), grammatica “filosofica”, di C. A. Vanzòn, è la prima fra le grammatiche da noi consultate ad elencare fra le altre parti del discorso (nome o sostantivo, pronome, verbo, avverbio, preposizione, congiunzione, interiezione), anche l’aggettivo. Vanzòn sostie34 La grammatica del Soave presenta altre distinzioni all’interno della sottoclasse degli aggettivi: esistono aggettivi interrogativi, possessivi, dimostrativi, aggettivi “fisici” ( nero, caldo, freddo), aggettivi “metafisici” (o relativi, come: grande, piccolo, brutto, virtuoso): anche in ciò si rivela che la grammatica di Beauzée, in cui, come abbiamo visto, i termini “fisico” e “metafisico”rimandano ad un altro tipo di distinzione, non è il modello cui si ispira Soave. E’ interessante notare che Soave sottolinei anche una funzione di aggettivo in quanto determinante del nome. Un paragrafo del capitolo dedicato ai nomi è intitolato “Dell’articolo, e degli Aggettivi che determinano il significato de’ Nomi universali” (p. 30) : esistono aggettivi che determinano il significato della classe dei nomi universali (ognuno, ciascuno, tutti, ogni), di una parte della classe (gli aggettvi che denotano qualità) o di un solo elemento della classe (qualche, un certo). 35 Il Puoti sottolinea che molte parole che non esprimono qualità, ma concetti come quello di quantità, ad esempio, sono da considerarsi aggettivi. Questi concetti sono accomunati in uno più generale che li comprende tutti, quello di modificazione. 24 ne ormai chiaramente che si tratta di “classe di parole” e che si distingue dal “nome” e non dal sostantivo: “ Quello per cui qualsivoglia sostanza da altre distinguesi, sono gli attributi suoi, e le sue qualità o naturali, o accidentali, cui fa mestieri di conoscere quanto le sostanze medesime, onde avere di queste chiara e distinta idea; a tale effetto venne nel linguaggio introdotta quella classe di parole conosciuta sotto la denominazione di “ a d d i e t t i v o “, dal verbo latino a d j i c e r e, che vale “ a g g i u n g er e “, perché gli addiettivi si aggiungono ai nomi di sostanza per indicare quegli attributi e quelle proprietà date dalla natura o dal caso a esse sostanze, perché dalle altre si distinguano; come: c i e l o P I E T O S O , t e r r a F E R T I L E, m a r e TE M P E S T O S O, a n i m a l e F E R O C E, m i l i t a r e V A L O R O S O , u o m o S A V I O .“ (p. 53). 36 La scienza dell’umano intelletto, ovvero Lezioni d’ideologia di grammatica di logica (1843), di T. Fracassi Poggi, opera che si rifà esplicitamente al pensiero di Condillac, risale alla genesi delle parti del discorso: in principio un’interiezione e un nome bastarono per esprimere una qualunque sensazione, poi ci fu bisogno delle altre parti del discorso (verbi, aggettivi, proposizioni e congiunzioni) per esprimere modificazioni e rapporti fra le idee. L’avverbio e il participio non sono vere e proprie parti del discorso, poiché sono forme composte di verbi, aggettivi, sostantivi e preposizioni. L’aggettivo, nettamente contrapposto al nome, il quale designa, secondo l’autore, i soggetti, le “figure” di un ideale dipinto, è così definito: “... se paragonate una figura con l’altra, vi scorgete delle differenze caratteristiche, onde si discerne una dall’altra; analizzando queste differenze vi risultano delle proprietà ovvero degli attributi che voi distinguete egualmente; ed ecco il secondo elemento del discorso che diciamo aggettivo, mentre aggiunge alcun che all’idea rappresentata dal nome”. (p. ) Nelle grammatiche, d’ora in poi, la definizione prevalente d’aggettivo sarà per lo più di tipo logico-semantico (l’aggettivo è ciò che designa la qualità e va distinto da ciò che designa la sostanza, il nome, cui nella frase si aggiunge), confermata da indizi di natura morfologica . Anche le grammatiche che continuano a presentare formalmente l’aggettivo come un nome, di fatto gli riservano un posto a sé fra le parti del discorso. E’ il caso ad esempio della grammatica di R. Fornaciari (1879) e di quella di P. Petrocchi (1887). Secondo il Fornaciari nove sono le parti del discorso: articolo, nome sostantivo, nome aggettivo, pronome, verbo, avverbio, preposizione, congiunzione, interiezione e 36 La lettura di Beauzée, o quantomeno l’influenza delle sue idee in fatto di classificazione grammaticale, si rivela nella grammatica di Vanzòn anche per quanto riguarda l’individuazione delle diverse specie di aggettivi: gli aggettivi, proprio come sostenuto da Beauzée, si dividono in fisici (aggettivi qualificativi) e metafisici (aggettivi determinativi o indicativi); i primi, esprimendo delle qualità, modificano le sostanza espresse dai nomi, i secondi, invece, non modificano il significato del nome, esprimono semplicemente “ l’azione della mente, dalla quale l’obbietto sotto questo particolare aspetto è riguardato.” 25 “ Di queste parti del discorso alcune fanno l’ufficio di rappresentare qualche idea, e sono dette parti principali, o semplicemente parti; altre fanno ufficio di indicare per mezzo di rapporti, e son dette parti formali o particelle. Le parti principali sono il nome sostantivo, l’aggettivo, il verbo e alcuni avverbi. Infatti il nome sostantivo rappresenta alla mente una sostanza, o un modo di essere pensato come sostanza. L’aggettivo una qualità come inerente a una sostanza. Il verbo un’azione mentre si fa o si soffre. L’avverbio la diversa maniera o il grado dell’azione stessa.” (p.76). Nella grammatica del Fornaciari l’aggettivo è formalmente incluso nella superclasse del nome, la distinzione fra sostantivo e aggettivo è però mantenuta, anche se terminologicamente si conserva la traccia di una sorta di origine comune: “ Nome, in senso generale, è quella parola che significa una cosa come esistente o da per sé o in un’altra cosa. Quindi si distingue in nome sostantivo e nome aggettivo.” (p. 81) E’ più volte ribadita l’assoluta indipendenza dell’una parte del discorso dall’altra, sono evidenziate le caratteristiche sintattiche e semantiche diverse e anche il rigore terminologico usato all’inizio della grammatica, nella classificazione generale, scema via via che si passa a considerare più da vicino le due classi di parole, e significativamente la distinzione non oppone più il sostantivo all’aggettivo, ma il nome all’aggettivo: “Il nome sostantivo è quasi sempre accompagnato dagli articoli, che anche di per sé soli, fanno conoscere il genere e il numero del nome stesso. Il nome aggettivo si accorda nel genere e nel numero col sostantivo cui si riferisce, e, quando manca di un sostantivo, espresso o sottinteso, si unisce coll’articolo maschile, e diventa sostantivo esso medesimo, come vedremo. Il nome sostantivo, o semplicemente nome, è quella parola che indica una sostanza reale, o una qualità o modo di essere concepito come sostanza.[...] Il nome aggettivo, o semplicemente aggettivo, è quella parola che rappresenta una qualità o proprietà come inerente ad una sostanza. Quindi si riferisce sempre ad un nome sostantivo o espresso o sottinteso, ed ha a comune con esso il genere e il numero. “ (p.81) Secondo Petrocchi le parti del discorso sono nove: articolo, nome, aggettivo, pronome, verbo, avverbio, preposizione, congiunzione e interiezione; l’aggettivo (che può essere chiamato anche nome aggettivo) è definito come il “nome che indica la qualità”. Nonostante il nome e l’aggettivo siano considerati due parti indipendenti del discorso, le definizioni che l’autore fornisce sono connesse: “ Del nome. Il nome è la parola che indica una persona o una cosa. può indicare la sostanza o la qualità. Se indica una qualità inerente al nome si chiama aggettivo, perché le qualità son cose che si aggiungono alla sostanza.” (p. 105). “Dell’aggettivo. Il nome che accenna alla qualità della cosa si chiama Nome aggettivo, o assolutamente Aggettivo, che vuol dire Aggiuntivo, cioè che si aggiunge.” (p. 123) 26 Le grammatiche di fine secolo, la Grammatica italiana (1894) di Morandi e Cappuccini e quella di Chiminello (Compendio di grammatica italiana, 1899), presentano una “moderna” classificazione che comprende ormai nove parti del discorso (nome, articolo, aggettivo, pronome, verbo, avverbio, preposizione, congiunzione ed esclamazione). Secondo P. G. Goidànich (Grammatica Italiana, 1918) sono nove le parti del discorso: nome (o nome sostantivo, o sostantivo), nome aggettivo (o aggettivo), pronome, articolo, verbo, avverbio, preposizione, congiunzione, esclamazione. La definizione che dà del nome è la seguente: “[...] il nome sostantivo è la denominazione d’un essere, o d’un idea, o d’un fatto. [...] I nomi sostantivi sono nomi di esistenze. [...] I nomi aggettivi sono denominazioni delle maniere d’essere di un’esistenza. “ 37 . E precisa: “ Definizioni come: gli aggettivi dicono le qualità dei sostantivi, sono inesatte anche perché gli aggettivi esprimono le qualità non dei sostantivi ma delle esistenze di cui i sostantivi sono nomi. “ 38 Singolare, e per certi versi contraddittorio è lo schema classificatorio proposto da C. Trabalza - E. Allodoli ( La grammatica degl’Italiani, 1934) per ciò che riguarda il nome e l’aggettivo. I due autori sostengono che le parole, secondo il principio logico che le informa, a seconda dell’idea o della relazione che esprimono, si distinguono in classi (parti del discorso) o categorie grammaticali39; le classi in italiano sono: il nome, l’articolo, l’aggettivo, il pronome, il verbo; l’avverbio, la preposizione, la congiunzione, l’interiezione. All’aggettivo (che quando è qualificativo “enuncia o una qualità inerente o attribuita” all’oggetto designato dal nome) viene riconosciuto, in base alla diversità di funzione rispetto al nome, il ruolo di parte a sé stante del discorso, ma al tempo stesso si sostiene che esiste una specie di classe logica “sovraordinata” che è quella del nome, che in un certo qual modo, secondo la tradizione più conservatrice, lo comprende: “Il nome nel senso originario di “parola recante in sé una nozione”, designa tanto gli oggetti della mente, siano essi sensibili o soltanto logici (esseri viventi, cose materiali e immateriali) quanto le qualità ad essi inerenti o che vengono loro attribuite. [...] Nel primo caso dicesi sostantivo; aggettivo (talvolta anche epiteto) nel secondo. [...] Del sostantivo (o anche semplicemente nome, quasi “nome per eccellenza”) e dell’aggettivo, nonostante la loro comunanza di forme, la grammatica suol fare due categorie distinte riguardo alla diversità della loro funzione, che non esclude il loro reciproco già accennato scambio” (pp. 41-42). 6. L’aggettivo nelle grammatiche inglesi40 e tedesche dei secoli XVIII e XIX. Le grammatiche latine scritte in Inghilterra (si vedano per tutte quella di W. Lily e di Linacre) nel XVI secolo avevano adottato lo schema di classificazione 37 Goidànich (1918), p. 18-20. Goidànich (1918), n.1, p. 20. 39 E’ importante distinguere invece le parti del discorso, vale a dire le classi di parole dalle categorie (genere, numero, ecc.). 40 V. Robins (1995), pp. 131-149. 38 27 grammaticale di Prisciano. Anche gli autori di grammatiche della lingua inglese dei secoli XVI e XVII e dei primi decenni del XVIII hanno come punto di riferimento la classificazione di Prisciano, sia che l’adottino sia che abbiano intenzione di criticarla. Alcuni di essi accettano lo schema usato per la classificazione delle parti del discorso della lingua latina e le parole inglesi sono distribuite in ciascuna delle classi che esso comprende; ciò che non trova immediatamente posto nella classificazione priscianea ma che esiste comunque nella lingua inglese, viene fatto rientrare come sottoclasse in una delle parti del discorso (l’articolo ad esempio è trattato da alcuni come una sottoclasse dei nomi aggettivi). Alcuni grammatici inglesi della fine del Seicento, pur considerando otto le classi di parole e non nove, s’ispirano alle teorie di Port-Royal, e propongono una partizione in due gruppi principali: quello denotante gli oggetti del pensiero e quello denotante modi del pensiero. Altri (J. Wilkins, 1668 e C. Cooper, 1685) si spingono abbastanza in là anche rispetto alle teorie di Port Royal e propongono un bipartizione (fra “integrali”, elementi del discorso che hanno un loro significato preciso, e “particelle”, elementi che significano solo se sono in relazione con gli integrali) che prevede l’inclusione del verbo nel gruppo dei nomi aggettivi, poiché come per la grammatica di Port Royal, ogni verbo contiene al suo interno un nome aggettivo. L’influenza ancora esercitata dalla tradizione grammaticale latina, però, si scorge nella conservazione dell’aggettivo all’interno della classe del nome, sebbene dal punto di vista della forma ciò sia meno giustificato nella lingua inglese (in cui, come il verbo, l’aggettivo non varia e non si accorda secondo il genere col sostantivo cui si riferisce, pur “predicando” qualcosa a proposito di esso), rispetto alle lingue neolatine. In alcune grammatiche inglesi del secolo successivo, infatti, l’aggettivo è incluso nella classe del verbo. Nel Settecento, in Inghilterra un eminente rappresentante della teoria filosofica della grammatica universale fu James Harris, la cui opera principale fu pubblicata nel 1751. Il sistema grammaticale di Harris postula due classi “principali”: a) i nomi (che includono i pronomi) o “sostantivi”, che “significano sostanze”; b) i verbi o “attributivi”, “che significano attributi”. I verbi comprendono ciò che formalmente si può distinguere in verbi veri e propri, participi e aggettivi : in base a questa classificazione il verbo inglese corrisponderebbe al rhema di Platone e Aristotele. Harris fu bersaglio di critiche da parte di Horne Tooke, che tuttavia nella sua opera non si discostò molto da quello che è l’impianto del sistema delle classi proposto da Harris. Tooke ammette solo due parti del discorso, il nome e il verbo; ogni altra classe di parole è il risultato di una sorta di “abbreviazioni”, con cui le lingue vengono rese più scorrevoli. Gli aggettivi e i participi sono considerati verbi usati in modo aggettivale (“aggettivati”) per motivi di posizione e sintassi. 41 Una ben nota grammatica della fine del Settecento, che ebbe grande diffusione e numerose ristampe nella prima metà dell’Ottocento, fu quella di Lindley Murray (English Grammar, 1795). Si tratta di una grammatica di impianto piuttosto tradizionale ma il complesso di classi di parole proposto presenta delle no41 Anche in tempi recenti (v. ad esempio Lyons, 1981) è stato fatto notare che la classe di aggettivo è un po’ problematica per lingue come l’inglese: per quanto l’inglese distingue sintatticamente il verbo dall’aggettivo, grammaticalmente l’aggettivo è più simile al verbo che al nome. 28 vità: non è prevista una classe di congiunzioni, il participio non costituisce categoria a sé stante, l’aggettivo, al contrario, è una parte del discorso del tutto autonoma, sia rispetto al verbo sia rispetto al nome. Le parti del discorso dell’inglese, dunque, sono: l’articolo, il nome, l’aggettivo, il pronome, il verbo, l’avverbio, la preposizione e l’interiezione. Per quanto dissimile nell’impostazione la grammatica di William Cobbett (Grammar of the English Language, 1819) presenta una classificazione delle parole sostanzialmente identica. Passando, infine, a considerare in linea generale, come avevamo preannunciato, la linguistica tedesca della fine del Settecento e dell’Ottocento, bisogna dire che essa produsse un gran numero di grammatiche fondamentalmente diverse per impostazione teorica, ma sostanzialmente concordi nel riconoscere all’aggettivo il ruolo di parte del discorso a tutti gli effetti. Nelle classificazioni proposte dai linguisti tedeschi, che mirano generalmente a semplificare il sistema di classificazione delle parole e propongono talvolta raggruppamenti di classi, l’aggettivo, pur conservando la sua autonomia, è ritenuto più simile al verbo che al nome: l’aggettivo non è nome, non è verbo, ma, per ciò che esprime e per come lo esprime, è più vicino al verbo. Nel senso della semplificazione del sistema delle classi di parole opera la grammatica di J. Adelung (1782), il cui sistema di classi prevede che le parole esprimano la sostanza (i sostantivi) e la non-sostanza (tutte le altre parti del discorso, fra cui gli aggettivi, che esprimono le qualità attribuite alla sostanza). Molto simile, per certi versi la classificazione proposta da J. C. A. Heyse (1838), per il quale esiste una categoria del tutto particolare, quella delle interiezioni e poi il resto delle parole delle lingue è così classificabile: I. Sostantivi; II. Attributivi ( 1) gli aggettivi ; 2) i verbi; 3) gli avverbi ); III. Particelle (preposizioni e congiunzioni). In generale, dunque, se pur in schemi classificatori non del tutto simili, nelle grammatiche tedesche, dell’Ottocento, all’aggettivo viene attribuito un ruolo di parte del discorso a tutti gli effetti. La grammatica di K. F. Becker (1837), forse la più nota grammatica tedesca dell’Ottocento, che ebbe estimatori, traduttori e seguaci in Germania e all’estero, propone una classificazione che include a tutti gli effetti l’aggettivo fra le otto parti del discorso. L’analisi proposta nella grammatica di stampo filosofico e “universalistico” di Becker domina a tal punto la tradizione delle grammatiche tedesche, da essere accolta addirittura nelle grammatiche “rivali”, quella di K. W. L. Heyse, ad esempio, che pure partiva da posizioni teoriche totalmente diverse e fu ritenuto precursore della linguistica psicologica, di cui fu maggior esponente Steinthal. H. Paul (1880), uno dei maggiori esponenti della scuola neogrammatica e assertore convinto dell’importanza dell’approccio psicologico nello studio del linguaggio, si preoccupa di fornire una spiegazione dell’opposizione sostantivo / aggettivo fondata su criteri essenzialmente semantici: mentre il sostantivo designa un complesso di qualità della realtà extra-linguistica, l’aggettivo designa una qualità unica. Un’idea che sarà recepita e rielaborata qualche decennio dopo da O. Jespersen (1924), che ne dedurrà che i sostantivi sono più specializzati degli aggettivi e applicabili a un numero più ristretto di oggetti. Sia Paul che Jespersen oppongono non il nome all’aggettivo, ma il sostantivo all’aggettivo: non si tratta di un ritorno a vecchie classificazioni, ma anzi i due termini sembrano esprimere 29 meglio, con maggiore chiarezza l’opposizione in re. Jespersen conserva la classe più generale del nome, che ingloba sostantivi e aggettivi, perché, spiega, ciò crea meno problemi sul piano terminologico, allorché si usano aggettivi come “nominale” riferibile a tutte e due le classi o espressioni come “aggettivo sostantivato”; in pratica, però, non si tratta più di descrivere la classe dei nomi, ma di sostenere con chiarezza che cosa differenzia, in moltissime lingue, come due elementi del discorso profondamente diversi, i sostantivi dagli aggettivi: “ [...] partout où cette distinction existe, la distribution des mots est essentiellement la meme: les mots qui dénotent des idées telles que p i e r r e, a r b r e, c o u t e a u, f e m m e sont dans tout les cas des substantifs et ceux du type de g r a n d, v i e u x, b r i l l a n t, g r i s sont toujours des adjectifs. Cette concordance donne à penser qu’il ne s’agit pas d’une distinction purement fortuite: il faut bien qu’elle ait une justification intrinsèque, un fondement logique, ou, dirons nous, “notionnnel”, et c’est à définir ce fondement notionnel que nous allons nous attacher maintenant.” (p. 88) E con la definizione di Paul e l’intento teorico-programmatico di Jespersen ci piace concludere il nostro breve lavoro sulla storia grammaticale dell’aggettivo, perché ci avvicinano all’obiettivo della nostra più generale ricerca: tentare di dare una definizione di aggettivo che, pur tenendo conto di caratteristiche sintattiche e morfologiche che accomunano le parole raccolte sotto questa etichetta, sia fondata sulle loro caratteristiche semantiche profonde. BIBLIOGRAFIA A.VV. (1992), L’identification d’une catégorie linguistique: l’adjectif. Choix de textes, in Archives et documents de la SHESL n° 6, s.s. ARNAUD, A. - LANCELOT, O. - NICOLE, P. 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